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Autore: Medea00    25/11/2011    2 recensioni
Una bambola che non vorrebbe avere vita
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giselle

(La frustrazione dell’essere prodotto)


 

Faceva freddo, in quella piccola scatoletta buia.

 

 

Non che lo sentissi davvero, dopotutto, come avrei potuto? Noi non abbiamo pelle; non possiamo assaporare il vento pungente che penetra nelle nostre vene, o il calore di una mano che ci accarezza dolcemente. Eppure, nella mia breve vita –quanti anni saranno passati? Uno? Venti?- posso dire di averli provati entrambi, almeno per una volta.

La prima volta me la ricordo come se fosse appena successa: era il giorno del mio compleanno, e io sentii una fitta qui, proprio sul petto, o meglio, su quel lembo di corpo coperto da un sottile vestitino di cotone rosso spento, fatto di trine e ricami all’uncinetto; era piccola, quasi inesistente, eppure, tant’è. Un giorno aprii gli occhi, ed eccola: bum. Ha fatto proprio così, come un proiettile che mi perforò il cuore. Rapido, eppure, non doloroso. Bum. Ci fu molto stupore da parte mia, ci misi un bel po’ a rendermi conto di dove fossi, e ancora di più ad accorgermi di poter realmente constatare il luogo intorno a me, il tavolo di cedro, la luce, i colori: cose inaudite, dico io. E poi, davanti a me, il mondo, racchiuso interamente in due grandi occhi verdi, semplici, disarmanti. Rimasi nella più assoluta contemplazione: se avessi dovuto respirare, probabilmente mi sarei dimenticata di farlo, perché lui era bellissimo, mi stava sorridendo come se fossi l’unica cosa degna di essere osservata, e con le sue dita affusolate lo vidi concentrarsi su di me, mentre armeggiava con pennelli, utensili e taglierini. Mi sollevò; che bella sensazione, stare in piedi, sentirsi viva, attraverso di lui. Mi fece ballare, e ad un occhio esterno poteva sembrare che i miei piedi si muovessero da soli, così come le braccia, il busto, la testa, ma c’erano due cordicelle di nylon, sottili, appena visibili alla luce del sole, e sopra di quelle, un pezzettino di legno tenuto stretto tra le dita affusolate del mio amore. Io mi lasciai cullare da quel valzer senza orchestra, perché non c’era bisogno di archi, pianoforti o vestiti di gala, era tutto lì, nella nostra testa e, in seguito, in quella degli spettatori che ci osservarono; scivolavo lungo le mattonelle di marmo come se stessi lambendo l’aria, una pausa, qualche volteggio, rivolsi sorrisi e piccoli inchini, ma fu tutta una finzione: non mi importava di quelle persone, non mi importava dei bambini adoranti e delle madri invidiose, io lo facevo solo per lui. Perché, quando la sua voce giungeva a me, era come se qualcosa scattasse dall’interno, la mia anima prendeva fuoco, e io non potevo fare altro che assecondarlo con tutta me stessa, impegnandomi, amandolo sempre di più.

Applaudirono, dei bambini si alzarono in piedi per correre a vedermi: non mi ero mai sentita così bella in vita mia. Era dunque quella, la felicità? Ricevere amore tanto quanto ne viene versato, il saper di essere apprezzata così per come fossi, con i miei piccoli boccoli di lana, e le mie labbra rosso ciliegia? Tutte cose mai sognate, eppure, talmente vive che rischiai di cadere a terra, tanta fu l’emozione che colse le mie gambe; ma non avvenne. Ovvio che non avvenne, perché c’era Alan; il mio Alan, dolce creatore. Aveva sempre un occhio di riguardo per me e mi maneggiava con cura, come un quadro prezioso, o un fiore delicato. Ricordo ancora quando mi strappai la gonna: per poco non gli era preso un infarto, aveva afferrato subito ago e filo e cominciato a rammendare il vestitino mormorando qualcosa circa la sfortuna, e la sua preoccupazione. Fu allora che capii che non mi avrebbe mai lasciata. Mi amava, poiché ero frutto del suo amore; mi voleva, perché con le mie piccole scarpette di vernice e il mio sguardo radioso ero capace di illuminare una stanza immensa, perfino quelle racchiusa dalle pareti del suo cuore.

La nostra vita, a quel punto, fu perfetta: non passò un singolo giorno senza che mi tenesse tra le sue braccia, mi parlasse e mi facesse danzare. Le mie amiche, con mio grande rammarico, furono gelose: a loro era riservato soltanto un piccolo angolo della mattinata, e così facendo hanno finito per odiare il mio amore: ma come potevano anche solo pensare una cosa talmente orrida? Ma soprattutto, come osavano anche solo minimamente lamentarsi? Alan era dolce: le spolverava quotidianamente e le cambiava perfino d’abito, allo sbocciare dei primi fiori, o all’imbrunire delle selve rigogliose che si potevano intravedere dalla finestra. Era un trattamento di lusso, e ci avrei scommesso i miei bottoni di madreperla, non era una cosa che si poteva trovare tanto facilmente. L’unica pecca, probabilmente, era che riservasse nei miei confronti più attenzioni rispetto a qualunque altra: era vero, mi spazzolava più spesso, ed ero sempre io ad intrattenere gli ospiti, quando se ne capitava l’occasione, ma, a parer mio, di pecca c’era ben poco. Alan era un umile, passionale uomo, e se proprio vogliamo attribuire difetti a destra e a manca, allora bisognerebbe biasimare l’essenza intera dell’amore, bisognerebbe perfino render conto al destino che ha reso loro così brutte, e io così fortunata.

Perché, siamo sinceri: non sarebbero riuscite a mettere due piedi in fila, con quelle loro inutili scarpettine di tela e le loro braccia cadenti. Erano del tutto prive di quel contatto magico che invece albergava tra me e il mio amore, quei fili invisibili di nylon che mi conducevano immediatamente tra le sue braccia, e quel piccolo sostegno in legno di noce, atto ad aiutare la trasmissione.

Giselle, così mi chiamava. Era un amante della musica e della danza classica, e io gli ricordavo quella ballerina che si vedeva spesso in televisione, quella con le braccia che parevano ali d’angelo, che toccava il terreno solo con la punta dei piedi, proprio come me. “Giselle”, mi diceva, quando la stanza era piena e la musica alta nell’aria, “tesoro, balla per me”.

E io lo facevo. Avrei potuto farlo per tutta l’eternità.

Ma l’eternità era una cosa troppo grande, e la sua vita troppo corta.

Mi aveva sempre trattata con garbo, come se potessi spezzarmi da un momento all’altro; ma, ahimè, trai due era la sua esistenza ad essere più fragile, erano le sue mani che cominciarono sempre più a tremare senza controllo, e di conseguenza i miei passi si fecero più incerti, i miei volteggi più sgraziati, e non ci fu niente che potesse impedirlo, nemmeno l’amore che ci univa, nemmeno quei piccoli fili invisibili che, in quei momenti, sembravano essere un sostegno per lui, piuttosto che per me.

In un tiepido giorno di Primavera, Alan morì. E così com’ero nata, io mi spensi tra le sue braccia, piombando nell’oscurità.

Le stagioni scorsero inesorabilmente, e quei bambini che un tempo si erano emozionati alla mia vista adesso erano alti e altezzosi: mi guardavano a stento, si domandavano chi fossi; mi ignoravano.

Non ero più nessuno. Poiché nessuno era più Alan.

Fui buttata via, di colpo, io assieme alle mie amiche, sfrattate dal luogo che ci apparteneva. “Siamo qui da molto più tempo di voi!”, volevo dir loro: “Siete degli screanzati!”

Eppure, a quelle persone tanto maleducate, quel salone da ballo era sembrato evidentemente molto piccolo, perché venimmo tolte di mezzo, e al posto nostro comparvero delle strane creature, fatte di un materiale liscio e freddo, di involucri trasparenti e luci che rimanevano accese al buio.

E io non capivo: non potevamo stare tutti insieme, loro e noi? E poi, dov’erano finiti i volti e gli abitini di cotone? Dov’era finita la musica, quelle soavi melodie che ci avevano tenuto compagnia? Adesso era tutto nuovo, e freddo: adesso c’erano soltanto strani arnesi e versi inquietanti provenienti da macchine che di umano non avevano nemmeno le fattezze.

Alan non avrebbe mai permesso tutto questo. Alan, come prima cosa, non ci avrebbe mai abbandonate a noi stesse, perché sapeva benissimo che siamo incapaci di vivere da sole; ma Alan non c’era. C’era un “Riky”, e c’era perfino una “Jodie”, ma non erano neanche lontanamente somiglianti al mio Alan. Mi guardavano sempre in malo modo – se lo facevano- e, quando mi prendevano, finivano sempre per sgualcirmi, o farmi del male, fino a quando non mi avevano buttata via.
Ma, infondo, non mi importava: se Alan non c’era, allora nemmeno io avevo motivo di esserci. Perché era sempre stato così: se lui era triste, io ero triste; se lui era debole, io ero debole. Non c’era un sentimento che non fosse condiviso, e quindi lo avrei seguito nella morte, così come ero stata la sua ombra in vita.

E pensavo che fosse la cosa più giusta e naturale al mondo, pensavo che fosse così che doveva essere fatto, perché l’amore è bello e sconfigge perfino le barriere del tempo e dello spazio; ma poi, quando la pioggia aveva sporcato completamente le mie cuciture fatte a mano, e il mio viso aveva perso tutto di quella bellezza tanto agognata, alla fine di tutto quello, capii: non provavo gli stessi sentimenti di Alan perché lo amavo. Io sentivo ciò che sentiva lui, perché ero lui. Quei fili non erano il tramite delle nostre anime: era il ponte che collegava la sua al mio corpo, ad un contenitore che ne era privo. Tutto ad un tratto il caldo non fu più caldo, e il freddo non sembrò poi così tanto freddo, in quella piccola scatoletta buia.

Tantissime domande mi sarebbero sorte in mente, molte delle quali inutili, molte altre, prive di risposta:

“Perché non me lo ha mai detto prima?” Oppure, “Che senso ha avuto darmi un nome?”

Ma quella che più mi afflisse, quella che mi avrebbe fatta impazzire, piangere, gridare di dolore, se solo mi fosse concesso, fu l’unica che, terribilmente, piombò davanti alla mia completa esistenza.

“Che cos’è l’amore? E’ un sentimento troppo strano per poter essere descritto. E quindi, come riconoscere l’amore vero, da quello ideale? Quello puro ed eterno da uno finto, nato soltanto dalla condizione degli eventi, e da dei sogni che non potranno mai essere realizzati?”

Non avevo mai amato l’uomo che volevo. Non avrei mai potuto farlo.

Desiderai diventare la vera Giselle, quella donna che sembrava un angelo ma che era umana, quella creatura che non aveva un viso perfetto e un sorriso sempre raggiante, anzi, il più delle volte appariva triste e debole, ma lei riusciva a muoversi così bene, nelle sue scarpette a punta, e non aveva bisogno di fili di nylon, non era vincolata a nessun Alan, a nessun supporto di legno.

Ed era così bella, nella sua libertà e nel suo dolore, che quando si librava in aria, sembrava potesse toccare il cielo.

Desiderai essere nata come lei; ma poi mi resi conto che non era possibile.

Quindi, desiderai non essere nata affatto.

Medea00

 

 

 

****

Seconda classificata: "Giselle" di Medea00


Attinenza al tema: 10 punti

Originalità: 9 punti
La storia raccontata dal punto di vista di una marionetta non è, di per sé, un soggetto troppo originale. Il modo in cui l'hai fatto, però, trovo che lo sia: soprattutto, credo siano molto interessanti la percezione dell’amore che Giselle ha e tutta la riflessione finale, che esprime alla perfezione la frustrazione, motivo per cui ti ho dato 10 punti di attinenza al tema.

Correttezza grammaticale: 7 punti
Nel complesso, la storia è scritta in modo corretto. Ci sono, però numerosi errori di grammatica.

Stile e lessico: 9 punti
Lo stile è molto piacevole; il lessico è vario, anche se non particolarmente complesso: è, insomma, quello adatto ad una bambolina, ad una marionetta, e l'ho trovato molto coerente con la storia e il carattere di Giselle. Ci sono delle perle come “ci avrei scommesso i miei bottoni di madreperla”, espressione che mi ha fatto sorridere. Tuttavia, non ti ho dato un punteggio pieno a causa di alcune espressioni non molto eleganti, come “e se proprio vogliamo attribuire difetti a destra e a manca”, che credo stonasse un po'.

Struttura e personaggi: 14 punti
La struttura della storia mi è sembrata lineare, coerente e armoniosa, senza balzi logici o cronologici. Segue perfettamente l'evolversi del pensiero di Giselle: dall'ingenuità iniziale, esso si fa sempre più complesso e problematico, fino all'estremo scetticismo della conclusione, fino al desiderio di non essere mai nata.
Anche i personaggi sono ben definiti: Giselle è descritta a tutto tondo, ci mostri sia i suoi lati positivi, che quelli negativi, i suoi sentimenti e i suoi pensieri hanno una grande profondità e la frustrazione del voler amare e non poterlo fare è espressa molto, molto bene. Benché l'introspezione di Alan non sia molto approfondita, anche il suo personaggio risulta perfettamente coerente con la storia: essendo visto attraverso gli occhi di Giselle, infatti, è idealizzato, è come una scena disegnata che non ci appare nel suo insieme, perché su di essa abbiamo solo un punto di vista.

Giudizio personale: 5 punti
Questa storia mi è piaciuta molto: in particolare ho amato quella sensazione, che hai espresso così bene, del “sentimento che si sente ma non è reale” e tutto il dissidio che ne consegue. Non riesco a spiegarlo con poche parole, ma credo che tu lo capisca ugualmente, perché tu ci sei riuscita molto bene, invece. :)

Totale: 54 punti

   
 
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