“Funny games”
Le babbucce rosse non produssero alcun suono mentre avanzavano con flemma lungo il corridoio, rischiarato dalle fievoli luci notturne che tracciavano rasoterra il percorso.
Bulma aveva gettato sulle spalle una mantellina di
lana, di tinta azzurra come il pigiama, quando si era alzata dal suo letto ed
aveva lasciato la stanza nel cuore della notte.
Il prematuro risveglio era stato inghiottito dalle
tenebre circostanti ed un brivido di freddo le aveva fatto sussultare le membra
intorpidite.
Rincalzata la coperta, aveva tentato invano di
riprendere calore, fino a quando non aveva risolto ad alzarsi con un mugolio di
esasperazione.
Malgrado le prime sfumature bronzee delle foglie,
come fortuite pennellate abbozzate qua e là tra le chiome degli alberi, sua
madre non si era ancora decisa a foderare il letto con una trapunta più adatta
alla stagione.
La porta presso la quale arrestò il passo si aprì
dietro il suo tocco cauto e circospetto.
Portò le mani avanti e si fece strada nel buio con
le stesse movenze di una non vedente.
Il respiro profondo dell’uomo che giaceva nella
stanza si infrangeva contro la stoffa del guanciale vibrando più rumoroso di
quanto fosse del normale.
Bulma trovò finalmente la sponda del letto e lo
sormontò con attenzione infilandosi sotto le coperte.
Si andò ad avviluppare contro il caldo corpo di
Vegeta, che era solito dormire col torso sempre nudo anche nelle notti più
rigide d’inverno.
Il calore delle sue spalle scolpite le procurarono
un rinnovato benessere che durò solo pochi istanti prima di essere disfatto da
uno scatto selvaggio con la quale le attanagliò i polsi in una morsa dolorosa
ed irriducibile, sovrastandola con tutta la propria poderosa massa muscolare:
“Lasciami… sono io!” gridò lei senza riuscire a
divincolarsi.
“Dannazione, Bulma!” le strattonò ancora le braccia,
ma con meno vigore quando, riconosciuta la sua voce ed il suo odore, si ridestò
nella realtà abituale della sua stanza “vuoi farti ammazzare?! Quante volte ti
ho detto che non devi infilarti di soppiatto nel mio letto quando sto
dormendo?!”.
Le pupille nere si restrinsero graffiate dalla luce
dell’abatjour sul comodino che lei si mosse ad accendere:
“Si può sapere cosa sogni durante la notte…?” fece
contrariata massaggiandosi i polsi “non sai che sono io…? Chi altro credi possa
essere…? Dovresti prendere un tranquillante prima di coricarti…!”
Vegeta rotolò con la schiena sul materasso.
Stropicciò le palpebre disturbate, sbirciò la
sveglia e scoprì che mancava un quarto alle due:
“Che sei venuta a fare a quest’ora…?”.
La sua freddezza non ebbe il potere di smontarla e
così Bulma tornò a distendersi accanto a lui, chinando la testa sull’acciaio
dei suoi pettorali ed intrecciando una gamba intorno alle sue:
“Avevo freddo…” mormorò col broncio di bambina “volevo
riscaldarmi vicino a te…”.
Vegeta non disse niente, limitandosi ad incrociare
le braccia dietro la testa.
Non l’avrebbe stretta, non così, non dopo una sua richiesta.
In realtà era stato un incubo ad interrompere
bruscamente il suo sonno e non il freddo.
L’increspatura della sua fronte, coperta dalla
graziosa frangetta, tradiva ancora la sua preoccupazione.
Non era sicura di volerla in qualche modo esternare
al compagno.
Non era andata da lui per questo.
Voleva solo un po’ di calore e forse sentirsi meno
indifesa accanto a lui.
Più volte fu sul punto di dare fiato alle corde ma
dalle labbra uscì solo un respiro senza parole.
Il saiyan la sentì tremare, prima che ella riuscisse
finalmente ad articolare:
“Come… come era fatto… Freezer…?”
L’altro si accigliò:
“Ti sembrano domande da farsi a quest’ora della
notte… e perché mai ti dovrebbe interessare questo?”
“Era nella mia stanza…” disse gravemente.
Egli le afferrò allora le esili spalle e la guardò
negli occhi per capire se stesse delirando:
“Ho sognato che entrava nella mia stanza e si sedeva
sul ciglio del letto ad osservarmi…” chiarì meglio, tornando a poggiare il capo
sul suo torace “io non riuscivo a muovermi… ma lui restava lì a fissarmi
divertito… io non ho mai visto Freezer, ma sapevo… come per istinto… che era
lui… poi è arrivato Cell… anch’egli si è seduto sull’altra sponda a fissarmi
e…” smise di raccontare quando sentì il petto dell’uomo scuotersi
improvvisamente e prorompere in una risata che squarciò il silenzio
circostante:
“La smetti di ridere?!” fece indispettita, sedendosi
al centro del letto “non ci trovo niente di divertente! Hai sentito?!
Smettila!” gli tirò contro un cuscino, che non ebbe l’effetto sperato “non
basta abbia fatto quel terribile sogno… adesso devo sentirmi anche prendere in
giro… smettila!” gli andò a colpire l’addome con inutili pugni.
Vegeta le afferrò i polsi e tornò a sottometterla
con tutto il suo corpo, come se ella fosse stata inconsistente e potesse
disporre del suo fisico come più gli piaceva.
Sulla bocca sottile aveva lo spettro svanente di
quel ghigno:
“Io credo semplicemente che tu abbia fatto una
cattiva digestione…” le alitò sul volto “questi sono gli incubi e niente
altro…”
“Qualsiasi cosa fosse, non è stata piacevole… io ho
avuto paura…”
“Puoi stare tranquilla… sia Freezer che Cell stanno
bruciando all’inferno…” fece tagliente.
Questa volta fu lui ad approfittarsi della
morbidezza dei suoi seni e a sistemarci la testa.
“Non mi hai risposto… quali erano le sembianze di
Freezer…?”.
Nonostante il rocambolesco viaggio su Namecc e la
breve incursione che l’alieno aveva fatto sulla Terra, l’intrepida scienziata
non aveva avuto modo di scoprire le sue orride fattezze.
“Lascia perdere… è stato solo uno stupido sogno… non
ha alcun senso…” la mise a tacere severo.
Per lungo tempo nessuno dei due aggiunse altro.
In realtà, la rievocazione delle due famigerate
creature lo aveva inquietato più di quanto volesse dare a bere, non fosse altro
per la semplice coincidenza che aveva fatto un sogno molto simile solo qualche
notte prima.
Soltanto che lui arrivava quando era troppo tardi.
Il letto in cui giaceva Bulma era già lordato del
suo sangue.
Ma i sogni non significavano niente, continuò a
ripetersi anche in quel mentre, e per dimostrare a sé stesso che il racconto
della donna non lo aveva sconvolto più di tanto e che per la testa gli stava
invece frullando tutt’altro, le sollevò la maglia del pigiama e andò a suggerle
una delle sue generose mammelle.
Il loro profumo, il candore, e la delicatezza gli
mescolarono il sangue facendogli dimenticare tutto il resto.
I lombi atletici guizzavano già febbricitanti.
Risalì a baciarle la linea levigata del collo.
Era prossimo a disfarla degli indumenti quando si
accorse che il suo turgido petto non ansimava per il piacere, ma, scivolata nel
sonno già molti istanti prima che egli fosse preso da quell’ardore, respirava
soltanto beatamente.
L’osservò tra l’incredulo e l’indignato.
Allora non gli restò che darle le spalle con un
gesto risentito e coricarsi su di un fianco.
* * *
Trunks imparava a combattere con la stessa
attitudine con cui un piccolo genio sa risolvere operazioni inconcepibili per
chiunque altro coetaneo.
In poche parole, lo aveva già nel sangue.
Qualsiasi cosa facesse, era di livello superiore
alla media.
Vegeta aveva iniziato a tirargliela fuori soltanto
da poco tempo, ma quella potenzialità scalpitava nelle emozioni più ancestrali
del fanciullo fin da quando aveva incominciato a spiare gli allenamenti del
padre, nascosto dietro l’acciaio della camera gravitazionale (Leggi “Salto nel
vuoto” nda).
Al principe dei saiyan non restava altro che
ottundere ed affinare le sue innate capacità e nel farlo scopriva il gusto
nuovo e saporito di sentirsi padre.
Non sapeva dargli altro che questo, eppure
significavano già tanto per il suo cuore schivo e restio ai buoni sentimenti.
Il legame che lo univa a quel bambino prodigioso gli
alimentava la fierezza e l’orgoglio della sua stirpe, senza dimenticare che
nelle sue vene scorreva anche il sangue di una terrestre.
Le certezze di un tempo non erano più tali.
Qualcosa aveva iniziato ad incrinarsi dentro di lui
col volgere degli anni.
A poco a poco, aveva incominciato a gradire l’idea
di aver messo su famiglia.
Adesso, padre e figlio sorvolavano le vallate in
direzione della Capsule Corp.
Vegeta alternava gli allenamenti tra il giardino di
casa e le radure brulle tra le montagne.
Quanto alla camera gravitazionale, aveva decretato
che c'erano altri progressi da compiere prima che il bambino potesse metterci piede.
Il sole tramontava infuocando l’orizzonte verso il
quale si dirigevano affamato uno ed esausto l’altro.
Bulma aveva da poco infornato l’arrosto, quando i
due varcarono la porta del soggiorno.
Impallidì nel vedere Trunks procedere barcollante.
Il bambino aveva il volto pesto e gli arti altrettanto
tumefatti.
La manica della divisa di Vegeta era uno straccio
senza possibilità di recupero, ma sul suo corpo non erano visibili lividure.
“Trunks! Tesoro mio… che ti è successo…?” si
inginocchiò con apprensione per essere alla sua altezza “che cosa gli hai
fatto, animale che non sei altro?!” spalancò subito le fauci verso l’indiscusso
colpevole.
L’incolumità di Trunks era stata una sua costante
preoccupazione da quando Vegeta aveva incominciato ad allenarlo.
Temeva che potesse accanirsi su di lui, che si
lasciasse prendere troppo la mano dimenticando che era solo un bambino.
Ma le labbra tumide e sanguinanti di Trunks si
piegarono in un’insolita smorfia.
Ne uscì un sorriso macabro e raccapricciante:
“Che bello mamma… mi sono… divertito tantissimo
oggi… io e papà abbiamo combattuto sul serio…” masticò sangue e saliva.
“E lo chiami divertimento questo? Guarda come sei
ridotto! E tu?” appuntò i gomiti e tornò a guardare l’altro piena di furore
“che razza di incosciente sei? Avevi intenzione di massacrarlo?!”
Vegeta sogghignò:
“E’ più fango che sangue… e non dimenticare che non
è una femminuccia… un saiyan sa sopportare questo ed altro…” ribatté e se ne
andò in direzione del bagno.
“Tesoro…” riallacciò con premura “sei sicuro di
stare bene…?” lo esaminava dalla testa ai piedi “…e che cos’è questo
gonfiore..?” indicò con l’indice tremante la protuberanza che aveva al di sopra
della cintola.
Allora il bambino trasse dalla divisa un piccolo
animale arruffato.
Era un coniglietto bianco che aveva scovato sotto ad
una roccia, con una zampetta malmessa e sanguinolenta, prima di lasciare la
radura selvatica dove era stato ad allenarsi.
Tremava tra le sue mani ed ispirava una tenerezza
infinita:
“Posso tenerlo…? Ha bisogno di cure… è così
piccolo…”.
La madre gli scompigliò i capelli in un gesto
affettuoso.
Era contenta di constatare che la tempra di saiyan
fosse stata mitigata da un’altra del tutto contrapposta:
“D’accordo… ma dovrai occupartene da solo… adesso
corri a fare una doccia altrimenti non potrò medicarti…”
“Curerò anche lui…!” esclamò scomparendo nel lungo
corridoio.
Vegeta aveva un asciugamano annodato ai fianchi
quando lei entrò nella sua stanza e gli disse di non riuscire a trovare la
cassetta del pronto soccorso.
Entrò nel bagno annesso, saturo del vapori della
doccia, e la trovò nell’armadietto accanto al lavabo.
“Toccherebbe a te medicare tuo figlio… considerato
che sei stato tu a ridurlo in quelle condizioni…” gli disse sul punto di
uscire.
“Quante storie per quattro graffi…” mormorò il
saiyan “ti ricordo che sei stata tu a farmi presente con insistenza che era
arrivato il momento di allenarlo… non avevi messo in conto anche questo…?”.
Lo aveva fatto eccome.
In ogni caso, doveva riconoscere di non potergli
rimproverare niente, se non altro perché aveva temuto potesse accadere di
peggio nelle loro esercitazioni.
A modo suo, Vegeta si stava comportando bene.
Ciò che contava era vedere Trunks contento di
trascorrere del tempo insieme a suo padre, malgrado le ammaccature fossero il
prezzo che qualche volta doveva pagare.
L’asciugamano che d’improvviso scivolò sul pavimento
le fece cambiare predisposizione nei suoi confronti.
Bulma restò a fissarlo mentre, sollevando un piede e
poi l’altro, si infilava un paio di slip:
“Comunque…” la sua voce si modulò come il dolce
suono di un liuto “stasera potresti venire a dormire in camera mia…”
Vegeta tirò su anche i pantaloni:
“Non meriti niente…” le disse senza aver dimenticato
di essere stato mandato in bianco la notte precedente.
“E cosa avrei fatto di male…?” atteggiò la bocca in
un innocente interrogativo.
Ma il saiyan non aggiunse altro.
“Fa come vuoi…” aprì lei la porta “se non vieni tu…
verrò io… e poi non dire che non ti ho avvertito…” ammiccò ed andò via.
* * *
Trunks aveva preso seriamente a cuore le sorti del
coniglietto trovato intrappolato sotto una roccia.
Forse era il sentimento di colpa che attanagliava la
sua coscienza, perché era stato lui la
cagione della caduta del masso, ma da quel giorno non se ne era più separato.
Prodigandogli cura ed affetto, il piccolo animale
era riuscito a sopravvivere.
Soddisfatto allora del risultato ottenuto con le sue
sole forze e speranze, il bambino nutriva per l’animale lo stesso attaccamento
ed eguale senso di protezione che un padre ha verso un figlio, un adulto verso
chi è più indifeso.
Bulma aveva scoperto che di notte se lo coricava
accanto a lui sul cuscino, con la stessa attenzione, di giorno, per evitare che
fosse infastidito dal gatto dei nonni, lo riponeva in una gabbietta e lo
portava a spasso per la casa.
Non appena si fosse ripreso, aveva deciso che lo
avrebbe portato a vedere anche all’amico Goten, per renderlo partecipe della
felice novità che gli era capitata.
In un tiepido mattino d’autunno, commise però
l’errore di portarlo in giardino in un momento che fu fatale.
Pensò che gli avrebbe fatto bene stare all’aria
aperta e che non sarebbe stato pericoloso se nel frattempo si fosse allenato un
po’ col padre.
Nel giardino di casa, infatti, Vegeta si limitava
soltanto a schivare i colpi, rimettendo agli spazi più ampi le lezioni ed i
confronti più agguerriti.
“Avanti Trunks! Oggi sei decisamente lento…” lo
rimproverò il padre che si schermiva dalle sue mosse con le braccia incrociate
dietro la schiena, in una posa negligente ed irrisoria.
Il bambino incalzò il ritmo e riuscì finalmente a
colpirlo all’addome con un colpo che fece mancare all’altro il respiro, prima
di ritrovarsi a sua volta catapultato a
terra con una mascella dolorante.
“Scusami…” frignò contrito massaggiandosi il viso
“non volevo metterci tutta quella forza…”
“Non chiedere scusa a nessuno quando combatti…”
sputò sul terreno erboso “avanti riprendi…”.
C’erano momenti, come questi, in cui Vegeta provava
gusto a combattere con il figlio.
Una luce di sfida si accendeva negli occhi
caliginosi e l’ebbrezza del confronto gli faceva schiumare il sangue, perché
per quanto l’avversario fosse un moccioso inesperto era pur sempre un saiyan
che al momento opportuno sapeva fare male.
Vegeta alzò la guardia ma Trunks non riuscì a
replicare la mossa precedente:
“Si può sapere che ti prende…? Attaccami senza aver
paura!”
“Ma non voglio farti male…”
“E chi ti dice che tu ci riesca veramente…?” il
principe dei saiyan incominciava ad arrabbiarsi “dimentica che sono tuo padre e
combatti sul serio come si addice ad un vero saiyan!”
Trunks tornò ad attaccarlo ma senza alcun effetto.
Vegeta lo scrutò così duramente che il piccolo fu
costretto a tenere lo sguardo a terra.
“Anche se sei mio figlio, non esiterei per questo a
farti male… tu non mi conosci bene… posso essere spietato con chiunque… anche
con te… pure con tua madre che ha forza soltanto nella lingua… non mi importa
di niente e di nessuno… così devono essere i veri guerrieri… i sentimenti sono
per i deboli…” la sua bocca assunse una piega che non prometteva niente di
buono.
Stava perdendo il controllo.
Era come se un muscolo assopito si stesse
risvegliando e scalpitasse per liberarsi dal formicolio che lo soggiogava.
A Trunks non piacevano quelle parole.
Un brivido di paura percorse la sua schiena.
Il piacere e l’orgoglio di trascorrere il tempo con
suo padre si commutarono in un sentimento di fastidio e ripugnanza.
Voleva andarsene via.
Voleva che arrivasse la sua mamma a toglierlo da
quell’impiccio.
Ella non aveva mai avuto paura al suo cospetto e
sapeva bene come trattarlo.
“Vediamo se questa volta ti decidi a fare sul serio…” una sfera di energia
brillò sulla punta dell’indice rivolto nella sua direzione.
Trunks sbarrò gli occhi, ma il raggio fu
intenzionalmente deviato a colpire altrove.
La gabbietta in cui stava il coniglio bianco fu
disintegrata senza pietà alcuna.
Al suo posto, una piccola fossa nel terreno fu
davanti ai suoi occhi sconvolti come un baratro senza fondo.
Il bambino restò inorridito dinanzi a tanta
efferatezza.
Era solo un coniglietto indifeso e stava
rosicchiando la sua foglia di lattuga ignaro del pericolo incombente.
“Perché… lo hai… fatto…?” articolò annichilito “lui
non ti ha fatto niente di male… perché?!” urlò scagliandosi contro il padre,
che reagì a quello scatto con un ghigno di compiacimento.
Incassò un colpo in pieno viso ed un altro nel
ventre, poi, come se egli fosse stato un insetto fastidioso, lo respinse
scaraventandolo a terra.
Trunks sentì le lacrime scendergli
inarrestabilmente, così traboccanti, così calde e salate:
“Smettila di frignare e reagisci!”.
Lo sorprese invece un latrato lancinante e
disperato.
Vegeta non se lo aspettava e sul volto si dipinse la
stessa maschera che un adulto ha quando ad un moccioso gli scoppia il
palloncino che tira per la corda: impotenza più che fastidio.
Trunks era tornato d’un tratto bambino e, senza
smentire la sua età, non gli restò che correre via a cercare l’abbraccio materno.
* * *
Bulma centellinava la tazzina di caffè, che, nelle
pause di lavoro, aveva quasi sempre un gusto più saporito e corroborante.
La sua attenzione fu calamitata da una pagina di
giornale che suo padre aveva lasciato sul tavolo del soggiorno.
A caratteri cubitali veniva annunciato il terzo
massacro compiuto nelle città limitrofe nel giro di una settimana.
In apparenza senza movente, madre, padre, e figlio
erano stati ritrovati in casa torturati ed assassinati barbaramente.
Mentre leggeva con distrazione l’articolo, nel quale
si ribadiva l’invito della polizia locale a non fare entrare gli sconosciuti,
pensò che con due saiyan in casa non le sarebbe mai potuto accadere niente di
simile e per questo voltò la pagina a scorrere le previsioni del tempo.
Era prossima a riprendere il lavoro allorché il
pianto disperato di suo figlio proruppe nella stanza trapassandole i timpani.
Trunks era gravemente disperato ed il corpo fremeva
in preda a singulti che gli mozzavano il respiro:
“Ma che cosa ti è successo…?”
“Papà… ha ucciso il mio coniglietto… senza ragione…
solo per farmi combattere…”.
Anche Vegeta fece il suo ingresso nella stanza, più
rigido ed oscuro del solito:
“Puoi spiegarmi meglio che cosa è accaduto…?” si
rivolse con asprezza all’uomo, presumendo già le sue responsabilità.
“Lui stava per conto suo… perché lo hai colpito…?”
seguitò il bambino “non ti dava nessun fastidio… il mio povero coniglio non c’è
più per colpa tua… sei cattivo… non ti voglio più vedere…!” e scappò nella sua
stanza.
Vegeta digrignò torvo:
“Era solo uno stupido animale…”.
Bulma lo scrutò con severità.
La disperazione di suo figlio l’aveva contagiata a
sua volta.
Era accaduto ciò che ella temeva, perché anche se
Vegeta non si era accanito contro suo figlio, aveva trovato il modo di
straziarlo lo stesso.
“Questo non significa niente… quello che non è
importante per te non è detto che non lo sia per un altro… Trunks è soltanto un
bambino… ci teneva molto… dovevi rispettarlo anche solo per questo…”
“Non provare a darmi lezioni di vita! Ho ucciso
quell’animale per indurlo a combattere sul serio… ed invece quel moccioso dopo
una prima reazione si è ritirato… si sarebbe dovuto accanire… avrebbe dovuto
massacrarmi… ed invece non lo ha fatto…”
“Forse perché sei suo padre e nonostante tutto… ti
vuole bene… sopra ogni altra cosa…” mormorò guardandolo negli occhi.
Ma Vegeta le diede le spalle.
Nel suo cuore di saiyan confluivano sentimenti
contrastanti.
Da un lato la rabbia di constatare in suo figlio
quelle debolezze troppe umane che poco si addicono ad un guerriero, dall’altro
scoprire che anche lui poteva esserne facile preda.
“Come reagiresti se qualcuno arrivasse qui e senza
ragione… gratuitamente... come tu hai fatto con quel piccolo animale… ti
portasse via ciò che ti è diventato più caro…?”.
Allora Vegeta rivide quel letto deturpato di sangue,
dove Bulma giaceva senza un alito di vita.
Freezer e Cell se ne stavano seduti sul ciglio ed
osservavano divertiti il macabro scempio.
“Non farei un bel nulla…” rispose freddamente “a me
non importa di niente e di nessuno…”.
* * *
Non era stato facile quietare la disperazione di suo
figlio, né era servito a qualcosa promettergli che sarebbe andata in un negozio
di animali e ne avrebbe comprato un altro uguale.
Argutamente Trunks le aveva risposto che non sarebbe
stato lo stesso e che si era affezionato a quel coniglio in quanto, trovato
ferito e curato con devozione, sentiva un legame più speciale e profondo, che
non era riuscito ad instaurare neanche col micio nero di suo nonno.
Più difficile fu parlargli del padre e ricordargli
che, per quanto egli fosse adulto, aveva ancora molte cose da imparare, perché
dal mondo da dove proveniva, non esistevano bimbi felici e coniglietti bianchi,
che occorreva armarsi di indulgenza e non voltargli le spalle.
Alla fine riuscì a far sbocciare un sorriso sulla
bocca contusa del bambino quando gli accordò il permesso di andare da Goten e
restarci fino al giorno dopo.
Mangiato un frugale panino, poi si rimise a lavoro.
Lo squillo del campanello la costrinse all’ennesima
distrazione.
Sua madre e suo padre passavano il weekend fuori
città e toccava a lei badare ad ogni cosa.
La seccatura con cui andò ad aprire la porta commutò
in un ampio sorriso nello scoprire sulla soglia due giovanotti con arnesi da
lavoro.
“Finalmente siete arrivati… vi aspettavo
stamattina…”.
Li condusse sul terrazzo e mostrò loro il punto in
cui occorreva intervenire.
Le prime piogge autunnali avevano sollevato in più
punti la pavimentazione ed occorreva al più presto un nuovo rivestimento di
cotto.
Uno dei due, quello più alto e con un volto assai
simpatico, le disse che sarebbero state sufficienti due giornate di lavoro:
“Se lei… signora… sarà così gentile da sopportarci…”
le mostrò una fila di denti bianchi “i nostri sono lavori che sporcano e danno
disturbo…”
“Non preoccupatevi… lavorate pure… nel caso abbiate
bisogno di qualcosa… io sono nel soggiorno…”.
Fu lì infatti che portò le sue carte da lavoro e
prese a proseguire il primo schizzo di un nuovo motore ad energia solare.
Intenta ad elaborare dati sul computer portatile, le
parve ad un certo punto così lontano il rumore dei picconi sull’impiantito rovinato
che trasalì quando uno dei due operai le comparve alle spalle:
“Sareste così gentile… signora… da darci da bere…?”
parlò quello più basso e tarchiato, ma con fare gentile ed un po’ impacciato,
docile, quasi avesse paura di darle disturbo.
Bulma notò che le divise imbrattate di calce non si
addicevano all’aspetto raffinato ed elegante dei loro volti.
Anche l’altro entrò strofinandosi bene le suole
delle scarpe.
La padrona di casa si scusò per la disattenzione e
versò loro due limonate.
Sbirciò l’orologio e vide che dal loro arrivo erano
trascorsi quasi venti minuti.
Sembrava che se la stessero prendendo comoda perché
sorseggiavano la bevanda con molta lentezza ed intanto si guardavano intorno:
“Certo che è una casa molto grande…” parlò quello
più sveglio “le foto che a volte compaiono sulle riviste scientifiche non le
rendono giustizia…”.
Bulma allora fu curiosa di sapere se era interessato
a quel genere di lettura:
“No… per niente…” sorrise ancora “mi è capitato solo
di gettarci qualche occhiata…”.
Ella non chiese altro, non essendo intenzionata ad
intavolare con loro una discussione, piuttosto scalpitava di rimettersi a
lavoro e di recuperare il tempo perduto quella mattinata, ed intanto si
domandava perché non si decidessero a fare lo stesso anche loro.
Non appena ebbe voltato le spalle, queste
sussultarono al rumore improvviso del vetro infranto.
Il bicchiere e quanto vi era contenuto erano finiti
a terra sparpagliandosi in schegge di dimensioni varie:
“Chiedo scusa… signora…” fece compunto il più basso
tra i due “ con i guanti mi è scivolato da mano…”
“Non preoccuparti…” fece un sorriso di convenienza,
ma in realtà ne aveva già fin sopra i capelli “penso io a pulire…”.
Si mosse a prendere la scopa ma ecco che anche il
secondo bicchiere, quello dell’altro ragazzo, finì a terra.
Bulma perse la pazienza:
“Vi state forse prendendo gioco di me…?” si rivolse
a quello dalla faccia che prima le era parsa più simpatica e che ostentava
adesso un ghigno indecifrabile, mentre l’altro era scoppiato a ridere come un
melenso e sembrava che la scena lo stesse divertendo molto.
“Non è proprio l’espressione esatta…” fece l’altro
“diciamo che vogliamo giocare un po’ e questa volta… sarai tu e questa casa il
nostro divertimento…”.
Da qualche parte doveva aver gettato il giornale
della mattina che annunciava il terzo massacro senza movente di una famiglia
perbene.
Bulma arretrò malferma ed il volto perse ogni
colore.
Le restò solo quello terreo dell’orrore più puro ed
autentico.
“Prendete i soldi e tutto quello che volete ed
andatevene via…”
“Non hai capito… signora… a noi non servono né soldi
né gioielli… vogliamo divertirci…”
“Siete capitati nel posto sbagliato… quando
arriveranno mio marito e mio figlio avrete di che pentirvene…”.
Ma a Trunks aveva dato il permesso di rincasare
l’indomani e Vegeta, dopo averle ribadito che a lui non importava di niente e
di nessuno, aveva spiccato il volo per chissà dove.
Conoscendolo, dubitava sarebbe ritornato per quel
giorno.
Da qualche parte era andato a sfogare la sua rabbia
e a recuperare il proprio autocontrollo, come spesso accadeva quando lo
assalivano i dubbi e l’opprimevano i tormenti esistenziali.
“Quando arriveranno ci divertiremo anche con loro…”
ridacchiò il ragazzo, quello dal tono più mite ed impacciato, che tra breve si
sarebbe rivelato il più famigerato fra i due “più siamo e più il divertimento è
assicurato…”.
“Voi vi siete bevuti il cervello! Come vi permettete
di entrare in casa della gente e pensare di fare i vostri comodi?! Andatevene
via, squilibrati che non siete altro!”.
Il bastone della scopa le fece piegare in due le
ginocchia, quali fuscelli sferzati dal vento, senza vigore, senza volontà
propria, ed il dolore fu tale che la vista si annebbiò e le parve in
quell’istante che ogni altra percezione abbandonasse il suo corpo.
Le restò solo una fitta a tal punto lancinante ed
incontenibile che gli occhi e la bocca si sbarrarono come a volerlo vomitare.
Il ragazzo ne aveva fatto un randello e l’aveva
staffilata nella piega dei polpacci producendo una schiocca che riecheggiò come
un battito secco di mani tra le pareti della stanza.
Bulma cadde sul vetro frantumato e le ginocchia e le
mani si imbrattarono di tante piccole venature rosso vermiglie che si corrosero
a contatto con l’essenza asprigna della limonata versata a terra.
Si sentì strattonare la testa per una ciocca di
capelli:
“Modera i termini… signora… in questa casa… adesso…
i padroni siamo noi…”.
Allora si rivide immobile nel letto, con Freezer e
Cell, assisi su ambo le sponde, che l’osservavano con i loro ghigni divertiti e
le pupille invasate di furore scellerato.
Poi strabuzzò gli occhi e svenne.
* * *
I flutti spumeggianti del mare, anche quelli più
incombenti e fragorosi, non potevano nulla dinanzi all’energia cieca e
spettacolare di chi aveva annientato pianeti con l’imposizione di una mano.
Si arrendevano come docili puledri dal pennacchio
bianco, come schiavi prostrati e riverenti si piegavano ed arretravano innanzi
alla sua potenza.
Le acque si aprivano come schiere urlanti al suo
passaggio e si richiudevano con lo scroscio di
acclamazioni esultanti.
La terra tremava ed il vento impetuoso dissipava le
nubi.
Dominati cielo, terra e mare, il principe dei saiyan
giacque sull’arena asciutta.
La schiuma salmastra gli andò a lambire le caviglie
nude, in una carezza fresca ed effervescente.
Il sole del pomeriggio riscaldava la sua pelle
sfregiata ed arrendeva i muscoli ad un gradevole torpore.
Si schermò gli occhi con un braccio e ci nascose
dietro gli avvenimenti della giornata.
Quando aveva detto a Bulma che non gli importava di
niente e di nessuno, l’aveva vista inghiottire l’ennesimo boccone amaro.
I suoi occhi azzurri avevano lampeggiato prima di
incredulità e poi di astio, carichi di quel malcelato tormento, che, per
quell’orgoglio maledetto almeno quanto il suo, non gli voleva mai dare a
vedere.
Non le aveva lasciato il tempo di replicare, aveva
girato i tacchi e se ne era andato via.
Povera illusa se credeva che quegli anni trascorsi
sulla Terra avevano potuto veramente intaccare la sua essenza egoista e
malvagia.
Egli ci restava soltanto per comodo, per sfruttare
la camera gravitazionale, avere un pasto caldo, un letto in cui riposare bene,
dei fianchi sinuosi in cui trovare piacere.
Così adesso sotterrava sotto la sabbia quelle
sensazioni insolite e gradite che aveva quando si accorgeva che c’era qualcuno
che si preoccupava di non fargli mancare niente, quando allenava suo figlio e
si compiaceva in silenzio dei suoi progressi, quando si rotolava la sera tardi
nel letto insieme a lei e l’amava, sì, l’amava con la consapevolezza
sconvolgente che ella era diventata la sua donna, soltanto sua, e lo sarebbe
stata per sempre.
Il principe dei saiyan si era fatto una famiglia e
l’idea incominciava a piacergli più di quanto avesse voluto ammettere.
A poco a poco si era lasciato il passato alle
spalle, ma senza rinnegare niente, senza dimenticare da dove veniva e chi era
stato un tempo.
Per questo, passato e presente talvolta entravano in
conflitto e, per rimetterli ciascuno a proprio posto, aveva bisogno di starsene
da solo alla ricerca di un qualcosa che giustificasse e risolvesse quella
lotta, senza parteggiare per l’una o per l’altra parte.
Alla fine, trascorso qualche giorno a contatto con
le forze più spietate della natura, sceglieva di ritornarsene nell’unico luogo
in cui aveva lasciato qualcosa.
Era ancora lontano quel giorno in cui si sarebbe
lasciato soggiogare da un mago.
Bulma lo vedeva sempre ritornare come se niente
fosse mai accaduto, senza ricevere spiegazioni, senza riuscire a scrutarlo
negli occhi.
“Tutto per uno stupido coniglio…” pensò, e le linee
del suo volto si tesero di nuovo.
Si alzò ed andò a gettarsi in acqua, per sgombrare
la mente da questi altri pensieri.
Questa volta lasciò che fossero le onde del mare a
dominarlo.
Si abbandonò al loro moto incostante, talvolta
burrascoso, altre volte più placido, come se i cavalloni fossero stanchi di
rincorrersi e si concedessero una tregua.
Nuotò e si immerse nelle acque opache, poi risalì
sulla battigia e scrollò la folta criniera.
La schiena tornò a distendersi sulla sabbia ed
infine si addormentò.
Bulma era immobile sul letto, Freezer e Cell la
sorvegliavano accomodati sui cigli, ma le lenzuola non erano ancora sporche di
sangue.
Questa volta era riuscito ad arrivare prima.
Quando spalancò gli occhi con un sussulto, il sole incominciava a tramontare dietro il
pendio di una collina e la risacca produceva un suono monotono e rilassante.
Si alzò e prese ad ammassare della legna per
trascorrere la notte accanto al fuoco.
I sogni non volevano dir nulla, e a lui non
importava di nessuno e di niente…
* * *
Quando Bulma riprese i sensi, l’orologio alla parete
segnava trascorse le cinque del pomeriggio soltanto da pochi minuti.
Si ritrovò allacciata ad una poltrona con le funi
che i due avevano portato in casa insieme agli altri strumenti da lavoro.
Le ginocchia erano una cartina geografica di tagli e
slabbrature più o meno vive, qualcuna cicatrizzata, qualche altra era di un
rosso ancora profondo.
Se fosse riuscita a guardarsi i polpacci, avrebbe
visto anche l’impronta della scudisciata, una striatura nella piega delle gambe
livida e gonfia.
Gli arti inferiori erano come in preda ad un
incendio.
Non sarebbero bastati né acqua né ghiaccio per estinguerlo.
Dovette scalpitare per accertarsi di non averle
perse irrimediabilmente.
Altri strattoni furono dati nella speranza di
riuscire a liberarsi, perché non c’era tempo di provare dolore e disperazione,
doveva decidere il da farsi.
Se avesse potuto raggiungere la porta, sarebbe
bastato buttarsi in strada per trovare soccorso.
Ma la corda era stata rigirata molte volte intorno
al corpo ed anche il telefono era fuori dalla sua portata.
“Ti sei svegliata signora…” mormorò quello più alto
comparendo dal corridoio, seguito a ruota dall’altro.
Erano stati a gironzolare per casa, trovando
particolarmente interessante l’ala dei laboratori.
Quello più sveglio, con la bocca sottile, un filo di
barba ispida e i capelli cortissimi, aveva più volte ammonito il compagno a non
toccare oggetti pericolosi, ma questi continuava ad essere attratto proprio da
quelli più bizzarri e sconosciuti, e, per questo, un principio di incendio
era divampato tra gli scaffali zeppi di sofisticati marchingegni, domato a tempo con
l’estintore appeso al muro.
“Liberatemi immediatamente!” ordinò agitandosi, ma
si accorse che, così facendo, la corda le stringeva soltanto di più il respiro.
Il ragazzo prese il telefono portatile e si sedette
vicino a lei:
“Avanti… chi vuoi chiamare…? Ti do la possibilità di
comporre un numero di telefono… la polizia… il vicino di casa… tuo marito…
mister Satan…?”.
L’altro aveva preso a ridere con quel suo fare da
ebete.
I fili erano stati spezzati ancor prima di entrare
in casa.
A riflettere bene, non aveva ricevuto telefonate per
tutta la mattinata né c’era stata l’esigenza di farle.
“Non trattarmi come una stupida… liberami!”.
In risposta il ragazzo si andò a sedere sul divano
di fronte ed accese il televisore.
Girò i canali e si fermò quando sullo schermo
comparve una partita di pallone.
Bulma non riusciva a capire quali fossero le loro
intenzioni.
Sembrava dovessero far passare la giornata.
Non avevano intenzione di disfarsi subito di lei.
Il gioco era lungo e prevedeva un’attesa sfibrante
ed angosciosa, nell’incertezza di cosa avrebbero fatto, nella speranza di
uscirne vivi in qualche modo.
Erano solo due giovani, poco più che ventenni, pensò
Bulma nell’osservarli meglio.
Non avrebbero avuto scampo se Trunks o Vegeta
fossero stati in casa.
Sarebbe stato per loro come liberarsi di due mosche
fastidiose.
Per lei, due comuni mortali potevano diventare
pericolosi allo stesso modo di Cell o di Freezer.
La sostanza non cambia se si è privi di qualsiasi
potenziale combattivo.
Il sogno infine era diventato realtà.
Non era immobilizzata sul suo letto, non c’erano le
due famigerate creature, ma due individui altrettanto pericolosi erano
penetrati in casa sua con le intenzioni più sadiche e perverse e la
piantonavano a vista.
All’improvviso ricordò la risposta gelida che le
aveva dato Vegeta prima che se ne andasse via.
Sebbene le avesse ribadito che non gli importava di
niente e di nessuno, non per un solo istante pensò di non ricevere il suo aiuto
se l’avesse trovata in quelle condizioni.
Era trascorso molto tempo da quando il suo aereo era
stato fatto precipitare dal dott. Gero nel mezzo del deserto e lui non aveva
mosso un muscolo per salvare lei ed il bambino.
Nessuno meglio di lei, ora, conosceva il principe
dei saiyan e la lenta metamorfosi che subiva.
Trascorsero più di un’ora a guardare la partita.
Quello più basso e tarchiato aveva aperto il
frigorifero e si era preparato un sostanzioso tramezzino, poi si era messo
comodo sul divano a consumarlo ed aveva sollevato i piedi sul tavolino, come
fosse stato a casa sua, come se la padrona di casa, che scalpitava legata alla
poltrona accanto, fosse stato un particolare privo di qualsiasi riguardo.
“Incomincio ad annoiarmi…” disse ad un tratto
l’altro, spegnendo il televisore.
Per Bulma, la quale si era già arresa a lottare con
le corde da bel un pezzo, quelle parole ebbero l’inesorabile suono di un
campanellino d’allarme.
“Quando rientrano i tuoi… signora…?”
“Tu spera che non lo facciano… perché si
arrabbieranno molto quando vedranno cosa avete fatto…”.
Il ragazzo allora prese un coltello e si mosse nella
sua direzione.
Gli occhi di Bulma ebbero un lampo di vivido orrore.
La lama fu poggiata sul grembo della donna e le
corde recise con un colpo secco.
Mentre la pressione si allentava intorno ai muscoli
anchilosati, Bulma pensò se ad indurlo a quel gesto fosse stata veramente la
sua intimidazione.
“Avanti… spogliati…” si sentì dire.
Le viscere si liquefecero a quell’imperativo.
“No!” gridò con decisione e l’altro, che
sgranocchiava sul divano, restò con la bocca aperta ed un pugno di patatine in
mano.
Lo schiaffo non produsse alcuna schiocca perché
nessuno dei due si era tolto i guanti, da quando erano entrati in casa.
La sinuosa cervice fu un altro fuscello piegato dal
vento ed i capelli si sparpagliarono sul volto e restarono appiccicati sul
sudore stillante dalla fronte e sul sangue che uscì dal labbro spaccato.
“Fai la buona… signora… non ti farò niente… non ora…
voglio solo che ti alzi in piedi e ti sollevi la maglietta…” parlò mellifluo e
si andò a sedere per godersi lo spettacolo meglio.
A Bulma non restò che assecondarlo e prima di trovare
il coraggio di togliersi la maglia, fu più arduo mettersi in piedi e riuscire a
non piegarsi sulle gambe.
I seni nudi si sollevarono trafelati sotto lo
sguardo dei due astanti, compiaciuto quello di uno, indifferente quello
dell’altro, che riprese a mangiare fino a quando nella busta non gli rimasero
che briciole e sale.
Bulma tenne lo sguardo piantato a terra e l’amaro
delle lacrime si mescolò al sudore e al sangue.
* * *
Il letto era abbastanza grande per farci stare due
bambini.
Chichi rimboccò le coperte a Trunks e Goten, poi si
sporse verso il figlio più grande, facendo schioccare sulla fronte imbarazzata
del ragazzo il consueto bacio della buona notte.
Poi lasciò la stanza e la porta di legno cigolò alle
sue spalle.
Trunks era stato per tutto il pomeriggio giù di
morale, senza dare spiegazioni all’amico su cosa lo tormentasse.
Avevano giocato a combattere, ma non si era
applicato a dovere, non aveva mostrato all’altro la superiorità raggiunta
grazie agli allenamenti del padre.
Anche Gohan lo aveva scoperto silenzioso a cena e
poco affamato.
“Fratellone…” lo chiamò Goten “perché non ci
racconti una bella storia…?”
“E’ tardi… è meglio che dormite…” si rigirò
dall’altro lato.
Le lezioni a distanza assorbivano gran parte della
sua giornata, per questo la sera era abituato a coricarsi poco dopo l’ora di
cena.
“Uffa… me le racconti sempre…” protestò il bambino.
“E poi è presto… a casa mia vado a letto più tardi…”
soggiunse Trunks, che, malgrado quel rifiuto, trovava molto affabile il
ragazzo.
Gli sarebbe piaciuto avere un fratello più grande,
qualcuno come lui, con cui poter giocare e condividere la sua stanza.
Invidiava Goten quando lo vedeva appendersi alle
spalle del fratello e costringerlo a farsi portare in groppa.
“Racconta a Trunks le storie di papà…” propose
Goten.
Gohan gli parlava spesso del padre defunto e delle
battaglie di cui era stato l’ardimentoso protagonista.
Non si stancava mai di farsele ripetere ed anche
ora, mentre il fratello raccontava tra uno sbadiglio e l’altro le cronache di
Namecc, Goten aveva la bocca dischiusa nella solita fessura di stupore.
“Vorresti farmi credere che vostro padre era più
forte del mio…?” fece Trunks alla fine, incrociando le braccia e ghignando con
scetticismo.
Gohan, che ormai era ben desto, si accorse che in
quelle pose era identico al principe dei saiyan.
“Ecco… Vegeta è molto forte… ma papà aveva un
qualcosa in più…” rammentò l’ultimo saluto con cui lo aveva visto dissolversi
per sempre nel generoso sacrificio della sua vita.
“Impossibile… non c’è nessuno più forte di mio
padre… non a caso è lui il principe dei saiyan…” neanche l’episodio di quel
giorno, neanche la sofferenza che gli aveva inflitto, riuscivano a scalfire
l’ammirazione che aveva per lui sopra ogni altra cosa “… e poi se non mi ha mai
parlato di tuo padre è perché evidentemente non è forte come tu dici…”.
Gohan preferì non deluderlo, piuttosto doveva
riconoscere che se quel bambino provava tanto orgoglio nell’avere per padre un
essere come Vegeta, non era per un
incondizionato attaccamento filiale, ma perché questi in qualche modo era
riuscito a conquistare il suo affetto.
Ci pensò Goten, con la sua spontaneità, a colmare il
silenzio:
“Gohan mi ha raccontato che tuo padre era molto
cattivo…” aggrottò le sopracciglia con disappunto.
“Ma che dici!” si fece livido il ragazzo dandogli un
buffetto sulla chioma appuntita.
“Non è vero!” saltò Trunks fuori dalle coperte e
strinse le nocche “mio padre non aveva nessuno che gli volesse bene… era solo e
triste… per questo si comportava male con chiunque…” ripeteva i racconti
materni “ma ora è cambiato…” poi trattenne le lacrime e tirò su col naso quando
rivide la gabbia del coniglio disintegrata innanzi ai suoi occhi.
“Ti credo…” mormorò Gohan con un sorriso che si
sforzò di essere sincero.
Quando Chichi venne a quietare il baccano col suo
fare autoritario, tutti e tre erano già nascosti sotto le coperte e finsero di
russare.
* * *
Le era stato ordinato di rialzarsi la maglia e di
mettersi seduta.
Trascorsero così altre due ore.
Quello sul divano finì per addormentarsi, l’altro
misurava la stanza a passi lenti e meditabondi.
Poi le si rivolse ad un tratto:
“C’è una stanza in fondo al corridoio chiamata
camera gravitazionale… occorreva un codice per l’accesso… portami lì… voglio
vederla…”.
Bulma non riuscì a muoversi, le gambe la tradirono
ancora una volta.
Il ragazzo la fece alzare, tirandole brutalmente un
braccio, e la spinse in avanti.
“E’ soltanto un ripostiglio vuoto…” disse lei
dinanzi al pesante acciaio della porta.
L’ironia della sorte volle che la stanza fosse
guasta da due giorni.
Se si fosse presa la briga di ripararla,
accontentando Vegeta piuttosto che dirgli seccata di allenarsi all’aperto
perché aveva altro da sbrigare, avrebbe potuto attirarli entrambi dentro ed
azionare la gravità fissa ai trecento.
Sarebbero stati schiacciati come due insetti
repellenti e questa volta avrebbe esultato lei piena di soddisfazione perversa.
Ma non era detta l’ultima parola.
Bulma non aveva voglia di morire ed era disposta a
giocarsi ogni mossa in quell’improvvisata partita a scacchi.
Si parò agli occhi del giovane una stanza insolita,
con le pareti di metallo.
La curiosità con cui
l’esaminava lo fece distrarre, così Bulma scivolò alle sue spalle, sgattaiolò
fuori e face scattare la pesante serratura.
Il ragazzo diede uno
spintone contro la porta, ma per l’acciaio fu come una lucidata passata con un
panno.
Era sul punto di
ripercorrere all’indietro il corridoio, in direzione dell’uscita, quando in
fondo comparve l’altro, frattanto svegliatosi, che la colse in flagrante.
A Bulma non restò che
arretrare e rifugiarsi all’interno della sua stanza, in una corsa precipitosa e
al cardiopalma.
“Vieni fuori…! Tanto ti
prendo comunque!” rideva spiritato.
L’unica via di fuga era la
finestra.
Bulma si sporse fuori ed uscì
vacillante sul cornicione.
Dalla porta non provennero
più altri insulti e tutto intorno tacque.
L’unica cosa da fare era
salire sulla loggia che concludeva il tetto, a tre metri circa sopra la sua
testa, e raggiungere la scala secondaria esterna che l’avrebbe portata a terra,
nel retro del giardino, più vicino ai laboratori, dove, recuperato un velivolo
qualunque, sarebbe fuggita via.
Si arrampicò lungo una
tubatura di ferro.
Sotto lo sforzo, le ferite
sul ginocchio ripresero a sanguinare e la scudisciata sul polpaccio ad inibirle
i movimenti.
Con i denti serrati, riuscì ad arrivare fino alla
grondaia.
Quando pensò che un altro sforzo sarebbe stato
troppo eccessivo e le mani non trovavano più altri appigli, un braccio guantato
si sporse dal parapetto ad aiutarla.
Si aggrappò un istante prima di sentire il vuoto
incombere sotto i piedi e sperò che fosse Vegeta.
“Grazie…” mormorò ansante, col corpo piegato a
terra.
Ma alzata la testa, rivide l’espressione sadica dei
due sequestratori, i quali avevano anticipato le sue mosse ed erano saliti ad
aspettarla.
“Grazie a te…” le rimandò sarcastico il più magro
fra i due “ci hai fatto divertire molto… ma si è fatto tardi e visto che gli
altri non arrivano più… non ci resta che sbarazzarci di te…”.
“Aspettate… cosa volete fare… lasciatemi…!” scalpitò
invano mentre uno l’afferrava per le gambe e l’altro per le braccia.
Bulma rivide il vuoto sotto di sé e chiuse gli
occhi.
Avevano intenzione di farla precipitare come fosse
stata un sacco di immondizia di cui disfarsi.
Le viscere si contorsero mentre il terreno si
appressava senza scampo.
Fu un impatto morbido e caldo, indolore.
Non pensava il trapasso potesse essere tanto
delicato e leggero, che l’anima trasmigrasse subito dal corpo e volteggiasse
libera nell’aria.
Quando riaprì gli occhi, si perse in quelli
altrettanto sconvolti di Vegeta.
Il saiyan, spinto da un angoscioso presentimento,
aveva lasciato la spiaggia.
Era arrivato a casa giusto in tempo per vederla
precipitare dal tetto.
Per un impulso volontario ed automatico, senza
pensarci due volte, era scattato a prenderla tra le braccia.
Quando la rimise a terra, lei cadde all’indietro
priva di forze.
Malgrado l’oscurità della notte, scoprì il corpo
sanguinante e contuso.
Levitò allora in alto e vide che erano stati due
comuni terrestri a ridurla in quelle condizioni.
Freezer e Cell bruciavano nelle fiamme dell’inferno,
ma il male, che è sempre in agguato, può incarnarsi in chiunque e colpire chi è
più disarmato.
I due ragazzi restarono trasecolati innanzi al
prodigio di un uomo che derogava ogni legge gravitazionale.
Poi un lampo accecante saettò verso di loro e la
brezza notturna disperse le polveri.
* * *
L’acqua si raccoglieva montando il bagnoschiuma in una soffice schiuma
bianca.
Bulma, gravemente silenziosa, aspettava seduta sul
bordo della vasca ed ogni tanto saggiava con un dito che la temperatura non
fosse troppo calda.
Poggiato allo stipite della porta, Vegeta osservava
il suo corpo, irriconoscibile sotto il viola sanguigno dei lividi ed il rosso
vivo delle escoriazioni, attendere di trovare sollievo in quel bagno rilassante
e benefico.
Lo zigomo destro era gonfio, sul labbro inferiore
era condensato un grumo di sangue, la cui scia le aveva percorso il mento ed
era scivolata fino al collo.
Scoprire che era stata in balia di due sadici per
circa otto ore gli accresceva la rabbia per non averli fatti soffrire
abbastanza, oltre il rimorso di non aver dato subito ascolto ai propri
presentimenti per quel suo orgoglio stupido e vano.
Trinceratosi dietro la falsa convinzione che non gli
importava di niente e di nessuno, aveva corso il rischio di perderla per
sempre.
Per un istante solo pensò cosa sarebbe accaduto se non
fosse arrivato in tempo e la macabra visione del suo corpo schiacciato a terra
lo fece raggelare.
Lo scroscio dell’acqua si interruppe e lei si
immerse nell’acqua con un’espressione di beatitudine in contraddizione con le
labbra gonfie.
Vegeta non aveva mai riflettuto sul fatto che il
male più puro potesse albergare anche nella natura terrestre e ritorcersi
gratuitamente contro la sua famiglia, la sua casa.
“Tutto questo è accaduto perché non sei in grado di
difenderti…”.
Ella colse una nota stonata di disprezzo ed allora
disse altrettanto duramente:
“No… è accaduto perché tu sei fuggito come tutte le
altre volte… se fossi stato presente non mi sarebbe successo niente!”
“Se vuoi andare a ritroso, la colpa allora può
essere anche di tuo figlio… senza quello stupido coniglio… avrei concluso come
sempre la nostra mattinata di allenamenti!” disse e scomparve con rabbia nella
stanza annessa.
Quando Bulma riemerse dal bagno con addosso la
vestaglia, egli era ancora lì, a scrutare la notte da dietro i vetri della
finestra.
“La colpa è soltanto di quei due pazzi… di nessun
altro…” ruppe il silenzio lei, che era troppo stanca e provata per recriminare
su questioni insignificanti.
Alle sue spalle, il saiyan sentì la sponda del letto
piegarsi.
Bulma aveva trovato la borsa del ghiaccio e la
cassetta del pronto soccorso che inaspettatamente aveva avuto premura di andarle
a prendere.
Quando si voltò, vide che il volto si contraeva in
una smorfia di dolore a contatto con i medicamenti.
L’operazione fu lenta e sfibrante, su ogni
tumefazione, su ogni sfregio subito.
Vegeta restò a guardare ma non intervenne, non le
diede altro sostegno.
In cuor suo si mescolavano la rabbia per quanto
successo e l’ennesima bruciante conferma dei suoi veri sentimenti.
Chiusa la cassetta, Bulma si alzò, si avvicinò a lui
e senza preavviso si strinse al suo corpo, poggiando la testa sulla spalla e
chiudendo gli occhi in un dolce abbandono, sapendo che tra quelle braccia non
avrebbe corso altro pericolo.
“Resta con me questa notte…” mormorò come la più
soave delle suppliche.
A Vegeta non era neanche sfiorata l’idea di
andarsene via.
La decisione di restare era uno di quei pensieri
così umani che ormai gli erano spontanei, come istintivo era stato il gesto con
cui aveva incalzato l’andatura ed allargato le braccia per afferrarla mentre
ella precipitava.
Allora mosse una mano esitante e le strinse piano la
spalla.
* * *
Quando Trunks l’indomani fece ritorno, trovò sua
madre distesa sul divano come una convalescente, nel punto in cui si era
consumato gran parte del suo sequestro.
I robot avevano pensato a rassettare ogni traccia
lasciata dai due turpi visitatori: lattine di birra scolate, briciole,
tovaglioli sporchi, corde spezzate.
Le ginocchia erano fasciate ed i lividi rilucevano
delle pomate applicate.
“Che cosa ti è successo…?” si avvicinò con
apprensione.
Era così insolito vedere quella donna inerte e
silenziosa.
Bulma non era certa di volerlo turbare.
Raccontargli di aver preso una brutta caduta dalle
scale era quanto di più opportuno potesse fare, se Trunks, adombrandosi, non le
avesse chiesto subito:
“E’ stato papà a farti questo…?”.
La madre sgranò gli occhi e lesse nelle reazioni di
quel piccolo corpo, percorso da un fremito di collera, inquietudini che erano
troppo più grandi di lui.
Sorrise rassicurante:
“Certo che no… sono stati due uomini cattivi che
sono entrati qui in casa… ma tuo padre è arrivato giusto in tempo e mi ha
salvato…”.
Allora la tensione del corpo si allentò e gli occhi
brillarono come filtrati da un raggio di sole.
“Dici davvero…?”
“Non dubitarne mai…” gli accarezzò i capelli “tuo
padre ci vuole bene veramente… sono sicura che non esiterebbe a dare la sua
vita per noi…”.
L’oggetto del discorso fece il suo ingresso nella
stanza.
Se avesse captato il tenore di quel colloquio, si
sarebbe tenuto a distanza.
Ma solo in quell’istante si accorse della presenza
del bambino.
“Io vado ad allenarmi… seguimi…” gli ordinò come se
tra loro non fosse mai accaduto niente.
Trunks non riusciva ancora a guardarlo in faccia.
Malgrado le parole della madre, l’immagine del
coniglio bianco continuava ad affacciarsi alla mente.
Vegeta scorse la sua ostinazione ed allora disse:
“Muoviti… se vieni senza fare storie e ti alleni
come si deve… dopo ti porto al luna park…”.
Trunks non poteva credere alle sue orecchie.
Era la prima volta che gli giungeva quella proposta
dal padre.
Si volse a guardare la donna, come a trovare la
certezza di aver sentito bene:
“Fossi in te… non mi lascerei scappare
quest’occasione…” gli strizzò l’occhio.
E poiché i bambini hanno il dono raro di dimenticare
subito i torti subiti, spalancò tutti i denti in un largo sorriso e seguì il
principe dei saiyan.
FINE
“Funny Games” è il titolo di un film presentato al
festival di Cannes nel 1997.
In una casa sulle rive isolate di un lago, una
famiglia austriaca composta da madre, padre e figlio, viene sequestrata e
torturata per divertimento da due giovani sadici: nessun lieto fine.
Paragonato all’inarrivabile “Arancia meccanica”
(1971) di Kubrick, il film lascia allo spettatore nient’altro che un senso di
nauseante disturbo.