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Autore: XShade_Shinra    14/09/2011    3 recensioni
Successe in una fredda sera d’Inverno di circa quindici anni fa. Dalle finestre della mia camera potevo vedere la neve che vorticava caoticamente nel cielo del medesimo colore, come a voler riprodurre, anche all’estero di quella prigione, la stanza dove mi avevano confinato.
Ero un elemento pericoloso, un “maniaco omicida”, dicevano loro. Così, credendomi pazzo, mi avevano messo in una cella di confinamento interamente bianca. Le lenzuola, i mobili, i muri, il soffitto, la luce, il pavimento, perfino gli stessi cibi che mi portavano erano bianchi, come anche la camicia di forza che indossavo.

[ Sokaro!centric - Sokaro + Tiedoll, Sokaro x Allen ]
[ FanFiction classificata 2° e Vincitrice del premio Drago d'oro (per la storia più originale) al "Mahjong Contest" indetto da My Pride sul forum di EFP ]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Allen Walker, Altro personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'D.G(r)ay-man - B/W'
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Caged - Ingabbiato
Successe in una fredda sera d’Inverno di circa quindici anni fa. Dalle finestre della mia camera potevo vedere la neve che vorticava caoticamente nel cielo del medesimo colore, come a voler riprodurre, anche all’estero di quella prigione, la stanza dove mi avevano confinato.
Ero un elemento pericoloso, un “maniaco omicida”, dicevano loro. Così, credendomi pazzo, mi avevano messo in una cella di confinamento interamente bianca. Le lenzuola, i mobili, i muri, il soffitto, la luce, il pavimento, perfino gli stessi cibi che mi portavano erano bianchi, come anche la camicia di forza che indossavo.
 [Sokaro!centric - Sokaro + Tiedoll, Sokaro x Allen]
FanFiction classificata 2° e Vincitrice del premio Drago d'oro (per la storia più originale) al "Mahjong Contest" indetto da My Pride sul forum di EFP





-Autore: XShade-Shinra
-Titolo della storia: Caged - Ingabbiato
-Fandom: D.Gray-man
-Pacchetto: Drago
- Tessera: Bianco
- Coppia: Froi/Winters
- Citazione: “Un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di qualsiasi altro uomo vivo o morto” [William Faulkner]
-Rating: Giallo
-Genere: Introspettivo, Malinconico
-Tipologia: One-Shot
-Avvertimenti: Shounen-ai, WI/MM
-Disclaimer: Tutti i personaggi di questa storia sono maggiorenni e comunque non esistono/non sono esistiti realmente, come d’altronde i fatti in essa narrati. Inoltre questi personaggi non mi appartengono (purtroppo…), ma sono proprietà dei relativi autori; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro ma solo per puro divertimento.
-Note dell'autore: Se mi viene dato il prompt “bianco” e c’è di mezzo Sokaro, come potevo trattenermi dal fare un (corposo) accenno a uno degli sfiga!pair che più adoro del fandom, la Sokaren? <3 Questa dovrebbe essere la prima in circolazione, ma spero di sbagliarmi e che qualche anima pia in qualche fandom straniero abbia già preso in considerazione questo sfigatissimo pair!
- Sia chiaro, adoro Link e le Linkllen, quindi nella FF non c’è ovviamente bashing su questo PG.
- Un piccolo pezzo è liberamente tratto dalla poesia “Soldati”, di Ungaretti.
- Winters è messicano, nella scheda dei personaggi, ma i fans pensano che abbia origini azteche, e questo lo si può intuire da diverse cose, sia fisiche che caratteriali, come per esempio: l’amore per le battaglie cruente, i capelli e gli orecchini.
- La parte in mezzo dovrebbe essere tutta in corsivo, ma, sapendo bene che ciò mi varrebbe almeno dieci anni di maledizioni, la lascio normale. Si tratta comunque di un Flash Back con il P.o.V. di Sokaro.
- Ho controllato, e il Messico risulta essere una zona dove accadono terremoti anche di grossa entità.




Caged – Ingabbiato


Il respiro composto e dolce dell’Esorcista Allen Walker veniva quasi nascosto da quello profondo e rumoroso del Generale Winters Sokaro, disteso al suo fianco sul morbido talamo di quest’ultimo.
I due si riposavano e rifiatavano dopo la loro estenuante unione di poco prima – un connubio dove piacere, rispetto e forza si mischiavano tra loro per creare un qualcosa di unico, che strideva come lamiera accartocciata e suonava armonioso come corde vocali di un angelo.
I due si erano scoperti “grazie” al fantasma che aveva causato il panico nella Home, possedendo tutti gli Esorcisti e membri della sezione scientifica presenti. Il morso di Sokaro – il quale si era presentato davanti a tutti con uno striminzito asciugamano a coprirgli le vergogne, esattamente come gli altri due Generali lì presenti – aveva contagiato Allen, che, una volta tornato normale grazie al “coraggioso” intervento di Bak Chan, aveva ricevuto le scuse dal messicano.
Da lì era nato tutto.
Dapprima solo sguardi, poi piccole chiacchierate in presenza di Link, per poi arrivare al culmine, quando il messicano aveva mandato a chiamare Allen per parlargli in privato e aveva chiuso la porta in faccia all’Ispettore, per poter così baciare appassionatamente quel giovane Esorcista dall’esterno delicato, ma dall’animo più resistente dell’amianto.
Da quel momento, almeno due volte a settimana 
quando entrambi si trovavano alla Home , Allen riusciva a sfuggire al controllo di Link per un paio d’ore con scuse sempre più originali: allenamenti per diventare un ninja, diarree incombenti, incontri appassionati con Lenalee – la quale, appresa la notizia della strana relazione tra Allen e il Generale, era svenuta –, andare a riprendere Timcanpy – complice del misfatto – sparito chissà dove, e quant’altro. Sokaro aveva spesso chiesto ad Allen se avesse voluto liberarsi per sempre della nefasta presenza di quel “pastore tedesco ringhiante”, ma l’inglesino lo aveva scongiurato di non fagli del male, anche perché avrebbero passato guai seri.
Quel giorno, Allen era particolarmente soddisfatto delle performance del suo compagno – una montagna di muscoli che lo portava ogni volta all’estasi – e gli accarezzava il ventre pieno di cicatrici, soffermandosi a giocherellare con quelle causate da tre fori di proiettile. Quei segni chiari rilucevano alla fioca luce della lampada a gas che illuminava la piccola stanza del Generale, in contrasto con il colore scuro della sua pelle.
Dopotutto, ad Allen erano sempre piaciuti i moretti dalla pelle abbronzata.
«Win?», lo chiamò l’inglese, abbracciandolo – per quanto le mastodontiche dimensioni della cassa toracica di Sokaro gli permettevano. «Posso chiederti una cosa?».
«Certo, Allen», rispose lui, sempre gentile e garbato con il suo ragazzo. Solo con il suo ragazzo.
«Ci siamo detti molte cose l’uno dell’altro, ma c’è una cosa che volevo domandarti…».
«Sentiamo».
«Come mai quando sei con me non usi la tua maschera contenitiva?», chiese l’Esorcista, indicando l’orrenda maschera che Sokaro, solitamente, portava indosso.
L’uomo si girò e guardò l’oggetto della domanda di Allen, sospirando.
«La risposta non è così semplice e scontata. Dovrei raccontarti di quando sono uscito di prigione», spiegò, abbracciandolo di rimando, stando attento a non schiacciarlo senza accorgersene.
«Ho detto a Link che andavo a fare il bagno e che ci avrei messo un po’. Lo sai che è molto pudico, non entrerà mai a controllare», gli disse in risposta.
 «Quanto tempo abbiamo, prima che s’insospettisca?», domandò il Generale, baciando la fronte di Allen sul pentacolo.
«Mezz’ora».
«Mi basterà», affermò Sokaro, tornando a stendersi supino, tenendo un braccio allacciato alla vita del ragazzo. «Come ben sai sono un condannato a morte, ma l’Ordine mi ha “salvato”, mandando uno dei suoi membri a prendermi. Successe anni fa, quando eravamo entrambi giovani».
«E chi è stato? Forse il Maestro?».
«No, no. Lui era da qualche parte in giro per il mondo come suo solito, forse a spassarsela con qualche donzella. Fu Froi a tirarmi fuori di lì».
«Il Generale Tiedoll?», domandò Allen, non aspettandosi certo quel nome.
«Esatto», annuì il mostro, iniziando a raccontare…

* * *

Successe in una fredda sera d’Inverno di circa quindici anni fa. Dalle finestre della mia camera potevo vedere la neve che vorticava caoticamente nel cielo del medesimo colore, come a voler riprodurre, anche all’estero di quella prigione, la stanza dove mi avevano confinato.
Ero un elemento pericoloso, un “maniaco omicida”, dicevano loro. Così, credendomi pazzo, mi avevano messo in una cella di confinamento interamente bianca. Le lenzuola, i mobili, i muri, il soffitto, la luce, il pavimento, perfino gli stessi cibi che mi portavano erano bianchi, come anche la camicia di forza che indossavo.
Mi dicevano di essere pazzo, perché solo uno squilibrio mentale avrebbe spiegato tutti gli uomini che erano caduti come foglie d’Autunno al mio passaggio.
Il solo modo che avevano trovato per tenere a freno la mia voglia di sangue era circondarmi di bianco.
Il bianco è il colore della pazzia.
La mente non riesce a concentrarsi sul colore bianco, e, in una stanza interamente di quella tinta, il cervello non trova niente di significativo, e ciò porta alla pazzia se, come me, non si aveva nulla da fare tutto il giorno, a parte mangiare e dormire. E pensare.  
Nessuna visita, nessun colloquio con lo psicologo, lo psichiatra o l’esperto di psicologia criminale, da quando avevo ucciso a morsi uno del loro branco di inetti.
Ero solo, immerso nel bianco – ad aspettare il giorno in cui mi avrebbero portato fuori da quella stanza per sopprimermi in nome della giustizia, non sapendo che in quell’occasione li avrei uccisi tutti –, e solo così riuscivo a stare “buono buono”, come volevano loro; ma, dentro di me, covavo rabbia e rancore.
E voglia di rosso.
Di sangue.
Un dì, però, a poco meno di quarantotto ore da quel fatidico momento di vendetta che tanto aspettavo, la porta della mia camera si aprì, ed entrò un mio coetaneo che non avevo mai visto prima.
Vestiva un’uniforme nera, coperta da un grosso e pesante mantello bianco, e sul petto teneva appuntata una Rose Cross d’argento.
«Non mi serve alcuna compagnia spirituale, padre», gli dissi subito, sorridendo e mostrandogli i miei denti seghettati, da squalo.
«Non sono un prete, Winters Sokaro», mi corresse lui, camminando verso di me, mentre una guardia chiudeva la porta, restando in allerta nel caso volessi mandare a miglior vita anche quel ragazzo. «Mi chiamo Froi Tiedoll, e sono un’Esorcista».
Lo ascoltai e sollevai un sopracciglio.
Avevo sentito parlare degli Esorcisti, ma non ne avevo mai visto uno di persona, da quanto ricordavo.
Ero incuriosito e non capivo cosa volesse da me.
«Embeh?», chiesi sgarbato.
«Sono venuto qua perché il Quartier Generale di cui faccio parte è molto interessato a te, Winters. Posso chiamarti per nome, vero?».
Annuii, sogghignando e leccandomi le labbra con la lingua.
«Avrei bisogno di porti alcune domande», continuò lui. «Ma non ti preoccupare: non è un interrogatorio, questo».
«E cos’è?».
«È la chiave per la tua libertà».
Dopo quelle parole, Froi fece cenno al secondino che andava tutto bene, e lui chiuse la feritoia del piccolo rettangolo di sbarre, in modo da isolarci. La guardia non sembrava molto convinta, ma di sicuro aveva ricevuto ordini dall’alto.
«Non hai paura di me?», chiesi all’Esorcista.
«Perché dovrei? Stiamo solo chiacchierando, nulla di più», mi rispose, togliendo delle foto dall’interno della propria uniforme. «Vorrei che dessi un’occhiata a queste», mi chiese, mentre me le mostrava.
Le immagini ritraevano un luogo che ben conoscevo: la mia terra, il Messico, ed esattamente la mia città, un luogo dove i discendenti degli aztechi vivevano tutti insieme, trasmettendo di padre in figlio l’antica cultura dei nostri avi, perché non andasse dimenticata.
«Suppongo tu conosca questo posto», disse l’Esorcista.
«Esatto», ridacchiai. «Casa mia… Quanta nostalgia… Ho girato tanto per il mondo, alla ricerca di nuove prede…».
«Questa località è stata a lungo nel centro del mirino della Sede America, perché… succedevano cose strane», continuò l’uomo.
Solo in quel momento notai che il mantello di colore chiaro sembrava messo apposta per coprirgli l’uniforme nera; probabilmente su consiglio del Direttore del carcere, che non voleva far lavare nuovamente il pavimento dal sangue.
«Sì, era una città divertente: nessuno tranne me se ne accorgeva, ma le persone, dopo che c’era stato quel tremendo terremoto, sei anni fa, pian piano, iniziavano a impazzire».
«Puoi spiegarmi meglio cosa accadde?».
«Eheh! Sei strano. Nessuno si era mai interessato a me per queste cose», ridacchiai. Quel giovane mi piaceva, era simpatico. Non mi temeva ed era la calma personificata, dai modi gentili e educati. «E va bene, Froi. Ti dirò ciò che vuoi sapere, prendile come le ultime memorie di un condannato a morte… che scapperà da qui lasciando solo morte e distruzione», risi di nuovo, leccandomi le labbra. Già pregustavo quel momento in cui avrei ridotto in cenere e detriti quel posto. «Sei anni fa un violento terremoto ha aperto una crepa nel terreno, nel punto dove si diceva scorresse un antico fiume, ormai secco. Da allora tutti i miei concittadini hanno cominciato a dare segni di squilibrio mentale sempre più forti, al punto da ammazzarsi tra di loro. Rimasto solo, semplicemente, lasciai la mia piccola città e mi diressi altrove».
Froi ascoltò la storia, molto interessato, annuendo di tanto in tanto.
Prese poi una sedia e si accomodò, segno che aveva ancora qualcosa da sentire.
«Anche tu hai partecipato a quella carneficina?», mi domandò serio.
«Certamente», annuii. «Come avrei potuto lasciarmi sfuggire quell’occasione, quel richiamo del sangue che mi faceva salire la febbre dall’eccitazione?».
«Allora, anche tu sei impazzito? Non mi vorrai far credere che i medici hanno ragione…».
«Tsk! Quella mandria di pecore non sa nemmeno il cinque percento di tutto quello che mi passa per la mente, figuriamoci. È stato Dio in persona a salvarmi».
A quell’affermazione, il ragazzo sorrise sotto i baffi. Un sorriso calmo e gentile.
«Ti ha fatto trovare qualcosa, vero? Un’arma…?».
«Esatto. Due acuminati semicerchi di acciaio», spiegai, girando la testa per guardarmi le spalle. «Li ho trovati nel fondo della spaccatura nel terreno e, un giorno, quando il mio migliore amico ha cercato di ammazzarmi, non so come, sono riuscito a capire in che modo utilizzarle». Quei ricordi non li avrei mai e poi mai dimenticati: la follia omicida nei miei occhi, quel combattimento mortale tra amici per la pelle che fino al giorno prima si allenavano insieme per diventare dei combattenti sempre migliori, ela sete di sangue che avevo in corpo. «Così si unirono e spuntarono due lame seghettate, capaci di trasformare quei due semplici pezzi di corazza che tenevo sulle spalle in un’arma unica, che mi permise di rimanere in vita. Uccisi il mio migliore amico e tutti gli altri, rimanendo l’unico sopravvissuto».
Froi annuì, e, dal suo sguardo stanco, capii che avevo centrato in pieno la notizia che voleva sentire.
«Dove sono quei due pezzi, ora?», domandò.
«Non lo so, me li ha sequestrati la polizia, ma li riprenderò prima di uscire da qui, dopo averli fatti tutti a pezzi».
Ci furono un paio di secondi di silenzio, poi il ragazzo si alzò in piedi, guardandomi con una strana luce negli occhi.
«Cosa c’è?», gli domandai.
«Tu non sai cosa sono quelle armi: si chiama Innocence, ma tu nello specifico potrai darle il nome che più ti aggrada, ed è un’arma anti-Akuma. Gli Akuma sono delle macchine al servizio del Conte del Millennio, il nemico che noi del Black Order abbiamo giurato di sconfiggere, e lo facciamo utilizzando le nostre armi, che lui vuole distruggere. La maggior parte delle volte che c’è un’Innocence nei paraggi, accadono dei fenomeni strani, come, nello specifico, la pazzia degli abitanti di quella città. Tutti sono diventati pazzi in maniera irrecuperabile tranne te: l’unico capace di sincronizzarsi con quel frammento e usarlo senza avvertirne le conseguenze, se non in minima parte».
Lo ascoltai con un sopracciglio sollevato, decisamente perplesso.
«Puoi anche scordarti di avere le mie armi. Se te ne approprierai, verrò fino in capo al mondo per prendere a calci nel culo te e tutta la combriccola di pretini di cui fai parte!». Non avrei mai permesso al primo arrivato di togliermi di bocca il pane. Quell’arma, fortissima e dalla potenza distruttiva pari solo a quella del terremoto al quale avevo assistito, era mia. E non l’avrei mai ceduta a nessuno.
«Infatti non voglio prendere la tua arma, Winters. Anzi, voglio rendertela. Come ti ho già detto, ma forse non sono stato chiaro – e di questo me ne scuso –, solo tu puoi usarla».
Le sue parole mi sconvolsero al punto tale che spalancai occhi e bocca, per poi ridere sguaiato e divertito.
«Ahah! Sei davvero divertente, Froi!».
«Tu sei uno di noi, Winters: sei un Esorcista».
Smisi immediatamente di ridere, guardandolo con un misto di preoccupazione e incredulità.
Non poteva essere vero. Non potevo essere un Esorcista, coloro che combattono il male. Io non potevo essere dalla parte dei buoni, semplicemente perché non potevo vivere senza il sangue della battaglia che mi grondava addosso, come una cascata.
«Winters Sokaro, tu hai trovato un frammento dell’Innocence e ti sei dimostrato essere un compatibile. Sei un Esorcista, senza dubbio. Quando la signorina Cloud era andata a cercare quel frammento in Messico e ha trovato la città completamente rossa e deserta, pensavamo che il Conte fosse arrivato prima di noi, invece ci sbagliavamo. Non pensavamo certo che colui che era riuscito a sincronizzarsi con l’Innocence potesse essere capace dei crimini più efferati; ecco perché abbiamo impiegato così tanto tempo per trovarti».
Froi parlò a lungo, spiegandomi la situazione: quello che ero sempre stato e non sapevo di essere.
«E ora? Cosa farete?», domandai con aria spavalda. «Appena mi libererete non farò altro che ricominciare a uccidere. Se non lo facessi, impazzirei».
«Lo sappiamo», disse, stupendomi. «Il nostro Black Order è molto professionale: abbiamo già tutti i tuoi fascicoli e siamo a conoscenza del sangue guerriero che scorre in te», mi spiegò. «Ma per noi sei importantissimo: il Conte del Millennio sta uccidendo i nostri compagni come mosche, e abbiamo bisogno di alleati. Più saremo e meno di noi moriranno. Inoltre, date le tue encomiabili doti di spadaccino e guerriero, siamo certi che non avrai alcuna difficoltà nei combattimenti», spiegò, aprendo la grossa sacca beige da pittore che portava a tracolla.
Lo vidi cercare qualcosa al suo interno, ma nel frattempo gli domandai:
«Sai che io posso uccidere i miei stessi alleati? Te l’ho detto: ho ucciso il mio migliore amico e tutti quelli che erano rimasti faticosamente in vita fino ad allora. Volete davvero una bomba a orologeria come me in una squadra?».
Froi scosse il capo.
«Non ti permetteremo di farlo: i nostri della scientifica hanno trovato un metodo per tenere a bada i tuoi istinti», disse, continuando a cercare quel qualcosa nella borsa.
«Non penso che funzioni», dissi scettico. «E poi, chi ve lo fa fare? Magari scoprirete che non sono capace di esservi utile».
«C’è la possibilità, e questo lo sapevamo fin dall’inizio, ma c’è una cosa che devo dirti: un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di qualsiasi altro uomo vivo o morto».
«E questo che vuol dire?», domandai, non capendo le sue parole.
«Che noi ti salveremo dalla pena di morte, ma ciò non perché sei migliore degli altri, ma perché ci sarai più utile da vivo che da morto», rispose, un po’ brusco – strano per i suoi modi all’apparenza placidi.
Pian piano lo stupore iniziale stava svanendo, quindi ciò mi permise di ragionare a mente più fresca. Non ero solito perdermi in ragionamenti contorti – preferivo di gran lunga utilizzare quella che avevo scoperto essere un’Innocence per mettere K.O. ciò che mi dava grane –, ma non volevo trattar male quell’uomo; in fondo sembrava essere venuto a trovarmi con buone intenzioni. Voleva restituirmi l’arma, e solo per questo non l’avrei ucciso.
Finalmente, Froi riuscì a trovare ciò che stava cercando: una maschera di ferro e pelle.
«Dagli studi della scientifica si è scoperto che l’unico modo per far sì che tu non abbia degli istinti omicidi è che sia circondato dal colore bianco, tinta che ti permette di restare nel tuo limbo di pazzia contenuta. Questa maschera annulla i colori attorno a te, facendoti vedere tutto in bianco e nero. Ora che ci penso, il tuo nome in inglese significa “Inverni” e l’Inverno è la stagione bianca per eccellenza. Che buffa coincidenza».
«Tsk», sputai, schifato. «Una museruola, in pratica».
«Dovrai usarla solo quando starai con noi. In solitudine o durante un combattimento, soprattutto in quest’ultima situazione, potrai toglierla».
Guardai la maschera dalla smorfia veramente adorabile: un ghigno pauroso, da racconto dell’orrore.
Mi piaceva.
«Se accetterai di far parte del Black Order e di lavorare per noi, avrai salva la vita, potrai continuare a combattere – non contro gli umani, ma contro gli Akuma – e riavrai indietro la tua arma», disse Froi, poggiando la maschera sul tavolo. «C’è sempre il rischio di morire, ma sarebbe un ottimo modo per recuperare diversi giorni, mesi o anni di vita».
Lo guardai assorto, ghignando.  
«Perché dovrei accettare? Dopotutto mi state solo proponendo un trasferimento di gabbia. Cos’è? Questa puzzava troppo di sangue?».
Froi ci rimase un po’ male a quella mia risposta. Scosse la testa e fece per parlare, ma lo anticipai.
«E poi… come avete fatto a trovarmi?».
Il ragazzo guardò fuori dalla finestra, assorto, fissando quei fiocchi di neve danzare nel vento.
«Durante la tua ultima carneficina, nel villaggio poco lontano da qui, c’era anche una mia compagna Esorcista, nonché mia fidanzata», disse a voce bassa, aggrottando la fronte. «L’hai uccisa insieme a due Finder che erano con lei al mercato», spiegò, mentre una lacrima calda e solitaria scorreva lungo la sua guancia prova di pelo. «Così, l’Ufficio Centrale è risalito a te e a quel luogo in Messico, e mi ha mandato a controllare».
Sentivo la sofferenza nella sua voce bassa e profonda. Una tristezza priva di rabbia, ma colma di disperazione.
«Aspetta, fammi capire… Tu sei venuto fin qui per chiedermi di entrare a far parte del Black Order, nonostante io abbia ucciso la tua pollastrella?», chiesi, non capendo la follia di quel gesto.
«La croce che porto sul petto non può fermarsi a queste cose. Se sei un Esorcista, allora, è tuo preciso compito entrare nell’Ordine, a prescindere che tu sia un assassino o meno», sussurrò, asciugandosi la guancia.
 Lo vidi allontanarsi a passo veloce verso la porta e bussare due volte.
«Hai tempo fino a domani per decidere, Winters», mi disse, mentre il secondino riapriva la feritoia e iniziava a far scattare le serrature, dopo aver controllato che fosse tutto a posto. «E sappi che, se anche deciderai di non diventare un Esorcista ora, da vivo, l’Ordine non si fermerà a questo».
Lo guardai stupito.
«Che vuoi dire?».
«Spero che tu non lo sappia mai», disse grave, uscendo. «A domani».
Dopo quell’arrivederci, e il forte boato della porta che si richiudeva con vari rumori metallici al seguito, rimasi fermo, in silenzio, a rimirare la maschera che giaceva sul tavolino, a colorare quella camera bianca. Anche se non avessi voluto, la mia attenzione sarebbe tornata sempre a soffermarsi là.
Non capivo il gesto di quell’uomo, né il suo comportamento calmo e educato di fronte a me: il mostro che aveva ucciso la sua ragazza solo perché era nel posto sbagliato al momento sbagliato.
«Il Black Order… Gli Esorcisti… sono tutta gente strana…», sussurrai, alzandomi e camminando verso il tavolo fino a fermarmi di fronte ad esso, con gli occhi puntati su quelli vuoti della maschera. «Sono tutti dei pazzi, esattamente come me», aggiunsi, sorridendo e leccandomi le labbra. «Madness. Voglio che la mia Innocence abbia questo nome, Esorcista…», sussurrai tra me e me – come se Froi, ormai lontano, potesse sentirmi –, capendo che la scelta più insana era proprio quella di non evadere, ma di andare a “divertirmi” con quella gente.
Esplosi in una risata. Pazza e incontenibile.

* * *

«Da allora divenni un Esorcista, e portai la maschera sul viso per tenere a bada la mia sete di sangue, immergendomi nel bianco e nero di quel mondo senza colori».
Il racconto di Sokaro era ormai terminato, e Allen lo guardava assorto e commosso da tutto quello.
Sapeva bene del fatto che Sokaro fosse stato condannato a morte come pluriomicida, ma, nonostante disprezzasse gli assassini, era riuscito a perdonare il passato che non faceva più parte di lui, e, così, riuscì ad amarlo.
Ormai la Rose Cross era diventata importante anche per Sokaro, ma mai quanto uccidere gli Akuma per poter così sentire nelle vene in sangue che scorreva veloce.
«Mi dispiace per il signor Tiedoll…», sussurrò Allen. «Deve aver sofferto molto…»
«Non preoccuparti: dopo quella donna ha conosciuto meglio il tuo amico giapponese», gli disse il messicano, tentando di rincuorarlo.
«Amico giapponese?», chiese Allen, sollevando un sopracciglio bianco.
«Sì, quello del Team di Fro—». Sokaro non fece in tempo a terminare la frase che Allen cadde dal letto, fortemente scosso.
«KANDAAA?!», esclamò con un urlo, tirando giù il cuscino per coprirsi.
«Sì, stanno insieme, non lo sapevi?», gli domandò l’amante, con il sorriso di chi la sapeva lunga.
Allen aprì e chiudette la bocca diverse volte, a scatti, come se volesse dire qualcosa ma non sapesse da dove cominciare o come se lo shock non glielo permettesse.
 Fu un forte bussare alla porta della camera a interrompere la loro conversazione, e dalla voce del nuovo arrivato si presagivano guai.
«Walker! So che sei là dentro! Apri la porta». Era Link.
«Gasp!», sussultò Allen, alzandosi come una molla e riprendendo i propri vestiti da dove Sokaro li aveva fatti volare poco prima. «Win, io devo andare…», sospirò. «Continuiamo un’altra volta a parlare di Kan— No… non voglio sapere altro!», scosse il capo, vestendosi velocemente mentre andava verso la finestra, da dove era arrivato.
«Ok», sorrise Sokaro, leccandosi le labbra, raggiungendo il ragazzo per fermarlo un attimo. «A presto, Allen», lo salutò, baciandolo con passione, invadendogli la bocca con la lingua, così da prendere subito la supremazia in quel bacio dalle tinte forti.
Link, intanto, continuava a bussare ferocemente alla porta, pronto a buttarla giù, motivo per il quale i due interruppero presto quell’effusione, solitamente molto più lunga, poiché non sapevano mai – tra missioni e l’Ispettore – quando avrebbero potuto rivedersi.
«A presto…», soffiò Allen, sorridendogli, scavalcando quindi il balcone per fuggire via.
Così Sokaro attese solo che Allen si fosse calato al piano inferiore, prima di andare ad affrontare l’Ispettore, in tenuta adamitica, pronto a fargli capire una volta per tutte che non doveva importunarlo cercando un fantomatico Allen Walker nascosto in camera…
Mentre l’Esorcista maledetto tornava verso i bagni comuni utilizzando i cornicioni e i doccioni come passerelle, aiutato da Timcanpy, che, come sempre in quei casi, lo aspettava fuori, ripensò a quanto Sokaro gli aveva detto poco prima, sorridendo nonostante la situazione ben poco rosea nella quale si era cacciato.
Il bianco era il colore della pazzia.
Il colore che gli permetteva di tenere a freno la bestia assetata di sangue che era in lui.
E Allen, bianco nello spirito e nel corpo, gli permetteva di stare calmo e di non uccidere.
Allen rappresentava dunque la pazzia, per Sokaro.
Come la rappresentava la sua Madness, l’arma anti-Akuma che tanto amava.
«Sei forse pazzo di me, Win?», bisbigliò Allen, arricciando le labbra in un sorriso, guardando la finestra della camera del suo amato, dalla quale iniziavano a provenire metallici rumori di lotta.

Fine
XShade-Shinra
  
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