“Cause
nothing ever lasts forever
We’re like flowers in this vase, together
You and me, it’s pulling me down
Tearing me down, piece by piece
And you can’t see
That’s it’s like a disease
Killing me now, it’s so hard to breathe
It’s so hard to breathe
But it’s worth fighting for
It’s still worth fighting for
It’s worth fighting for.”
(Piece by
piece, Feeder)
Tre spari in
rapida successione, un grido che si trasforma in un liquido rantolo, e
l’ennesimo colpo. L’ultimo.
Mi impongo di non
voltarmi indietro, non sono questi i miei ordini. Muovo invece verso la
farmacia, cullato dalla sciocca menzogna che non posso più fare a meno di
ripetermi: lui sta bene, Dean sta bene, perché, se così non fosse, io lo
saprei. E poco importa che abbia meno potere di una lampadina da venti watt o
che mi siano cadute tutte le penne, come ama ripetere quel coglione patentato;
se gli fosse accaduto qualcosa, lo sentirei. Esattamente come sento questo
cazzo di vuoto nel petto dove prima c’era la mia grazia, con la sola differenza
che quello lasciato da Dean sarebbe immensamente più grande. Un abisso nero e
profondo che senza dubbio finirebbe con l’inghiottirmi.
“Ti vuoi dare
una mossa, dannazione?”
La sua voce mi
fa trasalire, e Dean lo capisce. “Scusa se ho disturbato il tuo sonnellino, ma
non potrò coprirti le spalle in eterno, questo posto brulica di croats.” Una
pausa, un sussurro fra i denti. “Cristo,
Cas, non sarai di nuovo fatto?”
Scuoto
lentamente la testa e affronto le ultime scaffalature, lo sguardo fisso sul mio
obiettivo. Solo una decina di metri mi separano dal locale immerso nella
semioscurità. Dieci metri in cui sarò completamente esposto.
“Andiamo” mi
incoraggia, ancora una volta.
Il primo passo è
il più difficile, gli altri vengono in automatico. Corri o muori.
Riprendo fiato
solo superata la vetrina sfondata, lo stridere dei suoi frammenti sotto le
suole stranamente rassicurante.
Cinque minuti,
devo essere fuori in cinque minuti esatti.
Aspirina e
antipiretici sono tuttora ammassati sugli espositori mezzo divelti. Ne faccio
incetta. Per gli antibiotici la situazione è più complessa.
Mi sposto dietro
al bancone. Ad accogliermi l’istantanea di una mano perfettamente curata. Passo
oltre, cancellando il rosso del sangue e quello dello smalto.
I medicinali di
cui ho bisogno sono sotto chiave. Tipico.
Faccio saltare
il lucchetto, l’eco dello sparo che si propaga tutt’intorno. Mi sembra già di
sentire il suo biasimo: non potevi forzare la serratura, Clint Eastwood? Sai
che si dice dei tipi grossi con grosse pistole?
Spalanco lo
zaino e svuoto l’armadietto in tutta fretta. Antibiotici, flebo, siringhe, un
rotolino di cerotto. Un bel magro bottino, considerando quant’è costato.
Intravedo due grosse bottiglie d’alcol etilico e mi chino a prenderle, quando un
leggero tintinnio attira la mia attenzione. Vetri infranti, stivali pesanti.
Non è Dean, troppo rumoroso.
Mi rialzo e
faccio fuoco. Il croat finisce a terra.
Gli passo
accanto, è ancora vivo.
Evan. Uno dei
nostri.
Lo colpisco di
nuovo, troppo sgomento per sentire veramente qualcosa. A giudicare dalla
devastazione che si è lasciato dietro, veniva dal reparto detersivi. Quello in
cui ho lasciato Dean. Soffoco immediatamente il terrore che mi si fa strada
nelle viscere: il nostro leader è troppo in gamba per farsi sorprendere da uno
zombie decerebrato, con buona pace di Evan.
Mi inoltro nello
psichedelico dedalo delle merci, la pistola levata – venite da noi, non andrete
più via! assicura un manifesto dal profetico cattivo gusto.
Dean, dove sei?
Un fusto d’ammorbidente
rovesciato, l’impronta rosa di una scarpa e una striscia di sangue rispondono
alla mia domanda.
Ci sono immagini
nella vita impossibili da esorcizzare, scene che si imprimono a fuoco nelle
retine e nell’animo, e credo che questa sia una di quelle.
Dean è a terra,
la sua colt inutilmente stretta fra le dita; non la userà, è evidente. Mark è
sopra di lui, un ghigno animalesco a scoprirgli i denti; un polveroso raggio di
sole a incorniciare entrambi. Per un
istante, restano immobili. Poi Mark attacca, e io sparo.
Cade in avanti,
schiacciando Dean col suo peso. Quest’ultimo se lo scrolla di dosso, a fatica.
“Tempismo
perfetto, Cas” ansima.
“Sei entrato in
contatto col suo sangue?” domando, rabbioso.
Qualcosa nel mio
tono pare colpirlo, una sorta di miracolo, di questi tempi. “Puoi sempre
spararmi, per sicurezza” ringhia, di rimando.
L’aiuto a
rialzarsi. L’impulso di scuoterlo per instillargli un po’ di buon senso
fortissimo.
Cazzo, coglione,
vuoi morire? E il campo? E io?
“Preso tutto?”
Annuisco,
allontanandomi.
“Allora
squagliamocela, questa puzza mi sta dando alla testa.”
Mi passa
accanto, i jeans comicamente macchiati di rosa.
“Credo sia tu,
capo. E credo siano fiorellini di campo” lo schernisco, con una risata.
Gli cingo di
sfuggita le spalle, e vi si aggiunge, riluttante. “Quasi ucciso da Coccolino,
meglio non raccontarlo in giro” commenta.
È tanto simile
al vecchio Dean, al mio Dean, da
stringermi il petto. A una simile vista, il suo leggero zoppicare passa in secondo
piano…
Note: Questo
è solo il primo capitolo, ma la fic è tutta scritta,
so… easy peasy (sì, non commetterò mai più lo stesso
errore fatto con Dark Shines >.<)! La dedico a
due splendide personcine: la mia Sara
Socia, a cui avevo promesso una fic angstosissima, e a Kari, la mia omonima concittadina, buon compleanno, tesoro!
Ringrazio la mia
Secchina per la betatura
e per una battuta che troverete nel prossimo capitolo. Grazie anche alla beta
in seconda, HikaruRyu,
nonostante il suo odio per Coccolino. Ci vediamo per il secondo capitolo <3