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Autore: KikiWhiteFly    08/11/2011    9 recensioni
{Dedicata ad Emiko e Roro}.
"Erano sotto la pioggia, fortunatamente nessuno sembrava averli visti, nascosti dietro una colonna che celava molto più di quanto loro pensassero – oltre quel semplice pezzo di pietra c'erano le insidie, i pregiudizi e l'ignoranza della gente, cose che avrebbero potuto solamente arginare negli anni a seguire.
Nella mente delle persone si rifletterà sempre uno specchio: inutile tentare di guardarsi dentro, il riflesso manderà loro una immagine sempre più vera del reale.
«C-Cosa stai facendo?», disse Arthur, scostandolo forzatamente da sé.
«Non ti stavi opponendo, mi sembra», fu la blanda scusante del compagno.
«Alfred! Siamo... ragazzi, non puoi farlo!», esclamò agitato Arthur, strofinandosi la manica della giacca nuovamente contro le labbra.
«D'accordo, non lo farò più»".
{Alfred/Arthur}.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Quando gli altri ci “catalogano”, va da sé che quell'etichetta diventi parte di noi – nolenti, purtroppo, siamo costretti ad accettarla.

Quando gli altri ci etichettano e ci discriminano, va da sé che quell'atteggiamento diventi una sorta di culto; si crea, allora, il peggior fenomeno che la storia abbia mai conosciuto: il conformismo di massa.

La massa si riconosce in un capo, una sorta di autentico leader; gli individui, in particolare i più deboli, subiscono l'influenza di questa indiscutibile autorità e ne diventano immediatamente succubi.

La coscienza di sé si trova ad essere improvvisamente “coscienza dei se” e diventa quasi consequenziale mettere in dubbio qualsiasi fenomeno che vada oltre la singola conoscenza intellettiva dell'uomo.

Abbiamo imparato tante cose nel corso degli anni: costruire armi letali, combattere interi popoli, vincere e, a nostro malincuore, anche a perdere. Abbiamo ricevuto una lezione, ogni singola volta, dai nostri errori; eppure, ironicamente, continuiamo a commetterli all'infinito.

Forse perché è proprio questa la vera coscienza di sé: comprendere che alcune cose si devono sperimentare sulla propria pelle per rendersene davvero conto.







«È una favola, papà?».

Il bambino, grossomodo un ometto di appena quattro anni, strattonò i pantaloni di un uomo visibilmente più grande, pregandolo di continuare la storia che aveva appena cominciato.

«È più reale di quanto si possa immaginare», l'uomo gli accarezzò i capelli, poi sorrise mesto fra sé e sé: «Il protagonista è un certo Arthur Kirkland».







Tutto il resto del mondo



I.





Londra, 1963.





Erano tempi duri, gli anni sessanta: il dopoguerra sicuramente aveva migliorato la situazione sociale ed aveva trascinato, allo stesso tempo, una serie di problemi di natura economica e politica.

Ognuno, nel suo piccolo, si dava da fare ma i danni causati dallo scoppio del secondo conflitto mondiale non potevano essere arginati così facilmente. Perfino le nobili famiglie si trovavano a pagare il prezzo di interi popoli, la crisi si era estesa sino ai ceti più abbienti.



La famiglia Kirkland, fino ad allora, non si era mai trovata in ristrettezze economiche: dacché avevano ereditato le antiche fortezze e le incontaminate terre dei loro avi non si erano mai posti alcun problema. Ovviamente, il tenore di vita non era cambiato così radicalmente: avevano solo dovuto rinunciare a parte della loro servitù, qualche piccolo sacrificio in nome della loro nomina.

Poiché per salvare un nome si era pronti a far tutto, perlomeno nella famiglia Kirkland, persino a prestarsi ad alcuni lavori di bassa leva.



Arthur Kirkland, giovane rampollo inglese, se ne stava compostamente seduto a tavola, bevendo a piccoli sorsi il tè mattutino. Il suo sguardo, a primo acchito, poteva rivelare calma piatta ma, invero, il ragazzino era piuttosto teso.

A breve sarebbe iniziato il suo primo giorno alla cosiddetta scuola pubblica: ogni volta che quell'argomento veniva tirato in ballo, ormai quasi quotidianamente, i suoi genitori ne apostrofavano le qualità con disprezzo. Arthur, d'altronde, non poteva neppure replicare: dal suo punto di vista era una grande scoperta, sin da piccolo era stato educato da istruttori privati.

Il mondo – sulle labbra di un bambino di appena dieci anni era una parola grande – al di là delle mura della sontuosa villa in cui abitava lo aveva sempre attratto, eppure non era mai riuscito a visitarlo.

Sua madre – una donna ricca sin dalla nascita, snob di natura e condizionata dallo status sociale altrui – teneva alla sua educazione, in modo quasi morboso, spesso apostrofava gli altri con un ché di sprezzante, come se fossero cenere da spazzar via: «Figlio mio, tu sei protetto qui. Là fuori darebbero la vita per avere quello che hai tu, non dimenticarlo», gli diceva.

Arthur, a quel punto, si sentiva in colpa: non poteva darle torto, gli bastava guardarsi intorno.

Non tutti i bambini della sua età potevano vantare uno spazio di cui erano gli assoluti padroni, in pochi avevano la possibilità di essere riveriti da una servitù. Vista in quell'ottica, la situazione gli appariva diversamente e, allora, si trovava a far ritorno sui suoi passi.



Tuttavia, anche sua madre si era veduta costretta a fare un passo indietro: a lungo aveva lottato con suo padre – uomo poco incline, invero, ad udire qualsiasi parere al di fuori del proprio –, il quale le aveva espresso le disagiate condizioni economiche in cui si trovavano temporaneamente.

Suo padre era un uomo che si era fatto le ossa, come si suol dire: era nato in una famiglia modesta, aveva potuto proseguire gli studi giuridici solo grazie ad un lavoretto part-time. Alla fine, quasi per fato, aveva raggiunto il sogno di diventare un famoso e stimato avvocato – così, anche il suo status sociale ne aveva risentito.

Peccato che non lo vedesse mai, era sempre in giro “per lavoro” – così, quando c'era, Arthur provava un ingiustificato timore nei suoi confronti e non riusciva mai a parlargli a cuore aperto.

Suo padre si era limitato a dargli una sonora pacca sulla spalla – mingherlino com'era, Arthur l'avrebbe ricordata per un bel po' di tempo –, abbassandosi alla sua altezza e sentenziando freddamente: «Ti piacerà, figliolo, ne sono sicuro».

Quelle erano state le uniche parole che suo padre gli aveva rivolto, da circa un mese a quella parte che non si vedevano. E, anzi, Arthur avrebbe dovuto considerare quella sonora pacca sulla spalla come un incondizionato gesto d'affetto, di solito suo padre non lo guardava nemmeno in viso – a ben pensarci, quando si era abbassato alla sua altezza, Arthur aveva visto per la prima volta il colore dei suoi occhi.



«Signorino Kirkland», Margareth, la sua balia sin da quando era in fasce, lo stava gentilmente premendo di terminare il suo pasto.

Arthur, allora, pulì le labbra con il tovagliolo di stoffa e ringraziò la servitù che in quel momento era in servizio. Poi, si lasciò lisciare l'abito dalla balia, dopodiché si fece allacciare nella maniera più stretta possibile i lacci delle scarpe.







* * *







Alfred Jones camminava tra le strade deserte, a fargli compagnia era solo un alito di vento che pareva spirare da Nord. Stava percorrendo uno dei quartieri più malfamati di Londra, abitava qualche via più in alto – non doveva lamentarsi, doveva pensare alle parole di sua madre: «Devi essere grato di non essere ancora morto di fame, io mi faccio in quattro per darti da mangiare!».

Da quando suo padre era tornato dalla guerra – era un sopravvissuto, non c'era null'altro da aggiungere –, sua madre gli aveva raccontato che non era più lo stesso: i primi anni pareva esser tornato tutto come prima, il cambiamento si era verificato poco dopo la sua nascita.

Suo padre non faceva altro che ricordare gli spari, talvolta si nascondeva sotto il tavolo perché pareva che li sentisse sulla propria pelle, a volte temeva persino per la vita di Alfred – erano ricorrenti le sue parole: «Non puoi mettere a mondo dei figli se il tuo paese non ti garantisce sicurezza!» –, il trauma della guerra si era presentato molti anni dopo, insomma.

Con il passare del tempo, poi, non era affatto migliorato: ben presto si accorsero che non era in grado di lavorare, non solo per le condizioni mentali in cui versava ma anche fisiche. Si era dato all'alcolismo, alla fine, quella era una triste realtà alla quale Alfred assisteva tutti i giorni.

Capitava che lo trovasse fuori dai locali, di notte, talvolta succedeva che suo padre non lo riconoscesse nemmeno – i lividi che portava sulle braccia e sulle gambe, benché mentisse ai più, non se li era fatti per semplice distrazione.

Sua madre non lo cercava più, non aveva bisogno di un marito ubriacone ma di un uomo capace – quelle erano le sue parole, tanto dure quanto veritiere –, tuttavia Alfred non riusciva proprio ad abbandonarlo per strada.

Così, quando aveva tempo, per sopperire alle esigenze economiche, si infilava in un cantiere e cercava di essere utile agli altri operai. Il fatto che avesse appena dieci anni non importava, di solito, probabilmente perché gli si leggevano negli occhi certe cose – così, almeno, gli aveva detto un operaio una volta.

Guadagnava qualche soldo, per mano del capo cantiere, perlomeno contribuiva alle spese economiche. Un giorno, si prometteva ogni sera Alfred, l'odore pestilenziale della sua catapecchia sarebbe stato un vecchio ricordo ed i vicoli malfamati di Londra nient'altro che un triste periodo della sua vita.



In quel momento si stava dirigendo a scuola, l'unica cosa alla quale sua madre non aveva voluto rinunciare era la sua istruzione: aveva conosciuto sin troppo bene il terribile fardello dell'ignoranza culturale, aveva voluto strapparsi anche le vesti ma suo figlio doveva studiare.

«Guarda la fine che abbiamo fatto io e tuo padre», diceva, stringendo le mani ruvide contro le sue.

Fortunatamente sua madre aveva messo da parte un modesto gruzzoletto negli anni passati, quel minimo che gli aveva consentito di iscriversi ad una scuola pubblica di base. Poi, avevano concordato, metà dei suoi guadagni sarebbero serviti a pagarsi gli studi, ci avrebbe pensato sua madre a versare la somma restante.

Alfred teneva entrambe le mani nelle tasche: solo da una parte imbracciava dei fogli bianchi, confezionati in una carta stracciata, tenuta intatta grazie ad uno spago bianco.

Ancora una salita e sarebbe sbucato nel popoloso vicolo di Londra, laddove avrebbe incontrato altri ragazzini della sua età – bambini, ancora, loro mica avevano visto la peggior faccia della vita come lui –, accompagnati dalle loro famiglie.

Alfred non poté giudicare con chiarezza poiché, quando arrivò, un'austera signora – aveva tutta l'aria di essere una maestra – invitava gli alunni a prender posto nelle aule, minacciando la chiusura del portone principale da un momento all'altro. E lui vi entrò, senza batter ciglio, non gli pareva il caso di cacciarsi nei guai il primo giorno.



«Mi scusi», mormorò un ragazzino, un tipo scheletrico, evitando di alzare lo sguardo.

Alfred lo guardò un momento, il che gli bastò per inquadrare la sua classe sociale: apparteneva ad una casata locale di rilevante importanza, senza alcun dubbio, non si notava solamente dal suo abbigliamento – certo che, pensò Alfred, nel suo vicolo avrebbero fatto a pugni solo per i suoi calzini – ma anche dal portamento, così regale da far pensare che si trattasse di un principe.

E, per un attimo, Alfred prese seriamente in considerazione l'ipotesi – i principi, però, non facevano certo istruire i propri figli nelle “scuole pubbliche”, sarebbe stato sdegnoso.



«Ehi», lo frenò Alfred, più risoluto, afferrandolo facilmente per una spalla: «Quando parli a qualcuno, guardalo sempre negli occhi», poi proseguì il suo cammino, infiltrandosi tra la folla di presenti.







* * *





Arthur si sedette composto, come gli avevano insegnato, prendendo posto tra le prime file.

Si guardò intorno, cercando di nascondere l'entusiasmo, tutto gli pareva meraviglioso: la lunga lavagna, i gessi posati sopra la cattedra, le file di banchi di legno e la moltitudine di persone che affollavano l'aula.

Non si era mai sentito più vicino al mondo di così, pensò Arthur, tirando fuori un quaderno dalla copertina rigida ed una stilografica che, per l'occasione, aveva portato a scuola.

Alcuni compagni lo guardavano con disprezzo – eppure, almeno così gli pareva, non aveva fatto nulla di male –, altri mormoravano sottovoce qualcosa che non riusciva ad udire con chiarezza.

Di colpo, il pensiero andò al ragazzino che aveva conosciuto qualche minuto prima al di fuori del portone: non doveva abbassare lo sguardo, no, era un segno di debolezza. E, cosa ben peggiore, stava ereditando da suo padre quella mancanza di rispetto: era stato abituato a non essere preso in considerazione, all'invisibilità, stava solo attuando quel che gli era stato insegnato.

Allora alzò lo sguardo, il più fieramente possibile, indirizzandolo ai compagni; questi, d'un tratto, smisero di sghignazzare convulsamente ed Arthur, per la prima volta nella sua vita, sentì di aver fatto qualcosa di giusto, solo per se stesso.



Fece appena in tempo a realizzare quel pensiero che il ragazzino con il quale aveva parlato qualche minuto prima si materializzò improvvisamente, proprio nell'aula, a quanto pareva stava cercando un posto libero.

Le ultime file erano occupate – sua madre gli aveva raccontato che lì si sedevano gli “asini” –, il ragazzino ne sembrò piuttosto deluso.

Arthur sventolò la mano, sperando che lo notasse, fu un gesto del tutto dettato dall'istinto: così fu, il ragazzo si sedette accanto a lui.

A ben vederlo, a qualche spanna dal suo volto, c'era qualcosa di inqualificabile in lui: forse si stava facendo condizionare dai suoi vestiti, sporchi e stracciati, oppure da ciò che portava sottobraccio; eppure, nonostante le apparenze, Arthur vedeva nei suoi occhi una tristezza di fondo.

Ebbene sì, dietro le lenti spesse, c'era una storia autentica.



«Non fissarmi. Sono solo più povero di te», obiettò il ragazzino, cercando di non far trasparire la rabbia.

«N-Non volevo!», si giustificò lui, «Io sono Arthur. Arthur Kirkland».

Disse, porgendogli cordialmente la mano; il suo compagno di banco lo guardò per un momento dall'alto in basso, rifletté qualche secondo, poi dibatté: «La famiglia Kirkland, eh, corre voce che di questi tempi non ve la passiate bene. Il ché spiegherebbe la tua presenza qui, in effetti. Piacere, Alfred Jones».

La sua fama, a quanto pareva, lo precedeva – o, perlomeno, quella della sua famiglia.

Beh, in tutta sincerità, in quel periodo erano più che altro gli investimenti sbagliati della famiglia Kirkland a precedere la sua nomina, suo nonno portava avanti una grande azienda, ormai da anni, tuttavia negli ultimi tempi aveva dovuto licenziare parecchi dipendenti e ciò aveva fatto scattare la classe degli operai.

Numerosi, nonché rivoltosi, erano stati gli scioperi di fronte alla grande azienda – i Kirkland, in quel periodo, non erano visti di buon occhio.

«Sì, esatto. È la prima volta che vengo in una scuola pubblica. M-Mia madre ha detto che sarà un'esperienza passeggera!», scattò nervosamente, come a volersi giustificare.

«Sì, certo, quelli come te non restano qui. Si vedono scritto il loro futuro sin dalla nascita», disse Alfred, in tono talmente incisivo che ad Arthur risultò difficile obiettare.

«Quelli come me?», domandò alla fine, più a se stesso che al compagno di banco.

Pareva che Alfred stesse per rivelargli qualcosa proprio in quel momento, quando la voce imperiosa della maestra rimbombò nell'aula.

Poteva sembrare stupido, addirittura surreale, ma ciò che lo emozionò davvero di quel primo giorno fu l'incontro con Alfred Jones – sebbene avessero scambiato poche parole, quest'ultimo gli aveva dato molto più di una chiacchierata.











Il giorno dopo Londra si era svegliata ancora più annebbiata del solito, la strada che fece in compagnia di Margareth gli risultò meno nitida proprio a causa della foschia, si preannunciava maltempo a quanto pareva.

Quel giorno, inoltre, la sua balia sarebbe venuto a prenderlo un'ora dopo – doveva svolgere qualche commissione per sua madre, la quale sarebbe dovuta partire misteriosamente a breve –, ragion per cui Arthur avrebbe dovuto aspettare.

Non gli conveniva fare un giro nei dintorni, rischiava di perdersi, quindi l'avrebbe attesa pazientemente sui gradini al di fuori della scuola.

E così fu, invero, quando finirono le lezioni: Arthur si guardò per un attimo in giro – nella speranza, forse, che Margareth avesse cambiato idea –, le speranze crollarono pochi minuti dopo.

Si sedette sui freddi gradini marmorei, allora, sfilò dalla cartella di pelle il libro di testo – ancor prima che iniziasse la scuola, questi gli erano già stati recapitati a casa –, poi iniziò a leggere.





«Posso dare un'occhiata al libro?», mormorò una voce familiare, prendendo in mano il suddetto oggetto di propria iniziativa.

«Non ho detto niente», dibatté timorosamente Arthur.

«Appunto, lo interpreto come un sì».

Alfred sfogliò con aria disinteressata il libro di testo, poi lo lasciò scivolare sulle ginocchia del ragazzo. Sbuffò, piuttosto laconicamente invero, dopodiché sentenziò: «Sei troppo debole, Arthur. Certe persone potrebbero approfittarsi di te».

Le guance di Arthur si gonfiarono come due palloncini, non aveva mai conosciuto nessuno di più impertinente di Alfred Jones.

Stava iniziando ad odiarlo, sì, profondamente – tuttavia, una parte di sé era incuriosito dai suoi modi poco garbati, nonché dal suo atteggiamento indisponente.

Quindi, si disse, avrebbe dovuto canzonarlo per bene – quello, perlomeno, era l'augurio che si era fatto.

Finché, d'un tratto, il cielo non ruggì contro di loro.



Le nubi, d'un tratto, si condensarono: una pioggerellina sottile eppure fastidiosa, come tanti aghi acuminati, si abbatteva violentemente sui loro corpi.

Ben presto Arthur si scoprì bagnato, allorché corse a ripararsi sotto l'immensa impalcatura della scuola, accanto ad una colonna. Alfred, prendendolo improvvisamente ad esempio, lo seguì a ruota.

Il compagno, a differenza sua, rideva convulsamente – Arthur non se ne sapeva spiegare bene la ragione, ci doveva essere qualcosa nella pioggia che un ragazzino mentalmente chiuso come lui non riusciva a comprendere.

Gli occhiali di Alfred si appannarono, ben presto Arthur riuscì a vedere solo il suo sorriso: d'un tratto, senza alcuna motivazione, si trovò contagiato dalla sua risata.



«Perché stiamo ridendo?», chiese incuriosito.

«Non c'è un motivo. Forse per ingannare il tempo, forse perché in questo modo sentiamo meno freddo», disse Alfred, prendendo in mano gli occhiali e pulendo le lenti su un lembo asciutto del giacchino, «Forse ridiamo di noi».

Sulle labbra di Arthur, d'un tratto, si spense il sorriso; Alfred non aveva detto nulla di male, assolutamente, nella sua mente però erano iniziati a germogliare tanti dubbi. In quel momento voleva essere solo al fianco dell'amico, avrebbe voluto che quella pioggia durasse per sempre.

Le parole, mai come allora, sembrarono essenziali e, in egual maniera, i silenzi.

Arthur avrebbe voluto dire qualcosa – sì, qualcosa di altrettanto speciale –, ma non era mai stato bravo con le parole: sin da piccolo era stato abituato a leggere molto, in molti giudicavano eccellente la sua dialettica e, pur tuttavia, quando si trattava di parlare a cuore aperto si sentiva un ignorante.

Alfred, invece, era diverso: sapeva trovare le parole giuste, proprio nel momento adatto.

Quella volta, però, anche le sue labbra fallirono: optarono, infatti, per uno scontro aperto e si diressero avventatamente sulle gemelle. Arthur ci mise un po' a realizzare ciò che era appena avvenuto, ancor più ad allontanare Alfred da sé – ma, a conti fatti, voleva davvero?

Perché, quei pochi secondi che le loro labbra trascorsero insieme, ad Arthur parve di sentire un piacevole calore arrivargli sino al cuore, gonfiargli il petto e prosciugargli la mente.

La pioggia, quel giorno, era penetrata sin nei loro cuori.

Le mani di Alfred stringevano il suo viso, forse tremavano un po', quelle di Arthur caddero a penzoloni sui fianchi.

Erano sotto la pioggia, fortunatamente nessuno sembrava averli visti, nascosti dietro una colonna che celava molto più di quanto loro pensassero – oltre quel semplice pezzo di pietra c'erano le insidie, i pregiudizi e l'ignoranza della gente, cose che avrebbero potuto solamente arginare negli anni a seguire.

Nella mente delle persone si rifletterà sempre uno specchio: inutile tentare di guardarsi dentro, il riflesso manderà loro una immagine sempre più vera del reale.



«C-Cosa stai facendo?», disse Arthur, scostandolo forzatamente da sé.

«Non ti stavi opponendo, mi sembra», fu la blanda scusante del compagno.

«Alfred! Siamo... ragazzi, non puoi farlo!», esclamò agitato Arthur, strofinandosi la manica della giacca nuovamente contro le labbra.

«D'accordo, non lo farò più».

Arthur non sapeva cos'altro dibattere ma, no, non era furioso: il modo con il quale le labbra di Alfred si erano sposate con le sue, i loro respiri uniti all'unisono e le mani del compagno sul suo viso erano cose che non avrebbe dimenticato con facilità.



«Arthur, Arthur!».

Una voce familiare urlava il suo nome, ragion per cui gli fu impossibile rispondere; Arthur, allora, si voltò e riconobbe la sagoma di Margareth.

Il rumore della pioggia, d'un tratto, si attutì: Arthur non poteva giurarlo ma, almeno così gli pareva, il suo cuore tamburellava sempre più svelto – quasi sembrava che lottasse per uscire fuori dal petto.

Si voltò, allora, evitando di incrociare lo sguardo di Alfred: temeva che avrebbe notato il repentino rossore che gli colorava le guance – la verità era che la pioggia non smise più di battere impetuosa, da quel momento in avanti.











* * * *







Storia dedicata ad Emiko e Roro, due meravigliose personcine, tanto fluff. ;__;

No, aspetta, meglio non dire fluff – dopo quel contest ci basterà per una vita, right Rò? <3

Seriamente: ve la dedico perché sapete condividete lo stesso amoreH che nutro per questa magnifica coppia *coff. Okay, è la prima volta che ci scrivo su ma li ho sempre amati tantissimo. <3*

Quindi, ecco, spero di farvi cosa gradita.

Perché di USUK non se ne ha mai abbastanza (??) – slogan random. XD





Saranno giorni che sto lavorando a questa storia... ma che dico, mesi!

In verità doveva partecipare all'USUK contest ma, ehm, vari contrattempi mi hanno impedito di scrivere la storia. E, sinceramente, mi dispiaceva stendere un testo “a tirar via”.

Nella mia mente questa storia c'è da mesi, vi spiego: questa che avete letto – vi ringrazio, in tal caso. <3 – è la prima di quattro parti. Originariamente erano tre parti ma questa prima parte sul mio pc occupa venti pagine e non mi sembrava il caso di postarle tutte insieme oggi.

Indi, il prossimo capitolo sarà il completamento di questa parte.

Le parti restanti, invece, saranno dedicate ad altri due periodi di vita di Arthur ed Alfred.

Vi spiego: questa fan fiction – a cui tengo molto, credo che sia uno dei lavori più grandi in termini di lunghezza che abbia mai fatto. XD – si propone di narrare la storia di Alfred ed Arthur dagli “albori”, per così dire, fino ad arrivare ad un età matura.

Capirete una volta concluso questo “periodo”, con il completamento della prima parte.

Perché questo titolo?

Dunque, voi dovete intendere “il resto del mondo” come delle persone: costoro sono, ad esempio, la madre di Arthur o, non so, l'austera maestra a cui accennavo. Sono, insomma, coloro i quali pensano che il mondo obbedisca a certi schemi imprescindibili.

La seconda parte chiarirà la scelta di questo titolo, comunque.

Inoltre, in questa storia mi propongo di mostrarvi la crescita dei singoli personaggi: mi scuso anticipatamente se vi saranno sembrati OOC ma dovete tener conto delle esigenze. La guerra non è ancora tanto lontana, anzi, la disoccupazione dilaga, negli anni '60 inoltre si evitò per un pelo lo scoppio di un altro conflitto mondiale (questa è una curiosità, per chi non lo sapesse).

E, in questo desolante scenario, ci sono delle caste: la famiglia Kirkland, ad esempio, fa parte di questa categoria. Arthur è un ragazzino a modo, cresciuto però in una “gabbia d'oro”, oltre alla quale non può uscire. Va da sé che il suo carattere ne sia stato condizionato, al punto che è la città stessa ad agitarlo, la scuola, il contatto con le persone. Stesso discorso vale per Alfred, sebbene la situazione sia completamente diversa in questo caso.

Ultima cosa, poi mi dileguo: il discorso iniziale è frutto dei miei pensieri, sì, ispirati però ad una serie di correnti filosofiche... i post-marxisti, in primis, i filosofi degli anni '30-'40 e diverse teorie freudiane trattanti l'omologazione ed il conformismo di massa.

Smetto di assillarvi ma volevo che fosse tutto chiaro.

Ultimissima cosa: il rating cambierà a seconda dei capitoli. Per ora metto “rating verde” ma sicuramente sarà modificato. ;D



Al prossimo capitolo,

Kì.

   
 
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