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Autore: luxuryloser    27/08/2011    3 recensioni
Quando ti ritrovi, a 2 settimane dall'inizio della scuola, con metà dei compiti ancora da fare, dovresti passare tutto il giorno immersa nella matematica e nel latino.
Ma all'ispirazione non si comanda, quindi eccomi qui con una shot drammatica, genere per me quasi nuovo.
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Sophie vive ad Amsterdam, in una villa dei quartieri alti che nasconde segreti che una bambina di otto anni non può capire, e a cui una ragazza di sedici anni vorrebbe scappare, ma vi è imprigionata.
Sophie cresce tra questi segreti, tanto da diventarne parte.
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A voi, su un piatto d'argento.
Genere: Erotico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Piume e lustrini.

Amsterdam - 2003

Era tardi, l'ora di andare a dormire era passata da un pezzo, ma non riuscivo ad addormentarmi.
Fossi stata una bambina normale, sarei entrata di soppiatto in camera dei miei genitori e mi sarei intrufolata nel lettone, per addormentarmi in mezzo a loro.
Ma non ero una bambina normale, e i genitori non li avevo.
Insomma, una delle donne strane con cui vivevo era sicuramente mia madre, ma nessuno mi aveva mai detto chi, e avevo imparato a smettere di chiederlo.
Per quanto riguarda la figura paterna, non avevo la minima idea di chi fosse mio padre, anche se ogni tanto veniva qui un uomo grande e grosso, che aveva sempre in bocca un bastoncino dallo strano odore. Mi avevano detto che era un sigaro.
Non mi piaceva.
Né il sigaro, con quella puzza che mi faceva tossire, né tanto meno il signor Folken -si chiamava così-.
Avevo iniziato a nascondermi da lui pochi mesi prima, quando l'avevo sentito riferirsi a me come "carne fresca", qualunque cosa volesse dire.

Per quanto vivessi in quella casa da sempre, non l'avevo mai vista tutta: io abitavo nella zona nord, piena di spifferi, e dormivo in una stanzetta spoglia insieme a centinaia di vestiti strani, che non avevo mai visto addosso ad altri che alle giovani donne che vivevano qui.
C'erano piume e lustrini ovunque, in quella stanzetta.
Il resto della villa, l'ala sud, era un mistero per me. Avevo provato ad entrarci, una volta, ma non ci ero riuscita.

C'era della musica che filtrava da quella porta sempre chiusa. Mi piaceva la musica, la associavo alle belle feste piene di dolcetti e palloncini.
Chissà, forse di là da quella porta c'era una festa.
La spalancai, e la musica divenne più forte.
L'ala sud era bella, tutta colorata, scintillante; dove vivevo io, era tutto buio e freddo.
C'era un corridoio lungo lungo, con tante porte chiuse, e oltre alla musica sentii dei rumori strani.
"Che ci fai qui, mostriciattolo?" la voce del signor Folken mi fece trasalire, e mi voltai di scatto.
"Volevo... Volevo sentire la musica, signore." risposi, tremante. Il signor Folken mi faceva paura.
"Ti era stato detto di non venire mai qui."
"Ma cosa ho fatto di male?" Lo schiaffo arrivò forte, inaspettato, doloroso. Il primo che avessi mai ricevuto, primo di molti.
"Torna in camera tua, e non uscirne."
Obbedii alla sua voce ringhiante, al suo sguardo incandescente.
Non uscii da camera mia.
Chiusa a chiave, dall'esterno.
Per tre giorni.
Senza mangiare.

Ora, la porta era aperta, e sapevo che il signor Folken non c'era. Era l'occasione giusta per scoprire cosa fosse nascosto dietro quella porta di legno lucido, dietro quelle piume e quei lustrini.
La musica, ora, non c'era.
Quei rumori strani erano l'unica cosa che sentivo.
Respiri affannosi, vocali urlate, "Sì" ripetuti.
Non sapevo, a otto anni, cosa significassero.
La porta chiusa più vicina aveva una targhetta d'ottone con inciso il numero 26.
I rumori provenivano anche da lì.
"Aaaah!" sentii gridare. E se qualcuno si fosse fatto male?
Aprii la porta, appena una fessura.
Scorsi un grande letto a baldacchino, con le lenzuola rosso fuoco. Sopra, c'era la più giovane delle ragazze che vivevano con me, Julia.
Aveva da poco compiuto sedici anni.
Era lei che aveva urlato ma, a giudicare dal sorriso sulla sua faccia, non era stato per il dolore.
La porta si aprì di qualche altro centimetro, rivelando il corpo nudo di un uomo sui cinquant'anni, sdraiato sopra Julia, anche lei senza alcun vestito addosso.
Non si accorsero di me -nessuno sembrava notarmi in quella casa, se non per rimproverarmi, o picchiarmi-, ma capii che dovevo andarmene.

Un paio d'anni più tardi, iniziai a comprendere quello che succedea nella zona sud.
Quella notte, quando mi ero intrufolata di nascosto nella stanza numero 26, avevo scoperto il sesso.
E, a quanto avevo potuto vedere, non mi piaceva per niente.

Amsterdam - 2011

Qualche anno fa, avevo scoperto che Villa Anastasia, la bellissima -solo dal'esterno- casa dei quartieri alti in cui vivevo praticamente rinchiusa, non era una casa normale.
Qui vivevano solo donne, oltre al signor Folken, donne che usavano vestiti strani e, spesso, non ne usavano affatto.
Ogni giorno, ogni notte, uomini diversi entravano dalla porta sul retro, e incontravano le donne in quelle stanze numerate della zona sud.
Una di quelle donne era mia madre.
Uno di quegli uomini era mio padre.

Avevo vissuto per più di quindici anni in una casa chiusa d'alto bordo, senza esserne al corrente.
Non avevo amici, studiavo per corrispondenza, facevo compere su internet.
Prigioniera in una gabbia di piume e lustrini.

Oggi era il mio compleanno, il mio sedicesimo compleanno.
Le ragazze normali facevano feste esagerate, bevendo i loro primi alcolici, ricevendo regali dai loro amici più cari.
Ma io non ero una ragazza normale.
Ero una ragazza nata e cresciuta in un bordello.
E qui, a sedici anni, si dà inizio alla propria carriera.

Mei, una delle ragazze di Villa Anastasia, mi aiutò ad entrare in quello che lei definiva vestito e io, abituata a jeans e felpe larghe e confortevoli, "strumento di tortura delle dimensioni di un fazzoletto", e mi allacciò i sandali dal tacco vertiginoso.
"Non so camminare su questi affari." tentai di protestare.
"Impari."

Non potevo scappare -ci avevo provato mille volte, ma ero stata sempre fermata, picchiata, chiusa nella mia stanzetta senza cibo né acqua- né rifiutarmi, l'avevo capito da un po'.
Avrebbe fatto male, mi avevano detto.
Ma ormai ero abituata al dolore.
E, poi, avevo forse scelta?

La mia stanza era la numero 26, la stessa in cui otto anni fa avevo visto Julia con uno di quegli uomini.
Avrei dovuto fingere, mi avevano detto. Come aveva finto Julia, come aveva finto mia madre, come avevo finto io per tutta la vita.
Finto che non mi interessasse sapere chi fossero i miei genitori, finto di essere felice di stare sempre da sola, finto di non rompermi sotto la furia degli schiaffi, finto di poter vivere senza mangiare, finto di non odiare questo inferno, finto di non esistere.
Finto di essere normale.

"Buon compleanno, Sophie." sussurrai alla figura irriconoscibile che mi guardava dalla enorme specchiera sulla parete.
Spensi in un soffio una delle infinite candele profumate della stanza, ricacciai indietro le lacrime che avrebbero rovinato il pesante trucco intorno agli occhi, resi cerulei dalle lenti a contatto.
Mi sedetti sul letto, sprofondando tra i cuscini di morbido velluto.
Avrei voluto fermare il tempo, rimanere immobile in quell'attimo prima che la porta si aprisse, ma non potevo.
Potevo solo alzarmi e sorridere falsamente all'uomo che era appena entrato.
Il volto era in ombra, ma lo riconobbi comunque dal rumore dei suoi passi pesanti sulla moquette e dall'odore acre del suo sigaro che mi fece, ancora una volta, tossire.

"Spogliati." ordinò e, mentre scioglievo lentamente i ganci del mio "vestito", lui fece cadere a terra i propri abiti, per poi sdraiarsi sul letto.
Ora indossavo soltanto quei sandali vertiginosi e due gocce di appropriato profumo di Playboy e lui, saltando a piè pari i preliminari, mi tirò a sé e, in pochi secondi, si preparò a fare ciò che più temevo.
"Buon compleanno, Sophie." mi disse in un sussurro soffocato.
Poi, le piume e i lustrini che mi circondavano non poterono coprire il dolore.


  
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