Tranne me.
La porta che si chiude dietro di
loro sembra quasi dar sollievo, pur non potendo di certo salvarli da quello che
li attende dietro di essa.
Watson si lascia scappare un
sospiro immediatamente mozzato dal dolore lancinante allo stomaco. Non ha idea
di dove siano, né se siano al sicuro – ma per il secondo interrogativo potrebbe
scommettere su una risposta negativa.
La mente è completamente
annebbiata dal dolore, il fisico cede agli spasmi e al sangue che a fiotti
fugge da lui come da un nemico. Non sente nulla, non vede nulla. Tutto appare
confuso e il respiro continua a spezzarsi senza che lui possa fare niente.
Holmes, che lo ha aiutato a
fuggire fino a quel misero riparo, lo poggia con delicatezza sul pavimento di
legno di quello che deve essere un piccolo rifugio in mezzo al bosco.
«Sono quasi certo che li
abbiamo seminati», sussurra con affanno il detective
«Tra poco potremmo cercare aiuto e tornare nella nostra amata Londra. Andrà
bene, andrà bene, Watson».
«Non… non lo faccia», lo implora
questi con un sorriso amarissimo «Non… non cominci a mentirmi… proprio alla
fine».
«Non so a cosa si riferisca»,
fa con sfrontatezza Holmes, i suoi occhi che tradiscono però la disperazione di
quel momento.
«Sono ferito, ma resto… un
medico. So… quanto sia grave… mi ha
preso allo stomaco…. Io… sto morendo, Holmes».
Impressionante come in un
attimo gli occhi che Watson ha imparato a conoscere tanto bene cambino
completamente, sciogliendosi in un mare di puro orrore. In essi si può leggere
una preghiera silenziosa ed implorante.
Non
muoia…
Un colpo di tosse violento
scuote con crudeltà il ferito e a nulla serve la solida stretta con cui cerca
di calmarlo il detective, in un atto di così intima amicizia, da sorprendere e
riscaldare il cuore anche in un simile momento.
Watson sente un’improvvisa
tristezza rapirlo e superare persino il dolore fisico: non vuole andarsene; non
per un qualche egoistico ed umano attaccamento alla vita, ma per una semplice
presa di coscienza. Non vuole lasciare Holmes. Dio solo sa quante ne hanno
viste insieme, quante volte hanno rischiato e ne sono usciti, in quanti modi –
con la loro pura amicizia – si sono salvati la vita.
Il sangue ormai ha invaso anche
la bocca, tanto che tosse sporca comincia a macchiare i vestiti di entrambi.
«Hol-mes…
mi… mi pro-metta… che si pre-nderà… cura di… se-se
stesso».
Il detective rimane impassibile
davanti a tale richiesta, le braccia che stringono ancora con forza il corpo
del collega, dell’amico. Non risponde
– e cosa mai potrebbe dire, poi? – e tanto basta perché entrambi comprendano il
significato di tale silenzio.
Poi più nulla. Watson chiude
gli occhi con semplicità, un lieve sorriso di stanchezza sotto i baffi curati
ed Holmes si trova a lottare con l’intelligenza, che tanto in alto lo aveva
portato, per convincersi che sta solo
dormendo.
«Ma non dorme, non dorme…»,
sussurra a se stesso, senza lasciare quel corpo.
Tutto ciò che succede dopo è
quanto di più assurdo si possa immaginare. Come i fantasmi dei migliori scritti,
Watson ha l’impressione di essere sospeso ancora nella stanza e di guardare il
proprio cadavere stretto dal detective come se fosse un terzo personaggio.
Osserva Holmes che non lo
lascia andare, nonostante abbia capito che non ci sia più nulla da fare e vorrebbe
urlargli di scappare perché il pericolo è ancora in agguato e basterebbe un
nulla per-
Uno
sparo.
Watson si sente mancare. Uno
sparo. Chi? Quando? Come è stato possibile che qualcuno abbia sparato se sono
soli in quella stanza?
Non ha tempo di farsi altre
domande, di capire l’assurdità in cui è piombato dal momento in cui ha smesso
di respirare perché quello che vede è sufficiente ad azzerare ogni cosa.
Holmes. Holmes si accascia a
terra, le mani che sfiorano ancora il cadavere, il petto che perde sangue, il
respiro che fugge dai polmoni per non tornarvi mai più.
Holmes muore. Muore davanti ai
sui occhi, come aveva fatto anche lui. Muore in una stanza in cui non c’è altra
persona che avrebbe potuto spararlo.
Muore.
*
Mentre apriva gli occhi con uno
sforzo che non avrebbe mai considerato così ingente, si rese conto che il
rumore stridulo e lontano che gli arrivava alle orecchie non era altro che la
sua voce intenta a lanciare un grido disumano. Solo quando non ebbe più fiato
nei polmoni, riuscì a fermarsi e davvero non avrebbe saputo dire per quanto
tempo fosse andato avanti.
Il tempo continuava ad
apparirgli sfasato, mentre un altro rumore entrò nel campo sonoro delle sue
percezioni. Poi ci fu un cambiamento anche in quello visivo.
Un uomo.
Ci volle un po’ per riconoscere,
nella figura che si muoveva quasi frenetica ed innaturale, il suo collega e
coinquilino.
Holmes.
Holmes era lì con lui in quella
che pareva essere la propria camera al 221b. Watson si sentì in un attimo la
testa andare in fiamme. Che stava succedendo? La fuga, la propria ferita, il
sangue… Lui… lui era morto! E… e anche Holmes! Qualcuno aveva sparato ad
Holmes.
Mentre gli occhi ancora non
riuscivano a mettere bene a fuoco ciò che gli era attorno, il dottore riuscì ad
afferrare blandamente il braccio del detective e ad attirare la sua attenzione.
«Non faccia sforzi, Watson… Sta
migliorando», lo ammonì questi, avvicinandosi e sedendosi accanto a lui.
«Siamo morti, Holmes?».
Il detective si sciolse in una
risata che sembrò quasi liberatoria.
«Ho sempre detto che lei ha
un’immaginazione davvero esagerata, mio caro Boswell.
Come potremmo essere morti eppure avere una simile conversazione?».
Watson guardò il detective come
se non comprendesse le sue parole – e in un certo senso era così. Se erano
davvero vivi, allora che significavano quelle immagini ancora tanto vivide
nella sua testa?
«Cos’è successo?», si decise
allora a chiedere.
«Credo sia rimasto troppo a
contatto con i suoi pazienti. Ieri sera è tornato stanco e ha detto che sarebbe
andato subito in camera – se ha intenzione di chiederlo, sono le 5 del mattino.
Ho subito capito che qualcosa non doveva andare e infatti, in breve, mi sono
reso conto che aveva la febbre molto alta. Fortunatamente, dopo l’intera notte,
è stato possibile farla scendere fino a che non ha ripreso conoscenza».
Ascoltando quella voce con un
po’ di lucidità in più rispetto a quando si era risvegliato, Watson non poté
fare a meno di notare quanto fosse tirata e controllata a difficoltà. Che le
cose fossero state più gravi di quello che il detective gli aveva detto?
«Non le nascondo, in effetti,
che all’inizio eravamo particolarmente preoccupati», lo incalzò Holmes, e il
dottore non pensò nemmeno a chiedere come, stavolta, avesse letto i suoi
pensieri «Delirava e non c’era modo di abbassare la temperatura. Abbiamo dovuto
chiamare d’urgenza il Dottor Stensen e solo dopo la
somministrazione di diverse medicine abbiamo ottenuto i primi risultati. Il
medico è andato via poco meno di venti muniti fa, dicendo che sarebbe tornato
in mattinata», concluse.
Watson sospirò, sentendosi immediatamente
meglio. Non erano morti. Era tutta colpa della febbre alta, era solo il delirio
di un malato. Solo un incubo.
«Cosa ha visto di tanto
spaventoso, dunque?», chiese il detective con sguardo serio «Ha gridato come
sotto le peggiori torture».
Watson sapeva che avrebbe
dovuto essere semplicemente imbarazzato da un comportamento per nulla consono
ad un gentiluomo, ma la verità – con molta probabilità era di nuovo colpa della
febbre – era che sentiva il bisogno di raccontare ciò che aveva visto.
Fu così che parlò, spiegando il
terrore e il dolore delle morti, l’inspiegabile assassino che lui non era stato
in grado di vedere e il fatto che invece era stato in grado di vedere il resto
nonostante fosse già spirato.
Il detective ascoltò tutto come
se fosse davanti ad un interessante caso, ma non gli sfuggì la stanchezza che
stava tormentando il dottore nell’ultima parte del suo racconto. Tuttavia non
lo interruppe e ne attese la fine.
«Non c’era nessuno nella
stanza. Non ho idea di chi l’abbia uccisa», concluse quello e si sarebbe potuto
chiaramente distingue il rammarico nella voce sottile e stentata.
Holmes lasciò che il suo
sguardo incontrasse quello di Watson per un po’, poi lo distolse alzandosi.
«La sua strabiliante
immaginazione sembra poterle anche fare terribili scherzi, mio caro Watson… e
di questo mi rammarico molto. Ma resta un sogno, quindi riposi e non dia peso
ad esso. Deve rimettersi, questo è l’importante», consigliò e c’era qualcosa di
diverso nei suoi occhi che il dottore colse e non seppie spiegare.
Avrebbe voluto porgere una
nuova domanda, ma sentiva il sonno prenderlo sempre più. Ebbe tuttavia il tempo
di rendersi conto che il detective si era fermato davanti alla porta, senza
ancora uscire, come indeciso. Si rivoltò verso il coinquilino e mai come allora
i suoi occhi brillarono nel buio quasi totale della stanza.
«Se ma dovesse cercare una
risposta a quel mistero, Watson», riprese con voce completamente diversa «Non
deve indagare tanto a lungo. Non c’era nessuno in quella stanza che avrebbe
potuto spararmi».
«Ma
allora… come è stato possibile che lei…?».
«Nessuno, Watson. Nessuno tranne me».
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Questa storia è stata letta ed approvata da minnow.
-Diffidate delle imitazioni, solo le originali possiedono il bollino!-
Se vi state chiedendo da dove
diavolo salti fuori questa cosa senza ne capo ne coda, beh… è stato un sogno
che ho fatto qualche giorno fa… xD Visto che mente
malata?
Anyway, sono
particolarmente in ansia perché non sono ancora riuscita a vedere il nuovo
adattamento cinematografico di Sherlock Holmes e ho deciso di sfogare un po’ di
tensione dando forma al sogno.
Ci tengo a precisare che non ho
inserito l’avvertimento “slash” perché per me non ce
n’è, ma sono consapevole che la storia potrebbe essere letta anche come un preslash, quindi preciso ^^
Ringrazio Minnow
per averla letta in anteprima ed avermi dato consigli e pareri – fosse stato
per me, per come sto adesso, ci avrei messo secoli di indecisione a
pubblicarla!
E boh, sono felice di essere
tornata in questo fandom che amo davvero tanto! (ho
vari progetti in cantiere che aspettano un po’ di tempo liberi per prendere
completamente forma)
Alla prossima. Baci.
Alchimista :)