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Autore: GreenNightmare    29/08/2011    3 recensioni
[EMILY'S ARMY]
Dedicata al punk rock,
Dedicata a tutti gli emarginati,
agli alienati di una generazione,
a quelli che la musica la sentono nel sangue,
a quelli che vengono guardati storto quando passano per la strada.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Novembre, un’altra mattinata di pioggia.
La ragazza in questione, la protagonista della storia, una semplice comparsa nella vita di tutti i giorni, stava scendendo dall’autobus ben due fermate prima di quanto avrebbe dovuto. Perché? Perché le andava e basta.
Anche se pioveva. Anche se non aveva l’ombrello, perché lei li odiava gli ombrelli. Anche se addosso aveva solo una maglietta a maniche corte e una felpa di quelle con la zip e il cappuccio, nera con una fila di borchie sulle tasche, e si stava fottendo di freddo.
Le andava e basta.
Camminava lentamente, il cappuccio tirato sulla testa da cui sfuggiva una ciocca di capelli verdi – sì, verdi, signori miei – e l’iPod nelle orecchie e pensava che avrebbe dovuto essere eccitata, emozionata, insomma, il sogno di una vita – ok, magari di una vita no, ma come minimo degli ultimi quattro mesi – si sarebbe avverato proprio quel pomeriggio tardi. Proprio a cinquanta metri di distanza. Proprio nella piazza dove si stava dirigendo.
Non è eccitante tutto questo?
Eppure si sentiva strana, insofferente, quasi apatica.
Calpestò con un piede uno dei tanti volantini ignorati dalla maggior parte degli abitanti di quella sporca città di morti. Ritraeva quattro volti noti e la scritta sopra riportava parole di cui solo pochi eletti potevano comprendere l’enorme significato.
“EMILY’S ARMY – IN ESCLUSIVA, IL 5 NOVEMBRE ORE 19:00, IN PIAZZA VITTORIA!”
Nessuno sapeva chi fossero gli Emily’s Army, e la protagonista in questione – chiamiamola proprio Emily, ché il suo nome non è poi così importante – lo sapeva bene che a quel concerto i fan sarebbero stati non più di cinque, se erano fortunati e i restanti quindici partecipanti sarebbero stati semplici appassionati di musica pop punk che non avevano mai sentito nominare quel gruppo composto da quattro ragazzini poco più che quindicenni provenienti da – Ha! – Berkeley, vicino a San Francisco, California, e non poteva far altro che scuotere la testa alle espressioni inebetite dei suoi soliti compagni di merende e serate un po’ più etiliche quando la vedevano incollarsi quel volantino sul diario e scriversi le parole Don’t Be A Dick sulle scarpe.
Sulle note di Broadcast This arrivò proprio in Piazza Vittoria, dove tutti gli studenti dai quattordici ai diciannove anni se ne stavano lì radunati e parevano un esercito di robot pronti a una battaglia di cui non gli importava niente, ché la sola cosa importante era uscire da scuola sani e salvi per poi passare il pomeriggio in centro a cercare di rimorchiare quelle fighette che se la tirano/quei fighetti che se la tirano, passare da Brandy a comprare un nuovo vestito per la festa in discoteca di sabato, andare a bere qualcosa al Chiosco per fare vedere a tutti – a tutti quelli che contano, sia chiaro – quanto erano fighi e omologati con la felpa della Lobster e la Freitag fatta con i copertoni dei camion che costava un occhio alla testa. E pensare che Emily alcuni di quei pagliacci là li considerava persino suoi amici, o perlomeno compagni con cui passare il tempo, ché lei era sola e diversa e non le andava di venire alienata, così – perdonatela – ogni tanto si abbassava a fare due banali chiacchiere con quella gente, tanto per non rimanere completamente sola. Ad alcuni di loro voleva perfino un gran bene. E alcuni di loro gliene volevano, maddai.
Quella mattina però la sua attenzione venne subito attirata dall’enorme palco coperto al centro della piazza, cosicché – Oh oh – neanche la Fredda Pioggia Di Novembre avrebbe potuto impedire a quei quattro spappolati di suonare, come invero era accaduto al padre di uno di loro poco più di un anno prima (il ricordo faceva ancora tremare Emily di rabbia e delusione). Ma ancora più del palco già quasi pronto, a fermare il respiro di Emily era chi lo stava occupando in quel momento, ché non aveva mai immaginato che quei quattro sbarbi avrebbero potuto essere già alle sette e trentadue del mattino, strumenti in mano, a fare prove e suonare cover senza che nessuno badasse a loro, ignorandoli completamente.
La vita sembrava continuare come sempre, eppure gli Emily’s Army erano proprio e stavano suonando le cover di alcune canzoni di Americana degli Offspring (se l’avesse saputo il padre di uno di loro!) e Emily non riusciva a rendersi conto del perché a nessuno importasse quando lei stava per avere una specie di attacco di panico misto a ictus misto a infarto con una gradevole spolverata di aneurisma.
Suonavano, invero, Pretty Fly (for a white guy) e Emily sentì che tutta l’indifferenza, l’apatia, l’indolenza, venivano spazzate via in un attimo grazie a quella voce e a quegli strumenti, e man mano che si avvicinava, - eccola, ora si metteva a correre, ora pestava una pozzanghera sporcando i vestiti firmati di una sbarba qualunque – poteva vederli, tutti e quattro, Cole, Max, Travis e Joey, uguali uguali alle fotografie che cercava su internet, tutti concentrati sui loro strumenti, a quanto pareva incuranti dell’indifferenza che li circondava, ché non si erano accorti di quella ragazzina con i capelli verdi che correva finché non se la ritrovarono proprio nello spazio vuoto sotto il palco – la massa di studenti era tutta radunata sul lato destro della piazza, sotto i portici, ché non avevano intenzione di bagnarsi la Freitag,  loro – ed era lì, sola in mezzo alla piazza a guardare con tanto d’occhi quel quartetto di mentecatti, quando loro smisero di suonare Pretty Fly e cominciarono con The Kids Aren’t Alright, che, loro non potevano saperlo – nessuno poteva saperlo – era la canzone di Emily, come dire, la sua preferita in assoluto tra tutte quelle che avesse mai ascoltato, si insomma la sua canzone.
Emily non poteva non reagire: lasciò cadere per terra la tracolla nera con la scritta Sex Pistols ricamata in giallo regalatole da sua cugina per il suo sedicesimo compleanno, e, senza pensarci, senza averlo programmato prima, senza paura, cominciò a fare qualcosa che il gregge rannicchiato sotto i portici avrebbe mai potuto prevedere o imitare.
Cominciò a ballare.
Certo, era uno strano ballo, il suo, completamente fuori tempo, fatto di salti sul posto e di movimenti con le braccia e i capelli verdi già quasi fradici che saltavano e ricadevano sul suo viso assorto, e poi girotondi e movimenti apparentemente senza senso, senza ritmo.
E ballava da sola.
Ciò che quel branco di conformisti non poteva sapere, era che quello non era un ballo, era pogo. Un pogo solitario e intenso per chi una canzone la sente davvero dentro, per chi un gruppo lo ama davvero, per chi se ne fotte di quello che può pensare un gregge di omologati terrorizzati da un po’ di pioggia, per chi i capelli se li tinge di verde anche se ma tesoro, così i capelli ti diventano paglia, per chi ai capi firmati da qualche stilista preferisce la maglietta di qualche band comprata nel negozio di dischi di fiducia, cose che quella gente terrorizzata dalla diversità non avrebbe mai potuto capire.
Emily pogava, e basta.
E gli Emily’s Army suonavano, e basta.
E Emily se ne fotteva di quello che stavano pensando quei pagliacci rintanati sotto i portici (ma cosa fa quella lì, ma è fuori di testa oddio che sfigata ma ti giuro cioè non è neanche a tempo e balla da sola che poi quello non è neanche un ballo e poi quella non è musica è rumore), pogava, muoveva i pugni e saltava, agitava la testa e i quattro sul palco la guardavano allibiti e anche un po’ orgogliosi, e Joey, alla batteria, fu il primo a sorridere a quella ragazza un po’ stramba che pogava da sola in mezzo a una piazza gremita di gente senza curarsi di ciò che gli altri pensavano, senza paura, e pensò che avrebbe voluto conoscerla una così e che probabilmente se ne sarebbe innamorato se non avessero dovuto ripartire la mattina dopo per un’altra cittadina sconosciuta del north of Italy.
Nobody likes you everyone left you they’re all out without you having fun. Così dicono i Green Day.
Sarà. Ma in quel momento non importava. Non importava di niente, non c’era niente, se non l’amore per la musica, quella vera, quella che ti pompa nelle vene e che ti mantiene vivo. Quella per cui saresti disposto anche a ballare da solo, sotto la pioggia, in una piazza gremita di gente. 

  
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