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Autore: Laura del Sordo    21/08/2011    3 recensioni
La vita eterna ha un senso?
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Delia era sempre la prima ad arrivare, da sempre, con quel suo nome un po’ desueto e la gonna a ruota e le ballerine rosa cipria e quei calzini corti, candidi.
 
La precedeva un vago sentore di “L’air du Temp” ed ogni volta che finalmente anche io mi univo alla compagnia, sempre in ritardo, lei era lì’, seduta silenziosamente su quel masso liscio lievemente rientrato rispetto alla strada, che costituiva un riferimento per tutti noi.
 
La seguiva quasi sempre dopo pochi minuti Matteo, il timido Matteo, coi suoi jeans strappati e la sua felpa oversize e quel sorriso un po’ sghembo, forse dovuto all’imbarazzo, quell’imbarazzo che il ragazzo cercava di dissimulare rendendosi un ottimo ascoltatore.
 
Era con noi da poco ed ancora non si era abituato a quella compagnia un po’ eterogenea, anomala, così fuori dagli schemi fra i quali lui aveva sempre scelto i suoi amici.
 
Poi, ecco Giuseppe e Lisetta.
 
Lui col suo elegante cappello, anche in Estate, il suo completo in shantung di seta. Lei vestita sobriamente, ma con ricercata accuratezza.
Le perle, i guantini di capretto, la gonna al ginocchio, le calze chiare, quasi bianche.
 
Lisetta era un po’ la nonna di tutti noi, dispensava buoni consigli, come se noi potessimo davvero ancora seguirli, mentre Giuseppe si limitava a scuotere la testa ed a fumare quelle sue sigarette che forse nemmeno si trovavano più in commercio e per le quali finalmente la moglie non aveva più bisogno di rimproverarlo.
 
Poi c’eravamo io e Patrizia.
 
Patrizia, con i suoi occhioni verdi ed i suoi riccioli mechati, i cerchi d’oro ai lobi, l’ombretto dorato sulle palpebre, i pantaloni aderenti e quelle orribili scarpe di legno e di pelle, una sorta di rivisitazione degli zoccoli olandesi degli anni ’70.
 
Patrizia sorridente e che sbagliava i verbi, Patrizia che aveva frequentato una scuola per il turismo, ma in inglese non sapeva chiedere nemmeno che ora fosse.
 
Ed infine, Luca e Ludovica, due bambini, 7 anni lui e 9 lei.
 
Luca arrivava sempre col suo piccolo casco da motociclista sotto il braccio, mentre lei non si staccava mai da una Barbie un po’ arruffata, ma vestita con cura, dalla camicetta scozzese alle minuscole scarpette rosse.
 
Era una signorina molto a modo, che spesso redarguiva il fratellino con modi affettati da piccola adulta.
 
Entrambi i bambini erano educati, si vedeva che provenivano da una famiglia come si deve e nonna Lisetta li adorava, come d’altronde facevamo tutti noi.
 
Ci incontravamo una volta l’anno, sempre in quel posto, in Estate.
 
Le serate estive sono belle, ti fanno venire voglia di vivere e sembrano non finire mai, od iniziare sempre, e per questo motivo avevamo scelto luglio come mese per i nostri incontri.
 
La cosa era cominciata, così come avviene spesso, per caso.
 
Ci eravamo ritrovati a vagare in quel posto, ma nessuno si rivolgeva all’altro per paura di essere frainteso, di spaventarlo, di creare sospetto o timore.
 
Ci limitavamo a studiarci da lontano, fingendo indifferenza, ma non perdendo un movimento dell’altro.
 
Furono Luca e Ludovica, in un certo senso, a farci conoscere.
 
O riconoscere.
 
Due bambini sul ciglio della strada che piangono non possono non attirare l’attenzione, e Luca piangeva a dirotto, mentre Ludovica cercava goffamente di consolarlo, forse imitando i gesti rassicuranti della loro mamma.
 
Quando vidi Lisetta che si avvicinava e che mormorava qualche parola in un borbottio rassicurante, mi feci coraggio, e mi avvicinai anche io.
 
“Ci siamo persi”, disse Ludovica, cercando di trattenere le lacrime. “Eravamo con la mamma ed il papà ed all’improvviso non li abbiamo più visti e ci siamo ritrovati qui, da soli, al buio”.
 
Il dolore della piccola era evidente, ma ancora più evidente era la confusione dei due bambini.
 
Da adulti e’ diverso, quando accade. Ci si rende quasi immediatamente conto che tutto e’ cambiato, e lo sgomento lascia quasi subito il passo alle domande, alla curiosità, allo stupore, ai goffi tentativi di capire.
 
Lisetta aveva gli occhi lucidi. Io mi avvicinai lentamente a loro e Giuseppe mi accolse con un “Anche tu…?”, a seguito del quale mi limitai ad annuire seriamente, perso in ricordi e considerazioni su ciò che era, e che era stato, per poi tornare all’urgenza che avevamo davanti.
 
In quel momento, Delia era uscita fuori da dietro uno degli enormi cespugli che costituivano il confine naturale fra la strada e l’enorme distesa verde che lussureggiava alle loro spalle.
 
L’avevamo guardata a bocca aperta: con la sua gonna a ruota, i calzini, le ballerine, i boccoli biondo platino e la bocca rossa, sembrava uscita da uno di quei film dove Elvis Presley aveva il ruolo di un militare che partiva per il fronte, lasciando una scia di ragazze innamorate e piangenti.
 
Più tardi ci disse che ci aveva visti e riconosciuti tutti, ma che non aveva mai avuto il coraggio di uscire allo scoperto, convinta che tutti l’avremmo guardata come si guarda una visione uscita da un altro mondo. Era li’ da tanto, era stata fra i primi a trovarsi su quel ciglio di strada, confusa e smarrita. E sola.
 
Quella piccola riunione l’aveva finalmente convinta ed era stanca di nascondersi.
 
Anche Patrizia, benché di sicuro meno appariscente, aveva riflettuto parecchio sull’opportunità di farsi vedere. Sapeva di essere una ragazza dall’aspetto gradevole, ma la sua supposta “modernità”, quella di cui era stata così orgogliosa, rendeva evidente ormai che, per quanto il suo abbigliamento fosse all’ultima moda, quella moda era passata da un pezzo.
 
Matteo rimaneva il più confuso di tutti. Aveva la simpatica goffaggine dell’adolescenza che e’ quasi età adulta e quell’aria di essere lì solo per caso. Sorrideva ed ascoltava, ed a volte non capiva, così come noi non capivamo il suo gergo giovanile scomposto e lievemente ridicolo.
 
Si era unito silenziosamente a noi, senza raccontare molto di sé. Non che ci fosse molto, da raccontare. Tutti noi sapevamo perché eravamo lì.
 
Cercavamo comunque ognuno a suo modo, di stemperare quel senso di angoscia trasformandolo in attesa, un attesa che già sapevamo inutile, troppo piena com’era di desideri, nostalgia, ricordi e senso di ineluttabilità.
 
Tuttavia quelle serate erano piacevoli..
 
I bambini giocavano e discutevano fra loro, Patrizia sorrideva con quel suo incisivo un po’ scheggiato, Matteo ci faceva ridere con i suoi commenti che quasi nessuno di noi capiva, Delia si atteggiava a Marilyn Monroe ostentando un suo senso dell’umorismo, mentre Giuseppe e Lisetta ci guardavano come nonni benevoli ed orgogliosi di quella progenie un po’ stramba e fuori da ogni immaginazione.
 
Io ero l’organizzatore dell’evento che ogni anno ci vedeva insieme.
 
Ognuno di noi in realtà si occupava di un aspetto.
 
Lisetta portava la tovaglia che era stata di sua nonna, Matteo si presentava con tonnellate di Coca Cola e si esibiva in elaborate tartine, Patrizia raccontava favole ai due piccoli, Giuseppe distribuiva sigarette sotto lo sguardo di finto rimprovero della moglie, mentre io mi occupavo della musica.
 
Delia voleva solo Pat Boone e la sua “Love letters in the sand”, Patrizia non poteva immaginare il nostro ritrovo senza gli Imagination, per Lisetta e Giuseppe Glenn Miller era irrinunciabile, mentre i bambini mettevano il muso se Cristina D’Avena non era con noi, e Matteo ogni tanto, quando gli altri erano distratti, ne approfittava per mettere su Eminem e le sue nenie rap.
 
Si finiva sempre per discutere, ma negli ultimi anni Matteo ed io ci eravamo organizzati e, complici le nuove tecnologie, eravamo riusciti a mixare decentemente un po’ tutti gli stili, dando vita ad un compilation che definivamo, non senza una certa ironia, “dell’altro mondo”.
 
Nel corso degli anni, eravamo disinvoltamente passati dal grammofono al mangiadischi, per poi transitare sul vinile, e finire ai CD ed ancora agli MP3.
 
Ed, alla fine, con qualche immancabile brontolio, tutti erano soddisfatti.
 
Bevevamo tutti, bevevamo troppo, avevamo forse sempre troppo bevuto…
 
Capivamo di aver quasi raggiunto il limite quando Lisetta cominciava a fare la smorfiosa con Giuseppe, che la riempiva di antiquati complimenti come quando erano giovani, secoli prima, mentre Matteo sorrideva imbarazzato dopo essersi tirato la Coca Cola addosso e Patrizia, asciugandosi le lacrime, ansimava un “sono morta dal ridereeeeee!”, che le causava nuovi, chiassosi, accessi di risa..
 
Come spesso accadeva, il dopo sbornia era triste e malinconico.
 
Finivamo distesi in terra, con un braccio appoggiato sul masso liscio, ostentando un equilibrio ed una lucidità che eravamo ben lungi dal provare tutti quanti.
 
I bambini sbuffavano, li irritavano sempre quegli adulti che prima ridevano come pazzi e poi lentamente precipitavano in un silenzio teso, innaturale, triste.
 
Quegli adulti un po’ strani che volevano fare i bambini, ed invece poi si ritrovavano immancabilmente adulti, gli adulti che erano stati.
 
Quella vita mi aveva sorpreso mentre rientravo dal lavoro.
 
Indossavo giacca e cravatta, ma personal computer e cellulare erano due novità che solo Matteo era riuscito a mostrarmi, descrivendomene il funzionamento, mentre io lo fissavo allibito ed incredulo.
 
D’altronde, nel 1983 non erano ancora così diffusi e mi era difficile immaginare un lavoro dove non ci fosse il telex e dove invece un documento poteva essere trasmesso da un macchina all’altra nel giro di pochi secondi.
 
Delia era curiosissima riguardo alla tecnologia, i bambini volevano vedere i cartoni animati al computer, mentre Giuseppe e Lisetta erano scettici e forse anche un tantino intimoriti.
 
In questo senso, Matteo ne sapeva più di tutti noi.
 
D’altronde, era morto da poco. Era un pivello, no?
 
Delia era lì dal 2 aprile 1956, giorno in cui era caduta dalla Lambretta del suo fidanzato mentre tentava di allacciarsi il foulard.
 
Giuseppe e Lisetta erano morti schiantandosi con un albero nel gennaio del 1960, con la loro Fiat 600, per evitare un cane.
 
Patrizia era stata falciata da un’auto nel gennaio del 1988, mentre tentava di capire come cambiare una gomma.
 
I due piccoli avevano perso la vita in un frontale, nel 1990, lasciando due genitori distrutti dai rimorsi, perche’ durante quella serata con gli amici avevano davvero bevuto troppo, e la loro Lancia Delta, procendo a zig zag, era finita a 180 all’ora contro un’altra auto che procedeva in senso contrario, e si erano trovati sbalzati fuori dall’abitacolo.
 
Matteo guidava la sua Golf, regalo del padre per i suoi 18 anni, ed era morto in un fossato dopo aver ascoltato l’ultimo CD di Eminem a volume assordante, i sensi distorti dalla pasticca di Ecstasy che aveva assunto poco prima con un bel po’ di bourbon.
 
Ed io? Beh, anche io avevo bevuto troppo. C’e’ forse altro da aggiungere?
 
La serata finiva con noi nostalgici, ad eccezione dei due piccoli, che avrebbero avuto quell’aria sperduta e bambina per sempre.
 
Ed, ancora, con noi a chiedersi per quanto tempo ancora, se parlare di tempo aveva un senso, saremmo tornati lì.
 
Con noi a tenerci per mano, a camminare sul ciglio di quella maledetta strada, per raggiungere le nostre lapidi, e liberarle un ad una dalle erbacce, ripulirle da smog e terra e raddrizzare quelle che il vento aveva piegato di lato, il che dava loro un’aria ancora più lugubre.
 
Con noi a fare a gara a chi era più bravo a prendere in giro l’altro sull’abbigliamento con il quale era morto, o a chiedersi se Delia, pur avendo solo 19 anni quando era morta, fosse la più vecchia di tutti noi, Giuseppe e Lisetta compresi.
 
Con noi a chiederci perché per chi e’ ancora vivo, la vita eterna, quella vita eterna che tutti vedono come un premio alle sofferenze di questa terra, abbia, se lo ha davvero, un senso. 

  
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