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Autore: The Guardians    26/11/2011    3 recensioni
L'Effetto Osmosi.
Chi ci dice che anche i Templari non ne conoscano le possibili applicazioni?
La Casa Farmaceutica sta ampliando i suoi orizzonti. Concluso l’assemblamento delle 190 celle di sincronizzazione, con i rispettivi Animus, le Abstergo Industries avviano il progetto di prova e collaudo delle stesse. I "campioni", scrupolosamente selezionati tra la massa, sono persone che hanno perso la loro dignità di uomini e donne nel momento in cui la società moderna le ha messe da parte. I soggetti del Progetto Delta combattono una guerra virtuale attraverso i ricordi genetici dei rispettivi Antenati: pupazzi computerizzati adattati a modelli rinascimentali preesistenti.
Al centro delle vicende Arder Hayes, uno scrittore caduto in depressione dopo la morte della sorella, nonché l'uomo che convenzionalmente chiameremmo il Soggetto Masnadiero. Quando l’Abstergo confesserà la sua essenzialità nel progetto, Arder sarà riluttante ma, a differenza dei suoi compagni e mentre i morti continueranno ad aumentare, cercherà in tutti i modi di rovesciare la sorte del proprio destino. Così facendo, scoprirà le carte di guerra ancora più spietata: quella contro se stessi.
Estratto dal capitolo 7°
Mi tende la piccola mano. E' poco più di una bambina. “Tu devi essere Arder.”
“Sì,” balbetto, sfiorandole appena la pelle. “Sono io.”
Al contrario, lei mi stringe le dita con forza, sicura di sé e molto professionale. “Io sono Hannah. Benvenuto all’Abstergo.”
A quel punto non dico più nulla, limitandomi ad inarcare un sopracciglio e dimenticare aperta la bocca. Era probabile che alla sua età non sarei mai riuscito a pronunciare senza sforzo una parola tanto difficile come Ab… Abresergo, no. Abtsre…Abtersgo, Ab…
“Abstergo,” mi corregge lei.
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Warren Vidic
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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   Capitolo ********

“Cosa sta facendo?”
“Non lo vedi? Balla.”
“Sul cornicione.”
“Sì.”
“…ne abbiamo perso un altro. Chiamo Sean.”
“No, tranquilla, è un nuovo tipo di veleno.”
C.M. e D.F.


Sean ha parlato forse per una manciata di minuti, forse intere ore, non so dirlo con certezza. Per tutto il tempo l’ho fissato con un’espressione e un colorito della pelle che avrebbero spaventato i bambini “dolcetto o scherzetto” del prossimo Halloween. Dipendevo dalle sue labbra.
All’inizio si è limitato ad illustrarmi dettagliatamente in che modo si erano mossi gli uffici legali nell’arco del processo, che lui stesso, per il suo dipendente, aveva finanziato. Ha citato alcuni nomi che sapeva non avrei mai ricordato, altri che invece avevo conosciuto di persona, come avvocati, testimoni e giurisperiti; tutti contribuenti della mia rovina. Dopodiché si è scusato più volte, assumendosi la colpa di quello che era accaduto e spiegando come aveva dovuto mentire, a me per primo, ma soprattutto alla Giuria, per proteggere il logo dell’azienda che rappresenta.
A quel punto ho cominciato a dover reprimere la tentazione di saltargli alla gola. Ma solo alla parola “condanna”, associata al mio nome, ho avuto la seria ispirazione di afferrarlo e lanciarlo dalla finestra. Poi, probabilmente, mi sarei gettato anch’io.
“Ho interceduto personalmente nel suo caso, signor Hayes, per salvarla, se così si può dire, dall’ergastolo.”
Scatto in avanti. “Che cosa?!”
Sean si sistema più comodo. “Purtroppo il sottoscritto non è esattamente al vertice di questa piramide, signor Hayes, e gli ordini sono ordini. Se lei dovesse dimostrarsi disinteressato alla nostra proposta, sarà scortato al dipartimento più vicino e consegnato nelle mani della giustizia.”
“Sì, la stessa giustizia che ha ammazzato mia sorella! Altro che il suo dipendente, mi spieghi di cosa sono accusato, avanti!” sbotto alzandomi in piedi.
“Di violenza sull’imputato per estorsione d’informazioni, signor Hayes.” Al contrario, Trimarchi resta serenamente seduto.
Alzo gli occhi al cielo. “Questa sì che è bella. È stata legittima difesa!”
“Vendetta personale, vorrà dire.” I suoi occhi azzurri mi fulminano.
In realtà mi ero ben preparato a quell’eventualità. Mi ero dichiarato io stesso responsabile delle mie azioni. Sapevo che andare in prigione sarebbe stata la cosa più giusta per tutti. Eppure… “E chi mi starebbe facendo causa se Preston è morto?”
“Io.”
Ho appena avuto conferma che quest’uomo è matto.
“Credo di non capire.”
“Sarò lieto di farle maggiore chiarezza, ma prima vorrei poterla guardare di nuovo in faccia,” dice tranquillo prendendo un altro sorso di caffè.
Mi rimetto seduto lentamente, trattenendo il fiato.
“Ottimo. Adesso si sforzi di capire che quest’azienda ha un valore infinitamente maggiore di lei, di me, della linea del telefono, del petrolio e della fame nel Mondo. Ho accennato ad una proposta, e avrebbe potuto pretendere di approfondire l’argomento invece di cominciare ad agitarsi, signor Hayes.”
“Mi sta accusando mentre dice di volermi aiutare!” ribatto. “Effettivamente sono un po’ confuso. Ne è sorpreso?”
“Purtroppo sì, e molto. Pensavo di avere davanti un adulto formato e responsabile, ma a quanto pare mi sbagliavo: lei è solo un bambino che rivuole la sua caramella.”
Colgo una cattiveria infinita in quell’affermazione. Vuole ferirmi così da potermi sottomettere più facilmente. Bhé, può anche scordarselo.
“Lei me l’ha rubata.”
“Ma il supereroe che gliela riporterà non esiste.”
Non che creda nei personaggi dei fumetti più che in Dio, ma ‘sta volta la lingua biforcuta di quest’uomo ha violato qualcosa, in me, annullando del tutto la mia prontezza di risposta.
Ho esitato e mi è stato fatale. Arriva il colpo di grazia.
“Se lei avesse dei figli, signor Hayes, o quanto mento qualcuno che si avvicinasse a quel genere di legame, riuscirebbe forse a pesare una virgola delle responsabilità che invadono ciascuno di noi.”
“Mia sorella… lei lo era per me…”
Dopo quella frase sembra cercare il mio sguardo, perso sul pavimento. Quando vedrà le mie lacrime, Sean potrà compiacersi del fatto di essere davanti ad un bambino.
“Non la metta sul personale. Cerchi di superare la cosa e potremo parlarne da uomini,” dice.
“Lei è il primo… a non essere umano, Sean.”
Touché. Mi gusto fino all’ultimo secondo di silenzio. Non ha il coraggio di aggiungere altro. Almeno non su quell’argomento.
“È stato lei a chiedermi di approfondire questa conversazione. Se lo ricorda?”
Ridacchio. “Bhé, veramente…”
Continua a fissarmi, ma la sua aurea di serenità è del tutto sparita. E non mi da il tempo di continuare: “Adesso stia zitto e ascolti la mia proposta. Dopodiché da buon libero cittadino americano potrà scegliere che fare delle sue ossa.”
Suona come una minaccia. Taccio. Acconsento.
Fa un respiro profondo. “Preston Anderson è morto, gliene do ragione, e con lui la sua pratica. Nel suo mondo ideale, signor Hayes, in cui la giustizia è amministrata dai giusti, la mia azienda dovrebbe chiudere ed io scontare diciotto anni di pena. Centinaia dei miei dipendenti finirebbero sulla strada e lei avrebbe contribuito a portare sull’orlo della povertà altrettante famiglie...” sospende la sentenza come se ci fosse dell’altro. “Nel mondo, invece, tutto questo non succederà. E sa perché? Perché lei andrà in prigione, che le piaccia o no, e ci rimarrà fino alla fine dei suoi giorni. Mi creda, non avrei voluto essere io a farle questo discorso, e neanche fare la parte del cattivo, ma lei non mi lascia scelta. Perciò ora si asciughi le lacrime, apra bene le orecchie e mi guardi in faccia mentre le assicuro un futuro migliore.”
Mi ha allungato un fazzoletto di carta estratto da chissà dove. Mi viene distrattamente da chiedermi se sono la prima persona a cui dà questo genere di notizie, qui dentro.
“Per farla breve, signor Hayes, voglio che lei lavori per me. Sarà semplicemente questo a tenerla lontana dai guai, glielo garantisco. Non posso prometterle giustizia per sua sorella, anche perché restano poche persone coinvolte nella faccenda, a parte lei e me; ma la salvezza… non può, non vuole lasciarsela sfuggire. Ammetta che è così.”
Mi osserva, mi studia. Scansiona ogni mio muscolo facciale mentre conta i miei respiri. Non mi lascia scampo, sono nella sua tela. Nella sua tela di promesse. Sarà la mia fine, lo so.
Dopo un silenzio infinito, riesco a guardarlo di nuovo negli occhi.
“Perché Hannah mi ha chiamato lupo?” chiedo per rompere il ghiaccio.
Sean sorride compiaciuto, quasi si aspettasse una domanda del genere. “Curiosità,” arride. “Questo è lo spirito giusto, signor Hayes. Curiosità. Mi segua.”
Si alza, aggira la scrivania e si avvia all’uscita.
Lo imito solo un’eternità più tardi, tanto ero sorpreso da quella reazione. E ora? Dove vuole portarmi? Direttamente dietro le sbarre? Mi accompagna a pisciare? Chissà… magari tra poco scoprirò di aver fatto uno di quei terribili sogni dentro i sogni dopo i quali ti risvegli tutto sudato. Al solo pensiero provo una leggera nostalgia per il mio divano; per tutte le maratone di film e quelle birre ancora sigillate nel frigo. Sean ha interrotto il mio momento di depressione troppo presto. Non avrei mai smesso di rinfacciarglielo.
Le doppie ante a vetro scorrono. Siamo in un corridoio tirato a lucido e molto luminoso. Per terra una moquette grigia. Il soffitto a specchi.
Sean si avvia. Gli tengo dietro.
“Signor Hayes,” comincia attirando tutta la mia attenzione. “Lei è stato testimone diretto di quella che il nostro settore specializzato chiama Sessione di Sincronizzazione. Ora non sarò io e in quel misero studio ad illustrarle nei dettagli di cosa si occupa materialmente la mia divisione, sarebbe estremamente riduttivo. Perciò mi piacerebbe vederla di nuovo all’opera il prima possibile e sapere cosa ne pensa.”
“Un attimo.”
Inchiodo mentre Sean chiama l’ascensore. Siamo in un salottino altrettanto sterile, come il corridoio. Ci sono un paio di poltroncine e un tavolino, il tutto condito da un design molto hight-tech, tipico delle grandi istituzioni di ricerca. Sì, perché non sono mica stupido, e non ci vuole un genio per capire che qui dentro fanno test sulla psiche umana. Basta guardare come hanno ridotto il tipo che mi sta davanti.
“Mi dica,” fa disponibile, giungendo le mani dietro la schiena.
“Quelle cose che ho visto… insomma…” esito, comincia a vorticarmi lo stomaco al ricordo del sangue. “L’ho visto veramente e lei vuole che lo riveda? È questo che fate qui?”
Sean annuisce, seppur poco convinto. Devo aver posto la domanda nel modo sbagliato, deludendolo. “Deduco che non sia stato di suo gradimento.”
“Affatto!” sbotto. “C’era tutta quella gente che moriva, e le spade, le pistole! Avanti, sembrava tanto uno di quei videogiochi da sbudellamento in prima persona. Mi dica quanto di vero c’era in quello che ho visto.”
“Tutto. Dal primo all’ultimo fotogramma che le è passato davanti. Ma lei non si è limitato a guardare, signor Hayes. Lei era lì, a vivere.”
“Un grande balzo per l’industria videoludica,” commento amaro con un leggero sarcasmo.
“Videogames, signor Hayes?” scoppia a ridere. “Siamo seri: sappiamo entrambi che non è nulla del genere,” mi strizza un occhio.
La conversazione continuerà nella cabina dell’ascensore, che ci ha appena spalancato le porte. Una volta dentro, non posso fare a meno di notare il grande schermo nero in stand-bay che occupa l’intera parete di fondo, dove galleggia un simbolo bianco a forma triangolare; mentre Sean pigia sull’interruttore del piano interessato, gli lancio un’occhiata distrattamente: cambia continuamente forma, dividendosi in tre parti, ruotando su se stesso un paio di volte e poi tornando allo stadio di partenza.
“La mia azienda ha bisogno di lei. Di gente come lei.”
“Potrebbe essere più chiaro?” domando tornando a guardarlo.
“Ci piace pensare che non sia stato il caso, signor Hayes, a portarla da noi,” dice fissando dritto davanti a sé, con in faccia stampato un sorriso divertito.
“Ma voi chi siete?” sono sempre più scettico. Il suo modo enigmatico di parlare mi sta portando al punto di ebollizione. Di nuovo.
“Siamo nati come una corporazione farmaceutica solo all’inizio del duemila. Eravamo qualcosa di molto più grande, ma meno appariscente, fino al secolo scorso.” Ne parla con una grande fierezza.
L’ascensore si ferma. La ante si aprono.
“Tralasciando il fatto che lei è qui per evitare la galera, signor Hayes, provi a pensare che il nostro logo sarà sui libri di storia delle prossime generazioni!” esulta facendomi strada.
Ci avventuriamo in quel labirinto di cellette vetrate che si vedevano dall’ufficio di Sean. Il vecchio, senza tregua, continua a crogiolarsi nelle glorie delle sue imprese mentre io ormai non lo ascolto più, tanto sono preso da cosa mi circonda.
Ad un tratto passiamo accanto ad una di quelle stanze e noto con chiarezza una ragazza sdraiata su un curioso lettino metallico che emana un insolito bagliore azzurrognolo dai circuiti interni. Al suo capezzale ci sono un uomo e una donna entrambi in camici bianchi. L’uno e l’altra sembrano avere ruoli completamente diversi: mentre la donna vigila sui dati graduati forniti da alcuni schermi ai piedi del lettino, l’uomo resta vicino alla ragazza monitorando una piccola interfaccia luminosa.
Senza rendermene conto ho rallentato il passo fino a staccarmi parecchio dal vecchio, che ha tirato dritto e si è fermato a parlare con un tizio più avanti.
Guardandomi attorno, mi rendo conto che le stanze sono principalmente di due tipi: un primo gruppo, in maggioranza, ospita unicamente una dozzina di postazioni computerizzate più o meno occupate dai rispettivi tecnici. Le altre, invece, sono celle come quella in cui ho appena sbirciato: uno spesso lettino nel mezzo e tre corpi in tutto. Nono oso immaginare la quantità necessaria d’energia per mandare avanti una struttura del genere. La corrente passa attraverso dei cavi che pendono dal soffitto per quelli che mi paiono almeno una cinquantina di metri. È una sala enorme, penso di averlo già detto, nella quale hai davvero l’impressione di essere nient’altro che un’umile formichina.
Pensieroso, raggiungo Sean.
“Signor Hayes, lasci che le presenti uno dei nostri migliori supervisori medici, Alex Viego,” dice presentandomi l’uomo col quale si era fermato a parlare.
È giovane, sulla trentina al massimo, noto mentre gli stringo la mano. Ha un medio taglio di capelli neri, tirati all’indietro in maniera ordinata. Gli occhi svegli, azzurri, trasmettono freschezza. Al collo gli pendono un paio di occhiali del tipo tradizionale.
“In realtà ci siamo già incontrati,” dice il ragazzo sorridendo.
Sobbalzo. Questa voce…
“Io e Samantha abbiamo coordinato la sua Sessione di Sincronizzazione,” conclude Alex. A titolo informativo, l’osservazione sembra rivolta più che altro a Sean, che è particolarmente sorpreso.
Alex lo anticipa: “Sì, so cosa sta pensando: Samantha non è la mia partner di coordinamento, ma Isaac è stato spostato nel settore C08 e noi del C02 stiamo ancora aspettando le nuove assegnazioni,” dice come se ne fosse realmente dispiaciuto.
Sean ci riflette un attimo. Poi guardando me: “Lei e la Cobb potreste continuare a supervisionare il signor Hayes, almeno finché il suddetto non avrà collezionato una serie considerevole di uccisioni.”
Non capisco una mazza di quello che si dicono, ma standomene qui almeno faccio presenza.
Alex pare rabbrividire, ma acconsente ugualmente. Non è per niente entusiasta di tornare a lavorare con quella donna, Samantha Cobb; potevo dirlo con certezza io che ero presente ai bisticci dei due durante la mia… il vecchio come ha detto che si chiama? Ah, sì: sincronizzazione.
Prima che Alex possa aggiungere qualcosa, si diffonde lo squittire di un cercapersone.
Un cercapersone?! Quella roba non si usa più da almeno due generazioni!
Sean estrae l’oggettino da una tasca dei pantaloni e legge in sovrimpressione. “Scusatemi, signori,” comincia poi. “Devo tornare alle mie scartoffie d’ufficio e occuparmi di una cartella in particolare,” aggiunge strizzandomi un occhio. “Signor Hayes, l’affido nelle mani esperte di Alex Viego, che le spiegherà ogni cosa da principio e si prenderà cura di lei come una mamma affettuosa.”
Il coordinatore stende oltremodo le labbra in un sorriso, annuendo. “Senz’altro. È stato un onore riceverla, signore.”
Sean muove qualche passo in retromarcia. “Tornerò dopo pranzo ad assicurarmi che il nostro lupo preferito si sia sfamato per bene.” E detto questo, scompare.
“…cazzo,” sento imprecare.
Mi volto di colpo.
Alex si passa le mani nei capelli. Sembra sconvolto mentre mi fissa. Sospira. “Scusami,” comincia distogliendo lo sguardo. “Mi rendo conto che il tuo soggiorno qui non è cominciato nel migliore dei modi.”
“Grazie… Ci sono abituato,” mento stringendomi nelle spalle.
“Non ci era stato detto nulla, pensavamo che sapessi già tutto. È stato spregevole metterti così, a prima botta, nell’Animus.”
“Animus?” domando con uno sguardo a dir poco allucinato.
Alex sorride. “Vieni,” e mi fa strada.
  
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