Serie TV > Robin Hood (BBC)
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Autore: Nimlilly    24/12/2011    0 recensioni
Quarto capitolo di racconto scritto a due mani su una spada leggendaria, personaggi rubati da film e tvfilm e i viaggi nel tempo. Trattandosi di una parte scritta interamente da me, mi son permessa di pubblicare qui questo capitolo.
In questa parte della storia, le eroine si trovano a contatto con Robin Hood e la sua gang. I personaggi sono liberamente ispirati al tvfilm della BBC. Troverete accenni a personaggi esterni alla serie telefisiva. Alcuni sono inventati, altri sono invece presi in prestito da altri film e tvfilm.
Genere: Azione, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: Incompiuta
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3 Marzo 1192
Giorno 6
Strada per York



Sentì qualcosa di umido caderle sul braccio. Delle macchie scure si stavano allargando sulle maniche color cenere. Alzò lo sguardo.
In quel punto a foresta era meno fitta, e tra poche miglia sarebbe scomparsa del tutto per un lungo tratto. Tra i rami intricati riusciva a scorgere i raggi del sole e, guardando più attentamente, poteva vedere il cielo azzurro.
Finalmente, pensò tra sé.
Era stanca di tutta quella neve e pioggia. I vestiti e le scarpe erano completamente sporchi di fango, ed era impossibile muoversi senza sprofondare nelle pozzanghere.
Altre gocce, altre piccole macchie sull'abito. Ma non la preoccupavano. Non era un nuovo temporale in arrivo, era solo un po' d'acqua che scendeva dalle foglie degli alberi.
Si mise a fischiettare un motivetto che da giorni le girava per la testa. Era felice.
Pochi minuti e sarebbe arrivata a casa.
“Quanto manca? Sono stanco!”.
Josef la stava fissando, seduto in mezzo alle ceste di frutta e verdura. Tra le mani aveva il suo pupazzo preferito, un guerriero con arco e frecce.
“Manca poco. Vedi i tronchi gemelli? Sai che significa?”.
“Sì... lo so. Fra poco vedremo la roccia col buco, poi casa dello zio Phil e poi... e poi... e poi casa” rispose, alzandosi in piedi e rimanendo a stento in equilibrio. “Ma io sono stanco adesso!”.
“Josef, mettiti seduto!” gli disse. Si girò e, tenendo le briglie con una mano, afferrò il figlio con l'altra. Ma il piccolo non sembrava volersi sedere, né venire tra le sue braccia.
“Ma mamma... la strada” diceva, indicando oltre la donna e il cavallo.
“Josef, non farmi arrabbiare! O ti metti seduto o vieni qui in braccio!”.
“La strada, mamma... sulla strada... guarda!” insisteva, gli occhi sempre puntati avanti.
“Josef! Lo sai che il cavallo e la mamma conoscono la strada. O ti metti seduto oppure...”.
Non finì la frase che il carro si mosse in maniera inaspettata. Il cavallo nitrì e s'impennò.
Rose si girò di scatto e tirò le redini, cercando di calmare l'animale. Nel frattempo Josef era caduto in mezzo alle ceste. Piangeva, stringendo tra le mani il suo pupazzo mezzo rotto.
Il cavallo si fermò, continuando a nitrire spaventato. La donna guardò oltre l'animale, per capire cosa doveva averlo spaventato a tal punto.
Una ragazza se ne stava in mezzo alla strada, le braccia aperte. Stava piangendo, e solo allora Rose si rese conto che stava dicendo qualcosa.
“Aiutatemi! Aiutatemi, Vi prego!” continuava a ripetere.
Sebbene sporchi di fango, i suoi abiti erano quelli di una ricca signora. Anche la sua pelle, candida e senza una ruga, stava ad indicare che non era solita trascorrere le sue giornate in mezzo ai campi.
Deve essere caduta vittima di qualche brigante, pensò Rose, mentre scendeva dal carro e le andava incontro.
“Aiutatemi, ve ne prego. Non so cosa sia successo. Un attimo fa era in piedi, e adesso... lui...a terra...”.
La ragazza stentava a parlare, le lacrime che non smettevano di scenderle dagli occhi.
Rose le mise le braccia sulle spalle, costringendo la sconosciuta a guardarla.
“Hey. Hey! Ascoltatemi. Cosa v'è successo, madame? Siete ferita? Siete sola? Chi non è più in piedi?”.
La ragazza tirò su col naso, si pulì il volto con una mano e deglutì.
“Potete seguirmi a piedi fino all'angolo?”.
Rose si girò verso il carro. Suo figlio aveva smesso di piangere e se ne stava in piedi a fissarla.
“Datemi un attimo” disse, tornando verso il cavallo.
“Josef, piccolo. La mamma va a vedere una cosa. Tu rimani qui, intesi?”.
“Chi è quella?” chiese, sospettoso e spaventato.
“Una signora che ha bisogno di me. Mi prometti di fare la guardia al carro? Me lo prometti?”.
“Ma io voglio venire con te”.
Rose gli accarezzò dolcemente la guancia, sorridendo. “Mamma ora deve aiutare questa signora. Fai il bravo ometto. Sei il mio ometto speciale?”.
Il piccolo annuì, non molto convinto. “Però mi siedo davanti” disse, scavalcando le ceste e sedendosi al posto di guida. Rose sospirò, gli disse di tenere strette le redini e di non muoversi per nessun motivo.

Superarono di corsa due enormi alberi intrecciati che si piegavano ad arco sopra le loro teste, svoltarono l'angolo e Rose vide una figura scura in mezzo alla strada.
Più si avvicinavano, più era chiaro che si trattava di un uomo, steso a terra, immobile.
La ragazza s'inginocchiò al suo fianco, incurante del fango che le sporcava le vesti preziose.
“Non so cosa sia successo. Un attimo fa era in piedi, stava bene. All'improvviso s'è accasciato e non s'è più mosso”.
Rose si chinò vicino al corpo. L'uomo portava una spada e, guardandolo meglio in volto, aveva qualcosa di familiare.
“Respira, ma credo abbia la febbre” continuava a mormorare la giovane, le mani tremanti che accarezzavano la testa dell'uomo. “Abbiamo cavalcato tutta la notte. Dovevamo raggiungere York il più presto possibile. Gli abiti erano fradici a causa della pioggia, forse il freddo e la fatica l'hanno fiaccato...”. Le lacrime avevano ripreso a scenderle lungo le guance, il terrore in quegli occhi che pareva essere dolci e gentili. “Vi prego, milady. Io so come curarlo. Ma non posso farlo in mezzo al fango. Non potrei farcela da sola a metterlo sul cavallo, e non credo sarebbe comunque una buona idea. Voi avete un carro, potreste scortarci fino al prossimo villaggio o alla prima locanda. Vi pagherò qualsiasi cifra, ve lo prometto. Non ci abbandonate”. La ragazza era spaventata, e attendeva con ansia una sua risposta.
Rose la fissava, incerta sul da farsi. Avrebbe potuto accompagnarli fino alla Locanda del Calderone, distante poche miglia; ma c'era qualcosa in quell'uomo che non la convinceva. Ma non poteva nemmeno lasciarli in mezzo alla strada solo in base ad un vago sospetto.
Si rimise in piedi.
“Prendete i cavalli. Li legheremo al carro. Come avete detto di chiamarvi?”.
“Martine”.



Il villaggio di Todwick comparve oltre la collina. Era un agglomerato di una decina di case, per lo più di legno ed argilla. Si poteva scorgere il tetto della piccola chiesa, l'edificio più alto di tutti.
I contadini erano già nei campi, e si trascinavano faticosamente dietro l'aratro tirato dai buoi.
C'era un buon odore di erba bagnata e terra appena smossa, e l'aria era fresca.
Respirò a pieni polmoni, sperando di risvegliarsi dal torpore che la stava assalendo.
Grazie all'aiuto di quella donna, Rose, avevano trovato un passaggio. Era stata una fatica non da poco caricare Guy sul carro, e per tutto il tempo l'uomo era rimasto incosciente. Martine sperò non fosse niente di grave. Aveva abbastanza medicinali nella borsa da poter curare tutto il paese. Ma erano per lo più antidolorifici ed aspirine. In quell'epoca, qualcosa di più di un raffreddore poteva portare un uomo sano alla morte. Rabbrividì solo al pensiero, e si strinse ancora di più al corpo di Guy.
“Siamo arrivati, milady”.
Martine alzò lo sguardo, sporgendosi dal carro. S'erano fermati di fronte ad una casa molto più grande rispetto alle altre del villaggio. Era sempre fatta di legno ed argilla, ma composta di due piani. Accanto, vi erano una specie di rimessa pieni di attrezzi da lavoro e una stalla.
“Voi afferratelo per le spalle, io lo reggerò per i piedi”. Rose aveva aperto il retro del carretto, mentre alcune persone stavano già scaricando le ceste di frutta e verdura.
“Lady Trent, cosa è successo?”. Un uomo non molto anziano era uscito di corsa dalla casa, ed ora fissava la scena a bocca aperta.
“Li ho trovati in mezzo alla strada. George, prepara dell'acqua calda, subito!”.
L'uomo rimase immobile per qualche secondo, indeciso se obbedire o aiutare la sua padrona.
“George! Non ci sarai d'aiuto qui fuori!” gli urlò la donna.
Non se lo fece ripetere due volte e corse via.
“E' un brav'uomo. Un po' inutile a volte, ma fa quello che può” cercò di giustificarsi, mentre lei e Martine avevano spostato il corpo di Guy a terra.
Vennero in loro aiuto alcuni giovani, che molto più velocemente lo sollevarono e portarono dentro casa.
“Di qua, seguitemi! Lì, mettetelo lì!”. Guy venne adagiato su un letto, in una piccola stanza dalla parte opposta a dove erano entrati. Rose ringraziò per l'aiuto e congedò i ragazzi.
“Allen, Fred. Occupatevi voi della distribuzione. Dite a tutti che potranno passare domani per il pagamento. Non c'è fretta. Intesi?”. I due annuirono, e con un inchino uscirono dalla stanza.
Martine osservò meglio la donna. Non doveva essere molto più vecchia di lei. Aveva lunghi capelli biondi, il volto magro ma deciso. Nei sui occhi aveva notato subito la sicurezza e il coraggio. Doveva essere una donna forte e, da come la trattavano tutti, anche molto rispettata.
“Ecco l'acqua” disse George, appoggiando sul pavimento un calderone fumante. Uscì di corsa dalla stanza, lasciandole sole.
“Avete detto di poterlo curare”. Rose la fissava, in attesa.
Martine si fece prendere dal panico. Non era mai stata una brava infermiera, e non sapeva da dove cominciare. “Dobbiamo... dobbiamo toglierli i vestiti umidi, prima di tutto” decise infine.
Rose annuì, iniziando a slacciare i ganci a forma di lupo sulla giubba dell'uomo.
Li ho già visti questi ganci, ma dove, continuava a chiedersi.
Gli tolse la maglia, mentre Martine sfilava stivali e pantaloni. La donna vide che la giovane stava arrossendo, e sorrise.
“E' vostro marito?” chiese, mentre prendeva delle pezze di stoffa da una cesta accanto al letto.
“No! No... non è mio marito” balbettò, afferrando lo straccio che le veniva passato dalla donna.
“Ve la sentite di proseguire? Vi vedo turbata. Ce la fate?”.
Martine annuì. “Bene. Ora dovremo ripulirlo” le disse, immergendo il panno nel calderone.
Cadendo, Guy era finito in mezzo al fango. Aveva macchie ormai secche di terra per tutto il corpo.
Martine gli pulì delicatamente il volto, e non riuscì a trattenersi dal fargli una carezza. Poi gli sollevò la testa, per toglierli dei pezzi di fango rappresi tra i capelli. E notò qualcosa sul cuscino: una macchia rossastra. Sangue, osservò con orrore.
Guardò il pezzo di stoffa nella sua mano ed era anch'esso rosso.
“Che succede?” chiese Rose, vedendo che la ragazza s'era fermata. Poi abbassò lo sguardo sullo straccio, e vide la macchia. “E' ferito?”.
Martine spostò i capelli e vide da dove arrivava il sangue. In cima alla nuca c'era un taglio di circa cinque centimetri. Il sangue s'era un po' raggrumato, sebbene la ferita fosse ancora aperta.
La trave di legno, pensò Martine. Poche ore prima, alla locanda, Robin aveva atterrato Guy con un enorme pezzo di legno. Tranquilla, ha la pellaccia dura, se la caverà, aveva detto il fuorilegge, con quel sorriso ammiccante che lei cominciava ad odiare.
“Dobbiamo... dobbiamo chiudere la ferita” disse, rabbrividendo.
Se c'era una cosa che proprio non poteva sopportare, che la obbligava a distogliere lo sguardo, che le faceva venire da vomitare all'istante... beh, era quella.
“L'avete già fatto prima d'ora?” chiese Rose, notando che il volto della ragazza era più bianco di prima, quasi tendente al verde.
“No. Ma non c'è altra soluzione. La ferita è sporca di terra, quindi sicuramente infetta. Non sappiamo ancora per quale motivo sia svenuto. Spero sia solo febbre e non un trauma cranico. Ma chiudendo la ferita almeno eviteremo che muoia per un'infezione batterica. Avete ago e filo, per caso?”.
Alzò lo sguardo e vide che la donna la fissava basita.
Cazzo, pensò tra sé. Parlare come dottor House non era il massimo in un'epoca dove praticare salassi era il top della medicina.
Rose si alzò e uscì dalla stanza, lasciandola sola. Martine la seguì con lo sguardo, senza sapere cosa sarebbe successo. Prese uno straccio, lo immerse nell'acqua e ripulì il taglio dalla sporcizia. Tolse anche alcune schegge di legno, e maledì Robin e la sua trave innocua.
Sentì dei passi e vide la donna tornare. Nelle mani stringeva dello spago e un ago. Glieli porse e l'aiutò a tenere sollevato il corpo di Guy.
L'ago era spesso, lungo una decina di centimetri. Lo strofinò per bene con lo straccio imbevuto di acqua calda, cercando di sterilizzarlo il più possibile. Infilò lo spago nel buco, fece il nodo e si avvicinò alla testa dell'uomo.
Martine deglutì, rimanendo immobile con la mano a mezz'aria. Chiuse gli occhi, respirò profondamente un paio di volte e, aprendo appena le palpebre, infilò l'ago nella pelle.
Adesso vomito, pensò.
Doveva resistere. La vita di Guy dipendeva da lei. Tirò lo spago, infilò di nuovo l'ago nella pelle e unì i lembi della ferita. Una, due volte.
Meglio di una sarta, rise dentro di sé, la sensazione di vomito che si andava allentando.
Non era facile evitare che i lunghi capelli di Guy si impigliassero nello spago. Sarebbe stato meglio tagliarli, ma ormai era già a metà dell'opera. Pochi minuti e il taglio era chiuso.
Martine osservò soddisfatta il suo lavoro, mentre ripuliva la ferita dal sangue che stava lentamente uscendo. Fasciò la testa dell'uomo, e lo adagiarono sul cuscino.
“Siete stata brava e coraggiosa” osservò Rose, sorridendo.
“Grazie. Ma spero sia stata la prima e ultima volta” e si lasciò cadere a terra, sfinita.
La padrona di casa chiamò George, che arrivò in pochi secondi. Molto probabilmente il vecchio stava origliando alla porta.
“La nostra ospite ha bisogno di un bagno caldo. Fa sistemare la stanza di Henry, per cortesia”.
Martine si alzò in piedi di scatto.
“Madame, vi prego, non vi disturbate. Mi basta un po' d'acqua e una sedia. Niente più”.
Rose fece finta di non sentirla e continuò ad istruire George, che si dette subito da fare.
“Madame, non è necessario...” ma insistere pareva essere inutile.
La donna le si avvicinò e le prese le mani. Solo allora Martine si rese conto che erano sporche di sangue e fango. Anche le maniche del vestito erano sudicie. Aveva decisamente bisogno di un bagno e di un cambio d'abito. Ma non voleva abbandonare Guy.
Rose se ne accorse, e le assicurò che non avrebbe lasciato l'uomo da solo mentre lei era assente.
“Ve lo prometto. Vi chiamo se succede qualcosa” disse, sorridendo.
Martine annuì.



Immersa nell'acqua calda, sentiva lo stress e la stanchezza scivolare via.
Sembravano passati secoli dall'ultimo bagno vero e proprio. Invece erano trascorsi solo cinque giorni da quando avevano lasciato la Nottingham del futuro.
Il futuro. Sarebbero riusciti a tornare sani e salvi?
Fino a poche ore prima era una certezza. Il pezzo della daga ritrovato e nelle sue mani. Avrebbero detto addio a quell'epoca senza acqua corrente e MacDonald's.
Invece era andato tutto in fumo, con la probabilità di non ritrovare mai più quel maledetto dente.
“Imhotep comparirà e noi saremo fottuti” disse, parlando ad alta voce con sé stessa.
In fin dei conti, non era poi così grave. Il pezzo della daga era piccolissimo, di sicuro il sacerdote egizio non poteva regnare sul mondo con una misera pietruzza.
Con questa convinzione in mente, Martine uscì dalla vasca. Non era così semplice come entrarvici, e quasi inciampò sulle lenzuola bagnate.
La stanza era piccola e pulita. All'angolo opposto alla porta c'era un enorme letto, con accanto una cassapanca in legno. Rose le aveva portato alcuni suoi abiti, che ora stavano appoggiati su uno scrittoio, accanto all'unica finestra della stanza.
Martine indossò un lungo vestito verde, aggiungendovi sopra un ulteriore vestito marrone. La chiusura a lacci laterale era l'unica parte difficile della vestizione. C'era una bella differenza tra questi abiti semplici e quelli raffinati di Marian. Però li sentiva più veri, più reali. Peccato non ci fossero specchi, avrebbe tanto voluto vedersi così abbigliata. “Che vanitosa” esclamò, ridacchiando.
Raccolse da terra la sua borsa e tirò fuori il diario. Doveva assolutamente scrivere degli ultimi avvenimenti. Erano successe così tante cose che rischiava di dimenticarle.
Tirò fuori la penna, sperando non entrasse nessuno nella stanza, e si mise a scrivere.
Scrisse del terribile incontro con lo sceriffo, dell'agguato alla locanda e dell'incidente di Claudia.
...perlomeno, eravamo tutti sani e salvi. Fino a ieri...”.
Smise di scrivere. Chissà come stava ora Claudia. Ripensare a come era stata picchiata da quel bastardo le fece venire i brividi. Faith era sconvolta, non l'aveva mai vista così.
“Spero stiano tutti bene”.

Non siamo riusciti a raggiungere la carrozza. La speranza è che il dente sia ancora lì.
Mi spiace anche per il falco. Povero animale, starà morendo di fame.
E' tutta colpa mia e della mia sbadataggine. Se avessi nascosto il pezzo della daga in un posto meno accessibile, se non l'avessi lasciato nel fazzoletto... ma è inutile pensarci adesso.
L'importante è rimetterci al più presto sulle tracce della carrozza. Non appena Guy si sarà ripreso...


Appoggiò la penna. Guy...
Il cuore le si era fermato nel vederlo cadere a terra, in mezzo alla strada nella foresta. Era successo tutto così in fretta, ma ripensandoci vedeva la scena al rallentatore. Un attimo prima era in piedi, un secondo dopo era immobile. Le veniva da piangere, ancora. Ma doveva trattenere le lacrime. Doveva essere forte, sia per sé che per Guy.
Mise via il diario, nascose la borsa sotto il letto e uscì dalla stanza.



“State tranquilla. Prima mangiate qualcosa”.
Rose l'aveva fatta sedere quasi con la forza. La tavola era apparecchiata per due e la minestra fumante non aspettava altro che essere mangiata.
“Volevo solo controllare che stesse bene...” disse Martine, impaziente. In mano stringeva una bustina di antipiretico. Doveva riuscire a far prendere a Guy quella medicina il più presto possibile.
Ma non voleva essere scortese con la sua ospite e, sebbene con lo stomaco ancora chiuso dalla tensione, affondò il cucchiaio nella ciotola. Era calda e molto buona, e senza rendersene conto la finì in pochi minuti. Rose sorrise.
Chissà cosa è successo a questa ragazza, pensò. Non sapeva niente di lei e dell'uomo misterioso nell'altra stanza. Aveva timore di spaventarla con le domande, ma doveva pur sapere chi stava ospitando sotto il suo tetto.
“Ora che vi siete riposata e rifocillata, magari vi va di raccontarmi cosa vi è successo nella foresta, e come il vostro compagno di viaggio si sia fatto quella ferita”.
Martine fece cadere il cucchiaio di legno per terra, rovesciando qualche goccia di minestra.
“Oh... che maldestra” si scusò, mentre si chinava a raccogliere l'oggetto da terra. E ora che le dico?
Rose la stava fissando, in attesa di una risposta.
“Ero ospite di sir Guy” e con lo sguardo indicò la stanza alle sue spalle. “Siamo stati assaliti dalla banda di Robin Hood. Avevamo fatto una sosta alla locanda di Greenwood quando il fuorilegge ha colpito Guy con una trave. Siamo ripartiti poche ore dopo per York. Abbiamo una questione della massima urgenza che ci attende. Ma poi... Guy... beh, ci avete trovati voi, in mezzo alla strada”.
Non osava alzare lo sguardo, ma sentiva che la donna continuava a fissarla.
“Sir Guy... sir Guy di Gisborne?”.
Martine annuì, pentendosi di aver detto quel nome. Era meglio se mi inventavo che si chiama Alfred.
Rose rimase in silenzio, poi si alzò e cominciò a liberare la tavola.
“Se volete, adesso potete andare dal vostro compagno”. Il tono era serio.
“Vi ringrazio, milady. Se non è troppo disturbo, potrei usare questo?” e sollevò il bicchiere davanti a lei.
“Certo. Ora vorrete scusarmi. Ho degli impegni che mi attendono” e con un sorriso, che Martine notò essere alquanto forzato, uscì di casa. Sentì la voce del bambino provenire dal giardino, e delle risate.
Aprì la bustina che teneva in mano, versò la polvere nel bicchiere colmo d'acqua e si diresse verso la stanza alle sue spalle.
Guy era ancora nella stessa posizione, immobile, il respiro leggermente accelerato.
Martine si avvicinò al letto, e gli mise la mano sul volto. Scottava, ed il sudore gli imperlava la fronte. Gli sollevò la testa, gli appoggiò il bicchiere sulle labbra e, lentamente, un sorso alla volta, gli fece bere l'antipiretico.
Appoggiò il bicchiere sul tavolino accanto al letto, e tornò ad occuparsi di Guy. Tolse la fasciatura alla testa e controllò la ferita: il sangue stava formando una piccola crosta, ma sembrava esserci una leggera infezione. Prese uno straccio pulito e, dopo averlo immerso nell'acqua, ripulì il taglio. Poi, con un altro pezzo di stoffa pulita, fasciò di nuovo la testa. Gli asciugò il volto dal sudore e gli mise una pezza umida sulla fronte.Non poteva fare altro. Si sentiva impotente. Sperava fosse solo febbre a tenere Guy in quello stato.



Immagini confuse, sfuocate, come se vi fosse una nebbia impalpabile tra lui e ciò che gli stava di fronte. Una foresta buia ed umida, un uomo incappucciato che sorrideva, paglia, sangue, qualcosa che gli legava le braccia, il volto gentile di una ragazza, un cavallo che correva nella pioggia. Freddo. Buio.
Aprì gli occhi lentamente. Ancora buio.
Sentiva le palpebre bruciare, mentre cercava di mettere a fuoco l'ambiente che lo circondava. Era disteso su di un letto, il corpo mezzo nudo coperto da un lenzuolo. Era sudato e sentiva molto caldo. Cercò di mettersi seduto, ma la testa girava troppo. Chiuse gli occhi, respirò lentamente. Provò a rialzarsi e stavolta si sentì più stabile. Rimase seduto in quella posizione per qualche minuto, cercando di trattenere la fastidiosa sensazione di vomito che l'assaliva. Il pavimento era freddo sotto i suoi piedi, e ciò gli diede un po' di sollievo.
Dalla porta lì accanto proveniva una flebile luce rossastra, che gli permise di mettere a fuoco la stanza. Non era molto grande, le pareti erano formate da assi di legno e c'era una sola finestra ben chiusa. Al centro della stanza c'era il letto su cui stava seduto, una sedia ed un piccolo mobile con sopra una candela spenta ed un bicchiere. Poco lontano dal letto si trovava un baule, con sopra quelli che dovevano essere dei vestiti.
Ricordò di essere mezzo nudo e decise che era meglio mettersi qualcosa addosso prima di uscire da quella porta. Raccogliendo le forze, si mise in piedi e vi rimase per qualche secondo, prima di perdere l'equilibrio e urtare il mobile accanto al letto. Il bicchiere cadde, rompendosi e rovesciando l'acqua sul pavimento. Il rumore dell'oggetto che andava in mille pezzi squarciò il silenzio. Udì dei passi veloci che rimbombavano sopra la sua testa.
Corse, o meglio, provò a camminare veloce in direzione del baule. Nell'oscurità iniziò a rovistare tra gli indumenti. Erano sicuramente in pelle, lo capiva dalla consistenza e dall'odore. Alcune immagini sfuocate comparvero nella sua mente. Un castello. Uomini vestiti di nero. Un vecchio senza un dente. Cercava di capire cosa fossero, quando toccò qualcosa di freddo, un attimo prima che una luce accecante lo colpisse.
Si volse rapidamente verso quella fonte luminosa, una mano alzata a coprirsi gli occhi. Due, tre sagome si stagliavano sulla porta, ma poteva solo vederne i contorni. Poi una di loro parlò.
“Guy! Oh sia lodato il cielo, stai bene!”. Era la voce di una donna giovane, una delle sagome che non metteva ancora a fuoco. Vide che s'avvicinava svelta, come correndo.
“Non vi muovete donna!” urlò. Era la sua voce? Ebbe come la sensazione di sentirla per la prima volta in vita sua.
“Guy... sono io... Martine”. Era ormai a pochi passi, ora poteva vederla chiaramente in volto. La riconobbe: era la ragazza vista in sogno. Ma non poteva fidarsi di lei.
“State indietro!”. Con un movimento rapido le puntò contro una spada appena trovata accanto al baule. “Vi conviene starmi lontano, milady. Non esiterò ad uccidervi se farete ancora un passo”.
La ragazza era visibilmente scossa e aveva alzato le braccia, mentre arretrava verso la porta. Alle sue spalle, alcune sagome si erano allontanate di corsa, urlando qualcosa.
“Guy, metti via quella spada. Non vedi? Sono io, sono Martine!”.
“Non so chi voi siate, milady” disse, mentre continuava a tenera la spada puntata contro la ragazza.
Puntini bianchi simili a fiocchi di neve gli offuscarono la vista, facendolo barcollare. Un dolore lancinante ed intenso alla testa lo costrinse a piegarsi su sé stesso. Sentì dei passi, vide l'orlo di una gonna e una mano che gli toccava la spalla.
“Oh no, stai sanguinando di nuovo, devi tornare a letto!”. La ragazza che diceva di chiamarsi Martine lo sorreggeva, il tono di voce realmente preoccupato.
“State lontana da me!”. Le diede una spinta, facendola cadere a terra. Cercò di correre verso la porta, ma quella neve leggera divenne di un bianco compatto davanti ai suoi occhi. Sentì il mondo intorno a sé girare vorticosamente. E fu di nuovo buio.



Rimase a vegliarlo tutta la notte. Non voleva rischiare che l'uomo facesse ancora qualche gesto avventato.
Rose aveva suggerito di legarlo al letto, su consenso di gran parte dei presenti.
“Per il suo bene... e per il nostro” aveva aggiunto.
Martine aveva scosso la testa e si era offerta volontaria per fare la guardia. A nulla era valsa l'insistenza della padrona di casa che, vedendo la testardaggine della giovane, dopo un po' aveva lasciato perdere.
“Farò mettere qualcuno fuori dalla porta, in caso doveste avere bisogno. Mi raccomando: non esitate a chiamare” sottolineò, dando poi ordini ad uno dei giovani che stavano nella stanza, lo stesso che aveva aiutato Rose a scaricare il carretto e aveva aiutato a rimettere Guy nel letto.
Martine si sentiva a disagio, non era sua intenzione mancare di rispetto alla sua ospite, ma non poteva lasciare che legassero Guy. Preferiva vegliarlo personalmente. Era una sua responsabilità ed era suo compito fare in modo che l'uomo guarisse in fretta e senza traumi.
La reazione al suo risveglio aveva allarmato la giovane. Guy pareva non riconoscerla e sembrava disorientato. Martine sperava che fosse solo la febbre a renderlo confuso. Non osava immaginare che la botta in testa infertagli da Robin Hood potesse avergli causato la perdita della memoria.
Sospirò, seduta sulla sedia accanto al letto, nella stanza illuminata solo dalla flebile luce della candela.
Il respiro di Guy era lento, ma stava sicuramente avendo qualche incubo. Le palpebre chiuse tremavano mentre dalla sua bocca uscivano parole senza senso.
Martine non sapeva cosa fare. La ferita alla testa aveva perso altro sangue e l'unica cosa che poteva fare era pulirla e cambiare la fasciatura. La sutura pareva reggere e non sembrava esserci traccia di infezione.
Martine si alzò dalla sedia. Era seduta ormai da ore e sentiva i muscoli indolenziti. Fece qualche passo per la stanza, ma le assi scricchiolanti del pavimento facevano un rumore tale che la giovane aveva paura che Guy si svegliasse. Decise di prendere la sua sacca e sedersi di nuovo.
Frugò alla ricerca di qualsiasi cosa, senza cercare un oggetto in particolare. Sentiva il sonno pesare sulle sue palpebre e non voleva rischiare di addormentarsi.
Le dita toccarono un piccolo pezzo di carta e Martine lo tirò fuori dalla sacca.
Era una foto, o meglio. Quella foto. La foto che ritraeva lei abbracciata ad un sconosciuto.
Non riusciva ancora a capire. Chi era quell'uomo accanto a lei? Lo avrebbe conosciuto nel futuro?
Questo le diede un barlume di speranza, perchè la foto stava a significare che sarebbe tornata a casa.
Ma se venendo nel passato questo futuro si è inesorabilmente cancellato? Se non dovessimo mai tornare? Una strana sensazione di tristezza mista a paura l'assalì.
Non aveva parenti dai quali tornare o un fidanzato che l'aspettasse a casa. Però non riusciva a pensare di rimanere incastrata in quell'epoca. Non voleva pensarci.
Guy si mosse nel sonno, e Martine lo fissò.
Quell'uomo l'avrebbe mai protetta ed accolta nella sua vita, se le cose fossero andate storte?
Sebbene avesse un cuore indurito dalla crudeltà e dalla tristezza, la giovane era convinta che Guy fosse una brava persona. Aveva solamente bisogno di allontanarsi da ciò che lo stava corrompendo nell'anima.
Gli sistemò le lenzuola, coprendolo fino all'altezza del collo.
Sospirò ancora, mentre le palpebre calavano sui suoi occhi stanchi.



Una piacevole sensazione di fresco alla testa lo stava trascinando lontano dal buio, da quelle visione sconosciute che lo tormentavano.
Aprì gli occhi, sbattendo le palpebre più volte tanto gli bruciavano.
Un volto sorridente chino su di lui, quegli occhi dolci che non riusciva a ricordare ma sapeva di conoscere.
Una mano vicino alla tempia si muoveva piano. Lo stava bagnando con qualcosa, forse una pezza umida.
Le afferrò il braccio, lo scatto troppo veloce per i suoi muscoli ancora doloranti. Finse di non sentire il dolore che lo circondava, e non distolse lo sguardo da lei.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, in attesa che uno dei due aprisse bocca per primo.
Fu Guy a parlare.
“Dove mi trovo? Chi siete? Sono ferito?”
La gola gli bruciava, sentì la voce uscirgli secca e profonda.
La giovane guardò prima la mano che le stringeva il polso, poi di nuovo lui. Guy lasciò lentamente andare la presa, senza smettere di fissarla. Cercò di mettersi seduto, ma le forze non glielo permettevano.
La giovane capì cosa voleva fare e lo aiutò a sollevarsi, spostando i cuscini sulla schiena dell'uomo in modo che potesse stare seduto senza problemi. Poi gli offrì dell'acqua, che Guy accettò senza fiatare. La mano tremava visibilmente, e la giovane strinse le sua mani attorno a quelle dell'uomo, per aiutarlo. Guy non reagì, lasciando che lei lo aiutasse.
La stava osservando. I capelli, la linea del volto, gli occhi, le mani. Conosceva il suo profumo, sapeva di aver già stretto a sé quel piccolo corpo di donna. Ma non capiva perchè gli apparisse come un'estranea.
“Il vostro nome” chiese, quando lei riprese il bicchiere, appoggiandolo sul mobile accanto al letto.
Il volto della giovane parve cambiare espressione, come se quella semplice frase l'avesse improvvisamente rattristata.
“Martine. Non ti ricordi di me?” chiese, una nota di speranza nella sua voce.
Guy la fissò, facendosi nervoso ad ogni secondo che il suo sguardo indugiava sulla giovane. Guardò altrove, fissando qualcosa nel vuoto.
“Avevi una profonda ferita alla testa. L'ho pulita e richiusa, ma credo... credo che la botta in testa ti abbia fatto perdere la memoria.”
Martine ne era ormai convinta. Lo sguardo perso di Guy, quelle domande, la reazione violenta e confusa del pomeriggio: tutto stava ad indicare che l'uomo non ricordava nulla.
Sentì le lacrime salirle al viso, ma cercò di trattenerle. Non era il caso di allarmare Guy, doveva essere forte e cercare di aiutarlo.
“Hai fame? Sono due giorni ormai che non tocchi cibo.”
L'uomo continuò a fissare il nulla davanti a sé. Sentiva il vuoto nella mente e quella condizione lo spaventava. Era come se gli avessero tolto la sua anima, e dovesse vagare per sempre senza sapere chi fosse e quale fosse la sua strada.
Senza voltarsi annuì debolmente con la testa. La consapevolezza di non aver toccato cibo per giorni fece sobbalzare lo stomaco. Riconosceva di aver fame.
Martine sorrise. Era un bene che avesse appetito, significava che presto si sarebbe rimesso in forze. Si alzò dalla sedia. Doveva parlare con la servitù della casa, e sperava ci fosse qualcuno di sveglio che le desse almeno un pezzo di pane e del latte.
“Mi prometti di stare buono e fermo fino al mio ritorno?” gli chiese, preoccupata che potesse alzarsi ancora dal letto e cadere di nuovo a terra privo di sensi.
Guy si girò a guardarla e, cosa che lasciò la giovane sorpresa, le sorrise.
“Attendo il vostro ritorno, Martine.”
  
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