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Autore: Remedios la Bella    30/08/2011    2 recensioni
Un ragazzo tedesco che tollera gli ebrei e trova misera la loro condizione. Max.
Una ragazza Ebrea dallo sguardo vuoto e dal passato e presente tormentati e angustiati. Deborah.
Due nomi, un'unica storia. 15674 è solo il numero sul braccio di lei, ma diverrà il simbolo di questa storia.
In un'epoca di odio, nasce l'amore.
E si spera che quest'amore rimanga intatto per lungo tempo, e sradichi i pregiudizi.
Enjoy!
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 18
 
Chissà come, forse era stata la mia mente a svegliarmi. O forse la consapevolezza di non poterla mai più rivedere. Fatto sta che mi svegliai all’alba, e istintivamente corsi alla finestra, quasi inciampando dalla fretta. Come pensavo; lei era lì, vicino alla portiera della macchina, e guardava verso di me, con quei suoi occhi sconsolati e tristi.
Non potevo credere che davvero il bacio di quella notte sarebbe stato l’ultimo; mi venivano quasi le lacrime, ma dovevo resistere. Per darle coraggio anche da quella distanza, per non darle l’impressione che io non potessi vivere senza di lei. Infatti, non immaginavo un futuro dove la sua presenza manca, mi mancava davvero, anche se in quel momento la potevo vedere prima dell’ultimo viaggio.
Poggiai un mano sul vetro, forse in cerca di qualche ultimo contatto con lei, con la sua presenza, ma sentivo solo quel freddo glaciale del vetro, una superficie liscia e senz’anima, nessun calore che potesse ristorarmi il cuore. Mi venne un groppo alla gola guardandola. Quanto la amavo.
L’unica cosa che riuscii a dirle fu un “Ti amo” labiale, senza parole, perché a volte le parole non bastano a dire ciò che il cuore vuole che si dica alla persona amata. C’era il nostro scambio di sguardi, malinconici, e quel labiale che lei ricambiò poco dopo. Aveva capito, lo sapevo benissimo.
La vidi poi sparire dentro la macchina, sentii il rumore attutito dai vetri del motore che si accendeva, e il suo viso, che si voltava verso di me, come se non volesse staccare il contatto. La macchina attraversò il cancello, sparendo con lei.
Ormai era lontana. Forse lo sarebbe stato per sempre. Rimasi impalato davanti al vetro a osservare la luce del sole che sorgeva appena dai monti lontani, e mi venne un groppo alla gola. Non so poi cosa successe dopo che mi gettai sul letto, soffocando le grida e i pugni di rabbia e sfogandomi sul mio letto, che apparentemente non aveva nessuna colpa.
Caddi esausto dopo nemmeno venti minuti, e mi risvegliai solo più tardi. Mi  stropicciai gli occhi, constatai di aver pianto, potevo sentire le lacrime secche e quel sapore salato sulla punta della lingua.
Non scesi a colazione, ma mi misi a fare le valigie per il campo di addestramento.
Di solito ero un tipo calmo quando si trattava di fare qualcosa, ma in quella circostanza niente poteva darmi sollievo, nemmeno prendere a pugni uno stupido materasso: gettai i miei abiti dentro la borsa verde che mi aveva dato mio padre come se fossero stracci, buttai all’aria mezza stanza senza curarmi di che cosa stessi davvero mettendo dentro.
Sarei partito l’indomani, avrei visto il filo di fumo della ciminiera, e per mia sfortuna, avrei percepito nell’aria il suo profumo misto a polvere e odore di bruciato e di morte. Che tristezza immensa. Avrei visto morire gente da ogni parte, sapevo a malapena contro chi stessimo combattendo. E se non mi fosse toccato di andare al fronte a combattere, avrei scortato gente nei campi di lavoro, li avrei visti morire di fatica mentre dentro di me avrei voluto aiutarli. O nelle città, gente che veniva giustiziata, le mattanze che tanto ho evitato per non cadere in depressione. Quel senso disgustoso che mi attanagliava ogni volta che sentivo parlare a mio padre di persone che venivano fucilate alla testa perché avevano disobbedito alla legge, lo sentivo chiaramente, mi faceva passare la fame, perché mio padre aveva la deliziosa idea di descrivere queste orrende situazioni all’ora di pranzo.
Tutto ciò mi diede il voltastomaco mentre il mio sacco da viaggio era piuttosto colmo di abiti che forse non avrei mai messo in guerra. Mi ripresi un attimo e distesi i nervi, cominciando a sistemare bene le cose dentro.
 
Che sguardo di odio, ma in fondo la colpa era sua che lo aveva fatto senza scrupoli. Il controllo ebbe l’esito che tanto temevo; positivo. Una vita germinava in me a ritmo lento e costante. E gli occhi di Xavier che mi squadrava mentre mi rivestivo pudica non promettevano niente di buono.
“ Sporca Hundin …” sibilò, mentre mi mollò uno schiaffo, sotto gli occhi attoniti dei dottori, che per mia sfortuna non potevano intervenire in alcun modo. Mi aveva sempre guardato in quel modo, per tutto il tempo in cui avevo camminato fino alla logora capanna medica per quel miserabile controllo.
Lo schiaffo fu talmente potente che caddi a terra, già esausta dal doloroso controllo di poco fa. Sbattei il gomito  e quello sin troppo fragile, si scorticò sanguinando. Mi rialzai con fatica, guardando con odio quel brutto ceffo e ponendo una mano sul gomito sanguinante, che un medico mi curò con una piccola fasciatura.
“ Spero tu non abbia intenzione di tenerlo …” continuò a sibilare, sedendosi su una delle poche sedie di quel posto.
“ Mi dispiace per te, ma mi trascinerai all’inferno insieme alla creatura …”
“ Dunque sei pronta a morire?”  replicò lui con faccia quasi divertita e insieme estremamente soddisfatta del mio suicidio.
“ Si … anche se è figlio di un bastardo …” gli dissi io con odio in corpo. Osservai di sfuggita i dottori, che avevano gli occhi più grandi di prima dallo stupore.
“ certo ..” lui nel mentre si alzò, e con estrema velocità mi fu davanti. E mi accorsi solo dalla terribile fitta allo stomaco del pugno che mi sferrò dritto alla bocca dello stomaco:” ma più bastardo di te non potrei mai essere … ora, portatela dove sapete!” ordinò a due guardie, che mi afferrarono per le braccia portandomi fuori. Non volli nemmeno piangere, non ne valeva la pena.
Mi parve strano che per tutto quel tempo l’autista  mi avesse guardata, e che adesso stesse andando di fretta alla sua automobile. Ma non me ne curai più di tanto, tanto tra meno di venti minuti sarei stata cenere. Non volevo nemmeno facilitare la cosa ai soldati, potevo sentire la sabbia graffiarmi i polpastrelli delle dita dei piedi mentre venivano trascinati con violenza dalla forza bruta di quelle due guardie.
Giungemmo alla zona del forno crematorio, potevo vedere la  fila delle persone che a breve sarebbero state con me un insieme di cenere e morte.
Ma il destino, chissà come,  volle che la mia vita durasse un po’ di più. Una delle guardie si avvicinò a noi: “ Dovrete aspettare il turno di stanotte.”
“ Come?” una delle guardie che mi teneva rimase stupito.
“ Lo so, è strano, ma non c’è posto …”
“ ma è solo una ragazzina!”
“ Gli ordini sono chiari, niente altri prigionieri … portatela nella capanna, tanto le toccherà stanotte.”concluse quella freddamente per tutto il dialogo.
Io  ero a dir poco confusa, ma in fondo fui sollevata. Almeno non sarei morta subito. Che la speranza mi stesse aiutando in qualche modo? 

   
 
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