Il punto
luce.
Quando
la mamma decise che fosse il mio momento, mi trovò un posto
come cameriera. Era
una famiglia benestante, mi disse, cattolica, che viveva nella parte
nobile
della mia città. Sarei
stata lontana da
casa, eppure non mi dispiacque andarmene: finalmente vedevo il mondo,
anche se
il mondo che avrei conosciuto si trovava solo dalla parte opposta della
mia
città. Sempre meglio di niente, mi dicevo io, una donna
quasi, sedici anni
fatti. E avevo ragione.
I
padroni erano buoni con me, e anche il resto della servitù
non era male. Vivevo
giornate lunghe e faticose, in cui lavavo i panni e spazzavo i
pavimenti, davo
una mano a Griet a cucinare e controllavo che la piccola di casa non si
rovinasse le vesti nei giochi di cortile. Era una vita semplice,
quella, come
d’altro canto sarebbe stata il resto della mia vita- ma era
questo, ciò che
desideravo?
Tanto la
padrona era severa e cialtrona, alla ricerca di difetti di cui
lamentarsi,
tanto il padrone era taciturno e moderato. Se ne stava tutto il girono
rinchiuso nelle stanze del terzo piano, la zona più luminosa
della casa, e si
dedicava ogni giorno e per molte ora al suo lavoro. Scendeva a pranzo e
a cena,
e solo raramente lo si vedeva bighellonare per casa. Quando capitava,
il
signore aveva un’aria sognante, e malinconica, come se fosse
alla perenne
ricerca di qualcosa.
Forse,
quel qualcosa lo trovò in me. << Vorrei che tu
posassi per me. >>
Mi disse, sorprendendomi: posare… per lui? io, che ero una
cameriera, una serva… << Tu.
>> Ribadì. E non aggiunse
altro. Un tono che non prevedeva rifiuti.
Il suo
studio era luminoso e si affacciava sui comignoli di Anversa.
<<
E’ bello. >> Dissi, avvicinandomi al vetro.
<<
E’ luminoso. >> Precisò lui,
avvicinatosi a sua volta. Lo guardai di
sfuggita, e capii che il mio padrone era bello, con quella mascella
squadrata,
il naso dritto, gli occhi piccoli, i capelli scarmigliati…ma
la fronte alta,
quella, era la mia preferita. Vidi i suoi occhi muoversi, e distolsi lo
sguardo. << Voglio che tu ti tolga la cuffia.
>> Ordinò,
allontanandosi. Mi gettò due pezze di tela. <<
Copriti i capelli con
questi. >>
Li,
davanti alla finestra, tolsi la cuffia da lavoro con cui coprivo ogni
giorno i
miei capelli. Nel debole riflesso, vidi una cascata di fluido biondo
scivolarmi
sul colletto alto e sulla giubba da lavoro, procurandomi uno strano
solletico
al collo. Mentre mi avvolgevo la testa in un turbante fluente con i due
pezzi
di stoffa oro e blu, percepivo i suoi occhi su ogni mio movimento,
quasi
volessero trafiggermi come dardi. << Lascia fuori le
orecchie. >>
Intimò lui a turbante terminato, e sentii i suoi passi
attraversare la stanza.
Mi accarezzò il lobo, strofinandole dolcemente fra le dita.
<< Non posso
dipingere quello che non c’è. >>
Disse, e mi lasciò sola nello studio.
Tornò
poco dopo, una candela in una mano, un lungo ago e un piccolo
sacchettino nell’altra.
<< Non posso dipingere quello che non
c’è. >> Ripeté. Lo
guardavo,
smarrita. << Il viso ha bisogno di un punto luce.
>> Spiegò allora,
spazientito. << E io ho bisogno che tu ti sieda qui.
>> Rimasi
ancorata alla finestra: perché tanta paura? << Vieni.
>> Disse
di nuovo, e il suo tono fu più gentile,
quasi intimo.
Andai a
sedermi accanto a lui, tremante. Lasciai che il mio padrone mi bucasse
il lobo,
lasciai che mi succhiasse il sangue da esso, lasciai che mi
accarezzasse il
mento e il labbro ma, quando mi voltai verso di lui per dargli ben
altro, lo
trovai smarrito. Era quello il riflesso del mio viso? Gli abbassai la
mano
sporca di blu oltremare, e presi dalle mani di Jan Vermeer
l’orecchino di perla
che mi porgeva.
Lo
infilai nel lobo ancora gonfio e sanguinante e annuii, tirando su col
naso.
<< Avanti, cominciamo. >>