Film > X-men (film)
Ricorda la storia  |      
Autore: Exelle    13/08/2011    4 recensioni
Seguito di There will be time e The Sweet Ashes
Erik attese che i due cominciassero ad avviarsi, vedendoli aprire un ombrello per ripararsi dai piccoli fiocchi di neve che avevano cominciato a cadere dal cielo nero. Rimase per un po’ sul marciapiede, a vedere Charles allontanarsi e ad osservare la successione di case alte e strette che si affacciavano sulla strada finché la neve non divenne nient’altro che pioggia, le macchine sempre più rare e le luci sempre più liquide e baluginanti nell’oscurità della sera.
Genere: Drammatico, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
  The Bittersweet Surrender
      Charles&Erik (X-Men First Class) Pt.3
 
Of compassion and guilt feeds my soul.
It 'a debt that remains steeped in blood and shame.
And the price for an injury, my darling, is the price of my love.
For you. 
 
                                                   B.D.
 

Stoccolma, Svezia 1962
 
“Credevo che la CIA disponesse di basi appropriate in ogni paese. Insomma. Basi segrete.”
Charles Xavier finse di guardare la successione di specchi nella hall dell’hotel e la grossa vetrata di cristalli verdi e azzurri che nascondeva la reception, dove avevano appena consegnato i loro passaporti falsi, in cambio delle chiavi numerate delle loro stanze. 
Moira MacTaggert gli sorrise di rimando, leggermente imbarazzata. 
Come Agente Operativo appena promossa in carica, sarebbe stato opportuno evitare di mettere a parte un civile con simili informazioni, ma considerando che Charles era a tutti gli effetti il consulente della neonata Divisione X, poteva fare un’eccezione. O almeno, questa fu la scusa che usò con sé stessa.
“Abbiamo un centro operativo qui a Stoccolma, nella zona di Ekerö e un distaccamento più a Nord, nella città di Uppsala. Purtroppo con gli ultimi eventi politici, dobbiamo stare attenti a come ci muoviamo, così vicino ai confini russi” disse piano Moira, allungando il braccio per prendere la sua borsa da viaggio. Charles fu più svelto, afferrandola per primo e passandosi la tracolla sulla spalla.
“Non c’è né bisogno” mormorò Moira. “Davvero.”
“No, è il minimo, figurati. Avevo davvero temuto che ci sarebbe toccato dormire in un bunker su una brandina. Quindi… Va benissimo” replicò Charles con un sorriso sghembo, avviandosi per lo spazioso corridoio. Moira si mise al suo fianco, ancora sorridente. “Sarebbe la procedura regolamentare.”
Charles si grattò la tempia, incurvando un poco le sopracciglia. “Arrivare nella tenuta del capo della Difesa però è stato facile. Un viaggio aereo, stare fuori dai radar…”
“E’ grazie a te se siamo entrati in Russia, Charles. Lo sai.”
Moira gli lanciò un’occhiata significativa che Charles ignorò. Non dubitava, che Charles avesse capito tutte le ragioni che andavano accumulandosi sul rendere il loro rientro negli Stati  Uniti più difficile, ma continuò: “Ora abbiamo un’altra telepate con noi e dato che non è propriamente dalla nostra parte, potrebbe causarci qualche problema. Turisti americani che si allontanano in fretta dall‘Europa, possono creare un certo sospetto.”
“La signorina Frost è come noi a Stoccolma, quindi” osservò Charles indicando gli ascensori, protetti dalle loro grate dorate. Moira  lo seguì, e mentre Charles premeva il pulsante di chiamata, glielo confermò. “A Ekerö, sì, con il resto degli agenti. Credo stiano già studiando un modo per evitare che comunichi con Shaw.”
“Capisco. Ma perché separarci?” chiese ancora Charles. “Possiamo essere in grado di affrontarli.”
“La direzione centrale a Langley ha chiesto la nostra divisione in due squadre per essere meno individuabili, almeno finché una delle due squadre non si muove da qui. L’agente Draper ha ricevuto l’incarico di scortare la Frost a Copenaghen entro questa notte e da lì partire per l’America. Noi, partendo direttamente da Stoccolma domani mattina, possiamo solo evitare altri problemi con i russi. Anche se penso ci controllino” concluse Moira, senza nascondere un’aria palesemente soddisfatta per la sua compita spiegazione.
Charles avrebbe voluto farle un’altra domanda, ma con un forte suono sferragliante, le porte dell’ascensore si aprirono e Moira e Charles s’infilarono dentro.
“Piano?” chiese Moira guardando la colonnina dei pulsanti.
“Quinto” rispose prontamente Charles, schiacciando il tasto al posto suo. “Cosa intendi con altri problemi, Moira?” 
Moira arrossì un poco nel sentirsi chiamare per nome, ma recuperò in fretta il suo aplomb, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e guardando la luce dei piani passare da 1 a 2.
“Il … Il signor Lensherr si è mostrato un po’ avventato oggi” disse Moira titubante. “So che è tuo amico, ma questo suo modo di fare causerà qualche ripensamento al dipartimento, anche se siamo riusciti a catturare la Frost.”
“Erik fa parte della squadra” disse Charles piano. “Non condivido ciò che ha fatto, anche se c’era la possibilità di causare un incidente internazionale… Ma non è successo. Non è successo.”
Mentre il 4 s’illuminava di un bagliore fioco, Moira si voltò verso Charles, che fissava ostinatamente le porte davanti a lui, le mani in tasca e l’aria vagamente rilassata.
“Charles. Mi fido del tuo giudizio, ma se Erik… Se il signor Lensherr, contravviene ancora agli ordini potrebbe venire estromesso e ci sarebbero delle conseguenze. Non solo per lui.”
“Come se questo lo spaventasse” mormorò Charles sovrappensiero, salvo poi scuotere la testa di fronte all’espressione perplessa di Moira.
“Non avrebbe mai ucciso nessuno di loro. Li ha attaccati solo per arrivare a lei, se non ci fosse stato Erik non sapremmo…”
“Non sto dicendo…”
Con uno scampanellio, le porte dell’ascensore si aprirono. Charles aprì con uno strattone la grata di sicurezza, facendole strada nel corridoio, su cui si affacciava una lunga file di porte laccate di bianco su cui spiccavano, ben tracciati, i numeri delle stanze.
La moquette spessa attutiva del tutto il rumore dei loro passi, perciò era come camminare del tutto avvolti nei loro rispettivi e pensierosi silenzi.
Moira non lo sopportava. Non sottovalutava affatto l’intelligenza di Charles, non si sarebbe mai permessa, ma quando l’aveva visto correre dietro ad Erik, contravvenendo al preciso ordine di sospendere l’operazione, aveva per un attimo temuto di essere scivolata nel torto.
Era già difficile lottare ogni giorno sul posto di lavoro; essere una donna alla Cia richiedeva prontezza, costanza e una buona dose di sopportazione ed affrontare una divisione di elementi potenzialmente ingestibili, quando anche il loro presunto referente non era capace…
Si lasciò sfuggire un’altra occhiata verso Charles, che camminava un poco chino, il borsone a tracolla che ondeggiava piano al ritmo del suo passo.
No, Moira era ingiusta. Charles era molto più avanti di lei; conosceva molte più cose, poteva comprendere molto meglio le persone, era più di un essere umano normale. Stava lavorando nel suo campo, certo, Moira come Agente avrebbe dovuto coordinare le direttive… Ma lei era umana. Forse era giusto così, dividersi le incombenze tra lei e Charles, stabilire chi e cosa, separatamente per poi definire un piano unico in cui…
“Sei arrivata” disse Charles fermandosi davanti ad una porta (412) , facendo un cenno pigro verso la maniglia. Guardò lungo il corridoio, ma non c’era nessun altro oltre a loro.
“Ah, sì” Moira sfilò la chiave dalla giacca e mentre la girava nella toppa, Charles si sfilò la tracolla, posando la borsa sul pavimento.
Con un click sommesso, Moira aprì la porta, afferrando la borsa per la tracolla, e senza sollevarla, si limitò a trascinarla nell’anticamera della stanza, accendendo le luci delle lampade. Mise la grossa borsa ai piedi del letto, allungandole un piccolo calcio per allinearla ad esso e poi si voltò, slacciandosi i bottoni della giacca.
Charles era rimasto fuori sulla porta, le mani sempre in tasca, la fronte corrucciata intenta a fissare qualcosa nel corridoio, che rimaneva fuori dalla vista di Moira.
“Pensavo di farmi una doccia” cominciò lei, ma vide che Charles non la stava guardando. “Charles?”
“Scusa” il ragazzo si voltò verso di lei questa volta, con un sorriso gentile sul volto. “Stavi dicendo?”
“Niente. So che domani dovremmo alzarci presto per il volo, ma potremmo andare a bere qualcosa, appena ci siamo sistemati entrambi.”
Gli occhi di Charles sembrarono appannarsi un attimo. Moira pensò che forse era solo la stanchezza o l’effetto delle luci al neon nel corridoio, perché quando tornò a parlarle, aveva la solita espressione rilassata. “Certo. Potremmo. Fra un‘ora nella hall?”
Moira annuì, ricambiando il sorriso. 
“Cercherò di non metterci troppo” disse in un tono che cercava di essere scherzoso, indicandosi i capelli un poco in disordine e i vestiti impolverati. 
Charles sollevò la mano in cui teneva le chiavi, agitandola in un tintinnante saluto, poi le lanciò in aria e le riprese. “A dopo, allora.” Chiuse la porta con un ultimo cenno, lasciando Moira  tra la luce ambrata delle basse lampade e le ombre nere del soffitto.
Moira si passò le mani sulle braccia, indietreggiando fino a sedersi sul letto, concedendosi un momento di pausa. Era stata una giornata fin troppo stancante e con troppa adrenalina negativa. Finire in un posto di blocco dell’esercito rischiando di essere scoperti, per esempio.
Si ricordò che doveva chiedere a Charles come avessero fatto a passarlo, con il furgone e i soldati nascosti nel retro.
Era prodigioso. Poteva fare qualsiasi cosa, forse.
Moira  raccolse le gambe davanti a lei, distendendo le braccia. Fuori dalla finestra la notte era quasi serena. Il cielo blu cupo era attraversato da sciami di stelle, che risultavano comunque molto fioche rispetto alle luci che illuminavano il ponte Riddarholmen o quelle degli altri edifici sull‘isola di fronte. Non vedeva nemmeno un pezzo del braccio di mare su cui doveva essere affacciato l’hotel, ma forse la notte era solo troppo buia per poter distinguere l’acqua.
Chissà dove stava Charles. Sicuramente in una camera più costosa. Non che fosse evidente, ma sembrava uno che a quelle sciocchezze, che sciocchezze non erano ma Moira preferiva pensarla così, ci tenesse.
E anche se non avesse avuto l’aria del ragazzo ricco e cresciuto in un certo ambiente, il dossier che la CIA le aveva fornito era stato abbastanza esaustivo riguardo alle disponibilità economiche di Charles Xavier. A Moira quei dettagli in sé non interessavano, ma il fascicolo di Charles era così pieno di lacune che quelli erano gli unici dati concreti che valeva la pena leggere.
Charles le piaceva. Aveva una curiosa vena presuntuosa che scalfiva appena la sua disponibilità e i suoi modi sempre corretti di fare; era un contrasto interessante. Forse perché derivava dal fatto che aveva la piena consapevolezza di essere qualcosa di più di un semplice umano…
No, rifletté Moira. Charles era esattamente come lei. Si metteva un poco in mostra, ma non certo usando la sua dote, se proprio non era costretto. Charles era normale; un essere umano altruista e responsabile, proprio come lei. Nessuna differenza.
 
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
 
Charles ascoltò per l’ennesima volta lo sferragliare delle grate di metallo dell’ascensore. Non sopportava quel suono metallico e aggressivo, era un prezzo troppo alto da pagare per mantenere lo stile Belle Epoque dell’intero hotel. Avrebbe preferito qualcosa di più discreto e meno vistoso. Un po' più moderno.
Il corridoio del sesto piano aveva dei lampadari, posti ad intervalli regolari, a differenza dei neon del quinto, incassati nelle pareti per ottenere una luce soffusa.
Charles preferiva quest’ultima scelta. I lampadari sotto cui ora si ritrovava a passare erano inutilmente pieni di fronzoli di ottone dorato e candele finte che brillavano, troppo vivide.
Guardò distrattamente il numero sul portachiavi e non ci mise molto a trovare la sua stanza, la 533, in fondo al corridoio, vicino alla grande vetrata dove questo s’interrompeva.
Pochi secondi dopo Charles si ritrovava sdraiato sul letto a fissare il soffitto, il cuscino sotto la nuca, lasciando la porta della stanza socchiusa, mentre il peso della giornata appena trascorsa cominciava a crollargli addosso, in una serie di immagini confuse  e sconnesse che si sforzava di riordinare, controvoglia.
Non posso lasciarlo. 
Avrei potuto farlo, rifletté Charles, e cosa sarebbe cambiato? Era meravigliato di quanto gli fosse venuto naturale dire quelle parole a Moira, una volta che Erik era corso via in direzione della villa. Quanto era stato semplice seguirlo ed aiutarlo, non c’era stato tempo per pensare. Non era stato come quando erano tornati a Richmond; lì erano stati semplicemente loro e aveva agito prontamente, nel modo migliore. Era stato l’istinto, era stato il parlare nella testa, quel poco che era necessario per prendere la decisione giusta e catturare Emma Frost. Avevano concluso e salvato la missione, scoperto le intenzioni di Shaw che rischiava di risultare solo come tempo buttato.
Si era svolto tutto come doveva andare, anche se Shaw non si era presentato…
Si tastò le tasche della giacca, come alla ricerca distratta di qualcosa, le sue sigarette magari, ma chissà dove le aveva lasciate, forse in Russia, a fianco di un qualcuno semi strangolato da del filo spinato…
Charles socchiuse gli occhi e fece una smorfia infastidita nel ripensare a quella scena. Quando si era trovato quell’uomo aggredito non aveva ceduto, era  troppo preoccupato a seguire Erik, a fare in modo che non corresse pericoli…
Come se Charles avesse le qualità per proteggerlo.
Si sfilò i mezzi guanti dalle dita graffiate, appallottolandoli e gettandoli in direzione di un mobile basso, accanto alla porta del bagno. Sollevò appena la testa, ma capì di aver totalmente sbagliato mira. Con un sospiro, riabbassò la testa, sentendosi infiacchito, i vestiti scomposti, il colletto che gli grattava contro il mento. Non sarebbe stato elegante da parte sua uscire con Moira con i vestiti che aveva tenuto per tutto il giorno, o presentarsi in disordine, o annoiato, o triste.
Avrebbe dovuto farsi una doccia, rinfrescarsi la faccia e magari sistemarsi un poco i capelli e cercare di vedere se nella sua di borsa ci fosse stato qualcosa per avventurarsi nelle strade di Stoccolma. Solo per un caffè, ma era pur sempre qualcosa che si staccava da quella routine che negli ultimi giorni si era  a volte presentata quasi insostenibile, se Charles non avesse posseduto la fortunata capacità di distanziare da sé ciò che lo affliggeva, per poi tornare a conviverci non appena fosse stato solo.
Come adesso.
Charles chiuse gli occhi, mentre nella sua mente cominciavano a prendere forma le idee vorticanti che popolavano le sue giornate, cercando di stabilire un ordine, un punto comune. Ma poi tra i suoi pensieri comparve Erik, il viso di Erik mentre il metallo si stringeva attorno alla gola di quella donna e all’improvviso la mente di Charles fu occupata solo da quello, dall’odio di Erik, dalla sua paura e dalla sua impotenza perché Charles sapeva che se lui non fosse stato lì, Erik l’avrebbe uccisa. 
Se Charles non ci fosse stato, Erik sarebbe annegato in un baratro e ora che doveva stare lontano da lui, Charles era terrorizzato all’idea che questo accadesse.
 
|||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
 
Non si erano quasi parlati a Richmond. Era come se il tempo fosse scivolato via, togliendo loro tutte le occasioni in cui avrebbero potuto farlo, mettendo sempre in mezzo qualcuno, in modo da non lasciarli mai soli, mai con i loro singoli pensieri, mai insieme.
Erik aveva avuto ragione; le cose erano cambiate, indipendentemente da loro, nonostante la fine sancita da entrambi a Durham.
Non c’erano state più partite a scacchi, niente più battute o frasi amichevoli. Gli impegni della CIA avevano assorbito tutta l’attenzione di Charles e Charles era stato felice di dedicarsi a questi, cercando di sollevare gli occhi il meno possibile, cercando di parlare il meno possibile, solo lo stretto necessario, perché Erik era sempre lì, nonostante dovesse considerarlo come un qualcosa di così distante da lui che solo una formale cortesia serviva a mantenere una pantomima di contatto.
Se solo Charles fosse stato più coraggioso, se non avesse avuto paura della sua stessa ipocrisia, della paura di affrontare Erik, quello che rappresentava. Di affrontare quella maledetta attrazione  a cui riusciva a reagire solo abbassando il capo e sforzandosi di reprimerla, fino a provare dolore.
E vergogna.
E Charles, combattuto e sofferente, in mezzo a quell’intrico di sentimenti discordanti che cercava inutilmente di gestire, ignorare e schiacciare senza successo, lui era solo.
Per compensare quel vuoto creato dalla lontananza imposta tra lui ed Erik, Charles si era concentrato sul cominciare a solidarizzare con la squadra cercando di non vedere lo sguardo cupo e poco soddisfatto di Erik e di ignorare il fatto che si rivolgesse frequentemente a loro definendoli ’bambini’. 
Charles non aveva bisogno di leggergli nella mente per capire la sua insofferenza e delusione. Il desiderio di vendetta di Erik era troppo intenso per essere veicolato in una patetica missione governativa, cercando Shaw a tentoni e affidandosi a ragazzi inesperti, aspettando. E soprattutto, Charles sentiva che Erik nutriva disapprovazione verso di lui, come se fosse colpa sua se era dovuta finire in quel modo, facendo marcire anche quella che era una vera amicizia. E Charles non poteva biasimarlo.
Eppure non era sempre così beffardo, perché a volte, quando gli rivolgeva la parola era gentile, quasi più gentile delle ancora più rare volte in cui parlava con gli altri.
Ma, forse quella era solo la sua immaginazione che cercava di accontentarlo quando la giornata finiva e lui si ritrovava in un’ennesima camera anonima, costretto a dormire con la consapevolezza che non ci sarebbero più stati risvegli come quello che aveva avuto a Savannah.
Accettare di suscitare ancora qualcosa in Erik, seppur solo disapprovazione o cortesia per Charles, era più confortante del doversi arrendere all’idea di essergli diventato del tutto indifferente.
 
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
 
In Hornsgatan, Erik gettò un'occhiata verso l’ingresso del Salander Hotel e ne vide uscire d'improvviso Charles in compagnia dell‘agente MacTaggert. Lui disse qualcosa con una smorfia che voleva essere buffa e la donna rise. Charles le porse il braccio e con un’altra risata, Moira si strinse al suo fianco, bisbigliandogli qualcosa che sembrò divertire Charles che indicò il Romij Kaffebar poco più in su, lungo la via, verso Brännkyrkagatan. 
Erik attese che cominciassero ad avviarsi, vedendoli aprire un ombrello per ripararsi dai piccoli fiocchi di neve che avevano cominciato a cadere dal cielo nero.
Rimase per un po’ sul marciapiede, a vedere Charles allontanarsi e ad osservare la successione di case alte e strette che si affacciavano sulla strada finché la neve non divenne nient’altro che pioggia, le macchine sempre più rare e le luci sempre più liquide e baluginanti nell’oscurità della sera.
Allora e solo allora, attraversò la strada, passandosi una mano tra i capelli bagnati e cercando di riscuotersi dal freddo torpore, mentre le ampie porte a vetrata dell’hotel lo accoglievano nella calda hall, tra sciami di luce e tappezzerie vermiglie.
Dopo una breve conversazione con Charles e l’agente MacTaggert, Erik era uscito dalla hall non appena aveva avuto le chiavi della sua stanza, dopo aver sbrigato velocemente le pratiche e consegnando il suo passaporto falso fornito dalla CIA senza fare una piega.
Aveva ascoltato con scarsa attenzione le spiegazioni fornite dall’agente MacTaggert e successivamente da Charles, rifiutandosi di porre obiezioni o domande sul perché la partenza dalla Russia fosse stata deviata su Stoccolma, accumulando un giorno di ritardo per tornare negli Stati Uniti quando ci avevano messo meno di due ore ad arrivare in Russia quella stessa mattina. 
Cominciava ad essere abituato a quel continuo rimandare ogni cosa. Erik sapeva che la CIA aveva molti mezzi, ma questo nuovo sviluppo cominciava a far dubitare di questi. 
Charles aveva detto qualcosa riguardo al fatto che stando nella zona centrale della città, avrebbero mantenuto un profilo basso e il tempo di organizzare un rientro sicuro dall’aeroporto di Bromma-Stoccolma senza destare i sospetti dei sovietici. Dare notizia della loro presenza a Stoccolma sarebbe stato rischioso, aveva continuato a spiegare, perché la Sapö, il servizio di Sicurezza della Polizia Svedese e varie sezioni del Must, l’organizzazione per la sicurezza militare della Svezia, mantenevano vivi i contatti con la Russia. E la notizia di una missione CIA di passaggio sul loro territorio, non sarebbe stata affatto accolta con entusiasmo.
Erik tese leggermente la mano in direzione della reception, fingendo di aspettare qualcuno in una delle poltrone foderate di chintz. Non appena il responsabile voltò le spalle per rispondere ad una telefonata, le chiavi della camera 539 gli volarono in mano. Con un’occhiata disgustata verso l’umano grassoccio al telefono, Erik si alzò e passò oltre la vetrata acquamarina, in direzione degli ascensori. 
Voleva interagire il meno possibile, con il minor numero di persone possibili. 
Era un peccato non essere riuscito a tornare in America entro la giornata. Ad Erik l’Europa non era affatto mancata. In America si era illuso di aver trovato una qualche forma di pace, ma era stata solo una parentesi che avrebbe desiderato ricostruire.
Stoccolma era fin troppo simile ad una città tedesca, per risultargli confortante senza trascinare con sé odiosi ricordi o sofferenza. Era così strano, pensò Erik mentre le grate sferraglianti si aprivano sul sesto piano, così strano pensare che poco più di una settimana prima era finito nel caldo afoso della Georgia, dall’altra parte dell’Atlantico.
Erano cambiate molte cose.
Evitò di pensare direttamente a Charles, ma non poteva farne a meno. Quando aprì la porta della stanza rimase un momento immobile, sulla soglia. Era decisamente diversa dalla camera di un motel, a cominciare dall’anticamera più spaziosa, dal letto con svariati cuscini con il copriletto in armonia con il resto dell’arredamento. Il mobile bar, il tavolino su cui era posata la carta da lettere intestata e una bottiglia di benvenuto. Le due grandi finestre, incorniciate da lunghe tende e catenelle di metallo lucido per tirarle, catturarono per un fugace momento la sua attenzione. Si affacciavano sul canale di mare, da dove si vedevano le luci del centro storico di Stoccolma, l’isola di Gamla Stan, che si riverberavano nel buio. Erik chiuse la porta dietro di sé, senza guardarsi indietro. 
Camminò in direzione del divano sotto alle finestre e si sedette lentamente, ignorando ciò che c’era fuori dalla finestra dietro di lui. Nonostante i colori caldi e l’arredamento accogliente, quella stanza gli appariva gelida e statica ed era davvero un peccato, perché non poteva credere di aver trovato più confortevoli le stanze scadenti di sudici motel in cittadine anonime.
Anche se sapeva benissimo di chi era la colpa per quella nuova situazione.
Allungò un braccio sullo schienale chinandosi appena e sfregandosi la mano sulla fronte, mentre l’immagine di Charles che si allontanava dall’hotel sotto la pioggia con Moira MacTaggert si riaffacciava alla memoria, come se l’avesse visto molto tempo prima, come se non fosse stato un ricordo recente.
Charles gli era sembrato contento, quantomeno un poco divertito. Era un netto miglioramento, rispetto all’espressione perennemente assorta e pensierosa che aveva mantenuto a Richmond, alle poche frasi banali che si erano rivolti o anche solo a quegli sguardi che Charles gli lanciava quando credeva che Erik lo stesse ignorando. Erik capiva perfettamente di essere la causa di tutto e si sentiva in colpa, ma non poteva tornare indietro. Era doloroso vedere Charles incapace di fingere un minimo di indifferenza, incapace di andare oltre.
Ed era ancor più doloroso perché Erik era felice che non l’avesse fatto.
Era egoista… ma, adesso, lì solo nella camera d’albergo, si ritrovò a chiedersi se Charles si sarebbe presentato alla sua porta o nella sua testa chiedendogli…
Erik si alzò di scatto dal divano, arrabbiato con sé stesso. Era inutile immaginare certe odiose fantasticherie, quando lui e non Charles, era il vero l’artefice delle condizioni per cui queste erano impossibilitate a verificarsi. Assolutamente spregevole.
Erik l’aveva confuso; se avesse stabilito dei limiti, se non avesse ceduto a quello che desiderava, solo perché Charles sembrava volere lo stesso… Troppi errori, e ora non sapeva più cosa fare, se non assumere un atteggiamento distaccato ed aspettare che a Charles passasse. Perché a Charles sarebbe passata, era solo la follia del momento.
Ma c’erano quei momenti, quei momenti che temeva quando era vicino a Charles, in cui Erik avrebbe voluto poter cancellare tutto, dirgli di dimenticare la conversazione a Durham e dirgli, sì, poteva funzionare. Verrei a Westchester con te Charles, ecco cosa avrebbe voluto dirgli davvero. Per quanto quelle parole fossero strane per lui, anche solo pensate.
Erik, non sei tu, è la rabbia. Lasciala andare. Non serve a te ucciderla.
Ripensò a come la sua mente si era oscurata, nel trovarsi davanti la donna di Shaw e ripensò a quello che Charles gli aveva detto nella mente. Credeva che non sarebbe più riuscito a sentire nulla, in quello stato fatto d’ira cieca, per l’insoddisfazione di non aver trovato Shaw, di aver sprecato altro tempo. 
Ma aveva sentito Charles chiamarlo e piano piano, era riuscito a riprendere il controllo, a sentire l’espressione di cupo risentimento abbandonare il suo viso.
Aveva udito Charles, ma quando i loro occhi si erano incontrati dopo che la corazza di cristallo della Frost si era incrinata, aveva visto un’ombra diffidente negli occhi dell’amico.
Qualcosa che non aveva a che fare con la paura, ma con una perdita di fiducia.
Erik si alzò, andando verso il mobiletto che nascondeva un piccolo frigobar. Ignorò la bottiglia di Endeavour omaggio sul tavolo, preferendogli del gin. Contemplò per un momento l’etichetta verde-oro, ma lo svedese si rivelò troppo ostico per lui. Tornò a sedersi con un bicchiere colmo di gin e acqua tonica, rimpiangendo di non avere altro. Avrebbe potuto uscire di nuovo ed andare a mangiare qualcosa, ma ebbe un flash di Charles che camminava sotto la pioggia ed Erik pensò che fosse meglio starsene lì, andare a riposare e sperare che il mattino arrivasse presto. Anche se il giorno che doveva venire si fosse rivelato doloroso e muto, Erik sarebbe stato ancora in grado di affrontarlo.
 
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
 
“Davvero, credevo che a quel punto fossimo finti. Insomma… Come hai fatto?”
Charles rigirò il bicchiere di Weissßier tra le dita, prima di  rispondere. Non che ci fosse da pensare, era solo una delle tante domande che Moira gli aveva rivolto da quando erano entrati nel caffè. Non era nemmeno una delle più difficili a cui invece, aveva dovuto dare risposte evasive.
“E’ come … E’ stato come creare uno schermo” cominciò Charles corrugando le sopracciglia. “Non è stato niente di diverso da ciò che faccio di solito. Mi è bastato entrare nella mente di quel soldato e quando lui ha guardato nel camion… l’ha visto vuoto. Perché volevo che vedesse  quello che gli avevo fatto vedere.”
Moira inclinò un poco il capo. Charles poteva immaginarla intenta ad analizzare le implicazioni etiche che quel suo talento richiedeva, ma quando parlò di nuovo, sembrava solo molto incuriosita.
“Avresti potuto manipolare quello che vedeva con qualsiasi cosa?” chiese. “Creare una visione dal nulla e fargli credere che quella fosse la sua realtà?”
Charles bevve un sorso, sorridendole non appena lo posò. “E’ quello che ho fatto. Ma potrei fare qualsiasi cosa in quel campo, almeno credo. Basta applicarsi.”
“Andiamo, Charles” Moira accennò un occhiolino smaliziato, un gesto che le si addiceva poco, ma che Charles trovò grazioso. Moira però sembrò pentirsene, tornando seria e guardando il suo Blue Helena come se il suo atteggiamento svagato fosse colpa del drink.
“All’inizio non sapevo sempre controllarmi. Come talento era quasi un peso” disse ancora Charles sovrappensiero. “Se non altro adesso ho imparato bene.”
“E’ come entrare in un’altra persona? Vedere ciò che vede chi controlli?”
Charles alzò le spalle, facendo un cenno verso uno dei due camerieri e indicando il bicchiere. Non disse nulla; anche se l’avessero fatto non l’avrebbero sentito, il rumore del chiacchiericcio nel bar era fin troppo alto. “A volte” disse tornando a parlare con Moira. “A undici anni ho provato a controllare qualcuno. Solo il corpo, lasciandogli la mente intatta. Continuando a conversare nella mente. Era come…” Charles socchiuse gli occhi, cercando di ricordare. “Era come tenerlo in prigione. Di solito faccio in modo di cancellare la mia presenza… Non voglio sembrare  un intruso. Anche se è quello che sono e sarò sempre, introducendomi nelle menti altrui così.”
Charles sorrise, anche se sapeva che la sua espressione poteva essere definita solo come molto scontenta.
“Undici anni…” mormorò Moira un poco sorpresa, guardandolo attentamente. “Chi hai… Scusa il termine… usato?”  
Il sorriso cortese di Charles si restrinse fino a sparire, poi sospirò, distogliendo lo sguardo da lei.
“Preferisco non rispondere a questa domanda.”
Moira arrossì, di colpo imbarazzata, mormorando qualcosa che ricordava molto la parola ‘scusa‘. Cadde un momento di silenzio, in cui Moira, con le braccia giunte in grembo, pensava rapidamente ad un nuovo argomento di conversazione.
“Sai che non ero d’accordo, ma sei stato gentile a seguire il signor Lensherr, oggi.”
Moira ebbe l’impressione di vedere qualcosa attraversare gli occhi di Charles, ma quando questi parlò, vide che sul suo viso non c’era niente d’insolito. Forse solo la fronte appena aggrottata, ma nulla di più.
“Se non l’avessi fatto avremmo avuto qualche problema. Va bene così” rispose Charles lentamente.
Moira si stupì un poco del tono funereo di Charles. Sembrava essere diventato molto scontento, come se il fatto di non essere riuscito a prevedere quello che avrebbe fatto Lensherr, l’avesse infastidito. Anche se la missione si era comunque risolta in un successo, con la cattura di Emma Frost.
“Non è colpa tua, Charles” gli disse rapidamente. “L’avrebbe fatto lo stesso…”
Charles scoppiò a ridere brevemente, socchiudendo appena gli occhi e coprendosi un poco la bocca con la mano. Posò il bicchiere con un colpo secco, forse un po’ troppo forte.
“Sì, è vero. L’avrebbe fatto lo stesso” le disse. Sapeva che Moira avrebbe trovato strano quell’ingiustificato scoppio d’ilarità, ma Charles non poteva farci nulla.
Perché, perché Moira parlava di Erik?
Era fastidioso, fastidiosamente fastidioso sentire il suo nome, sentire parlare di lui, senza che lui ci fosse.
Charles non incolpava direttamente Moira. Perchè al tempo stesso, si sentiva scorretto con lei, come se quella conversazione, quell’uscita a due, fossero solo una presa in giro.
Oltre che essere un intruso nelle menti altrui, era anche un bugiardo. Non voleva essere lì in quel bar con lei, voleva essere da tutt’altra parte. E solo ora aveva il coraggio di pensarlo, dopo che aveva cercato inutilmente di svagarsi un poco, assecondando Moira.
Quel giorno, qualche ora prima, Charles si era spaventato nel vedere che non aveva alcun potere su Erik, vedere Erik perdere la calma.
Avrebbe ucciso Emma Frost senza problemi, Charles lo sapeva. Ma non l’aveva fatto.
Charles se ne era chiesto perché e aveva continuato a chiederselo per tutto il giorno. E ora, seduto lì in quel tavolino, realizzò improvvisamente che avrebbe tanto voluto conoscere la risposta a quel quesito a cui Moira MacTaggert non avrebbe mai potuto dare alcuna soluzione.
Charles appoggiò alcune banconote sul tavolo, bloccandole con il suo bicchiere, poi con un’occhiata distratta verso Moira, le disse che si era fatto tardi.
 
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
 
Erik.
Percepì la voce di Charles come un mormorio, così che all’inizio pensò di essere solo scivolato dal dormiveglia al sonno. Ma poi lo sentì di nuovo.
Sentì di nuovo chiamare il suo nome e allora, rispose.
Sta’ fuori dalla mia testa.
Devo parlarti, adesso.
Puoi farlo domani, Charles. Parleremo domani. Persino il solo pensarlo sembrava poco convincente, rifletté Erik. 
Sono fuori dalla tua porta.
Erik si passò una mano sulla fronte abbassando le palpebre. Non aveva voglia di dirgli di no. Aveva voglia di vedere Charles, anche se non era la cosa giusta da fare.
Così Erik si alzò e scontrandosi con il buon senso che gli imponeva di ignorarlo, andò ad aprire la porta.
Ebbe un rapido flash della stessa scena che si era svolta a Savannah, solo a ruoli invertititi.
“Grazie” fu la prima cosa che disse Charles non appena se lo trovò davanti. Erik vide che era ancora vestito come quando erano partiti, come se non avesse avuto intenzione di sprecarsi troppo per uscire con l’agente MacTaggert. Era una mancanza non da Charles, riflettè.
Guardò oltre lui, nel corridoio e vide che era deserto. Probabilmente, questo nuovo incurante Charles aveva abbandonato l’agente MacTaggert al Romij Kaffebar senza tanti complimenti…
“Che c’è?” chiese Erik seccato, incrociando le braccia e appoggiandosi con la spalla allo stipite. Non voleva che entrasse, anche se era quello che avrebbe davvero desiderato, allo stesso modo di Charles.
“Solo parlare. Per favore.”
Erik inclinò il capo, arretrando di un passo ma rimanendo sulla soglia. “Sono stanco. Possiamo parlarne domani?” disse in tono più gentile. Sapeva che era sbagliato farsi irretire dalle buone maniere ma…
Charles mise le mani avanti, come in un gesto di scusa parlando fermamente: “Voglio solo parlarle con te. Adesso.”
Erik inspirò profondamente, poi gli diede le spalle e oltrepassò l’anticamera diretto verso la stanza.
Charles lo accettò come un segno affermativo e lo seguì. Chiuse la porta d’ingresso dietro di sé, anche se sapeva che questo poteva essere interpretato come un gesto sbagliato.
Per questo si fermò sulla soglia della camera, mentre Erik prese posto su un divano bianco sotto una delle finestre, dopo aver recuperato un bicchiere. Sedeva senza guardarlo, un poco girato di profilo, come se Charles non ci fosse.
“Che cosa pensavi di fare?” chiese Charles, appoggiando una mano allo stipite. “Puoi spiegarmelo?”
“A che proposito?”
“Lo sai.”
Erik gli lanciò un rapido sguardo da poco sopra il bicchiere; a Charles non sfuggi il luccichio divertito che gli attraversò le iridi. Si trattenne, sapeva che controbattere sarebbe stato controproducente.
“L’avresti ammazzata?” gli chiese in tono neutro, senza abbassare lo sguardo. Erik posò lentamente il bicchiere sul mobile a fianco, stando attento a non farne scivolare fuori nemmeno una goccia, apparentemente indifferente alle domande di Charles.
“Non è successo” rispose dopo un po’, incrociando le braccia e appoggiandosi con le spalle al muro dietro di lui. “Quindi è inutile discuterne ora.”
Nonostante quello che Charles si era ripetuto a sé stesso prima di aprire la porta, mosse un passo nella direzione di Erik, pentendosene all’istante e immobilizzandosi, le braccia lungo i fianchi e la fronte corrucciata. La patetica parodia dell’essere arrabbiato.
“Erik. Non ti saresti fermato, se non te l’avessi chiesto.”
“Credi che mi sia fermato perché me l’hai chiesto tu, Charles?” disse Erik sarcastico, lanciandogli un’occhiata obliqua, come se tollerasse appena la vista di lui. “Per quello?”
Fu come ricevere un colpo in pieno petto. Forse peggio, perché Erik questa volta non l’aveva affatto colpito fisicamente, ma su un piano dove Charles era almeno convinto di cavarsela.
“Sì” rispose con sincerità, trovandosi destabilizzato dall’ira cieca con cui Erik aveva iniziato a guardarlo.
“Allora sei in errore, Charles.” Erik riprese il bicchiere, bevendo un altro lungo sorso e voltandosi un poco verso la finestra, verso le luci di Gamla Stan. Charles rimase in silenzio, incapace di aggiungere altro, impegnato a mantenere una maschera disinteressata che non sentiva sua.
“Uccidere qualcuno non è un problema per te” affermò in tono piatto.
Gli occhi di Erik si misero a contemplare l’ondeggiare del gin nel bicchiere, mentre un solco profondo si tracciava sulla sua fronte assorta e Charles continuava a parlare.
“Loro erano colpevoli, questo è vero. E tu eri arrabbiato, ma ci sarebbero stati altri modi per risolvere la faccenda, non sarebbero rimasti impuniti e tu saresti…”
“… Un non assassino?” suggerì Erik rabbiosamente, serrando le dita attorno al bicchiere. “Un misericordioso? Che cosa sarei, Charles?”
Charles non rispose, abbassò solo lo sguardo e si piegò un poco. Quell’atteggiamento remissivo fece arrabbiare Erik più di tutte le parole che lui gli aveva rivolto.
“Sarei come te, Charles, se non avessi ucciso nessuno?” disse Erik, osservandolo e bevendo lentamente un sorso di gin. Charles alzò quel tanto il viso che bastava per scrutarlo. 
“Non dire cose che non pensi.”
Erik lo guardò quasi con sfida, sapendo bene che era l’atteggiamento opposto che avrebbe dovuto tenere con Charles in quella stanza. “Prova a leggermi nella mente, poi dimmi se non ho ragione. Dimki se non lo penso davvero.”
Charles evitò stoicamente la provocazione, limitandosi ad alzare le mani in un gesto quasi di resa, nonostante fosse diventato un poco più pallido e gli occhi più ombrosi.
Onore e Sangue, Erik. Hai intenzione di versarne finché non basterà a sanare ogni cosa?”
Erik si allungò un poco con la schiena sul divano, facendogli un cenno pigro con la mano. Voleva apparire indifferente, ma gli occhi gli erano diventati neri, pieni di bagliori cupi.
“Dovresti guardare nella mia testa e vedere cosa si prova” rispose freddamente.
“Ad uccidere?” domandò Charles con astio, cercando inutilmente di mantenere un tono piatto.
Erik scosse la testa, la rabbia dispersa di fronte mentre si rendeva conto della tenera ingenuità di Charles. “A vedersi portare via tutto, a rimanere solo con quello che è rimasto a me” disse con calma, cercando di non far trapelare nessuna emozione. Stava abbassando le sue difese, ma si fidava di Charles, non avrebbe utilizzato questo contro di lui.
Charles rimase in silenzio per un lungo attimo, pensando finché non risollevò il viso, gli occhi chiari limpidi e l‘espressione non più severa.
“Non ti sono rimasti solo rabbia e dolore, Erik, te l’ho detto. E io posso capirti, tu sei molto di più per…” Charles camminò verso di lui, ma si ritrovò la strada sbarrata dal letto. Aveva appena spostato lo sguardo per capire dove avrebbe dovuto muoversi per aggirarlo ed andare verso Erik, quando quest’ultimo si rese conto di quello che Charles aveva quasi detto e di quello che stava per fare. Prima che Charles si muovesse, combattendo il desiderio di vedere Charles avanzare verso di lui e prenderlo, disse, sprezzante:
“Non voglio la tua carità, Charles. Li avrei uccisi comunque, non solo quelli in Argentina. Li ucciderei ancora. Tu non c’entri niente, è qualcosa che non riguarda te, non conti niente in questo.”
Charles s’immobilizzò, gli occhi sbarrati. Sembrava che avesse appena ricevuto un pugno in pieno petto. “Ma io…” mormorò. “Lo so che non è vero” ripeté con più convinzione. “So che non è così, so che quello che pensi è…”
Erik sollevò gli occhi al cielo. “Charles. Sei un telepate e ti chiederei di verificarlo, ma anche se così non fosse…” Erik tornò a guardarlo fisso, le sopracciglia aggrottate.
“Non entrare mai più nella mia testa, mai. Non potresti capire, sei troppo occupato a pensare a…” ... a quando mi provocherai abbastanza per scoparti. Erik s’interruppe, limitandosi a pensare il resto della frase, riflettendo su quanto sentisse inappropriate quelle parole. Doveva cercare di non farsi trascinare dalla rabbia, perché così facendo avrebbe rischiato di ferire Charles e sé stesso. Anche se affrontando quella conversazione stavano facendo già abbastanza danni.
“Io non penso a quello che è successo in America” disse Charles e dal suo tono Erik capì che non stava parlando di Richmond, della Cia, di Miami, o della caccia ai mutanti, ma a ciò a cui lui stesso aveva pensato. E nonostante le parole di Charles, sapeva che in realtà era tutto il contrario.
“Meglio così” replicò Erik stringendosi nelle spalle. “Perché le cose sono cambiate.”
Charles si morse un labbro, mentre la sua pelle, normalmente arrossata, sbiancava un poco. “Cosa…”
“Torna da Moira, Charles. E’ quello il tuo posto, amico mio” bevendo piano l’ultimo sorso di gin.
“Erik. Io voglio solo sapere se mi posso fidare di te. Non voglio altro.”
“Quelli come me non sono pertanto meritevoli di fiducia. Giusto?” domandò Erik annoiato in risposta.
Charles lo squadrò, innervosito. “Non sei un assassino. Ma non sei nemmeno nel giusto.”
“Sono stanco” disse Erik lentamente, facendo ondeggiare appena il bicchiere quasi vuoto tra le dita. “Se non hai altro da dire, Charles, puoi andartene.”
Charles si passò una mano sull’avambraccio, mordendosi un poco il labbro inferiore e inspirando. Non riusciva a comprendere, era come ritrovarsi davanti una persona diversa.
Ma poi ci rifletté, e comprese che stava solo parlando con quell’Erik sprezzante, quello che lo intimoriva. Perché Charles sapeva che Erik aveva sempre mantenuto quell’atteggiamento, anno dopo anno e solo quando si erano incontrati gli aveva concesso di vedere uno spiraglio, oltre quella maschera di diffidenza, vincendo sé stesso.
“Devi stare lontano da me. Io farò lo stesso. Ecco quello che voglio, lo abbiamo già stabilito” continuò Erik impassibile.
Charles lo guardò fisso, replicando in tono convinto e accennando un sorriso gentile:
“Ma sono stanco di fingere, Erik. Questo io non lo voglio, posso rinnegare quella decisione, ora. A me non importa, importa solo quello che vuoi tu e so che non è questo.”
Erik si sentiva invadere da una fin troppo spiegabile felicità nell’ascoltare quelle parole, ma non voleva abbandonarsi a quella gioia effimera. Charles ora stava parlando così… ma non era sembrato sicuro anche a Savannah e per il viaggio di ritorno a Richmond, salvo poi abbandonarsi a momenti in cui sprofondava nella vergogna o nel farfugliare scuse o frasi taglienti, pur di cercare a sé stesso di giustificare quello che era successo tra loro?  Erik era bloccato. Poteva lui stesso giustificare Charles, accentando di credergli adesso o fare qualcosa di corretto e tenerlo ancora a distanza, finché tutto non fosse finito. Si trattava solo di giusto o sbagliato, nulla di più…
Erik abbassò un poco le palpebre, sfiorando il bordo del bicchiere. “Sei debole e confuso, Charles. Sono solo parole le tue, nient’altro. Per favore, esci da qui, domani dobbiamo andarcene presto.”
Forse fu l’agitazione accumulata durante la giornata, il dover correre fin troppi rischi in un posto in cui non era mai stato, partecipare ad una vera azione della CIA, qualcosa di così lontano dai banchi di Oxford da risultare una sfida persino per i suoi sogni, forse il sentirsi apostrofare debole, ma Charles, in quel momento, smise del tutto di riflettere. Smise di riflettere su cosa fosse giusto e lecito, arrabbiandosi e sentendo qualcosa che in un primo istante sembrò essere puro odio. 
Odio nato dalla delusione, dall’abbandono e dall’indifferenza.
Avvicinò entrambe le mani alla testa, indice e medio congiunti, corrugando la fronte quel tanto che bastava per concentrarsi. Gli occhi di Erik si dilatarono per la sorpresa, mentre il bicchiere gli esplodeva in mano e il viso gli si irrigidiva in un’espressione sbigottita.
Erik si guardò la mano dove, da sottili taglietti candidi, cominciavano ad affiorare linee di sangue vermiglio, fin quando una forza più grande di lui, qualcosa che era dentro nella sua testa, lo costrinse ad accasciarsi in ginocchio, tra i frammenti di vetro rotti e la macchia umida del gin residuo che si era allargata sul pavimento.
Davanti a lui, Charles lo fissava senza vederlo, con occhi così freddi come non glieli aveva visti mai, le dita talmente premute sulle tempie da essere diventate bianche e la testa leggermente china.
Sembrava la caricatura di un atteggiamento infantile, ma la sua rabbia era del tutto autentica.
Erik sentiva la presenza di Charles nella sua testa come sentiva di essere ancora in possesso del suo corpo, e contemporaneamente di non potersi muovere o reagire, nonostante fosse ancora in grado di pensare autonomamente. 
Charles non stava guardando fra i suoi ricordi, lo stava solo tenendo bloccato fisicamente, rendendolo incapace di fare alcunché. Costringendolo ad essere nulla.
In ginocchio, Erik sentiva i pantaloni bagnati a contatto con il gin rovesciato, il sangue caldo sulla mano ferita colare tra le nocche, i muscoli intorpiditi, la bocca semi aperta ma incapace di parlare…
E poteva vedere Charles immobile di fronte a lui. Non gli consentiva di distogliere lo sguardo.
Pur in quella situazione, Erik non trattenne un moto d’ammirazione per Charles. Lo aveva visto controllare gli altri come se fossero stati burattini, cancellare i loro ricordi senza lasciare traccia di sé, creare distorsioni nelle menti altrui per far credere loro di aver visto tutt’altro… Ma questo era un altro aspetto del suo potere, qualcosa di altrettanto affascinante, che vederlo all’opera, persino su di sé, riempiva Erik di meraviglia. Stava solo controllando il suo corpo, ma non la sua testa. 
Se Charles non fosse stato Charles, se non avesse avuto tutti quegli inutili scrupoli, quante cose avrebbe potuto fare… 
Erik si chiese se potesse sentirlo.
Charles…  Adesso basta. Charles.
Attaccami, replicò Charles. Era come se avesse gridato; se avesse potuto, Erik avrebbe scosso la testa, quasi che gli avessero urlato nelle orecchie a distanza troppo ravvicinata.
Ma non poteva farlo.
Attaccami. Dimmi di andarmene. Charles accennò un ghigno acido che sembrava davvero fuoriposto sulla sua faccia solitamente gentile. Avanti.
Erik gli avrebbe sorriso beffardamente in risposta, ma dovette limitarsi ad immaginare la sua reazione quando pensò: Vuoi che ti uccida? O metti solo alla prova te stesso?
Charles contrasse appena le dita, ed Erik capì che il suo tono di sfida l’aveva solo fatto arrabbiare di più. Le braccia di Erik schizzarono dietro alla schiena, come se stesse assumendo la posa che si conveniva ad un’esecuzione sommaria. Non sapeva perché, ma nonostante tutto Erik lo trovava molto buffo.
Non si sarebbe aspettato mai una mossa del genere da Charles, il responsabile, diplomatico, corretto Charles.
Ti fa ridere? chiese la voce atona di Charles dentro la sua testa.
Uno strattone invisibile, che capì essere venuto dal suo stesso corpo, mandò a sbattere Erik contro il comodino. La sua testa cozzò contro lo spigolo del mobiletto con troppa forza e poco dopo, sentì colare quello che sembrava un rivolo di sudore sulla fronte, ma aveva un’inconfondibile odore metallico che Erik riconobbe. Inspiegabilmente, aveva una voglia disperata di ridere, ma non poteva farlo.
Almeno finché non si accorse che Charles aveva abbandonato il controllo delle sue membra e che lui, Erik stava davvero ridendo, accasciato su un fianco. 
Smise solo quando, tra gli occhi socchiusi e un poco offuscati dal sangue, vide la sagoma di Charles chinarsi verso di lui. Erik all’inizio pensò che volesse solo accertarsi che l’avesse ferito davvero, ma non era così. Charles aveva il viso spaventato e addolorato, mentre le labbra rosate semi aperte articolavano qualcosa che andava da ‘mi dispiace’ a ‘perdonami’. I suoi occhi chiari sembravano infinitamente più grandi, illuminati da quella luce ferita, notò Erik. Charles fece per tendergli la mano, ma si fermò con il braccio teso. Erik sapeva che si stava trattenendo perché lui era stato così sciocco dal dirgli che sì, doveva farlo con lui, doveva trattenersi ed ignorare che fosse mai successo qualcosa, che doveva stargli lontano, ma quel secondo di titubanza che aveva attraversato Charles, risultò insopportabile.
Erik sollevò di scatto un braccio, serrando le dita a pugno e piegando appena il gomito in un cenno verso le finestre. Le catenelle metalliche delle tende si tesero come funi e schizzarono verso Charles, afferrandolo saldamente per la gola e serrandogli le braccia, fino a ritirarsi, trascinandolo ed obbligandolo a stare in piedi con la schiena contro al pezzo di muro tra le due finestre.
Erik strinse ancora di più le dita nel pugno, mentre a fatica si rimetteva in piedi, passandosi una mano sulla fronte, lasciandosi una zona più scura là dove aveva sfregato il sangue sulla pelle.
Respirava affannosamente, la colonna vertebrale indolenzita, la bocca aperta con i denti appena scoperti.
Avanzò verso Charles, che doveva tenere la testa fin troppo reclinata, perché la catena che lo stringeva aveva cominciato a tirare davvero, ma Erik non smise subito.
“Fermami, Charles” gli disse, inclinando un poco il capo. “Puoi farlo. Anche adesso che sei così.”
Charles lo guardò con gli occhi lacrimanti. Stava soffocando, la pelle da arrossata stava sbiancando troppo velocemente e un sottile rivolo di saliva gli scivolava all’angolo della bocca. 
“Non… Non lo farò” disse con fatica. Poi sembrò quasi accennare un sorriso, scoprendo i denti candidi. Charles fece un verso strozzato che lo costrinse a girare un poco la faccia per tossire e allora Erik rinsavì, sbarrando gli occhi. Abbassò il braccio e le catene lo lasciarono andare. Ritornarono al loro posto domate, tintinnando piano mentre Charles continuava a tossire seccamente e scivolava lungo il muro con un fantoccio, ai piedi di Erik.
Tenne una mano chiusa a pugno sul petto, mentre i colpi di tosse si affievolivano e il leggero tremito che lo scuoteva diminuiva con essi. Quando finì, si passò una mano fra i capelli castani, cercando di scostarli dalla fronte, finché non ebbe recuperato un respiro normale.
Erik indietreggiò un poco, quando vide che Charles provava a rimettersi in piedi, le mani appoggiate alla parete dietro di lui. “Bel trucco” disse Charles, senza guardarlo.
Erik non sapeva cosa dire. Si domandava solo perché dovessero continuare a farsi del male a vicenda, indipendentemente dai mezzi usati. Non avrebbe voluto fare del male a Charles; ma lui l’aveva attaccato e anche se ad Erik non dispiaceva che Charles ogni tanto si ricordasse di essere un mutante, piuttosto che un umano solo un po’ speciale, aveva voluto dimostrargli che poteva difendersi. Erik cercò di scacciare la considerazione che aveva da tempo accettato, ovvero che Charles possedesse un potere decisamente più forte, e che avrebbe potuto fermarlo molto prima, se solo avesse voluto. Non voleva pensarci.
“Cosa intendevi fare?” chiese Erik piano. Era sinceramente interessato a capirne solo il perché l‘avesse fatto, nulla di più.
“Non lo so” rispose Charles socchiudendo appena gli occhi, passandosi una mano sulla gola dove spiccava un brutto segno rossastro a mezzaluna. “Io non lo so.”
Erik rimase in silenzio. Sospettava che cosa avesse voluto fare Charles; zittirlo, fargli del male, cercare di capire quali fossero le sue intenzioni leggendogli nella mente… ma quelle possibilità erano irrilevanti agli occhi di Erik. In fondo, era stato lui a spingerlo a reagire in quel modo dandogli del debole, qualcosa che Charles non era.
“Era un po’ che non mi succedeva” mormorò quasi tra sé e sé, facendo scivolare le ultime parole nel silenzio, come se si fosse accorto solo in quel momento della presenza di Erik.
“Non importa” smise di toccarsi il collo, alzando gli occhi su Erik che poté vederne come questi fossero ancora un poco arrossati e tremendamente simili a quelli che aveva guardato a Savannah, quando …
Resta con me, Erik  ricordò Erik, ma ora Charles era in silenzio davanti a lui, e non pensava e non gli diceva niente ed era colpa sua, solo sua, perché era sempre una dannata questione di colpa e ora era di nuovo il suo dannato turno. Ed era di nuovo in debito.
“Charles…” gli si avvicinò, sfiorandogli con la mano il segno rossastro che gli attraversava la gola. Perché tutto doveva sempre finire in manifestazioni di rabbia? Si chiese Erik. Charles lo guardò, ma rimase immobile, senza fare niente. Erik non si chiese cosa fosse corretto fare. Lo abbracciò quasi con forza, sentendo le mani di Charles che si aggrappavano alle sue spalle, avvertendolo un poco più indebolito, spingendolo contro il muro senza che lui opponesse resistenza. Charles indietreggiò, finché non si ritrovò stretto tra Erik e la parete. Erik lo sentì gemere piano, ma non sapeva se per dolore o per piacere.
Si sentiva solo dannatamente eccitato e i tutti i propositi sul volerlo allontanare da sé scivolarono via come pioggia, mentre il suo battito cardiaco aumentava.
“Erik, no, non…” mormorò Charles, nonostante le sue mani fossero scivolate lungo la maglia di Erik, trattenendo la stoffa tra le dita, come se volesse fare tutt’altro.
“Charles….” Erik girò la faccia, sussurandoglielo nell’orecchio con quella voce troppo bassa e roca che non sembrava sua. “Non c’è nessuno qui, perciò smettila di …”
Una mano di Charles risalì la sua schiena, fino a mettergliela a lato del viso facendogli voltare la faccia verso di lui e allora, Erik capì che l’avrebbe assecondato e abbassò quel tanto la testa che occorreva perché le loro labbra si toccassero. Erik sapeva che questa volta succedendo diversamente, mentre prendendolo per le spalle, faceva scivolare le mani lungo le sue braccia, tenendolo ancora bloccato contro al muro. Stava scaricando la sua rabbia e la sua frustrazione, come se avesse dimenticato la gentilezza. Il problema di Charles era la sua paura degli altri, di come poteva venire giudicato e questo era intollerabile agli occhi di Erik, che cominciò a slacciargli i bottoni della camicia come se volesse strapparli.
Charles non sembrò lamentarsi, ma sembrava stranamente infiacchito contro di lui, come se le energie lo stessero abbandonando, un peso tra le sue braccia, anche se continuava a baciarlo in modo tutt’altro che poco convinto, infilando le sue mani sotto la maglia di Erik, fin quasi a toccargli le scapole, stringendolo vicino a sé.
Erik allungò una mano fra di loro, scendendo oltre la linea dei pantaloni di Charles, sentendone l’eccitazione, mentre Charles allontanava la bocca dalla sua, respirando affannosamente e allentando la presa sulla schiena di Erik. Charles allargò un poco le gambe per permettere ad Erik maggior libertà, poi reclinò appena il capo all’indietro, esponendo il segno rossastro che gli solcava la gola e gemendo piano, mentre Erik continuava a toccarlo. Erik fu tentato dal distogliere lo sguardo, finchè Charles non riaprì gli occhi, osservandolo oltre le ciglia un poco abbassate.
Non gli piaceva quello sguardo; con la mano libera Erik gli circondò le spalle, cercando di abbassargli la camicia e baciandolo ancora, con rabbioso slancio. Era bello sentire di nuovo il calore del corpo di Charles, accarezzare quella pelle leggermente sudata, sentire i suoi capelli che gli sfioravano la fronte… Ma forse era più bello sapere che non era cambiato niente e che era solo la paura a trattenere entrambi.
Aspetta. Aspetta Erik… Per quanto possibile, Charles cercò di articolare qualcosa di sensato con il pensiero, visto che quello che usciva dalle sue labbra in forma di voce non lo era affatto e anzi, sembrava incoraggiare Erik a continuare. Provò a fare un cenno svogliato verso il letto che Erik, in un primo momento sembrò ignorare, fino a quando, tenendo Charles contro di sè con il braccio, riprendendo a baciarlo e indietreggiando, si lasciò cadere sul letto, tirando Charles con sé, sopra di sé.
Charles scostò un poco il viso, riprendendo respiro mentre, cercando di puntellarsi sulle ginocchia e su un braccio, con la mano libera cercava di slacciare rapidamente la cintura di Erik. Ad Erik spuntò un sogghigno sulle labbra, vedendo Charles fallire due tentativi di sfilare la fibbia di metallo per la troppa fretta. Charles rise, scuotendo la testa e arrossendo un poco, passandosi il braccio sulla fronte sudata, con il polsino slacciato. Diede ad Erik un leggero schiaffo sulla guancia ma tenne lì la mano, accarezzandolo lungo la mascella e il collo, avvicinandosi di più.
“Non è divertente, Erik” mormorò con un sorriso, fingendosi contrariato. “Non lo è.”
Erik spalancò un poco gli occhi, sorpreso. “Io non ho fatto niente Charles” reclinò un poco la testa, guardandolo con gli occhi socchiusi. “Forse sei solo un po’ debole.” 
“Debole? Ah-a.” Charles si morse le labbra, distogliendo lo sguardo e annuendo come se avesse appena appreso una verità fondamentale. Sapeva che quella di Erik era un’altra provocazione e un tentativo di scherzare su quello che stava di nuovo succedendo tra loro e lui non voleva mettersi a discutere. Forse Erik aveva ragione, forse non era poi così forte…
“Charles non pensarci. Erano solo parole.”
“Come?” domandò Charles, riscuotendosi.
“Ti ho sentito” Erik si tirò un po’ su con la schiena, appoggiandosi con i gomiti. Charles fece per spostarsi, lo stava praticamente schiacciando, gli era quasi seduto sopra, ma Erik gli disse di rimanere così.
“Stavi pensando e ti ho sentito” disse Erik, dopo che l’attenzione di Charles fu rivolta di nuovo a lui. 
“Devo… Devo aver… Credo di non essermi controllato abbastanza.” Charles aggrottò un poco la fronte, contraendo un poco le dita e la stoffa della maglia di Erik tra di esse. Era dispiaciuto per aver fatto sentire i suoi pensieri ad Erik, non era stata quella la sua intenzione. Non voleva che pensasse che fosse in grado di serbare altro che recriminazioni. 
“Erano solo parole, Charles. Ti chiedo scusa” gli passò una mano tra i capelli, fino a prenderlo dietro la nuca e avvicinare la faccia alla sua. 
“Credevo che tornando indietro tu ci saresti passato sopra. Ma io non ci riesco, non così.”
Charles capì che adesso Erik stava parlando della decisione presa poche ore prima di tornare a Richmond dopo il viaggio nel Sud, e che gli doveva costare fatica, perché non riusciva a guardarlo in faccia, tenendo la testa un poco girata verso il soffitto e piccole rughe attorno agli occhi, vago segno di una tensione che cercava di nascondere. Era un notevole sforzo per lui e Charles sì sentì riappacificato con sé stesso e con tutti quei lati scontrosi con cui Erik aveva cercato di celargli la verità quando gli disse:
“Nemmeno io. Non voglio che accada.”
Questa volta fu Charles a baciarlo per primo, accarezzandogli il viso, scendendo lungo la linea dello zigomo e poi sul collo e da lì le spalle, con calma e lentezza, diversamente da come Erik aveva fatto prima. Non che a Charles fosse dispiaciuto, ma non sopportava che sentimenti come la rabbia dovessero sempre frapporsi fra loro. Erik dovette pensarla allo stesso modo, ricambiando il bacio con gentilezza, tirandosi un poco più su sul letto, stropicciando le lenzuola ben tese sotto di sé.
Charles  si spostò un poco di lato, riprendendo ad armeggiare con la cinta di Erik, cercando di non sorridere troppo a fior di labbra quando la sentì sganciarsi docilmente.
“Comunque non ero io” sussurrò Erik al suo orecchio, anche se erano da soli e nessuno avrebbe davvero potuto sentirli.
“Ti credo, Erik” replicò Charles in tono altrettanto basso, baciandolo sulla ferita che gli aveva inflitto sulla fronte, sapendo di essere stato perdonato.
 
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
 
“Pronto? Sono della stanza 412. No, non mi occorre il servizio in camera, cerco l’interno chiamate. In-ter-no chia-ma-te. Non avete delle centraliniste? Pronto?”
Moira serrò le labbra, mentre l’uomo all’altro capo del telefono iniziava ad urlare qualcosa in svedese. A Moira sembrarono solo versi molto confusi, ben al di là del suo corso di lingue estere intensivo svolto a Baltimora. “Mi scusi, ma lei non parlava inglese?” domandò ancora Moira, ma dopo un’altra serie di incomprensibili frasi più simili a suoni, appese la cornetta con un click! sommesso. 
Sbuffando, si riappoggiò alla spalliera del letto, lanciando un’occhiata alla borsa aperta sul letto. Individuò il suo pigiama sotto ad un cambio di vestiti e fece il gesto di allungarsi un poco per prenderlo, ma era davvero troppo lontano, là in fondo al letto. Perciò lasciò perdere. 
Quando la camicetta che aveva messo per uscire con Charles gli sarebbe diventata troppo scomoda per dormire se la sarebbe cambiata, ma adesso non aveva comunque sonno.
Avrebbe voluto tanto mettersi in contatto con la CIA, sapere come andava al quartiere X, sperando che i ragazzi non avessero fatto troppi danni in loro assenza. Le raccomandazioni di Charles erano già state fraintese una volta, dopotutto e lei non era nella posizione di rischiare ancora la fiducia del suo Dipartimento.
Moira avvicinò le ginocchia a sé, circondandosi le gambe con le braccia e guardando fuori dalla finestra a cui non aveva ancora tirato le tende. Ecco un’altra cosa che avrebbe dovuto fare, prima di andare a dormire. Eppure non ci riusciva; era sempre così quando cominciava a pensare al lavoro e considerando che il lavoro occupava la maggior parte del suo tempo… Bè, Moira dimenticava un sacco di altre cose.
Era un peccato che l’uscita con Charles fosse durata così poco. Avrebbe voluto un po’ più di tempo per svagarsi e pensare meno al lavoro, anche se il dover stare con Charles, così come il loro parlare, almeno in teoria, riguardavano proprio il lavoro. 
Moira scosse un poco la testa, cercando di scacciare quegli strani sospetti che avevano preso posto nella sua testa quando erano usciti dal caffè. Certo, Charles si era comportato come al solito, spigliato e divertente, ma Moira non riusciva a dimenticare le espressioni cupe che aveva assunto, o quella strana affermazione sul fatto che avesse provato a controllare qualcuno, solo per bloccarlo e provare a vedere cosa succedeva. Charles non le sembrava il tipo da fare esperimenti del genere. Ma era comunque uno scienziato e forse la sua indole… Moira scese dal letto avviandosi verso la finestra e tirando le tende con uno scatto secco.
Forse, lo strano atteggiamento di Charles era dovuto alla sua insoddisfazione per non essere riuscito a incrociare Shaw quel giorno, anche se Moira non capiva se ci fosse un nesso più profondo, a parte il fatto che magari lo stesso Charles era deluso perché aveva assicurato al signor Lensherr che Shaw ci sarebbe stato… Ma quella teoria, Moira lo sapeva, non reggeva affatto. Charles non conosceva Lensherr da così tanto tempo per dispiacersi di quello che a lui andava o non andava bene. 
Ma nemmeno lei conosceva Charles da chissà quanto, rifletté.
Sono un intruso. Moira si chiese se Charles fosse stato davvero sincero, quando gliel’aveva detto. Si chiese anche perché le fosse venuto un dubbio simile. Charles le sembrava l’ultimo in grado di poter usare il suo potere per fini personali, forse proprio perché pienamente consapevole di quanto quello fosse grande. 
Tornò a letto, rovistando nella borsa e recuperando il pigiama. Si cominciò a cambiare lentamente e quando ebbe ripiegato i vestiti, lasciandoli sulla sedia accanto alla porta, Moira s’infilò velocemente sotto alle coperte.
L’ultima domanda che si pose prima di addormentarsi, già intrappolata nel dormiveglia, fu chiedersi come fosse stato Charles Xavier all’età di undici anni.
 
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 

La sveglia dell'hotel segnava le quattro e mezza del mattino. Moira la guardò incredula, stordita dalla luce della stanza, che aveva dimenticato accesa. Si chiese se avesse suonato, prima di capire che il rumore che l’aveva svegliata era di tutt’altra natura. Un bussare insistente alla porta, dei passi strascicati alla porta e la voce agitata di qualcuno che la chiamava.
Ci mise un po’ a focalizzare chi fosse.
“MacTaggert!? MacTaggert? Sei sveglia?” la maniglia si mosse freneticamente su e giù. “MacTaggert!”
“Donovan?” disse Moira con la voce ancora impastata dal sonno. “Sei tu?”
“Sì,  ma adesso apri questa dannata porta, per favore. E‘ importante.”
Donovan ebbe l’accortezza di abbassare un poco il tono di voce, come se si fosse reso conto di trovarsi in un hotel e non in una delle basi protette dove tutti gli agenti erano incoraggiati a stare allerta. Prima di aprirgli, Moira fece alcuni rapidi passi in bagno, aprendo il rubinetto del lavandino e gettandosi un poco d’acqua in faccia cercando, con successo, di svegliarsi. Andò alla porta e diede un giro di chiave, aprendola e trovandosi davanti l’agente Lucas Donovan del Settimo distaccamento, lo stesso che quella mattina li aveva aiutati ed accompagnati sul territorio russo e che era venuto con lei, Charles e Lensherr al Salander. Era stato già compagno di Moira all’Accademia e avevano frequentato alcuni seminari assieme al Federal Bureau. Moira aveva la quasi certezza di chiamarlo amico.
Le era simpatico, nonostante ogni tanto dimostrasse qualche insofferenza nel dover gestire gli elementi esterni all’agenzia o con le rare donne dell’agenzia.
“Che succede?” chiese senza preamboli, ignorando l’occhiata di Donovan al suo pigiama. Non sembrava contento di vederla così. Moira si chiese se Donovan dormisse in uniforme o se per lui tutti gli agenti dovessero seguire una simile regola. Forse solo perché era una donna in pigiama alle quattro del mattino, qualcosa che nella testa di Donovan sembrava risultare inconcepibile.
“La divisione X è stata attaccata. Hanno avvisato da Langley” la guardò fisso. “L’agente Myers è venuto poco fa da Ekerö per riferircelo, visto che le linee dell‘hotel non sono sicure. Fra dieci minuti dobbiamo essere pronti a partire per Uppsala, ci hanno organizzato un volo di rientro rapido per Richmond.”
Moira sbatté educatamente le palpebre, sorpresa. Si ripeté mentalmente il discorso di Donovan, riuscendo a sillabare solo: Attaccata?
Donovan annuì. “Sette ore fa, forse meno, da Shaw e dai suoi accoliti, il Capo Divisione è… ” l’uomo distolse lo sguardo da lei. “ … Morto.”
Moira si portò una mano alla bocca, spalancando gli occhi. “Cosa?”
Donovan fece un verso spazientito, mettendole una mano sulla spalla e lasciandola andare quasi subito. “Moira, per favore, vai a preparati, non c’è tempo. Sono scosso quanto te, ma cerca di ricordarti che sei un’agente. Almeno adesso.”
Le lanciò un’occhiata in tralice. Moira annuì con convinzione, e stava per arretrare nella stanza quando chiese: “I ragazzi? Stanno bene?”
Donovan scosse il capo e Moira temette il peggio, almeno finché lui non si corresse.
“Non abbiamo notizie certe dal dipartimento X. Tutti gli agenti di sorveglianza sono stati uccisi o resi... inoffensivi” disse lui senza guardarlo, come se la parola ‘uccisi’ potesse urtare la sensibilità di Moira. Effettivamente era così, ma non nel senso che intendeva Donovan. “Prima partiamo, prima saremo sul posto. Il signor Xavier?"
Moira si guardò intorno, fra le sue cose nella stanza. “Dammi cinque minuti. Fra dieci saremo tutti nella hall, me ne occupo io.”
Donovan annuì e senza un’altra parola si avviò nel corridoio, il lungo soprabito nero ondeggiante.
Moira lo guardò allontanarsi, prima di riscuotersi e chiudere la porta in fretta. Cominciò a sfilarsi la maglia, lanciandola nella borsa, tirando fuori le scarpe da sotto il letto e recuperando calze e biancheria.
Infilò i vestiti nella borsa, recuperando quelli puliti e vestendosi. Controllò ancora l’ora, ma erano passati solo quattro minuti, tuttavia cercò di velocizzarsi chiudendo le cerniere con degli strattoni. Osservò la stanza, cercando di capire cosa avesse lasciato in giro. Rassicurata indossò la giacca e afferrò la maniglia, ma il contatto con il freddo metallo la riportò dritta al presente. La Divisione X era distrutta.
E ciò che ne sopravviveva, ora sarebbe diventata responsabilità di Charles, perché lui non avrebbe voluto abbandonare tutto, rifletté Moira avviandosi per il corridoio.
 
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
 
 
Erik si mosse nel sonno. Charles lo sentì, svegliandosi, e anche se prima si era addormentato in tutta tranquillità non poté rimettersi subito giù a dormire. Si allungò verso il comodino, cercando nell’oscurità la catenella dell’abat-jour. Non ci mise molto a trovarla; parte della stanza venne illuminata da una bassa luce color arancio, che si riverberava sulle finestre affacciate sulla notte. Charles poté vedere sé stesso riflesso nitidamente, assieme alla schiena di Erik che si era girato verso di lui, gli occhi chiusi e l‘aria di chi sta dormendo fin troppo bene. Era un’espressione strana vista sul suo viso, quasi sempre serio o incupito o scontroso. Ma era bella da vedere.
“Charles” mormorò all’improvviso e Charles arrossì, perché trovarsi Erik che parlava nel sonno facendo il suo nome, era qualcosa che pensava di poter ricordare fino alla fine dei suoi giorni, provando sempre quella morsa allo stomaco che avvertiva ora. Quello strano piacere.
Charles gli accarezzò i capelli, guardando la scena riflessa nella finestra ma poi Erik parlò di nuovo e Charles capì che era sveglio, anche se teneva gli occhi chiusi e la testa posata sul cuscino.
“Te ne stai andando?” chiese piano. Charles si chinò un poco su di lui, tenendosi il capo con il braccio, trattenendo un verso divertito e lanciandogli un’occhiata obliqua che Erik non poteva vedere.
“Devo” rispose Charles. “Però possiamo fare colazione insieme domani. Se vuoi.”
Erik aprì gli occhi, girandosi quel tanto che bastava per vedere il viso di Charles, conteso dalla penombra.
“Insieme a te e a Moira?”  disse accennando un sorriso che non si estese alle iridi.
 “Oh, Erik” Charles alzò gli occhi al cielo, prima di tornare ad osservarlo, serio. “Ho detto insieme e intendevo insieme a te. Non farmi…”
“Fare cosa?”
Charles arrossì violentemente. Il suo viso si chiazzò di un porpora cupo mentre pensava:
Lo sai che non riesco a dire… carinerie.
Erik scoppiò a ridere, girandosi sulla schiena, incrociando le lunghe braccia sul petto e passandosi una mano sugli occhi luccicanti per il divertimento. Charles chiuse la mano a pugno gli diede un colpo leggero sulla spalla. “Niente colazione allora.”
“Ma dai, Charles!” Erik ridendo ancora si tirò su, appoggiandosi con la schiena alla spalliera e facendogli scivolare un braccio attorno alle spalle, invitandolo a mettersi accanto a lui. Charles si mise seduto, la sua schiena contro il suo petto, appoggiando la testa nell’incavo tra la spalla e il collo di Erik, guardando le ombre del soffitto e le strane forme che la luce della lampada disegnava fra queste.
“Sono ancora offeso” disse Charles. “Nel caso ti interessi. Non è corretto mettersi a ridere così. Io ero serio.”
Erik lo accarezzò su una guancia con il dorso delle dita. Non riusciva a non sorridere stando così con Charles, proprio no. “E quando mi hai chiesto di venire a Westchester?”
“Quella era cortesia” rispose prontamente Charles, facendo di nuovo ridere Erik che reclinò la testa all’indietro, passandosi una mano sul viso.
“E il fare colazione con te, in cosa rientra?” gli domandò incuriosito. “Moira a parte.”
“Erik…”
Erik inarcò le sopracciglia. “Sono solo curioso. Prova a parlarne.”
“Era… è una sciocchezza” mormorò Charles sempre più in difficoltà. “Non sono bravo a …”
“Però con Moira ci riesci. Penso che tu ci riesca con tutti” continuò Erik blandendolo, con la voce di chi sta cercando di sviluppare un’argomentazione complessa in modo più semplice e comprensibile. “Ma non con me. Perché?”
“Perché…” Charles girò il viso verso di lui, sfiorandogli il mento, sospirando. “Non ci riesco, Erik, non lo so il perché. Non chiedermelo più…”
“Se ti può aiutare” disse Erik piano. “Sappi che accetterò qualsiasi risposta.”
Charles si passò la lingua sui denti, pensando. Che cosa si aspettava? Era una posizione così difficile, sembrava essersi persino dimenticato di ciò di cui stavano parlando veramente. Perché ad Erik avrebbero dovuto interessare simili inezie? Charles rifletté su quella domanda e all’improvviso, comprese.
Comprese perché parlare con Erik, anche di cose normali fosse così arduo. Come se si sentisse in dovere di dire sempre la cosa più giusta, più intelligente e di dover correggersi quando credeva di aver fatto un’uscita sbagliata, come quella stupida sdolcinata richiesta di far colazione insieme. Perché proprio di quello si trattava, ovvero cercare di essere perfetto, cercare di essere quello che Erik non avrebbe mai rimpianto, ora che le dinamiche tra loro erano di nuovo cambiate. Anche se Charles si stava di nuovo sbagliando.
“E’ davvero meglio che vada adesso” disse ad Erik, staccandosi da lui senza guardarlo in faccia. Posò i piedi sul pavimento di legno, stupendosi di quanto fosse freddo e reprimendo un brivido, recuperò i vestiti, cercando di non guardare in direzione di Erik e di non fare confusione tra i loro abiti. S’infilò in fretta i pantaloni, avvertendo la ormai familiare stretta allo stomaco, sapendo che si sarebbe dovuto allontanare da Erik, di nuovo, seppur per qualche ora, spaventandosi alla prospettiva del tempo che sarebbe dovuto passare prima di avere di nuovo un’occasione come quella, senza troppe complicazioni.
“Charles, resta.”
“Non posso. Non ho voglia di inventare scuse o di rischiare brutte sorprese domani mattina” spiegò allacciandosi la camicia. Due bottoni in cima erano stati strappati. Charles non si sprecò a guardare in giro, non li avrebbe ritrovati. “Ci vedremo comunque domani” gli disse, e finalmente lo guardò sorridendo, con un’espressione gentile.
Girò attorno al letto, sedendosi sul lato di Erik e mettendosi il più possibile vicino a lui inclinando il capo e avvicinandosi per baciarlo. Prima che potesse farlo però, Erik gli mise una mano sulla mascella, bloccandolo.
“Oggi mi sono fermato perché tu me l’hai chiesto, Charles” disse con voce bassa, guardandolo dritto negli occhi. “Le avrei fatto del male, molto di più in effetti. Ma poi..."
Erik sospirò lentamente, continuando: "Ma poi ti ho sentito nella mia testa e lei… Lei non era più così importante.”
Charles mise la sua mano sopra quella di Erik, abbassandogliela. Poi, si sporse verso di lui, prendendogli il viso tra le mani, e baciandolo, cosa che Erik ricambiò di buon grado. Charles sentiva che sarebbe rimasto lì tutto il resto della mattina se non si fosse mosso subito, sarebbe rimasto lì con Erik, a spiegargli quanto fosse felice di quello che gli aveva appena detto, a cercare di spiegare quello che lui stesso aveva compreso chiaramente solo pochi momenti prima. Ma non poteva.
Si scostò un poco da lui, abbassando il capo in segno di scusa. “Devo davvero andare.”
Erik annuì, sospirando in segno di resa. “Lo so, Charles. Buonanotte.”
“Lo è stata” disse Charles alzandosi e guardandolo un’ultima volta, aggiustandosi il colletto della giacca. Erik si era di nuovo steso sul letto, gli occhi chiusi, i capelli scompigliati.
Buonanotte Erik. 
Charles rimase giusto il tempo di vederlo sorridere, poi frugandosi nella tasca della giacca, strinse le chiavi della sua stanza tra le dita, abbassando la maniglia ed uscendo nel corridoio. Richiuse la porta dietro di sé, cercando di fare il meno rumore possibile.
Charles si avviò verso la sua camera, proprio in fondo al corridoio. Era stato davvero bravo, ma non sarebbe andato a raccontarlo subito ad Erik. Ora che erano di nuovo… così. Charles pensò a quali parole avrebbe dovuto usare per spiegargli che era entrato nella mente del concierge del Salander Hotel per farsi assegnare due camere vicine, pur di sapere dove avrebbe potuto trovarlo. Era stato così infantile, ma Charles era troppo felice adesso, per pentirsene. Sapeva che quello che era accaduto era capitato, non voluto, eppure non riusciva a non trattenere un moto di soddisfazione nel sapere di essere riuscito a dare un piccolo aiuto allo svolgersi degli eventi.
Poteva stare con Erik. Avrebbero trovato un modo, sarebbe riuscito a far funzionare tutto.
Non era stata una sciocca follia passeggera; quello che aveva spinto Charles nel viaggio a Sud era stato qualcosa di vero.
Sarebbe riuscito a sopportare qualsiasi cosa adesso. Si sentiva forte e capace, perché Erik era con lui. 
Arrivò davanti alla porta della 533, tirando fuori la chiave. Si accorse di stare tremando leggermente e di avere un’inspiegabile espressione felice che si rifletteva sul legno laccato della porta. Non aveva voglia di dormire da solo realizzò. Avrebbe potuto rischiare… Improvvisamente, l’immagine di lui ed Erik intenti a fare colazione sempre non sembrava più tanto sciocca. Solo… piacevole. Qualcosa che avrebbe voluto fare con lui, davvero.
Charles strinse le chiavi nel pugno, dopo averle lanciate un momento in aria.
Stava per tornare sui suoi passi, nella camera di Erik, quando si accorse che c’era una figura intenta a guardare nella sua direzione, vicino agli ingressi agli ascensori. Era Moira.
Charles si chiese da quanto fosse lì. Non l’aveva nemmeno sentita, né per rumore né nei suoi pensieri. Si accorse di stare anche sudando freddo, alla vista dell’espressione seria e contrita che le adombrava il viso.
L’aveva forse visto uscire dalla camera da Erik? E se era così, cosa aveva pensato?
Cominciò ad andare verso di lei, facendole un cenno con la mano che lei non ricambiò. Appariva davvero molto scossa e Charles nonostante li separassero pochi passi, non aveva voglia di affrontare la situazione impreparato. Aveva detto a Moira di sentirsi sempre un intruso.
Ma se leggere nella mente equivaleva al prezzo di farsi chiamare così, Charles non ci poteva fare niente.
Non voleva che Moira sapesse di lui ed Erik. Non sarebbe stato… corretto? L’avrebbe solo giudicato…
Si sfiorò lentamente la tempia in un gesto distratto e quando si ritrovò a scivolare nei pensieri lineari quanto angosciati di Moira, comprese che non ci sarebbe stato nessun risveglio insieme ad Erik, perché tutto ora sembrava solo perduto. Charles si sentì vacillare, sentendo il senso di colpa prendere forma dentro di lui, come se quelle poche ore fossero diventate il prezzo che qualcuno poteva aver pagato con la vita, ritrovandosi a domandarsi se ne fosse valsa la pena.


Continua...



Momento Autore -Exelle
‘Giorno a coloro che leggono. Dunque, non ho particolari delucidazioni in merito a questa terza parte, se non il fatto che sì, ho dirottato il viaggio di rientro su Stoccolma perché era da un po’ che volevo omaggiare la trilogia Millenium di Stieg Larsson. Se l’avete letta, non credo vi sfuggirà il nome dell’hotel e la scena in cui Erik vede Charles e Moira uscire dall’hotel. Il nome del drink che beve Moira è tratto dal videogioco Syberia, del 2002. Vorrei darvi gli ingredienti, ma non me li ricordo!
So che tutti i fan di C&E odiano Moira, me non esclusa, però ho trovato stranamente piacevole scrivere anche di lei. Certo, porta un po’ via lo spazio che potrei dedicare a loro ma considerando che presto mi metterò al lavoro sulla quarta parte è un sacrificio che sono disposta a correre.
Credo che questa terza parte sia anche diversa dalle precedenti perché ha la funzione di fare da ponte con quello che verrà dopo, cominciando a risolvere i parziali problemi di Charles col suo essere… Confuso. Oh, bè, potevo evitare la scena dello strangolamento con i tiranti della tenda. A posteriori mi sembra troppo melò.
Non è una delle mie migliori FF, ma spero che vi sia piaciuta quanto le prime 2 parti. Come al solito, ringrazio tutti coloro che mi hanno scritto o recensito. E’ sempre un vero piacere!
Alla prossima, 
Exelle
  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > X-men (film) / Vai alla pagina dell'autore: Exelle