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Autore: Ronnie02    18/11/2011    4 recensioni
I fratelli Leto hanno paura dell'amore, ormai è chiaro. Ma se fosse per precedenti e struggenti esperienze? Chi sono le ragazze che li hanno incantati? Che cosa è successo?
E se tornassero nella loro vita, riportando quella brama di desiderio puro in loro, invece che solita voglia di una botta e via?
Spero di avervi incuriosito!
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'One Day Maybe We'll Meet Again'
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Salve, o popolo di EFP. 
E già, sono qui con un'altra storia. Ma stavolta nella mia collezione di visioni mentali ho voluto aggiungere una storia sulla mia band preferita: i 30 Seconds To Mars.
Loro che mi ispirano sempre mentre scrivo, loro che mi aiutano nelle verifiche (Santo Tomo preghiamo per te), loro che con i loro sorrisi mi riavvivano la giornata.
Loro: Jared, Shannon e (anche se non in questi primi capitoli) Tomo.



Prologue

 
A volte mi chiedevo a che cosa mi servisse andare a scuola. Insegnavano cose talmente inutili; cose che nessuno su questa terra mi avrebbe mai chiesto al di fuori di questo edificio.
Come se per lavorare mi servisse sapere, un giorno, che Uranio è un Gigante di ghiaccio o che Venere ha un periodo di rotazione enormemente inferiore rispetto a quello terrestre. Oppure che Marte ha due satelliti, al contrario della Terra che ne ha solamente uno.
Io non volevo fare l’astronauta e  viaggiare per l’universo con una tuta super ingombrate attaccata con un filo gigante alla navicella spaziale. O perfino diventare una fisica laureata alla migliore università e passare il resto della mia vita a pensare ai numeri, invece che alla vera realtà terrestre.
Allora a cosa serviva studiare tutto questo se dopo due mesi te lo dimentichi già, non essendoci realmente interessata? A niente.
O almeno così credevo, in quel momento, in quella classe grigia e triste che rispecchiava da morire il mio stato d’animo, piena di persone che avrei dovuto conoscere come il palmo delle mie mani ma invece erano a me totalmente estranee, anche se ero stata costretta a viverci vicino per cinque lunghi anni.
Ma forse, in realtà, alla fine tutto questo mi sarebbe servito. Almeno in piccola, o piccolissima parte.
Soprattutto l’ultimo quesito… Marte.


Capitolo 1. Welcome new life!

 
“Sono così triste al pensiero che non ti rivedrò fino a Natale”, mi disse la mia migliore amica, Andrea – anche se io la chiamavo Andy –, all’aeroporto. Eravamo entrambe in partenza per riorganizzare da zero e, soprattutto, da sole la nostra vita. Io sarei partita per la Louisiana, nella sconosciuta cittadina di Bossier City per lavorare e vivere una vita migliore, mentre lei partiva per Francoforte, in Germania. Avrebbe lavorato e studiato lì, vista la sua passione per il tedesco.
Non ci saremmo più riviste fino a Natale, quando avremmo pagato a metà il suo viaggio di andata e ritorno per venirmi a trovare. Nel frattempo la tecnologia ci avrebbe aiutato a tenerci in contatto, visto che non eravamo abituate a certe enormi distanze.
“Credo che dovrai sopportarmi via Skype per tutto il resto della tua vita, tesoro”, le sorrisi abbracciandola forte. Mi sarebbe mancata davvero tanto.
“Meno male, non avrei resistito a non vedere la tua bella faccina pazza per quattro mesi!”, mi prese in giro, tirandomi la coda alta che avevo fatto per resistere al caldo asfissiante di agosto nella bella e caotica città di Milano.
Che estate era stata quella! L’avevamo passata sui libri per superare l’imminente esame di maturità e agli inizi di luglio eravamo impazzite a causa degli orali.
Ma alla fine eravamo andate bene: un 87 per lei e un 76 per me. Non mi lamentavo, anzi.
“I voli per New York, Francoforte, Londra e Rio de Janeiro stanno per partire”, gracchiò l’altoparlante. Bene, era ora.
“Sei sicura che riuscirai ad arrivare a Bossier City sana e salva?”, mi chiese per la trentesima volta riguardo il mio scalo, non essendoci un diretto come il suo.
“Stai tranquilla, ce la farò!”, ridacchiai abbracciandola di nuovo, mentre gli occhi si lucidavano un pochino. Mi era mai piaciuto dire addio, o comunque arrivederci.
“Bene, allora ripeti la rotta con me: prima la mitica e famosa New York e poi la piccola e insulta Bossier City. Per arrivare a casa dovrai prendere il taxi, ricordi?”, ridacchiò facendo la solita maestrina.
“La vuoi smettere?! Se continuiamo perdiamo entrambe l’aereo, e il mio viaggio sarà abbastanza lungo, perciò non voglio rischiare di dover rimandare ancora più tempo perché non stai zitta”, la zittii facendola sorridere e poi salutandoci per l’ultima volta.
“Voglio essere sicura che tu stia bene”, mi disse lei, con la dolcezza che sapevo la caratterizzava.
“Io starò benissimo, anche se mi mancherai da morire”, le risposi con un sorriso. “E vedi di non combinare danni a Francoforte! Io non ti pago la cauzione per evadere!”.
“Come se fossi io la ribelle casinista”, mi prese in giro, accogliendo di buon grado la giusta risposta alla mia insulta battuta. “Anzi, cerca di non uccidere il tuo capo e di fare la brava!”.
“Sì, sì farò la brava bambina”, dissi per poi spingerla un po’ via. “Ora vai o perdiamo i voli! Ti voglio bene”.
“Anche io, tesoro. Ci vediamo a Natale, Vero”, mi salutò andandosene lontana, muovendo la mano, ornata dallo smalto bluastro che si era messa sulle unghie.
“Salutami la Germania, Andy”, risposi io tintinnando con tutti i braccialetti che avevo ai polsi.
Ora ero veramente sola, così feci un paio di respiri e mi diressi verso il giusto gate. C’era tantissima gente che doveva partire e forse dovevo aspettarmelo. Il primo volo su cui sarei salita era per New York ed eravamo ad agosto; molti attendevano proprio questo periodo per partire e fare la vacanza dei loro sogni.
Loro scappavano dalle realtà giornaliera per passare una o due settimane all’insegna del riposo o delle gite culturali; io scappavo dalla mia vecchia e tragica vita italiana per avviarmi nella foresta del futuro nei grandi e famosi Stati Uniti d’America.
Welcome new life!
 
“I’m sorry, miss, can I sit there?”, mi chiese un uomo abbastanza alto, con i capelli riccioli e neri, con la pelle marroncina-biancastra. Per l’accento con cui aveva parlato inglese poteva benissimo essere spagnolo, ma anche portoghese per quel che ne sapevo.
Gli feci segno di accomodarsi e lui mi sorrise mettendosi comodo. Ero sull’aereo che mi avrebbe portata verso il Barksdale Airport, nella periferia di Bossier City, e molti posti ora erano vuoti. Quando ero salita su quello per New York facevamo quasi fatica a salire tutti e non era  stata quella grande ed educativa esperienza di vita: l’agenda che mi ero portata in borsa era stata riempita di scritte, canzoni, disegni o scarabocchi vari in meno di quattro ore e le seguenti due e mezza dovetti arrangiarmi con quell’aggeggio di “ultima generazione” chiamato lettore mp3. Tutti, da due anni prima a quel momento, erano impazziti e ne avevano comprato uno. Il mio era uno dei nuovi, appena uscito, ed era un regalo per la promozione da mio fratello. I miei genitori non mi avevano onorata di un loro regalo, ci mancherebbe…
Le duecento canzoni che a malapena ci stavano lì dentro le sentii così tante volte che a fine viaggio potevo cantarle come se fossi l’autrice, da tanto le conoscevo bene.
“The plane is gonna be land, I hope you have a good travel with us”, diceva la voce fintamente gentile e premurosa della hostess dietro di noi, mentre tutti mi mettevano la cintura e si preparavano ad atterrare.
Mi tolsi le cuffiette, spensi tutto e misi anche io la cintura. L’aereo si cominciò ad inclinare, piano piano, e ad entrare nella foschia della città. Strano, non era sereno il tempo ed eravamo nel sud! Forse ero io che portavo sfortuna.
Risi della mia insana logica e guardai fuori dal finestrino proprio al mio fianco. Giù, sempre più in giù, le abitazioni si facevano sempre più vistose, le strade cominciavano ad ingrandirsi. Giù, ancora più in giù, vedevo l’aeroporto, le personcine pronte ad accoglierci.
Ba bam! Le ruote toccarono il terreno e il motore rallentò pian piano, fino a fermarsi del tutto.
Le hostess parlarono ancora e ci dissero che potevamo scendere, così si formò una grande fila indiana per uscire da quella gabbia volante.
Scesa di lì, andai a prendere i bagagli, che arrivarono immediatamente, e uscii dall’aeroporto e presi un taxi per casa mia.
Era un appartamentino vicino al ristorante dove avevo trovato lavoro, nel piccolo centro della città e i miei genitori avevano deciso di comprarmelo, sotto quasi obbligo della nonna che si preoccupava per la mia partenza da marzo, quando avevo annunciato a tutti la mia decisione. A luglio infatti avevamo spedito tutti gli scatoloni e ora era arrivata l’ora di sistemarli. Sarebbe stata una lunghissima giornata!
“Eccoci qua, Delhi Street 9”, mi disse in inglese in taxista. Bè, non avevo così tanti problemi di comunicazione come tanti mi avevano anticipato. Al diavolo loro e i loro discorsi! “Fanno quindici dollari”.
Gli diedi i soldi, aggiungendo anche cinque dollari di mancia, sapendo che lì erano abbastanza fissati e poi scesi dall’auto, prendendo tutti i miei vari bagagli.
Eccomi qui, in una di quelle tipiche casine a schiera americane, fatte di legno, quel materiale che se le toccavi anche solo con un dito cadevano a terra.
Ma era mia. Solo mia… e l’adoravo già.
Mi feci coraggio per partire con la mia nuova vita e camminai lungo il piccolo vialetto che portava alla porta d’ingresso, contornata da una piccola veranda, come nei film. L’aprii e mi ritrovai nel salotto, pieno zeppo di scatoloni impilati e scritti. I mobili, almeno, erano già montati ed erano fantastici.
Per la prima volta nella loro vita, i miei genitori avevano sborsato per me una grande cifra. Questo dava loro parecchi punti che non si erano guadagnati in passato.
Andai al piano di sopra, dove una c’era una semplice camera da letto, con solo un letto, un armadio e una scrivania, e un piccolo bagno, ma perfetto visto che ero da sola. Era tutto un po’ troppo semplice per ora, ma sarebbe bastato aprire gli scatoloni e rimettere tutto al solo posto per portare un po’ di movimento e allegria alla casa. Non c’era nemmeno bisogno di ridipingere, perché non era così messa male come avevo avuto paura che fosse nelle ultime tre settimane.
“Bene… al mio tre, tutti pronti”, parlai a me stessa posando i bagagli vicino al letto e facendo altri due respiri profondi per prepararmi al peggio. “Uno… due… tre!”.
Scesi di sotto e cominciai a prendere lo scatolone con scritto “cucina”: lì c’erano aggeggi quali il microonde, la macchina del caffè o roba varia che venne subito posizionata in maniera piuttosto decente sui piani di lavoro del mobile della cucina. Non ero una maga nelle faccende pratiche, ma infilare una spina nella presa non doveva poi essere così difficile!
Dopo la cucina passai ad “accessori sala”: lì c’erano i cuscini o i rivestimenti per il divano, oppure tutti quelli oggettini che abbelliscono una stanza. In più ci avevo messo dentro qualche quadro. Ci ritrovai anche il dipinto che mi aveva fatto Milena, la mia amica fiorentina, qualche anno fa. Lo misi con gli altri sul muro della sala.
Poi passai allo scatolone rinominato “camera mia 1”: lì dentro c’erano altri cuscini, le varie coperte e le lenzuola, e tutti i vestiti che ero riuscita ad infilarci dentro. Poi c’erano anche altre foto di quando ero piccola o quando facevo ancora danza moderna. Avevo sedici anni… mi sentivo vecchia a guardare quelle foto, anche se ora ne avevo solo tre in più e non venticinque!
Scesi di nuovo e presi “camera mia 2”: ovvero la lampada da mettere sulla scrivania, i vari accessori da mettere sulle mensole, piccoli e pochi pupazzi che mi ricordavano la mia infanzia, la quantità indecente di libri con cui riempii subito la libreria e lo stereo che mi ero portata dietro. La mia vita senza uno stereo in camera non esisteva. La musica per me era troppo importante.
In fondo a quello scatolone avevo creato un piccolo spazietto, quasi segreto e nascosto, che avevo rinominato “Vero&Andy”. Lì dentro c’erano tutte le foto di me e della mia migliore amica, da quando ci eravamo conosciute a nove anni fino al nostro diploma. Le appiccicai subito sull’armadio in modo un po’ disordinato ma abbastanza artistico. In fondo ero sempre stata brava a fare queste cose.
Alla fine, poi, schiacciai tutti gli scatoloni vuoti e li misi sopra l’armadio, in modo che potessero essere riutilizzati in un probabile futuro. O forse anche no.
Poi, l’ultimo rimasto era “bagno”, ma ci misi così poco tempo a sistemare tutto che non lo presi nemmeno in considerazione.
Quando finii anche quello tornai in cucina e mi mangiucchiai qualcosina, che avevo messo nella borsa. Avrei dovuto fare la spesa perciò guardai l’orologio per vedere se potevano ancora essere aperti i negozi: la una e mezza di notte.
Oddio! Non mi ero nemmeno accorta di averci messo un giorno intero a sistemare tutto – che in effetti era relativamente poco – e il tempo era volato via. Tutto il sabato a sistemare casa e lunedì dovevo già presentarmi al lavoro. Meno male che avevo il giorno dopo libero. Santa domenica, ti ringrazio di esistere!
Per il frigo pieno ci avrei pensato poi, o avrei vagabondato alla ricerca di un supermarket per tutto il giorno o avrei mangiato in giro. Così avrei visto come funzionava il mondo dei bar e dei ristoranti americani.
Sospirai e poi andai a lavarmi e a mettermi il pigiama. Direi che era ora di andare a dormire. Sempre la solita smemorata, Vero!
La mattina successiva non mi svegliai prima delle otto e mezza, ovvero quando il sole mattutino riuscii ad entrare nella finestra di camera mia. Mi misi seduta e mi stropicciai gli occhi prima di aprirli. Wow, era così strano essere lì; avevo pensato che fosse stato tutto solo un sogno e che la mattina mi sarei di nuovo trovata nella mia vecchia casa. E invece era tutto vero, per fortuna.
Mi alzai e andai a fare colazione di sotto con quel poco cibo che mi era rimasto. Sia lodato il Signore che di solito non mangiavo praticamente niente o sarei morta di fame. Al contrario di mio fratello, che mangiava come non so cosa, io spizzicavo qua è là qualcosa ed ero già piena. La differenza che, anche se mangiavamo quantità diverse di cibo, eravamo magri uguali.
Finito il mini pasto tornai di sopra per farmi una doccia veloce e pulirmi i denti. L’acqua fredda mi sciolse un po’ dal caldo che oggi si era presentato a casa. Finalmente sembrava davvero un agosto nel sud degli Staties.
Poi tornai in camera e m’infilai una canottiera blu e dei pantaloncini della tuta verdastri. Abbinati ovviamente alle mie immancabili Vans a scacchi verdi e neri, anche se ormai erano talmente scritte che il colore contava poco!
Ora… che fare? Casa era sistemata, perciò decisi di uscire un po’ dalle nuove quattro mura e vedere un po’ la vera luce del sole.
Scesi al piano terra e uscii dalla porta d’ingresso trovandomi nella veranda. Intorno a me c’erano degli alberelli bassi, che definivano il contorno della mia proprietà dalle altre, ma erano tutti un po’ smorti.
Mi voltai, cerando qualcosa che potesse contenere dell’acqua per innaffiarli. Scoprii che gli aggeggi per il giardino erano dietro, dove un minuscolo spazio di terra e erba definiva la fine della casa. Non era liscio quel pezzo, forse perché il vecchio proprietario ci aveva lavorato e poi l’aveva abbandonato a se stesso.
Comunque, riempii l’innaffiatoio e feci il giro di tutte le piante per ridare loro un po’di colore, sperando di non averle perse per sempre.
“Ehi, sei la nuova proprietaria, non è così?”, parlò una voce femminile. Alzai lo sguardo e mi ritrovai davanti una donna sulla cinquantina, bionda – forse tinta – e con gli occhi chiari. Forse era una mia nuova vicina.
“Ehm, sì, sono io”, spiccicai due parole in croce, come se fosse in ansia. Di solito non ero così nervosa a parlare con degli estranei del genere, ovvero non troppo spaventosi.
“Oh, piacere! Sono felice che questa casetta abbia un nuovo padrone. È sempre stata una bella casa e speravo proprio che qualcuno la riprendesse”, disse tenera come se stesse parlando di un animale domestico invece che di una casa.
“Oh, be sono felice. Sì, è davvero messa bene”, continuai sorridendo.
“In più avrò una bella e giovane vicina!”, si complimentò. Mi sembrava di stare con mia nonna paterna, che si divertiva a mettermi in imbarazzo presentandomi a tutte le sue amiche e facendomi vedere. “Oh, ma che sbadata. Io mi chiamo Constance”.
“Veronica. Veronica McLogan”, risposi dandole la mano pulita, visto che l’altra teneva l’innaffiatoio ed era un po’ bagnaticcia.
“Sei inglese?”.                                                                                         
“No, italiana”, corressi sapendo il perché. Il mio cognome non rispettava esattamente la mia provenienza. “Dei miei parenti però erano scozzesi”.
“Wow, ho sempre amato l’Italia, ma ho avuto la sfortuna di non poterci mai andare”, commentò lei quasi triste. “Penso sia un paese davvero bello”.
“Sì, lo è”, sorrisi pensando che da noi invece si pensava lo stesso ma riferito agli Stati Uniti. Chi non ha il pane, ha i denti; chi non ha i denti, ha il pane…
“Bè, ti lascio al tuo lavoro, oggi i miei figli vengono qui a pranzo e devi preparare da mangiare”, mi disse. “Anzi, ti va di venire da noi? Magari non hai avuto tempo di conoscere un po’ di gente visto che ti vedo solo ora. Quando sei arrivata?”.
“Ecco… ieri dopo pranzo e ho passato tutto il pomeriggio e la sera fino alle due a sistemare casa”, sorrisi.
“Oh, allora non sarei nemmeno riuscita a prendere qualcosa!”, indovinò. “Quindi sei ufficialmente invitata. Spero solo che quei due non ti infastidiscano troppo. Venti nove anni il più piccolo e sono ancora delle pesti!”.
“Ok, va bene”, ridacchiai salutandola e promettendole di andare da lei alla una e mezza. Era gentile, forse anche troppo visto che per lei ero una sconosciuta, perciò mi faceva piacere esaudire un suo desiderio.
Finii il mio lavoro e poi tornai in casa per fare il resoconto di ciò che dovevo fare, tra la casa e il pranzo dalla signora Constance.
 
 
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Note dell'autrice:
Io sono solita a cercare un rapporto con i miei lettori, quindi vorrei ricominciare le presentazioni anche in questa storia.
Mi chiamo Greta e anche se nel mio nickname c'è il nome della protagonista questa NON è una storia autobiografica di un sogno: non ho capelli rossi, non ho occhi verdi, non abito in America, non conosco nè Constance nè i Leto, non faccio la ballerina e non ho gambe mozzafiato (questo però mi piacerebbe fosse vero xD).
Ho solo voluto inserire qualcosa di personale per farla sentire davvero mia. <3
Per il resto amo cantare, amo scrivere e spero che questa storia vi piaccia perchè ci sto lavorando duramente.

Con tutto l'affetto che la reale Ronnie02 vi può dare.... alla prossima!
   
 
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