In
una terra lontana caratterizzata da miti e magia. Il fato decide di
prendere il sopravvento e riporre le sue speranze in una stella, che
non è mai
stata destinata a brillare in cielo, ma sulla terra. Il nome di questa
stella è
ignoto a molti, ma negli angoli più remoti della terra si
vocifera che sia…
Marlyn.
Ma
credo che, a poco a poco, possiamo operare cambiamenti positivi.
Ogni
giorno, quando ci alziamo, cerchiamo di
orientare bene i nostri intenti, pensando: Vivrò questa
giornata in maniera più
positiva. Non devo sprecarla.
Dalai
Lama,
L’arte della felicità
sul lavoro
<<
Buongiorno, buongiorno, buongiorno! >>, esclamai,
entrando nella stanza
di mia madre, con una tazza colma di latte nella mano destra e un mazzo
di
fiori di campo nella sinistra. << Come sta la mia mammina
oggi? >>,
domandai, poggiando quello che avevo tra le mani sul tavolo.
Nell’attesa di una
sua risposta, aprii le tapparelle della finestra così da far
filtrare un po’ di
sole nella stanza.
<< Mmm
>>, mugugnò l’interpellata,
<< tesoro >>, mormorò con voce
roca.
Non
appena udii i suoi sussurri, accorsi al suo capezzale e mi inginocchiai
accanto
a lei. << Sono qui >>, la rassicurai,
accarezzandole la fronte,
calda e allo stesso tempo sudata.
Le
mie labbra formarono una smorfia. La temperatura corporea era piuttosto
alta
rispetto alla notte precedente. Avrei voluto sospirare, ma non me lo
concessi,
consapevole che se la mamma avesse colto quel mio stato
d’animo, non avrebbe
perso tempo a preoccuparsi.
<<
Lo so che sei qui >>, rispose, rivolgendomi uno dei suoi
sorrisi materni,
prendendo la mia mano, ancora poggiata sulla sua fronte, e
stringendola.
<< Sapevo che saresti venuta >>. Mi
fissò con quei suoi occhi
azzurri così simili ai miei. Quanto dolore potevo leggere in
essi, ma siccome
non riuscivo a sopportarne il peso, rinunciavo a immergermi dentro
quelle
pozze.
Scossi
la testa, ridacchiando. << Certo che lo sapevi
>>, le diedi
ragione, alzandomi con l’intento di andare
nell’altra stanza a prendere
dell’acqua fredda e un panno. << Sei una
veggente >>, alzando un
po’ la voce, cosicché mi sentisse anche dalla
stanza accanto.
<<
Marlyn, ti prego >>, mi ammonì, non appena mi
vide ritornare con una
piccola scodella, << ti ho detto che non ho bisogno di
aiuto >>.
Sospirai,
scuotendo la testa. << Non cambierai mai
>>, commentai,
rivolgendole uno dei miei tanti sorrisi, che lei amava.
<< Sei sempre la
solita testarda. Vuoi sempre fuoriuscire da tutte le situazioni da
sola, così
da prendere solo tu i meriti >>, la canzonai, per non
farle pesare quella
situazione in cui ci trovavamo da parecchi mesi.
Purtroppo
mia madre si era ammalata e aveva preso una polmonite in pieno inverno.
Fortunatamente, lei era una guaritrice, sul vero senso della parola, ed
io
avevo ereditato molte delle sue doti, che non comprendevano solo la
conoscenza
di alcune erbe benefiche, ma anche le così potenti, ma
alquanto rare, arti
magiche.
Grazie
alle sue conoscenze e agli anni di esperienza, che avevo accumulato,
osservandola mentre lei era all’opera, la stavo curando alla
perfezione. Ogni
giorno d’estate, infatti, andavo a lavorare nei campi, e in
inverno preparavo
anche i decotti curativi di mia madre così da guadagnare
qualche tazza di
latte, più che benefico per mia madre, o qualche pagnotta di
pane, che era
sempre accettata.
<<
Oh tesoro >>, mormorò con un tono
così intenso che mi fece venire i
brividi, << non è questa la vita che avrei
voluto per te >>,
dichiarò, singhiozzando.
<<
Mamma >>, la ripresi, posizionando sulla sua fronte il
panno inumidito,
<< lo sai che questa è la vita che piace a me
>>, mentii, cercando
di assumere un tono dolce in moda da convincerla.
<<
Marlyn cara >>, mi guardò con compassione,
<< non sforzarti a dire
ciò che non pensi veramente >>.
Le
sue parole furono come uno schiaffo per me, ma nonostante questo,
cercai di
ignorarle. << Bevi questo >>, le porsi la
tazza di latte, con fare
sbrigativo, << ti farà bene >>.
<<
Marlyn… >>, iniziò.
<<
Io vado a lavorare >>, le comunicai, prima che potesse
continuare,
<< faccio il giro di ronda tra i malati >>,
presi la bisaccia,
posta sul tavolo. << Non sei la sola confinata a letto
>>,
conclusi, strizzandole l’occhio. << Per fortuna
ho avuto una brava maes…
>>, a interrompermi furono dei tonfi alla porta.
<< Vado a vedere
chi è >>, annunciai, dirigendomi verso la
porta.
Scommettevo
che fosse la moglie del capo villaggio, che chiedeva spiegazioni sul
perché il
marito non fosse ancora guarito.
Sbuffai
al solo pensiero. La gente credeva che si potesse risolvere tutto con
uno
schioccar di dita. La medicina era un’arte lenta, a
differenza della magia, una
dote che non mi era permessa utilizzarla, poiché era vista
come un fattore
malvagio. Naturalmente tutto questo era dettato
dall’ignoranza, che regnava
sovrana in molti luoghi.
Aprii
la porta e non appena vidi un’anziana figura dinanzi a me, le
mie labbra si
curvarono in un sorriso. << Olaf! >>,
esclamai gioiosa.
Olaf
era un vecchissimo druido, dalla barba bianca e i capelli dello stesso
colore.
Nonostante fosse anziano, non possedeva la gobba e i suoi occhi erano
verdi e
vispi come quelli di un ragazzo. Nessuno era a conoscenza del fatto che
appartenesse a una congregazione magica qui al villaggio a parte mia
madre ed
io, ma era noto come un esperto medico, proveniente da una cittadella.
<<
Sono lieto di vederti Marlyn >>, mi salutò,
regalandomi un sorriso.
<<
Prego accomodati >>, lo invitai a entrare e lo feci
accomodare. <<
Mamma non mi ha detto nulla del tuo arrivo >>, dissi,
facendogli strada
verso la stanza dove dormiva mia madre.
<<
Sai com’è Hunith. Dice sempre ciò che
le va di dire >>, mi ricordò,
seguendomi.
<<
Mamma >>, la chiamai, entrando nella stanza,
<< è arrivato il tuo
ospite >>, lo dissi con una punta d’ironia.
<<
Olaf >>. Fui sul punto di strabuzzare gli occhi, quando
mi accorsi che
mia madre fece un’espressione piuttosto dispiaciuta nel
vederlo. Lei era sempre
stata molto legata al suo vecchio amico, mi chiedevo quale fosse il
motivo per
cui non gioisse del suo arrivo.
<<
Hunith >>, lui ricambiò freddamente. E
lì ebbi la conferma che fosse
successo qualcosa dal loro ultimo incontro. Se non ricordavo male,
l’ultima
volta che Olaf ci aveva degnato della sua presenza, era stata circa due
mesi
fa.
<<
Va bene >>, dissi alzando le mani in segno di arresa.
<< Io vado
prima che io sia accusata di essere troppo piccola per ascoltare i
vostri
discorsi >>, dissi saggiamente, ripensando a tute le
volte che mia madre
mi avesse “invitato” a andare a cogliere dei fiori
o a riempire dei secchi
d’acqua.
<<
Vedo che non perdi mai la tua insolenza >>, mi fece
notare Olaf con un
sorrisetto di chi la sapeva lunga.
<<
E tu il tuo senso dell’umorismo >>, risposi a
tono, essendo cosciente che
Olaf fosse come uno zio per me e che potessi parlare tranquillamente
con lui.
<< Ci vediamo dopo >>.
Dopo
pochi passi, mi ritrovai fuori dalla casa. Vedere Olaf mi faceva sempre
stare
meglio. Lui era il perfetto modello da seguire per me, dopo mia madre.
I suoi
anni passati all’interno di comunità magiche, mi
lasciavano intendere che la
magia non fosse odiata da tutti e che ci fossero delle persone, che la
praticavano in maniera pacifica, esattamente come me.
Feci
le visite che dovevo fare e fui lieta di vedere che il capo villaggio
stesse
meglio in così poco tempo. La moglie era talmente felice che
mi regalò un cesto
di frutta, che accettai con piacere.
Una
volta finite le visite, mi avviai verso casa. Durante il tragitto, mi
domandai
se Olaf si fermasse da noi per il pranzo, anche se mi sembrava
improbabile
vista la freddezza che si era istaurata tra lui e la mamma. Conoscendo
mia
madre, che era molto riservata, rinunciai in partenza nel capire cosa
potesse
essere successo, ma non mi stranii quando vidi mia madre salire sul
cavallo di
Olaf.
<<
Che sta succedendo qui? >>, chiesi avvicinandomi ai due.
<<
Porto tua madre alla congregazione >>, spiegò
Olaf, salendo anche lui sul
cavallo, << c’è una riunione molto
importante, che… >>.
<<
Sarebbe meglio che tu la saltassi >>, giudicai, guardando
mia madre,
<< sei ancora debole e poi non stai ancora bene
>>, più che a lei,
mi riferii a Olaf, che m’ignorò tranquillamente.
<<
Ma no, tesoro >>, mi rispose, accennando un sorriso, che
io reputai
forzato, << hanno bisogno di me >>,
sospirò. << E poi lì sono
esperti di malattie come la mia >>, tenne presente.
<<
Appunto >>, s’intromise Olaf.
“Appunto
sto cavolo” avrei voluto rispondergli, ma insistere era solo
fiato sprecato,
così non mi rimase che salutarli e augurargli buon viaggio.
<<
Marlyn >>, mi chiamò mia madre.
<<
Sì? >>, mi avvicinai a lei con naturalezza.
<<
Dammi un bacio >>, fu una richiesta normale, ma in essa
lessi un
significato immenso, che forse solo io in quel momento potevo
comprendere, però
senza fare storie e domande, la accontentai, autoconvincendomi che mia
madre
volesse solo salutarmi.
Lei
me ne diede uno sulla fronte, così come
faceva sempre. << Abbi cura di te, tesoro
>>, quella frase tenne
vivo il sospetto che stesse succedendo qualcosa che non quadrasse.
<< E tu di te >>, ricambiai.
<< Ora dobbiamo andare >>,
c’interruppe Olaf, spronando il cavallo a partire.
Io annuii, sospirando e girandomi per entrare
in casa.
<< Tesoro >>, mi chiamò
un’altra
volta e, non sapendo il perché, fui invasa da
un’ondata di brividi. Mi voltai
nuovamente e fui sul punto di fermare il cavallo, che aveva
già preso a
camminare.
Gli occhi di mia madre erano lucidi. Stava
piangendo. Lì, allora capii. Quella era l’ultima
volta che l’avrei vista.
Mi morsi il labbro inferiore e le rivolsi un
sorriso. << Ti voglio bene >>, le urlai,
consapevole che non avrei
potuto fare nulla per lei, poiché avevo imparato che quando
il destino decideva
di chiamare a se una persona, non c’era modo di fermarlo. E
lei lo sapeva.
Nessuno meglio di lei lo sapeva. Lei era la portatrice della vista.
<< Anch’io >>, rispose,
mandandomi un bacio.
Quando vidi il cavallo sparire tra i boschi,
corsi in casa e mi gettai sul mio pagliericcio. Iniziai a piangere e a
singhiozzare, consapevole che non avrei mai più rivisto la
mia mamma. Mi chiesi
il perché fosse toccato proprio a me, anzi proprio a lei,
dimenticandomi
completamente di Olaf e del loro rapporto freddo.
Passarono cinque giorni. Ben cinque giorni da
quando mia madre era partita. In questi giorni mi limitai solo a
mangiare un
pezzo di pane e qualche frutto, senza uscire da casa, dandomi malata.
La gente
credette che avessi contratto la malattia di mia madre e non venne a
scocciarmi
per i decotti. Il sesto giorno sentii un certo trambusto e quando udii
una
donna urlare, capii che erano giunti coloro che mi avrebbero annunciato
la
morte di mia madre erano arrivati.
Pronta alla triste notizia, prima che
bussassero alla porta, andai ad aprire. Alla soglia trovai mia cugina
Charlotte, che mi fissava con le lacrime agli occhi. Il nostro istinto
ci fece
abbracciare ed io le sussurrai: << è morta,
vero? >>.
Lei annuì e mi carezzò i capelli.
<< Sì
>>, mi sussurrò. Nessuna lacrima
solcò il mio volto. Ne erano già scese
troppe.
Invitai mia cugina a entrare e lei accettò.
Preparai un infuso e non le chiesi nemmeno come avesse saputo una tale
notizia.
Mary, la madre di Charlotte nonché sorella di mia madre,
possedeva anche lei la
vista e sicuramente aveva incaricato la figlia di portarmi la triste
novella.
<< Dov’è successo? >>,
mi limitai
a chiedere, servendo l’infuso.
<< Alla congregazione in cui si era
recata >>, mi narrò, piangente.
<< Mia madre lo aveva predetto da
settimane >>, confessò con voce straziata,
<< ma io non volevo
crederci >>.
<< Com’è morta? >>,
chiesi
freddamente.
Lei mi guardò negli occhi e sospirò.
<<
Si è aggravata >>.
<< Avrei dovuto immaginarlo >>,
sentenziai, portandomi la tazza alle labbra. << Mi sono
sopravvalutata
molto nelle mie doti >>.
<< Non dirlo neanche per scherzo
>>, mi rimproverò, severa, << tu
hai fatto il possibile. La
malattia purtroppo ha preso il sopravvento >>.
<< Non sarebbe successo se fossi stata
più competente >>, affermai, portandomi una
mano alle tempie.
<< Non farti divorare dal rimorso
>>, mi consigliò, prendendomi la mano
sinistra. << Perché tu non
hai colpe e lo sai >>.
Fissai Charlotte negli occhi. Erano così
diversi dai miei. Erano verdi e più piccoli. Nonostante
fossimo cugine, non ci
somigliava per niente. Lei era alta e formosa, e possedeva dei lunghi
capelli biondi.
E inoltre era molto dolce e sensibile. Io invece ero totalmente
l’opposto: non
ero molto alta, e purtroppo avevo una costituzione molto smilza. La mia
pelle
era diafana, un fattore che mi faceva sembrare anemica, quando non lo
ero. Poi,
i miei occhi erano azzurri e i miei capelli color nero corvino
ondulati. Un
particolare di cui non andavo fiera erano le mie orecchie, che era
smisuratamente grandi. Una combinazione che mi faceva apparire molto
strana.
L’unica cosa che accomunava me e Charlotte
era la magia, ereditata dalle nostre madri, però con delle
caratteristiche
diverse. Solo che la mia adorata cugina aveva scelto di disconoscere
tale
pratica, poiché sosteneva che non l’avrebbe mai
aiutata.
<< Sei molto buona con me Charlotte
>>, apprezzai il suo tentativo di incoraggiarmi,
<< ma non merito
le tue parole >>.
<< Invece sì >>,
ribatté lei,
<< tu meriti di più >>.
<< Non merito nulla >>.
<< Vieni con me >>.
Le sue parole mi fecero spalancare la bocca.
Charlotte lavorava da poco a Camelot, uno dei cinque regni, dove la
magia era
molto più che proibita. Infatti, l’unico motivo
che l’aveva portata a lavorare
lì era stata una visione della madre, che la vedeva sposata
con un uomo giusto.
Io, quando avevo appreso
la notizia, mi ero chiesta se fosse giusto
che mia zia la manipolasse in quel modo.
<< Stai scherzando, spero >>. Mi
alzai dalla sedia e le dissi: << si è fatto
tardi, è meglio che tu vada a
letto >>.
Si alzò anche lei, << io spero che tu
rifletta sulle mie parole >>, mi accarezzò una
guancia, << Camelot
è una città ricca, dove potresti approfondire i
tuoi studi sulla medicina
>>, mi annotò, << lì
c’è un bravissimo medico di nome Gaius
e…
>>.
<< Buonanotte cugina >>, la
interruppi inespressiva, << spero che riuscirai a dormire
sul mio pagliericcio
>>.
Lei sospirò e dandomi un bacio sulla guancia,
uscì dalla stanza, lasciandomi lì, sola. La prima
cosa che feci fu sdraiarmi
sul pavimento. Non potevo usare il pagliericcio di mia madre che era
infettato
e non potevo nemmeno lasciare che Charlotte dormisse per terra.
Chiusi gli occhi e lasciai che l’oblio
prendesse il sopravvento.
Quella notte feci uno strano sogno. Vidi un
drago rosso raffigurato su una bandiera e poi magicamente prese vita,
librandosi alto nel cielo.
Al mio risveglio, non potei negare che fui
sommersa da dubbi. Quello che avevo appena sognato era il simbolo di
Camelot, e
questo significava soltanto una cosa: il fato mi voleva a Camelot. Non
era
stato un caso che Charlotte mi avesse proposto di seguirla e nemmeno
che avessi
sognato quel drago.
Ora la domanda, che mi ponevo, era una: cosa
avrei dovuto fare? Lasciare Ealdor, il mio villaggio
d’origine, o andare in
luogo che avrebbe sicuramente cambiato la mia vita per sempre.
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Disclaimer: I
personaggi citati in
questo racconto non sono miei. Essi appartengono agli aventi diritto
e, nel fruire di essi, non vi
è alcuna forma di lucro, da parte mia.
Ciao
a tutti, mi chiamo Lily e questa, come potete notare, è
la mia prima storia.
Ho deciso di trasformare Merlin, il nostro amato beniamino,
in una lei (non immagino quelle che mi succederebbe se lo venisse a
sapere
T_T), e ho rivoluzionato un pochino (molto) la storia. State
tranquilli, se mai
la leggerete, troverete quasi tutti i vecchi personaggi, solo che
alcuni di
loro subiranno qualche cambiamento. Spero possiate leggere e farmi
sapere cosa
ne pensiate, e soprattutto se ne valga la pena continuare con questa
mia follia.
Ah, prima che me ne dimentichi, la citazione che avete
trovato all’inizio rispecchia, a parer mio, il capitolo. Ne
inserirò delle
altre nei capitoli successivi.
Non mi rimane che augurare buona lettura a tutti voi e a
ringraziarvi anticipatamente per il tempo che dedicherete alla mia
storia.
Un bacino.
Lillibeth_92
P.S. visto che è tardi, auguro a tutti voi una buonanotte e
dei sogni merliniani e arturiani.