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Autore: lilly81    16/07/2006    16 recensioni
Vegeta scopre come l’essenza più pura del male può albergare anche nel cuore umano…
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bulma, Trunks, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le babbucce rosse non produssero alcun suono mentre avanzavano con flemma lungo il corridoio, rischiarato dalle fievoli luci n

“Funny games”

 

 

 

 

 

Le babbucce rosse non produssero alcun suono mentre avanzavano con flemma lungo il corridoio, rischiarato dalle fievoli luci notturne che tracciavano rasoterra il percorso.

Bulma aveva gettato sulle spalle una mantellina di lana, di tinta azzurra come il pigiama, quando si era alzata dal suo letto ed aveva lasciato la stanza nel cuore della notte.

Il prematuro risveglio era stato inghiottito dalle tenebre circostanti ed un brivido di freddo le aveva fatto sussultare le membra intorpidite.

Rincalzata la coperta, aveva tentato invano di riprendere calore, fino a quando non aveva risolto ad alzarsi con un mugolio di esasperazione.

Malgrado le prime sfumature bronzee delle foglie, come fortuite pennellate abbozzate qua e là tra le chiome degli alberi, sua madre non si era ancora decisa a foderare il letto con una trapunta più adatta alla stagione.

La porta presso la quale arrestò il passo si aprì dietro il suo tocco cauto e circospetto.

Portò le mani avanti e si fece strada nel buio con le stesse movenze di una non vedente.

Il respiro profondo dell’uomo che giaceva nella stanza si infrangeva contro la stoffa del guanciale vibrando più rumoroso di quanto fosse del normale.

Bulma trovò finalmente la sponda del letto e lo sormontò con attenzione infilandosi sotto le coperte.

Si andò ad avviluppare contro il caldo corpo di Vegeta, che era solito dormire col torso sempre nudo anche nelle notti più rigide d’inverno.

Il calore delle sue spalle scolpite le procurarono un rinnovato benessere che durò solo pochi istanti prima di essere disfatto da uno scatto selvaggio con la quale le attanagliò i polsi in una morsa dolorosa ed irriducibile, sovrastandola con tutta la propria poderosa massa muscolare:

“Lasciami… sono io!” gridò lei senza riuscire a divincolarsi.

“Dannazione, Bulma!” le strattonò ancora le braccia, ma con meno vigore quando, riconosciuta la sua voce ed il suo odore, si ridestò nella realtà abituale della sua stanza “vuoi farti ammazzare?! Quante volte ti ho detto che non devi infilarti di soppiatto nel mio letto quando sto dormendo?!”.

Le pupille nere si restrinsero graffiate dalla luce dell’abatjour sul comodino che lei si mosse ad accendere:

“Si può sapere cosa sogni durante la notte…?” fece contrariata massaggiandosi i polsi “non sai che sono io…? Chi altro credi possa essere…? Dovresti prendere un tranquillante prima di coricarti…!”

Vegeta rotolò con la schiena sul materasso.

Stropicciò le palpebre disturbate, sbirciò la sveglia e scoprì che mancava un quarto alle due:

“Che sei venuta a fare a quest’ora…?”.

La sua freddezza non ebbe il potere di smontarla e così Bulma tornò a distendersi accanto a lui, chinando la testa sull’acciaio dei suoi pettorali ed intrecciando una gamba intorno alle sue:

“Avevo freddo…” mormorò col broncio di bambina “volevo riscaldarmi vicino a te…”.

Vegeta non disse niente, limitandosi ad incrociare le braccia dietro la testa.

Non l’avrebbe stretta, non così,  non dopo una sua richiesta.

In realtà era stato un incubo ad interrompere bruscamente il suo sonno e non il freddo.

L’increspatura della sua fronte, coperta dalla graziosa frangetta, tradiva ancora la sua preoccupazione.

Non era sicura di volerla in qualche modo esternare al compagno.

Non era andata da lui per questo.

Voleva solo un po’ di calore e forse sentirsi meno indifesa accanto a lui.

Più volte fu sul punto di dare fiato alle corde ma dalle labbra uscì solo un respiro senza parole.

Il saiyan la sentì tremare, prima che ella riuscisse finalmente ad articolare:

“Come… come era fatto… Freezer…?”

L’altro si accigliò:

“Ti sembrano domande da farsi a quest’ora della notte… e perché mai ti dovrebbe interessare questo?”

“Era nella mia stanza…” disse gravemente.

Egli le afferrò allora le esili spalle e la guardò negli occhi per capire se stesse delirando:

“Ho sognato che entrava nella mia stanza e si sedeva sul ciglio del letto ad osservarmi…” chiarì meglio, tornando a poggiare il capo sul suo torace “io non riuscivo a muovermi… ma lui restava lì a fissarmi divertito… io non ho mai visto Freezer, ma sapevo… come per istinto… che era lui… poi è arrivato Cell… anch’egli si è seduto sull’altra sponda a fissarmi e…” smise di raccontare quando sentì il petto dell’uomo scuotersi improvvisamente e prorompere in una risata che squarciò il silenzio circostante:

“La smetti di ridere?!” fece indispettita, sedendosi al centro del letto “non ci trovo niente di divertente! Hai sentito?! Smettila!” gli tirò contro un cuscino, che non ebbe l’effetto sperato “non basta abbia fatto quel terribile sogno… adesso devo sentirmi anche prendere in giro… smettila!” gli andò a colpire l’addome con inutili pugni.

Vegeta le afferrò i polsi e tornò a sottometterla con tutto il suo corpo, come se ella fosse stata inconsistente e potesse disporre del suo fisico come più gli piaceva.

Sulla bocca sottile aveva lo spettro svanente di quel ghigno:

“Io credo semplicemente che tu abbia fatto una cattiva digestione…” le alitò sul volto “questi sono gli incubi e niente altro…”

“Qualsiasi cosa fosse, non è stata piacevole… io ho avuto paura…”

“Puoi stare tranquilla… sia Freezer che Cell stanno bruciando all’inferno…” fece tagliente.

Questa volta fu lui ad approfittarsi della morbidezza dei suoi seni e a sistemarci la testa.

“Non mi hai risposto… quali erano le sembianze di Freezer…?”.

Nonostante il rocambolesco viaggio su Namecc e la breve incursione che l’alieno aveva fatto sulla Terra, l’intrepida scienziata non aveva avuto modo di scoprire le sue orride fattezze.

“Lascia perdere… è stato solo uno stupido sogno… non ha alcun senso…” la mise a tacere severo.

Per lungo tempo nessuno dei due aggiunse altro.

In realtà, la rievocazione delle due famigerate creature lo aveva inquietato più di quanto volesse dare a bere, non fosse altro per la semplice coincidenza che aveva fatto un sogno molto simile solo qualche notte prima.

Soltanto che lui arrivava quando era troppo tardi.

Il letto in cui giaceva Bulma era già lordato del suo sangue.

Ma i sogni non significavano niente, continuò a ripetersi anche in quel mentre, e per dimostrare a sé stesso che il racconto della donna non lo aveva sconvolto più di tanto e che per la testa gli stava invece frullando tutt’altro, le sollevò la maglia del pigiama e andò a suggerle una delle sue generose mammelle.

Il loro profumo, il candore, e la delicatezza gli mescolarono il sangue facendogli dimenticare tutto il resto.

I lombi atletici guizzavano già febbricitanti.

Risalì a baciarle la linea levigata del collo.

Era prossimo a disfarla degli indumenti quando si accorse che il suo turgido petto non ansimava per il piacere, ma, scivolata nel sonno già molti istanti prima che egli fosse preso da quell’ardore, respirava soltanto beatamente.

L’osservò tra l’incredulo e l’indignato.

Allora non gli restò che darle le spalle con un gesto risentito e coricarsi su di un fianco.

 

 

* * *

 

 

Trunks imparava a combattere con la stessa attitudine con cui un piccolo genio sa risolvere operazioni inconcepibili per chiunque altro coetaneo.

In poche parole, lo aveva già nel sangue.

Qualsiasi cosa facesse, era di livello superiore alla media.

Vegeta aveva iniziato a tirargliela fuori soltanto da poco tempo, ma quella potenzialità scalpitava nelle emozioni più ancestrali del fanciullo fin da quando aveva incominciato a spiare gli allenamenti del padre, nascosto dietro l’acciaio della camera gravitazionale (Leggi “Salto nel vuoto” nda).

Al principe dei saiyan non restava altro che ottundere ed affinare le sue innate capacità e nel farlo scopriva il gusto nuovo e saporito di sentirsi padre.

Non sapeva dargli altro che questo, eppure significavano già tanto per il suo cuore schivo e restio ai buoni sentimenti.

Il legame che lo univa a quel bambino prodigioso gli alimentava la fierezza e l’orgoglio della sua stirpe, senza dimenticare che nelle sue vene scorreva anche il sangue di una terrestre.

Le certezze di un tempo non erano più tali.

Qualcosa aveva iniziato ad incrinarsi dentro di lui col volgere degli anni.

A poco a poco, aveva incominciato a gradire l’idea di aver messo su famiglia.

Adesso, padre e figlio sorvolavano le vallate in direzione della Capsule Corp.

Vegeta alternava gli allenamenti tra il giardino di casa e le radure brulle tra le montagne.

Quanto alla camera gravitazionale, aveva decretato che c'erano altri progressi da compiere prima che il bambino potesse metterci piede.

Il sole tramontava infuocando l’orizzonte verso il quale si dirigevano affamato uno ed esausto l’altro.

Bulma aveva da poco infornato l’arrosto, quando i due varcarono la porta del soggiorno.

Impallidì nel vedere Trunks procedere barcollante.

Il bambino aveva il volto pesto e gli arti altrettanto tumefatti.

La manica della divisa di Vegeta era uno straccio senza possibilità di recupero, ma sul suo corpo non erano visibili lividure.

“Trunks! Tesoro mio… che ti è successo…?” si inginocchiò con apprensione per essere alla sua altezza “che cosa gli hai fatto, animale che non sei altro?!” spalancò subito le fauci verso l’indiscusso colpevole.

L’incolumità di Trunks era stata una sua costante preoccupazione da quando Vegeta aveva incominciato ad allenarlo.

Temeva che potesse accanirsi su di lui, che si lasciasse prendere troppo la mano dimenticando che era solo un bambino.

Ma le labbra tumide e sanguinanti di Trunks si piegarono in un’insolita smorfia.

Ne uscì un sorriso macabro e raccapricciante:

“Che bello mamma… mi sono… divertito tantissimo oggi… io e papà abbiamo combattuto sul serio…” masticò sangue e saliva.

“E lo chiami divertimento questo? Guarda come sei ridotto! E tu?” appuntò i gomiti e tornò a guardare l’altro piena di furore “che razza di incosciente sei? Avevi intenzione di massacrarlo?!”

Vegeta sogghignò:

“E’ più fango che sangue… e non dimenticare che non è una femminuccia… un saiyan sa sopportare questo ed altro…” ribatté e se ne andò in direzione del bagno.

“Tesoro…” riallacciò con premura “sei sicuro di stare bene…?” lo esaminava dalla testa ai piedi “…e che cos’è questo gonfiore..?” indicò con l’indice tremante la protuberanza che aveva al di sopra della cintola.

Allora il bambino trasse dalla divisa un piccolo animale arruffato.

Era un coniglietto bianco che aveva scovato sotto ad una roccia, con una zampetta malmessa e sanguinolenta, prima di lasciare la radura selvatica dove era stato ad allenarsi.

Tremava tra le sue mani ed ispirava una tenerezza infinita:

“Posso tenerlo…? Ha bisogno di cure… è così piccolo…”.

La madre gli scompigliò i capelli in un gesto affettuoso.

Era contenta di constatare che la tempra di saiyan fosse stata mitigata da un’altra del tutto contrapposta:

“D’accordo… ma dovrai occupartene da solo… adesso corri a fare una doccia altrimenti non potrò medicarti…”

“Curerò anche lui…!” esclamò scomparendo nel lungo corridoio.

Vegeta aveva un asciugamano annodato ai fianchi quando lei entrò nella sua stanza e gli disse di non riuscire a trovare la cassetta del pronto soccorso.

Entrò nel bagno annesso, saturo del vapori della doccia, e la trovò nell’armadietto accanto al lavabo.

“Toccherebbe a te medicare tuo figlio… considerato che sei stato tu a ridurlo in quelle condizioni…” gli disse sul punto di uscire.

“Quante storie per quattro graffi…” mormorò il saiyan “ti ricordo che sei stata tu a farmi presente con insistenza che era arrivato il momento di allenarlo… non avevi messo in conto anche questo…?”.

Lo aveva fatto eccome.

In ogni caso, doveva riconoscere di non potergli rimproverare niente, se non altro perché aveva temuto potesse accadere di peggio nelle loro esercitazioni.

A modo suo, Vegeta si stava comportando bene.

Ciò che contava era vedere Trunks contento di trascorrere del tempo insieme a suo padre, malgrado le ammaccature fossero il prezzo che qualche volta doveva pagare.

L’asciugamano che d’improvviso scivolò sul pavimento le fece cambiare predisposizione nei suoi confronti.

Bulma restò a fissarlo mentre, sollevando un piede e poi l’altro, si infilava un paio di slip:

“Comunque…” la sua voce si modulò come il dolce suono di un liuto “stasera potresti venire a dormire in camera mia…”

Vegeta tirò su anche i pantaloni:

“Non meriti niente…” le disse senza aver dimenticato di essere stato mandato in bianco la notte precedente.

“E cosa avrei fatto di male…?” atteggiò la bocca in un innocente interrogativo.

Ma il saiyan non aggiunse altro.

“Fa come vuoi…” aprì lei la porta “se non vieni tu… verrò io… e poi non dire che non ti ho avvertito…” ammiccò ed andò via.

 

 

* * *

 

 

Trunks aveva preso seriamente a cuore le sorti del coniglietto trovato intrappolato sotto una roccia.

Forse era il sentimento di colpa che attanagliava la sua coscienza, perché era stato lui  la cagione della caduta del masso, ma da quel giorno non se ne era più separato.

Prodigandogli cura ed affetto, il piccolo animale era riuscito a sopravvivere.

Soddisfatto allora del risultato ottenuto con le sue sole forze e speranze, il bambino nutriva per l’animale lo stesso attaccamento ed eguale senso di protezione che un padre ha verso un figlio, un adulto verso chi è più indifeso.

Bulma aveva scoperto che di notte se lo coricava accanto a lui sul cuscino, con la stessa attenzione, di giorno, per evitare che fosse infastidito dal gatto dei nonni, lo riponeva in una gabbietta e lo portava a spasso per la casa.

Non appena si fosse ripreso, aveva deciso che lo avrebbe portato a vedere anche all’amico Goten, per renderlo partecipe della felice novità che gli era capitata.

In un tiepido mattino d’autunno, commise però l’errore di portarlo in giardino in un momento che fu fatale.

Pensò che gli avrebbe fatto bene stare all’aria aperta e che non sarebbe stato pericoloso se nel frattempo si fosse allenato un po’ col padre.

Nel giardino di casa, infatti, Vegeta si limitava soltanto a schivare i colpi, rimettendo agli spazi più ampi le lezioni ed i confronti più agguerriti.

“Avanti Trunks! Oggi sei decisamente lento…” lo rimproverò il padre che si schermiva dalle sue mosse con le braccia incrociate dietro la schiena, in una posa negligente ed irrisoria.

Il bambino incalzò il ritmo e riuscì finalmente a colpirlo all’addome con un colpo che fece mancare all’altro il respiro, prima di ritrovarsi  a sua volta catapultato a terra con una mascella dolorante.

“Scusami…” frignò contrito massaggiandosi il viso “non volevo metterci tutta quella forza…”

“Non chiedere scusa a nessuno quando combatti…” sputò sul terreno erboso “avanti riprendi…”.

C’erano momenti, come questi, in cui Vegeta provava gusto a combattere con il figlio.

Una luce di sfida si accendeva negli occhi caliginosi e l’ebbrezza del confronto gli faceva schiumare il sangue, perché per quanto l’avversario fosse un moccioso inesperto era pur sempre un saiyan che al momento opportuno sapeva fare male.

Vegeta alzò la guardia ma Trunks non riuscì a replicare la mossa precedente:

“Si può sapere che ti prende…? Attaccami senza aver paura!”

“Ma non voglio farti male…”

“E chi ti dice che tu ci riesca veramente…?” il principe dei saiyan incominciava ad arrabbiarsi “dimentica che sono tuo padre e combatti sul serio come si addice ad un vero saiyan!”

Trunks tornò ad attaccarlo ma senza alcun effetto.

Vegeta lo scrutò così duramente che il piccolo fu costretto a tenere lo sguardo a terra.

“Anche se sei mio figlio, non esiterei per questo a farti male… tu non mi conosci bene… posso essere spietato con chiunque… anche con te… pure con tua madre che ha forza soltanto nella lingua… non mi importa di niente e di nessuno… così devono essere i veri guerrieri… i sentimenti sono per i deboli…” la sua bocca assunse una piega che non prometteva niente di buono.

Stava perdendo il controllo. 

Era come se un muscolo assopito si stesse risvegliando e scalpitasse per liberarsi dal formicolio che lo soggiogava.

A Trunks non piacevano quelle parole.

Un brivido di paura percorse la sua schiena.

Il piacere e l’orgoglio di trascorrere il tempo con suo padre si commutarono in un sentimento di fastidio e ripugnanza.

Voleva andarsene via.

Voleva che arrivasse la sua mamma a toglierlo da quell’impiccio.

Ella non aveva mai avuto paura al suo cospetto e sapeva bene come trattarlo.

“Vediamo se questa volta ti decidi  a fare sul serio…” una sfera di energia brillò sulla punta dell’indice rivolto nella sua direzione.

Trunks sbarrò gli occhi, ma il raggio fu intenzionalmente deviato a colpire altrove.

La gabbietta in cui stava il coniglio bianco fu disintegrata senza pietà alcuna.

Al suo posto, una piccola fossa nel terreno fu davanti ai suoi occhi sconvolti come un baratro senza fondo.

Il bambino restò inorridito dinanzi a tanta efferatezza.

Era solo un coniglietto indifeso e stava rosicchiando la sua foglia di lattuga ignaro del pericolo incombente.

“Perché… lo hai… fatto…?” articolò annichilito “lui non ti ha fatto niente di male… perché?!” urlò scagliandosi contro il padre, che reagì a quello scatto con un ghigno di compiacimento.

Incassò un colpo in pieno viso ed un altro nel ventre, poi, come se egli fosse stato un insetto fastidioso, lo respinse scaraventandolo a terra.

Trunks sentì le lacrime scendergli inarrestabilmente, così traboccanti, così calde e salate:

“Smettila di frignare e reagisci!”.

Lo sorprese invece un latrato lancinante e disperato.

Vegeta non se lo aspettava e sul volto si dipinse la stessa maschera che un adulto ha quando ad un moccioso gli scoppia il palloncino che tira per la corda: impotenza più che fastidio.

Trunks era tornato d’un tratto bambino e, senza smentire la sua età, non gli restò che correre via a  cercare l’abbraccio materno.

 

 

* * *

 

 

Bulma centellinava la tazzina di caffè, che, nelle pause di lavoro, aveva quasi sempre un gusto più saporito e corroborante.

La sua attenzione fu calamitata da una pagina di giornale che suo padre aveva lasciato sul tavolo del soggiorno.

A caratteri cubitali veniva annunciato il terzo massacro compiuto nelle città limitrofe nel giro di una settimana.

In apparenza senza movente, madre, padre, e figlio erano stati ritrovati in casa torturati ed assassinati barbaramente.

Mentre leggeva con distrazione l’articolo, nel quale si ribadiva l’invito della polizia locale a non fare entrare gli sconosciuti, pensò che con due saiyan in casa non le sarebbe mai potuto accadere niente di simile e per questo voltò la pagina a scorrere le previsioni del tempo.

Era prossima a riprendere il lavoro allorché il pianto disperato di suo figlio proruppe nella stanza trapassandole i timpani.

Trunks era gravemente disperato ed il corpo fremeva in preda a singulti che gli mozzavano il respiro:

“Ma che cosa ti è successo…?”

“Papà… ha ucciso il mio coniglietto… senza ragione… solo per farmi combattere…”.

Anche Vegeta fece il suo ingresso nella stanza, più rigido ed oscuro del solito:

“Puoi spiegarmi meglio che cosa è accaduto…?” si rivolse con asprezza all’uomo, presumendo già le sue responsabilità.

“Lui stava per conto suo… perché lo hai colpito…?” seguitò il bambino “non ti dava nessun fastidio… il mio povero coniglio non c’è più per colpa tua… sei cattivo… non ti voglio più vedere…!” e scappò nella sua stanza.

Vegeta digrignò torvo:

“Era solo uno stupido animale…”.

Bulma lo scrutò con severità.

La disperazione di suo figlio l’aveva contagiata a sua volta.

Era accaduto ciò che ella temeva, perché anche se Vegeta non si era accanito contro suo figlio, aveva trovato il modo di straziarlo lo stesso.

“Questo non significa niente… quello che non è importante per te non è detto che non lo sia per un altro… Trunks è soltanto un bambino… ci teneva molto… dovevi rispettarlo anche solo per questo…”

“Non provare a darmi lezioni di vita! Ho ucciso quell’animale per indurlo a combattere sul serio… ed invece quel moccioso dopo una prima reazione si è ritirato… si sarebbe dovuto accanire… avrebbe dovuto massacrarmi… ed invece non lo ha fatto…”

“Forse perché sei suo padre e nonostante tutto… ti vuole bene… sopra ogni altra cosa…” mormorò guardandolo negli occhi.

Ma Vegeta le diede le spalle.

Nel suo cuore di saiyan confluivano sentimenti contrastanti.

Da un lato la rabbia di constatare in suo figlio quelle debolezze troppe umane che poco si addicono ad un guerriero, dall’altro scoprire che anche lui poteva esserne facile preda.

“Come reagiresti se qualcuno arrivasse qui e senza ragione… gratuitamente... come tu hai fatto con quel piccolo animale… ti portasse via ciò che ti è diventato più caro…?”.

Allora Vegeta rivide quel letto deturpato di sangue, dove Bulma giaceva senza un alito di vita.

Freezer e Cell se ne stavano seduti sul ciglio ed osservavano divertiti il macabro scempio.

“Non farei un bel nulla…” rispose freddamente “a me non importa di niente e di nessuno…”.

 

 

* * *

 

 

Non era stato facile quietare la disperazione di suo figlio, né era servito a qualcosa promettergli che sarebbe andata in un negozio di animali e ne avrebbe comprato un altro uguale.

Argutamente Trunks le aveva risposto che non sarebbe stato lo stesso e che si era affezionato a quel coniglio in quanto, trovato ferito e curato con devozione, sentiva un legame più speciale e profondo, che non era riuscito ad instaurare neanche col micio nero di suo nonno.

Più difficile fu parlargli del padre e ricordargli che, per quanto egli fosse adulto, aveva ancora molte cose da imparare, perché dal mondo da dove proveniva, non esistevano bimbi felici e coniglietti bianchi, che occorreva armarsi di indulgenza e non voltargli le spalle.

Alla fine riuscì a far sbocciare un sorriso sulla bocca contusa del bambino quando gli accordò il permesso di andare da Goten e restarci fino al giorno dopo.

Mangiato un frugale panino, poi si rimise a lavoro.

Lo squillo del campanello la costrinse all’ennesima distrazione.

Sua madre e suo padre passavano il weekend fuori città e toccava a lei badare ad ogni cosa.

La seccatura con cui andò ad aprire la porta commutò in un ampio sorriso nello scoprire sulla soglia due giovanotti con arnesi da lavoro.

“Finalmente siete arrivati… vi aspettavo stamattina…”.

Li condusse sul terrazzo e mostrò loro il punto in cui occorreva intervenire.

Le prime piogge autunnali avevano sollevato in più punti la pavimentazione ed occorreva al più presto un nuovo rivestimento di cotto.

Uno dei due, quello più alto e con un volto assai simpatico, le disse che sarebbero state sufficienti due giornate di lavoro:

“Se lei… signora… sarà così gentile da sopportarci…” le mostrò una fila di denti bianchi “i nostri sono lavori che sporcano e danno disturbo…”

“Non preoccupatevi… lavorate pure… nel caso abbiate bisogno di qualcosa… io sono nel soggiorno…”.

Fu lì infatti che portò le sue carte da lavoro e prese a proseguire il primo schizzo di un nuovo motore ad energia solare.

Intenta ad elaborare dati sul computer portatile, le parve ad un certo punto così lontano il rumore dei picconi sull’impiantito rovinato che trasalì quando uno dei due operai le comparve alle spalle:

“Sareste così gentile… signora… da darci da bere…?” parlò quello più basso e tarchiato, ma con fare gentile ed un po’ impacciato, docile, quasi avesse paura di darle disturbo.

Bulma notò che le divise imbrattate di calce non si addicevano all’aspetto raffinato ed elegante dei loro volti.

Anche l’altro entrò strofinandosi bene le suole delle scarpe.

La padrona di casa si scusò per la disattenzione e versò loro due limonate.

Sbirciò l’orologio e vide che dal loro arrivo erano trascorsi quasi venti minuti.

Sembrava che se la stessero prendendo comoda perché sorseggiavano la bevanda con molta lentezza ed intanto si guardavano intorno:

“Certo che è una casa molto grande…” parlò quello più sveglio “le foto che a volte compaiono sulle riviste scientifiche non le rendono giustizia…”.

Bulma allora fu curiosa di sapere se era interessato a quel genere di lettura:

“No… per niente…” sorrise ancora “mi è capitato solo di gettarci qualche occhiata…”.

Ella non chiese altro, non essendo intenzionata ad intavolare con loro una discussione, piuttosto scalpitava di rimettersi a lavoro e di recuperare il tempo perduto quella mattinata, ed intanto si domandava perché non si decidessero a fare lo stesso anche loro.

Non appena ebbe voltato le spalle, queste sussultarono al rumore improvviso del vetro infranto.

Il bicchiere e quanto vi era contenuto erano finiti a terra sparpagliandosi in schegge di dimensioni varie:

“Chiedo scusa… signora…” fece compunto il più basso tra i due “ con i guanti mi è scivolato da mano…”

“Non preoccuparti…” fece un sorriso di convenienza, ma in realtà ne aveva già fin sopra i capelli “penso io a pulire…”.

Si mosse a prendere la scopa ma ecco che anche il secondo bicchiere, quello dell’altro ragazzo, finì a terra.

Bulma perse la pazienza:

“Vi state forse prendendo gioco di me…?” si rivolse a quello dalla faccia che prima le era parsa più simpatica e che ostentava adesso un ghigno indecifrabile, mentre l’altro era scoppiato a ridere come un melenso e sembrava che la scena lo stesse divertendo molto.

“Non è proprio l’espressione esatta…” fece l’altro “diciamo che vogliamo giocare un po’ e questa volta… sarai tu e questa casa il nostro divertimento…”.

Da qualche parte doveva aver gettato il giornale della mattina che annunciava il terzo massacro senza movente di una famiglia perbene.

Bulma arretrò malferma ed il volto perse ogni colore.

Le restò solo quello terreo dell’orrore più puro ed autentico.

“Prendete i soldi e tutto quello che volete ed andatevene via…”

“Non hai capito… signora… a noi non servono né soldi né gioielli… vogliamo divertirci…”

“Siete capitati nel posto sbagliato… quando arriveranno mio marito e mio figlio avrete di che pentirvene…”.

Ma a Trunks aveva dato il permesso di rincasare l’indomani e Vegeta, dopo averle ribadito che a lui non importava di niente e di nessuno, aveva spiccato il volo per chissà dove.

Conoscendolo, dubitava sarebbe ritornato per quel giorno.

Da qualche parte era andato a sfogare la sua rabbia e a recuperare il proprio autocontrollo, come spesso accadeva quando lo assalivano i dubbi e l’opprimevano i tormenti esistenziali.

“Quando arriveranno ci divertiremo anche con loro…” ridacchiò il ragazzo, quello dal tono più mite ed impacciato, che tra breve si sarebbe rivelato il più famigerato fra i due “più siamo e più il divertimento è assicurato…”.

“Voi vi siete bevuti il cervello! Come vi permettete di entrare in casa della gente e pensare di fare i vostri comodi?! Andatevene via, squilibrati che non siete altro!”.

Il bastone della scopa le fece piegare in due le ginocchia, quali fuscelli sferzati dal vento, senza vigore, senza volontà propria, ed il dolore fu tale che la vista si annebbiò e le parve in quell’istante che ogni altra percezione abbandonasse il suo corpo.

Le restò solo una fitta a tal punto lancinante ed incontenibile che gli occhi e la bocca si sbarrarono come a volerlo vomitare.

Il ragazzo ne aveva fatto un randello e l’aveva staffilata nella piega dei polpacci producendo una schiocca che riecheggiò come un battito secco di mani tra le pareti della stanza.

Bulma cadde sul vetro frantumato e le ginocchia e le mani si imbrattarono di tante piccole venature rosso vermiglie che si corrosero a contatto con l’essenza asprigna della limonata versata a terra.

Si sentì strattonare la testa per una ciocca di capelli:

“Modera i termini… signora… in questa casa… adesso… i padroni siamo noi…”.

Allora si rivide immobile nel letto, con Freezer e Cell, assisi su ambo le sponde, che l’osservavano con i loro ghigni divertiti e le pupille invasate di furore scellerato.

Poi strabuzzò gli occhi e svenne.

 

 

* * *

 

 

I flutti spumeggianti del mare, anche quelli più incombenti e fragorosi, non potevano nulla dinanzi all’energia cieca e spettacolare di chi aveva annientato pianeti con l’imposizione di una mano.

Si arrendevano come docili puledri dal pennacchio bianco, come schiavi prostrati e riverenti si piegavano ed arretravano innanzi alla sua potenza.

Le acque si aprivano come schiere urlanti al suo passaggio e si richiudevano con lo scroscio di  acclamazioni esultanti.

La terra tremava ed il vento impetuoso dissipava le nubi.

Dominati cielo, terra e mare, il principe dei saiyan giacque sull’arena asciutta.

La schiuma salmastra gli andò a lambire le caviglie nude, in una carezza fresca ed effervescente.

Il sole del pomeriggio riscaldava la sua pelle sfregiata ed arrendeva i muscoli ad un gradevole torpore.  

Si schermò gli occhi con un braccio e ci nascose dietro gli avvenimenti della giornata.

Quando aveva detto a Bulma che non gli importava di niente e di nessuno, l’aveva vista inghiottire l’ennesimo boccone amaro.

I suoi occhi azzurri avevano lampeggiato prima di incredulità e poi di astio, carichi di quel malcelato tormento, che, per quell’orgoglio maledetto almeno quanto il suo, non gli voleva mai dare a vedere.

Non le aveva lasciato il tempo di replicare, aveva girato i tacchi e se ne era andato via.

Povera illusa se credeva che quegli anni trascorsi sulla Terra avevano potuto veramente intaccare la sua essenza egoista e malvagia.

Egli ci restava soltanto per comodo, per sfruttare la camera gravitazionale, avere un pasto caldo, un letto in cui riposare bene, dei fianchi sinuosi in cui trovare piacere.

Così adesso sotterrava sotto la sabbia quelle sensazioni insolite e gradite che aveva quando si accorgeva che c’era qualcuno che si preoccupava di non fargli mancare niente, quando allenava suo figlio e si compiaceva in silenzio dei suoi progressi, quando si rotolava la sera tardi nel letto insieme a lei e l’amava, sì, l’amava con la consapevolezza sconvolgente che ella era diventata la sua donna, soltanto sua, e lo sarebbe stata per sempre.

Il principe dei saiyan si era fatto una famiglia e l’idea incominciava a piacergli più di quanto avesse voluto ammettere.

A poco a poco si era lasciato il passato alle spalle, ma senza rinnegare niente, senza dimenticare da dove veniva e chi era stato un tempo.

Per questo, passato e presente talvolta entravano in conflitto e, per rimetterli ciascuno a proprio posto, aveva bisogno di starsene da solo alla ricerca di un qualcosa che giustificasse e risolvesse quella lotta, senza parteggiare per l’una o per l’altra parte.

Alla fine, trascorso qualche giorno a contatto con le forze più spietate della natura, sceglieva di ritornarsene nell’unico luogo in cui aveva lasciato qualcosa.

Era ancora lontano quel giorno in cui si sarebbe lasciato soggiogare da un mago.

Bulma lo vedeva sempre ritornare come se niente fosse mai accaduto, senza ricevere spiegazioni, senza riuscire a scrutarlo negli occhi.

“Tutto per uno stupido coniglio…” pensò, e le linee del suo volto si tesero di nuovo.

Si alzò ed andò a gettarsi in acqua, per sgombrare la mente da questi altri pensieri.

Questa volta lasciò che fossero le onde del mare a dominarlo.

Si abbandonò al loro moto incostante, talvolta burrascoso, altre volte più placido, come se i cavalloni fossero stanchi di rincorrersi e si concedessero una tregua.

Nuotò e si immerse nelle acque opache, poi risalì sulla battigia e scrollò la folta criniera.

La schiena tornò a distendersi sulla sabbia ed infine si addormentò.

Bulma era immobile sul letto, Freezer e Cell la sorvegliavano accomodati sui cigli, ma le lenzuola non erano ancora sporche di sangue.

Questa volta era riuscito ad arrivare prima.

Quando spalancò gli occhi  con un sussulto, il sole incominciava a tramontare dietro il pendio di una collina e la risacca produceva un suono monotono e rilassante.

Si alzò e prese ad ammassare della legna per trascorrere la notte accanto al fuoco.

I sogni non volevano dir nulla, e a lui non importava di nessuno e di niente…

 

 

* * *

 

 

Quando Bulma riprese i sensi, l’orologio alla parete segnava trascorse le cinque del pomeriggio soltanto da pochi minuti.

Si ritrovò allacciata ad una poltrona con le funi che i due avevano portato in casa insieme agli altri strumenti da lavoro.

Le ginocchia erano una cartina geografica di tagli e slabbrature più o meno vive, qualcuna cicatrizzata, qualche altra era di un rosso ancora profondo.

Se fosse riuscita a guardarsi i polpacci, avrebbe visto anche l’impronta della scudisciata, una striatura nella piega delle gambe livida e gonfia.

Gli arti inferiori erano come in preda ad un incendio.

Non sarebbero bastati né acqua  né ghiaccio per estinguerlo.

Dovette scalpitare per accertarsi di non averle perse irrimediabilmente.

Altri strattoni furono dati nella speranza di riuscire a liberarsi, perché non c’era tempo di provare dolore e disperazione, doveva decidere il da farsi.

Se avesse potuto raggiungere la porta, sarebbe bastato buttarsi in strada per trovare soccorso.

Ma la corda era stata rigirata molte volte intorno al corpo ed anche il telefono era fuori dalla sua portata.

“Ti sei svegliata signora…” mormorò quello più alto comparendo dal corridoio, seguito a ruota dall’altro.

Erano stati a gironzolare per casa, trovando particolarmente interessante l’ala dei laboratori.

Quello più sveglio, con la bocca sottile, un filo di barba ispida e i capelli cortissimi, aveva più volte ammonito il compagno a non toccare oggetti pericolosi, ma questi continuava ad essere attratto proprio da quelli più bizzarri e sconosciuti, e, per questo, un principio di incendio era divampato tra gli scaffali zeppi di sofisticati marchingegni, domato a tempo con l’estintore appeso al muro.

“Liberatemi immediatamente!” ordinò agitandosi, ma si accorse che, così facendo, la corda le stringeva soltanto di più il respiro.

Il ragazzo prese il telefono portatile e si sedette vicino a lei:

“Avanti… chi vuoi chiamare…? Ti do la possibilità di comporre un numero di telefono… la polizia… il vicino di casa… tuo marito… mister Satan…?”.

L’altro aveva preso a ridere con quel suo fare da ebete.

I fili erano stati spezzati ancor prima di entrare in casa.

A riflettere bene, non aveva ricevuto telefonate per tutta la mattinata né c’era stata l’esigenza di farle.

“Non trattarmi come una stupida… liberami!”.

In risposta il ragazzo si andò a sedere sul divano di fronte ed accese il televisore.

Girò i canali e si fermò quando sullo schermo comparve una partita di pallone.

Bulma non riusciva a capire quali fossero le loro intenzioni.

Sembrava dovessero far passare la giornata.

Non avevano intenzione di disfarsi subito di lei.

Il gioco era lungo e prevedeva un’attesa sfibrante ed angosciosa, nell’incertezza di cosa avrebbero fatto, nella speranza di uscirne vivi in qualche modo.

Erano solo due giovani, poco più che ventenni, pensò Bulma nell’osservarli meglio.

Non avrebbero avuto scampo se Trunks o Vegeta fossero stati in casa.

Sarebbe stato per loro come liberarsi di due mosche fastidiose.

Per lei, due comuni mortali potevano diventare pericolosi allo stesso modo di Cell o di Freezer.

La sostanza non cambia se si è privi di qualsiasi potenziale combattivo.

Il sogno infine era diventato realtà.

Non era immobilizzata sul suo letto, non c’erano le due famigerate creature, ma due individui altrettanto pericolosi erano penetrati in casa sua con le intenzioni più sadiche e perverse e la piantonavano a vista.

All’improvviso ricordò la risposta gelida che le aveva dato Vegeta prima che se ne andasse via.

Sebbene le avesse ribadito che non gli importava di niente e di nessuno, non per un solo istante pensò di non ricevere il suo aiuto se l’avesse trovata in quelle condizioni.

Era trascorso molto tempo da quando il suo aereo era stato fatto precipitare dal dott. Gero nel mezzo del deserto e lui non aveva mosso un muscolo per salvare lei ed il bambino.

Nessuno meglio di lei, ora, conosceva il principe dei saiyan e la lenta metamorfosi che subiva.

Trascorsero più di un’ora a guardare la partita.

Quello più basso e tarchiato aveva aperto il frigorifero e si era preparato un sostanzioso tramezzino, poi si era messo comodo sul divano a consumarlo ed aveva sollevato i piedi sul tavolino, come fosse stato a casa sua, come se la padrona di casa, che scalpitava legata alla poltrona accanto, fosse stato un particolare privo di qualsiasi riguardo.

“Incomincio ad annoiarmi…” disse ad un tratto l’altro, spegnendo il televisore.

Per Bulma, la quale si era già arresa a lottare con le corde da bel un pezzo, quelle parole ebbero l’inesorabile suono di un campanellino d’allarme.

“Quando rientrano i tuoi… signora…?”

“Tu spera che non lo facciano… perché si arrabbieranno molto quando vedranno cosa avete fatto…”.

Il ragazzo allora prese un coltello e si mosse nella sua direzione.

Gli occhi di Bulma ebbero un lampo di vivido orrore.

La lama fu poggiata sul grembo della donna e le corde recise con un colpo secco.

Mentre la pressione si allentava intorno ai muscoli anchilosati, Bulma pensò se ad indurlo a quel gesto fosse stata veramente la sua intimidazione.

“Avanti… spogliati…” si sentì dire.

Le viscere si liquefecero a quell’imperativo.

“No!” gridò con decisione e l’altro, che sgranocchiava sul divano, restò con la bocca aperta ed un pugno di patatine in mano.

Lo schiaffo non produsse alcuna schiocca perché nessuno dei due si era tolto i guanti, da quando erano entrati in casa.

La sinuosa cervice fu un altro fuscello piegato dal vento ed i capelli si sparpagliarono sul volto e restarono appiccicati sul sudore stillante dalla fronte e sul sangue che uscì dal labbro spaccato.

“Fai la buona… signora… non ti farò niente… non ora… voglio solo che ti alzi in piedi e ti sollevi la maglietta…” parlò mellifluo e si andò a sedere per godersi lo spettacolo meglio.

A Bulma non restò che assecondarlo e prima di trovare il coraggio di togliersi la maglia, fu più arduo mettersi in piedi e riuscire a non piegarsi sulle gambe.

I seni nudi si sollevarono trafelati sotto lo sguardo dei due astanti, compiaciuto quello di uno, indifferente quello dell’altro, che riprese a mangiare fino a quando nella busta non gli rimasero che briciole e sale.

Bulma tenne lo sguardo piantato a terra e l’amaro delle lacrime si mescolò al sudore e al sangue.

 

 

* * *

 

 

Il letto era abbastanza grande per farci stare due bambini.

Chichi rimboccò le coperte a Trunks e Goten, poi si sporse verso il figlio più grande, facendo schioccare sulla fronte imbarazzata del ragazzo il consueto bacio della buona notte.

Poi lasciò la stanza e la porta di legno cigolò alle sue spalle.

Trunks era stato per tutto il pomeriggio giù di morale, senza dare spiegazioni all’amico su cosa lo tormentasse.

Avevano giocato a combattere, ma non si era applicato a dovere, non aveva mostrato all’altro la superiorità raggiunta grazie agli allenamenti del padre.

Anche Gohan lo aveva scoperto silenzioso a cena e poco affamato.

“Fratellone…” lo chiamò Goten “perché non ci racconti una bella storia…?”

“E’ tardi… è meglio che dormite…” si rigirò dall’altro lato.

Le lezioni a distanza assorbivano gran parte della sua giornata, per questo la sera era abituato a coricarsi poco dopo l’ora di cena.

“Uffa… me le racconti sempre…” protestò il bambino.

“E poi è presto… a casa mia vado a letto più tardi…” soggiunse Trunks, che, malgrado quel rifiuto, trovava molto affabile il ragazzo.

Gli sarebbe piaciuto avere un fratello più grande, qualcuno come lui, con cui poter giocare e condividere la sua stanza.

Invidiava Goten quando lo vedeva appendersi alle spalle del fratello e costringerlo a farsi portare in groppa.

“Racconta a Trunks le storie di papà…” propose Goten.

Gohan gli parlava spesso del padre defunto e delle battaglie di cui era stato l’ardimentoso protagonista.

Non si stancava mai di farsele ripetere ed anche ora, mentre il fratello raccontava tra uno sbadiglio e l’altro le cronache di Namecc, Goten aveva la bocca dischiusa nella solita fessura di stupore.

“Vorresti farmi credere che vostro padre era più forte del mio…?” fece Trunks alla fine, incrociando le braccia e ghignando con scetticismo.

Gohan, che ormai era ben desto, si accorse che in quelle pose era identico al principe dei saiyan.

“Ecco… Vegeta è molto forte… ma papà aveva un qualcosa in più…” rammentò l’ultimo saluto con cui lo aveva visto dissolversi per sempre nel generoso sacrificio della sua vita.

“Impossibile… non c’è nessuno più forte di mio padre… non a caso è lui il principe dei saiyan…” neanche l’episodio di quel giorno, neanche la sofferenza che gli aveva inflitto, riuscivano a scalfire l’ammirazione che aveva per lui sopra ogni altra cosa “… e poi se non mi ha mai parlato di tuo padre è perché evidentemente non è forte come tu dici…”.

Gohan preferì non deluderlo, piuttosto doveva riconoscere che se quel bambino provava tanto orgoglio nell’avere per padre un essere come Vegeta,  non era per un incondizionato attaccamento filiale, ma perché questi in qualche modo era riuscito a conquistare il suo affetto.

Ci pensò Goten, con la sua spontaneità, a colmare il silenzio:

“Gohan mi ha raccontato che tuo padre era molto cattivo…” aggrottò le sopracciglia con disappunto.

“Ma che dici!” si fece livido il ragazzo dandogli un buffetto sulla chioma appuntita.

“Non è vero!” saltò Trunks fuori dalle coperte e strinse le nocche “mio padre non aveva nessuno che gli volesse bene… era solo e triste… per questo si comportava male con chiunque…” ripeteva i racconti materni “ma ora è cambiato…” poi trattenne le lacrime e tirò su col naso quando rivide la gabbia del coniglio disintegrata innanzi ai suoi occhi.

“Ti credo…” mormorò Gohan con un sorriso che si sforzò di essere sincero.

Quando Chichi venne a quietare il baccano col suo fare autoritario, tutti e tre erano già nascosti sotto le coperte e finsero di russare.

 

 

* * *

 

 

Le era stato ordinato di rialzarsi la maglia e di mettersi seduta.

Trascorsero così altre due ore.

Quello sul divano finì per addormentarsi, l’altro misurava la stanza a passi lenti e meditabondi.

Poi le si rivolse ad un tratto:

“C’è una stanza in fondo al corridoio chiamata camera gravitazionale… occorreva un codice per l’accesso… portami lì… voglio vederla…”.

Bulma non riuscì a muoversi, le gambe la tradirono ancora una volta.

Il ragazzo la fece alzare, tirandole brutalmente un braccio, e la spinse in avanti.

“E’ soltanto un ripostiglio vuoto…” disse lei dinanzi al pesante acciaio della porta.

L’ironia della sorte volle che la stanza fosse guasta da due giorni.

Se si fosse presa la briga di ripararla, accontentando Vegeta piuttosto che dirgli seccata di allenarsi all’aperto perché aveva altro da sbrigare, avrebbe potuto attirarli entrambi dentro ed azionare la gravità fissa ai trecento.

Sarebbero stati schiacciati come due insetti repellenti e questa volta avrebbe esultato lei piena di soddisfazione perversa.

Ma non era detta l’ultima parola.

Bulma non aveva voglia di morire ed era disposta a giocarsi ogni mossa in quell’improvvisata partita a scacchi.

Si parò agli occhi del giovane una stanza insolita, con le pareti di metallo.

La curiosità con cui l’esaminava lo fece distrarre, così Bulma scivolò alle sue spalle, sgattaiolò fuori e face scattare la pesante serratura.

Il ragazzo diede uno spintone contro la porta, ma per l’acciaio fu come una lucidata passata con un panno.

Era sul punto di ripercorrere all’indietro il corridoio, in direzione dell’uscita, quando in fondo comparve l’altro, frattanto svegliatosi, che la colse in flagrante.

A Bulma non restò che arretrare e rifugiarsi all’interno della sua stanza, in una corsa precipitosa e al cardiopalma.

“Vieni fuori…! Tanto ti prendo comunque!” rideva spiritato.

L’unica via di fuga era la finestra.

Bulma si sporse fuori ed uscì vacillante sul cornicione.

Dalla porta non provennero più altri insulti e tutto intorno tacque.

L’unica cosa da fare era salire sulla loggia che concludeva il tetto, a tre metri circa sopra la sua testa, e raggiungere la scala secondaria esterna che l’avrebbe portata a terra, nel retro del giardino, più vicino ai laboratori, dove, recuperato un velivolo qualunque, sarebbe fuggita via.

Si arrampicò lungo una tubatura di ferro.

Sotto lo sforzo, le ferite sul ginocchio ripresero a sanguinare e la scudisciata sul polpaccio ad inibirle i movimenti.

Con i denti serrati, riuscì ad arrivare fino alla grondaia.

Quando pensò che un altro sforzo sarebbe stato troppo eccessivo e le mani non trovavano più altri appigli, un braccio guantato si sporse dal parapetto ad aiutarla.

Si aggrappò un istante prima di sentire il vuoto incombere sotto i piedi e sperò che fosse Vegeta.

“Grazie…” mormorò ansante, col corpo piegato a terra.

Ma alzata la testa, rivide l’espressione sadica dei due sequestratori, i quali avevano anticipato le sue mosse ed erano saliti ad aspettarla.

“Grazie a te…” le rimandò sarcastico il più magro fra i due “ci hai fatto divertire molto… ma si è fatto tardi e visto che gli altri non arrivano più… non ci resta che sbarazzarci di te…”.

“Aspettate… cosa volete fare… lasciatemi…!” scalpitò invano mentre uno l’afferrava per le gambe e l’altro per le braccia.

Bulma rivide il vuoto sotto di sé e chiuse gli occhi.

Avevano intenzione di farla precipitare come fosse stata un sacco di immondizia di cui disfarsi.

Le viscere si contorsero mentre il terreno si appressava senza scampo.

Fu un impatto morbido e caldo, indolore.

Non pensava il trapasso potesse essere tanto delicato e leggero, che l’anima trasmigrasse subito dal corpo e volteggiasse libera nell’aria.

Quando riaprì gli occhi, si perse in quelli altrettanto sconvolti di Vegeta.

Il saiyan, spinto da un angoscioso presentimento, aveva lasciato la spiaggia.

Era arrivato a casa giusto in tempo per vederla precipitare dal tetto.

Per un impulso volontario ed automatico, senza pensarci due volte, era scattato a prenderla tra le braccia.

Quando la rimise a terra, lei cadde all’indietro priva di forze.

Malgrado l’oscurità della notte, scoprì il corpo sanguinante e contuso.

Levitò allora in alto e vide che erano stati due comuni terrestri a ridurla in quelle condizioni.

Freezer e Cell bruciavano nelle fiamme dell’inferno, ma il male, che è sempre in agguato, può incarnarsi in chiunque e colpire chi è più disarmato.

I due ragazzi restarono trasecolati innanzi al prodigio di un uomo che derogava ogni legge gravitazionale.

Poi un lampo accecante saettò verso di loro e la brezza notturna disperse le polveri.

 

 

* * *

 

 

L’acqua si raccoglieva montando  il bagnoschiuma in una soffice schiuma bianca.

Bulma, gravemente silenziosa, aspettava seduta sul bordo della vasca ed ogni tanto saggiava con un dito che la temperatura non fosse troppo calda.

Poggiato allo stipite della porta, Vegeta osservava il suo corpo, irriconoscibile sotto il viola sanguigno dei lividi ed il rosso vivo delle escoriazioni, attendere di trovare sollievo in quel bagno rilassante e benefico.

Lo zigomo destro era gonfio, sul labbro inferiore era condensato un grumo di sangue, la cui scia le aveva percorso il mento ed era scivolata fino al collo.

Scoprire che era stata in balia di due sadici per circa otto ore gli accresceva la rabbia per non averli fatti soffrire abbastanza, oltre il rimorso di non aver dato subito ascolto ai propri presentimenti per quel suo orgoglio stupido e vano.

Trinceratosi dietro la falsa convinzione che non gli importava di niente e di nessuno, aveva corso il rischio di perderla per sempre.

Per un istante solo pensò cosa sarebbe accaduto se non fosse arrivato in tempo e la macabra visione del suo corpo schiacciato a terra lo fece raggelare.

Lo scroscio dell’acqua si interruppe e lei si immerse nell’acqua con un’espressione di beatitudine in contraddizione con le labbra gonfie.

Vegeta non aveva mai riflettuto sul fatto che il male più puro potesse albergare anche nella natura terrestre e ritorcersi gratuitamente contro la sua famiglia, la sua casa.

“Tutto questo è accaduto perché non sei in grado di difenderti…”.

Ella colse una nota stonata di disprezzo ed allora disse altrettanto duramente:

“No… è accaduto perché tu sei fuggito come tutte le altre volte… se fossi stato presente non mi sarebbe successo niente!”

“Se vuoi andare a ritroso, la colpa allora può essere anche di tuo figlio… senza quello stupido coniglio… avrei concluso come sempre la nostra mattinata di allenamenti!” disse e scomparve con rabbia nella stanza annessa.

Quando Bulma riemerse dal bagno con addosso la vestaglia, egli era ancora lì, a scrutare la notte da dietro i vetri della finestra.

“La colpa è soltanto di quei due pazzi… di nessun altro…” ruppe il silenzio lei, che era troppo stanca e provata per recriminare su questioni insignificanti.

Alle sue spalle, il saiyan sentì la sponda del letto piegarsi.

Bulma aveva trovato la borsa del ghiaccio e la cassetta del pronto soccorso che inaspettatamente aveva avuto premura di andarle a prendere.

Quando si voltò, vide che il volto si contraeva in una smorfia di dolore a contatto con i medicamenti.

L’operazione fu lenta e sfibrante, su ogni tumefazione, su ogni sfregio subito.

Vegeta restò a guardare ma non intervenne, non le diede altro sostegno.

In cuor suo si mescolavano la rabbia per quanto successo e l’ennesima bruciante conferma dei suoi veri sentimenti.

Chiusa la cassetta, Bulma si alzò, si avvicinò a lui e senza preavviso si strinse al suo corpo, poggiando la testa sulla spalla e chiudendo gli occhi in un dolce abbandono, sapendo che tra quelle braccia non avrebbe corso altro pericolo.

“Resta con me questa notte…” mormorò come la più soave delle suppliche.

A Vegeta non era neanche sfiorata l’idea di andarsene via.

La decisione di restare era uno di quei pensieri così umani che ormai gli erano spontanei, come istintivo era stato il gesto con cui aveva incalzato l’andatura ed allargato le braccia per afferrarla mentre ella precipitava.

Allora mosse una mano esitante e le strinse piano la spalla.

 

 

* * *

 

 

Quando Trunks l’indomani fece ritorno, trovò sua madre distesa sul divano come una convalescente, nel punto in cui si era consumato gran parte del suo sequestro.

I robot avevano pensato a rassettare ogni traccia lasciata dai due turpi visitatori: lattine di birra scolate, briciole, tovaglioli sporchi, corde spezzate.

Le ginocchia erano fasciate ed i lividi rilucevano delle pomate applicate.

“Che cosa ti è successo…?” si avvicinò con apprensione.

Era così insolito vedere quella donna inerte e silenziosa.

Bulma non era certa di volerlo turbare.

Raccontargli di aver preso una brutta caduta dalle scale era quanto di più opportuno potesse fare, se Trunks, adombrandosi, non le avesse chiesto subito:

“E’ stato papà a farti questo…?”.

La madre sgranò gli occhi e lesse nelle reazioni di quel piccolo corpo, percorso da un fremito di collera, inquietudini che erano troppo più grandi di lui.

Sorrise rassicurante:

“Certo che no… sono stati due uomini cattivi che sono entrati qui in casa… ma tuo padre è arrivato giusto in tempo e mi ha salvato…”.

Allora la tensione del corpo si allentò e gli occhi brillarono come filtrati da un raggio di sole.

“Dici davvero…?”

“Non dubitarne mai…” gli accarezzò i capelli “tuo padre ci vuole bene veramente… sono sicura che non esiterebbe a dare la sua vita per noi…”.

L’oggetto del discorso fece il suo ingresso nella stanza.

Se avesse captato il tenore di quel colloquio, si sarebbe tenuto a distanza.

Ma solo in quell’istante si accorse della presenza del bambino.

“Io vado ad allenarmi… seguimi…” gli ordinò come se tra loro non fosse mai accaduto niente.

Trunks non riusciva ancora a guardarlo in faccia.

Malgrado le parole della madre, l’immagine del coniglio bianco continuava ad affacciarsi alla mente.

Vegeta scorse la sua ostinazione ed allora disse:

“Muoviti… se vieni senza fare storie e ti alleni come si deve… dopo ti porto al luna park…”.

Trunks non poteva credere alle sue orecchie.

Era la prima volta che gli giungeva quella proposta dal padre.

Si volse a guardare la donna, come a trovare la certezza di aver sentito bene:

“Fossi in te… non mi lascerei scappare quest’occasione…” gli strizzò l’occhio.

E poiché i bambini hanno il dono raro di dimenticare subito i torti subiti, spalancò tutti i denti in un largo sorriso e seguì il principe dei saiyan.

 

 

FINE

 

 

 

 

 

“Funny Games” è il titolo di un film presentato al festival di Cannes nel 1997.

In una casa sulle rive isolate di un lago, una famiglia austriaca composta da madre, padre e figlio, viene sequestrata e torturata per divertimento da due giovani sadici: nessun lieto fine.

Paragonato all’inarrivabile “Arancia meccanica” (1971) di Kubrick, il film lascia allo spettatore nient’altro che un senso di nauseante disturbo.

 

 

 

 

   
 
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