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Autore: C r i s    24/12/2011    0 recensioni
"Tutto ciò che il mare sequestra, riporta alla luce. E, così come restituisce, in cambio qualcosa ottiene.
L’oceano non aveva mai restituito ai legittimi proprietari nulla che fosse finito nelle sue ragnatele, ne aveva preso possesso, sentendosi in pieno diritto di farlo; eppure, nonostante tutto, aveva permesso ai segreti che li componevano di sprofondare con loro, di insabbiarsi per poter tornare a galla, forse, un giorno, quando il loro nome non avrebbe avuto più la stessa importanza.
Possibile che l’oceano potesse concedere grazia a chi s’imbatteva contro di esso? Possibile che potesse provare compassione?
O semplicemente compiacimento, d’essere riconosciuto come l’artefice di catastrofi, di dolore, di sofferenza, di rimorso, d’incomprensione. L’oceano restituiva tempo al tempo, consegnava parte del tesoro in modo che gli venisse riconosciuto il ritrovamento, che il merito fosse sempre e solo affibbiato a lui."

Meredith e Jack assaporano sulla propria pelle cosa significhi imbattersi nelle acque tortuose dell'oceano e ne abbracciano le conseguenze, ormai schiavi della sua influenza. Ciò che più preme sapere è: saranno in grado di nuotare o quantomeno restare a galla?
Classificata al terzo posto nel contest valutato da _Calypso_ "Dramatic".
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nickname Autrice:  C r i s ( Sia forum che sito)
Titolo:  In balia del mare.
Genere:  Drammatico.
Rating: Verde.
Avvertimenti: One-shot.
Nda (se presenti): Questa trama è ispirata alla canzone di James Morrison – I won’t let you go. Le citazioni a inizio e fine testo appartengono alla canzone, infatti. E’ stato un fulmine a ciel sereno, devo ammettere di averla scritta con un certo nodo allo stomaco, mi è stato difficile descrivere emozioni che non ho mai provato sulla mia pelle.


Grazie a te, lettore, che leggi.




E se il tuo cielo cade,
allora prendi la mia mano e tienila.
Non ti lascerò andare
.



 

L’oceano s’espandeva nel mondo come un’enorme chiazza blu. Agli occhi di chi si limitava ad osservarlo, appariva una conca d’acqua salata dai fondali insidiosi.
Per chi, invece, portava l’attenzione su quel pelo d’acqua e ne perlustrava i contorni, poteva comprendere quanto il bagaglio fosse pesante da trascinare, quanti segreti esso celasse e quanti aveva tentato di svelare al mondo, sordo ai suoi richiami.
Impetuoso, pericoloso, inquietante.
L’oceano non aveva mai restituito ai legittimi proprietari nulla che fosse finito nelle sue ragnatele, ne aveva preso possesso, sentendosi in pieno diritto di farlo; eppure, nonostante tutto, aveva permesso ai segreti che li componevano di sprofondare con loro, di insabbiarsi per poter tornare a galla, forse, un giorno, quando il loro nome non avrebbe avuto più la stessa importanza.
Possibile che l’oceano potesse concedere grazia a chi s’imbatteva contro di esso?  Possibile che potesse provare compassione?
O semplicemente compiacimento, d’essere riconosciuto come l’artefice di catastrofi, di dolore, di sofferenza, di rimorso, d’incomprensione.
L’oceano restituiva tempo al tempo, consegnava parte del tesoro in modo che gli venisse riconosciuto il ritrovamento, che il merito fosse sempre e solo affibbiato a lui.
Egocentrico, direte.
Eterno, suggerirei.
E si sa, l’eternità può essere alquanto presuntuosa.
 

*

Meredith scrutava l’orizzonte con parsimonia, avvolgeva nel proprio cuore il calore che gli ultimi raggi del sole sprizzavano nell’aria e socchiuse gli occhi, con una particolare tranquillità dipinta sul volto.
Dischiuse una palpebra, poi l’altra e, sospinta dal vento, immerse le dita dei piedi nella sabbia, inumidita dal crepuscolo. Mosse i piedi in direzione della battigia, sfiorò con lo sguardo il pelo scuro dell’acqua e trattenne un sospiro, quando si fermò per osservarne la grandezza.
Immenso.
Lasciò che i capelli si disperdessero nell’aria e si accovacciò sulla sabbia, le ginocchia premute contro il petto e la mascella sprofondata tra le braccia. I pensieri le rubarono la ragione e portò gli occhi al cielo, osservandone le sfumature rossastre.
Avrebbe voluto intrappolare il cielo in una bottiglia, conservarlo in un baule in soffitta e usufruirne quando una bolla grigia l’avesse avvolta, imprigionando la sua felicità.
Perché le sembrava la felicità, quella. Un colore così forte non poteva che esserlo, no?
Si diede della sciocca e scosse appena il capo, si sistemò una ciocca ribelle dietro l’orecchio e una profonda nostalgia le avvolse il cuore, ricordando le vibrazioni provocate da quel medesimo tocco, provenienti da mani diverse.
Prese a dondolare, ad occhi chiusi, e immaginò che al suo fianco qualcuno occupasse quel posto, che non fosse da sola. Gli occhi s’inumidirono appena, ma si ammonì perentoria e non versò neppure una lacrima; aveva smesso di farlo, sapeva che neppure una gliel’avrebbe restituito.
Sospirò e portò una mano nella tasca della felpa. Ne estrasse un ciondolo in argento, una perla d’acqua marina luccicò in controluce e Meredith ruotò il ciondolo per osservare, come abitudine, l’iscrizione nel medaglione.
Tutto ciò che il mare sequestra, riporta alla luce. E, così come restituisce, in cambio qualcosa ottiene.
Le sorse spontaneo sorridere, accadeva ogni qualvolta i suoi occhi cercassero d’imbattersi nella verità che quelle parole celavano. Le labbra assaporarono l’amarezza di quel contenuto e le costò fatica non versare neppure una lacrima.
Immerse i suoi occhi color del carbone nella perla che le sue dita costudivano gelosamente e, improvvisamente, si rese conto di quanto il mare le avesse donato, nonostante tutto.

*

Settembre aveva trasformato la spiaggia di Colibrì in una nuvola di fantasmi. Il vento leggero sbuffava sulla sabbia, lasciando un alone di malinconia ad avvolgere quel posto che per tre interi mesi aveva dato modo al paese d’arricchirsi, per quanto possibile, di turismo avido.
Meredith si concedeva il meritato riposo, dopo essersi spezzata la schiena dietro il banco della libreria di sua nonna per l’intera Estate. Aveva preferito l’utilità, piuttosto che l’ozio. Nonostante le aspettasse l’Università, nonostante i suoi amici fossero partiti per ricordare l’estate del Liceo, aveva preferito aiutare la donna che ogni giorno vedeva tornare a casa con una ruga in più sul viso per il lavoro immane che svolgeva, per la propria famiglia.
Quel pomeriggio di Settembre, osservava i gabbiani svolazzarle sul capo, un cappello di paglia a proteggerla dai raggi del sole e un vestito di cotone sul corpo. Seduta sulla battigia, lasciava che le onde del mare le bagnassero i piedi, giocò con fare spensierato e portò la sua attenzione sulle increspature nell’acqua. In lontananza, si accorse di un dettaglio che stonava nel contesto: una tavola da surf, senza conducente.
Sbatté le palpebre, immaginando che la fantasia le giocasse un brutto tiro quel giorno, eppure capì d’essere lucida e che la tavola fosse abbandonata a se stessa.
Si alzò in piedi, il cappello le scivolò dalla testa senza far rumore e si avvicinò alla riva, dove le onde s’imbattevano con più impronta. Fu investita fino alle ginocchia dall’acqua salata e rabbrividì, costatando che chiunque avesse assaggiato la consistenza dell’acqua, dovesse avere lo stomaco di ferro, o semplicemente il sangue caldo quanto un licantropo.
Un gemito di sorpresa le uscì dalle labbra quando una seconda ondata le colpì appena il viso, strizzò gli occhi e li puntò in lontananza, dove la tavola da surf galleggiava, in preda alla forza del mare.
Non riuscì neppure a separarsi dagli abiti che uno schizzo maggiore le tolse il respiro e persino la razionalità. Si portò le braccia dinanzi il viso per proteggerlo dalla salsedine e, con dispiacere, osservò il suo abito ormai inzuppato darle un saluto di consolazione.
La sua attenzione tornò al largo, tirò un sospiro sconfitto e, prima che potesse avere qualche ripensamento, si avvicinò verso quella direzione, dandosi della folle. Cosa pensava di poter risolvere, lei che a stento sapeva mettere piede in acqua? Di certo la forza dell’oceano l’avrebbe spinta verso qualche squalo affamato.
Si rese conto di quanto invece vicina fosse quella tavola e uno sprizzo di gioia le acquietò il cuore, fino a quando non riuscì a raggiungerla e vi si aggrappò. Osservò i bordi scalfiti dall’acqua e immaginò che fosse ben sfruttata. Il verde risaltava per le sfumature dello smeraldo e ne accarezzò il materiale, lo sentì solleticarle le dita e le fu spontaneo sorridere. D’improvviso, un’onda scosse la sua serenità e si aggrappò con timore alla tavola da surf; quest’ultima sembrò tendere verso il basso, sbarrò gli occhi e osservò il mare aspettando che da un momento all’altro uno squalo l’azzannasse. S’issò sulla tavola e strinse forte le ginocchia al petto, il cuore le trapanò i timpani e i capelli bagnati le premettero contro le spalle. Batté i denti, dal freddo e dal terrore, prima che delle bolle sott’acqua prendessero a ribollire in superfice. Le osservò stralunata e soffocò un urlo, cercando di darsi del contegno, quando il panico divenne sovrano e cercò d’agitarsi sulla tavola per spingerla verso riva. Sentì le gambe tremarle e, non appena l’acqua s’agitò maggiormente preannunciando l’arrivo di qualunque fosse la fonte di quel brontolio indistinto, chiuse gli occhi e permise alla paura d’esprimersi in un grande urlo.
Sbarrò gli occhi non appena l’acqua le schizzò il viso e osservò una figura uscirne. Si rincuorò di non essere stata assalita da uno squalo affamato, ma non poté evitare alla propria mascella di finire sul fondale marino, per chi si era presentato davanti: due occhi arrossati dal sale dell’acqua, ma dal tenue color del cielo, una fronte ampia e dei lineamenti maschili ben accentuati, labbra distese in un atteggiamento rilassato e una folta capigliatura castana, scoordinata a causa del mare.
Una mano era issata verso l’alto e tra le dita spiccava una catena argentata, mentre un braccio era ancorato alla tavola. Si accorse della ragazza soltanto dopo qualche attimo di lucidità, troppo attento ad immagazzinare ossigeno. Strabuzzò gli occhi e le lanciò un lungo sguardo, mentre la giovane si riprendeva dallo shock.
«Hai bisogno di un passaggio?», le chiese, divertito.
Meredith ebbe a disposizione qualche secondo, prima d’irrigidire la mascella e partire in quinta.
«Ti rendi conto di quanto tu possa essere stato incosciente?», sbraitò con la tachicardia inoltrata, «Pensavo fosse morto qualcuno!»
Non moderò i termini, pur sapendo di avere dinanzi un perfetto sconosciuto e che la sua paura fosse del tutto infondata.
Il ragazzo s’issò sulla tavola e Meredith sussultò, scostandosi appena.
«Ci vuole altro per ammazzarmi», le rassicurò, un sorriso docile sulle labbra. Osservò i suoi piedi muoversi nell’acqua e sentì la tavola spostarsi verso la riva, l’imbarazzo crebbe mostruosamente e il viso le si imporporò.
«Non sono un folle», le disse di punto in bianco, «Non mi sono spinto al largo proprio perché conosco il mare».
«Fortuna», brontolò la ragazza, lo stomaco attorcigliato dall’ansia che l’aveva travolta senza giustificazioni.
Il ragazzo ridacchiò, colpito dall’interesse di quella sconosciuta. «Non ce ne sono di pazze come te in giro».
S’inviperì immediatamente: «Neppure come te, se per questo! Ti sembrava il caso di fare una gita subacquea quest’oggi, lasciando per di più una tavola da surf incustodita in mezzo al mare?»
Il moro le lanciò un’occhiata allusiva e le agitò sotto il naso il polso fasciato da un rivestimento a strappo. «Non era di certo in balia delle onde», la schernì con un sorriso compiaciuto, «E poi ne è valsa la pena, non mi capitava da tanto tempo di trovare qualcosa di così interessante sul fondale», spiegò risoluto, agitando con la mano libera il ciondolo in acqua marina.
La ragazza si limitò a osservarlo, in silenzio, captando i riflessi del sole e appurando che dovesse essere un oggetto prezioso, dal valore nascosto.
E poi osservò lui, quel ragazzo dalle strane ambizioni che, nonostante il tempo, aveva deciso di sfidare la sorte e immergersi senza bussola in un’avventura rischiosa. Per di più, solo.
Lo ammirò. Provò profonda stima nei confronti di uno sconosciuto che sorrideva alla vita come se fosse una barzelletta, di cui mai sazio. E sorrise, appena, immaginando di non aver mai avuto il coraggio di osare tanto.
Avrebbe voluto chiedergli quale fosse il segreto, ma preferì tacere.
Lasciò che la guidasse fino alla riva, rimise i piedi nell’acqua ghiacciata e sobbalzò, trattenendo un mugolio di protesta. Sentì la consistenza della sabbia calda soltanto quando riuscì a sfuggire alle grinfie del mare, si tuffò a pesce sull’asciugamano adagiata a terra e se la portò sulle spalle, battendo i denti.
«Ti do un consiglio», la voce del giovane sembrò distarle metri, «La prossima volta che senti prevaricare l’istinto di crocerossina, evita di buttarti con tutti i vestiti, per di più senza salvagente. Quello è da incoscienti».
Meredith immaginò che un’umiliazione simile non potesse mai capitarle.
Dovette ricredersi; quel ragazzo dimostrò la sua ingratitudine con il sorriso sulle labbra e, così com’era apparso, scomparve.

 
La settimana successiva, nonostante le nuvole grigie, Meredith era tornata sulla spiaggia, in compagnia di suo fratello, Jeremy.
Un bambino scaltro, dai grandi occhi blu e dagli occhiali spessi sul naso. Aveva una passione sconfinata per le navi, la sua camera era sommersa dai modellini che uscivano dalle riviste e qualcuno l’aveva anche costruito insieme al padre, negli ultimi anni di vita, o quantomeno prima che la malattia prendesse il sopravvento.
Jeremy aveva soltanto nove anni, ma l’intelligenza che sfruttava era fuori dalla norma.
Quella mattina la scuola era chiusa in onore di un evento speciale: le barche a vela avrebbero sfilato lungo la spiaggia, date le condizioni climatiche favorevoli, per cui Jeremy aveva implorato la sorella di immolarsi per la causa.
Ed ora eccoli là: lei, con un libro in grembo e una giacca sulle spalle; lui, un berretto sul capo e un binocolo poggiato sul naso, intento a scrutare le onde.
Jeremy s’agitò e scalpitò per attirare l’attenzione della sorella.
«Guarda, Dith!», utilizzò un nomignolo concesso soltanto a lui e sorrise, mellifluo, «Guarda che begli uccelli».
«Si chiamano gabbiani, Emy», sogghignò l’altra, per l’appellativo femminile che si lasciava sfuggire ben poche volte in pubblico.
Il bambino le riservò un’occhiata linciante, prima di rivolgere l’attenzione verso il mare.
Meredith stava per abbandonarsi alla piacevole lettura di Amleto, quando Jeremy ululò nuovamente.
«Dith! Quel tipo sta cavalcando un’onda grande il suo triplo!»
Lo stupore nella voce del fratello non la fece demordere.
«Sarà un povero squilibrato».
«E’ un portento, guarda che capriola!», Meredith immaginò che al fratello sarebbero andati bene dei pon-pon d’agitare.
«Incosciente», sibilò, ricordando improvvisamente il ragazzo della settimana precedente.
Alzò il capo di scatto, poggiò il libro sulle ginocchia e scrutò il mare. Non avendo una vista da falco, balzò in piedi e strappò di mano il binocolo al fratello, avendo adocchiato il surfista in lontananza. Le si spalancò la mascella quando riscontrò lo stesso viso che mai avrebbe immaginato di ritrovare, nonostante ci avesse sperato. Senza riflettere, si avvicinò alla riva e l’acqua le carezzò le caviglie.
Agitò le braccia, sperando la inquadrasse, e l’espressione sul suo volto non prometteva nulla di buono. Il ragazzo si accorse di quella figura buffa soltanto quando la notò bagnarsi fino al collo a causa di un’onda più forte delle altre, sogghignò e pagò quella distrazione a caro prezzo, poiché fu travolto e cadde in acqua come un peperone.
Meredith sbuffò, ma osservò con attenzione la scena e non appena notò che la tavola fosse ancora intatta, ma solitaria nell’acqua, ebbe un tuffo al cuore. Rimase in attesa che riemergesse, ma ciò non accadde.
Mosse un passo e poi un altro, senza accorgersi della tavola che prendeva velocità nell’acqua e le si avvicinava. Riusciva soltanto ad osservare quel punto indistinto dell’acqua dove il ragazzo era scomparso dalla sua vista. Sussultò non appena una sua caviglia venne arpionata, gettò un mezzo urlo e rimase completamente a bocca aperta, quando dall’acqua emerse il sorriso soddisfatto del ragazzo, ancora vivo e vegeto.
«Ehi sirenetta, credevo mi aspettassi sullo scoglio», la canzonò, mettendosi in piedi, «Non credevo che avessi già venduto la tua voce per un paio di gambe», le strizzò l’occhio e agguantò la tavola sotto il braccio.
Meredith fu tentata di spintonarlo, ma si limitò a stringere le braccia contro il petto e ruotare sui tacchi.
Il ragazzo alle sue spalle ridacchiò e la seguì silenziosamente verso il batti sciuga, sentì due occhi indagatori su di sé e ne costatò la presenza, adocchiando uno scricciolo appollaiato su un bidone capovolto e un binocolo tra le mani.
«Voglio farlo anch’io», lo informò, annuendo con vigore.
Il ragazzo finse di non capire e poggiò la tavola nella sabbia. «Cosa?»
«Quello che hai fatto tu», rispose, schioccando la lingua.
«Comportarmi da incosciente?», suggerì l’altro, fissando le spalle della ragazza che si era nuovamente seduta con il naso infilato nel libro.
«Esattamente», il ragazzino non sembrò colpito da quella burlata, ma non demorse neppure.
«Sei troppo piccolo», spiegò con ovvietà, «Cresci un po’ e poi torna da me».
«Non è l’altezza che fa di te un uomo», controbatté lo scricciolo.
«Il mio problema non è l’altezza», il ragazzo si grattò la nuca.
«Il tuo problema è relazionare con la gente. Non sai farlo».
Si sentì improvvisamente spoglio delle proprie difese. Per quanto piccolo e insulso potesse sembrare quel bambino, in una manciata di secondi aveva inquadrato il suo più grande difetto e sentì freddo, dovuto al timore che potesse scoprire altro, se solo gli avesse respirato vicino.
Meredith distolse l’attenzione dalle pagine di Shakespeare e osservò quel ragazzo dal nome sconosciuto che aveva attirato per ben due volte la sua apprensione, come se si sentisse in dovere di dover vegliare su di lui, cosa del tutto assurda.
«Jeremy, non importunare le persone», intervenne la ragazza, assaporando l’aria irrespirabile, «Guarda, quelle non sono le navi?», domandò, alzandosi in piedi non appena una vela bianca spiccò in lontananza.
Al bambino bastò un’occhiata per non degnarli più di uno sguardo, così Meredith si avvicinò al giovane intento a spogliarsi della tuta e deglutì a fatica, non appena una cicatrice lungo il braccio di lui spiccò ai suoi occhi.
«Cimeli di guerra?», domandò la ragazza, senza né indicare né specificare, era certa che avrebbe capito.
«Ne ho altri», sorrise lui.
«Vanne fiero», fu la risposta scocciata di Meredith.
«Sono pezzi di me».
Rimase folgorata da quell’affermazione. «Pezzi che hai perso, vorrai dire».
«No», chinò la tuta del tutto e la ripiegò, tornò in posizione eretta e si mostrò agli occhi timidi della ragazza, senza pensare d’indossare degli striminziti calzoncini, «Pezzi che ho dato e che ho risanato da solo».
Meredith inarcò un sopracciglio, senza capire. «Sai che non ha senso quello che dici?»
«Non ha senso per chi, come te, non può capire».
Immaginò fosse un’offesa, nonostante il volto del ragazzo fosse rilassato.
«Fammi capire, allora», sussurrò, gli occhi immersi in quegli abissi d’oceano.
Lui tentennò per un attimo, timoroso che in quella richiesta fosse implicato molto più di quanto fosse stato espresso. E, nonostante tutto, rischiò.
«Vuoi capire me o la mia storia?», domandò con un sorriso ironico.
«Entrambe», per la prima volta, Meredith seppe di non poter mentire, né a se stessa, ne agli altri.
«Non ti piacerà», le si fece più vicino, uno strano presentimento alla bocca dello stomaco, «Nessuno resta troppo al mio fianco da capire chi io sia sul serio, ci sarà sempre qualcosa a spingerlo via».
Lei sorrise, improvvisamente colta da un senso di complicità. «Posso capirti».
Ripensò alle amicizie scansate, alle occasioni perdute e rivide, negli occhi del ragazzo, se stessa.
«Sei sicura di quel che dici, sirenetta?», le passò una mano tra i capelli per scompigliarli, gli sembrò un gesto del tutto naturale, nonostante fosse a conoscenza che quella ragazza gli fosse estranea.
Lei s’irrigidì, allungò una mano e attese che lui la stringesse.
«Meredith, non sirenetta».
«D’accordo, Meredith», dalle sue labbra, quel nome prese maggior fascino, più di quanto non ne avesse preso fino a quel momento, «Domani mattina torna qui e indossa un costume, non vorrei doverti ripagare di tintoria alla fine del mese».
Le dedicò un ultimo sorriso, prima di ruotare sui tacchi e afferrare la tavola da surf per riportarla al capannone.
«Ehi», lo richiamò e immaginò che avesse qualche altra lamentela da muovergli.
«Non mi hai ancora detto come devo chiamare Eric», le fu spontaneo paragonare quel ragazzo al personaggio maschile di quel buffo cartone animato, si sentì esposta e vulnerabile e arrossì di botto, «O Sebastian. Scegliti il tuo personaggio», balbettò, notando il suo sorriso compiaciuto.
«Sebastian non si becca la bella sirenetta», le strizzò l’occhio, «Chiamalo Jack, se ti va».
La lasciò in balia del proprio cuore, scorrazzante per la gabbia toracica, come se non potesse fare a meno di danzare.
E, senza accorgersene, prese a danzare anche lei, al ritmo della sinfonia del suo cuore, emozionato come mai prima d’ora.

 
 
«Jack, non se ne parla».
Meredith osservava la tavola da surf con un nodo alla gola che si definì man mano che il ragazzo la bagnava per far in modo che il suo corpo scivolasse senza problemi sul legno.
«Suvvia, ci sono io», la incoraggiò, nonostante sapesse che alla ragazza non bastasse.
«Non mi consoli affatto così», brontolò, legando i capelli in una coda alta, «Non sono portata per questo genere di cose», o meglio, qualunque cosa che avesse a che fare con l’equilibrio.
«Io sì», si pavoneggiò con un sorriso scarlatto, prima di tenderle una mano, «Fidati».
Meredith osservò quella mano, desiderò poterla stringere nella sua, microscopica al confronto. Ne assimilò i dettagli, le dita affusolata, il palmo disteso nella sua direzione e fu troppo debole, poiché cedette alla tentazione.
La strinse, sentendo un calore immane raggiungerle il cuore.
Tornò alla brutale realtà non appena Jack la strattonò verso la tavola, si sedette in una posa scoordinata e sentì il ragazzo riderle dietro le spalle.
«Non una parola», sibilò, l’ansia divenuta ormai sua compagna di sventura.
«Sei buffa, sirenetta», giocò con la coda di capelli, prima di muovere una mano nell’acqua per spingersi verso il largo.
«Ti avverto, non ho stillato il testamento», citò con aria solenne, «E non posso rischiare di lasciare questo mondo senza aver dato una destinazione a tutti i miei utensili».
«Non c’è problema», annuì l’altro, «Lasci tutto a me».
Meredith ruotò il capo con fare inquisitorio. «Non apprezzeresti».
«Lascia giudicare me».
«Neppure mi conosci», biascicò, immersa nei suoi occhi.
«Imparerò a farlo», le rispose caparbio, arrestando il movimento della mano.
Scese dalla tavola e non sembrò curarsi dell’acqua fredda. Meredith si strinse le braccia al petto e rabbrividì pensando di poter cadere a peso morto in quella conca di ghiaccio.
«Stenditi e porta le braccia in avanti», le suggerì con sicurezza.
Meredith trattenne il fiato, decisa a protestare, ma qualcosa la fece desistere e si ritrovò a pensare che fosse il desiderio di conoscerlo sul serio, poter entrare nel suo mondo e farne parte.
Eseguì i suggerimenti e si ritrovò stesa sulla tavola di legno, sentì le mani di Jack sfiorarle le gambe e rabbrividì. Gliele posizionò verso  l’acqua e sussultò, colpita dal gelo. Le portò le mani nell’acqua e si mise al suo fianco.
«Non è stato difficile, no?», la schernì appena con un sorriso sulle labbra.
«Io dormo in questa posizione, Jack», ribatté l’altra, stizzita, «Ovvio che non sia stato difficile, non è niente di nuovo!»
Il ragazzo si aprì in una risata, la più genuina che Meredith avesse mai udito. E sorrise, di rimando, rincuorata del fatto che stesse ridendo per lei.
Scosse il capo e le diede una spinta. «Inizia a muovere braccia e piedi, sirenetta», si allontanò e cominciò a nuotare spensierato.
Meredith si raggelò e lo osservò spingersi sempre più lontano da lei. «Sei scorretto!», si agitò e rischiò di capovolgersi nell’acqua, si resse saldamente alla tavola e chiuse gli occhi, il terrore le aveva fossilizzato le ginocchia.
«Se dovessi avere bisogno d’aiuto e fossi sola, a chi ti rivolgeresti, Meredith?», fu la domanda del ragazzo.
Lei aprì gli occhi appena e gli lanciò un’occhiata intimorita.
«Avevi detto che volevi conoscermi; lo stai facendo», lesse un’ombra nel suo sguardo e restò ad osservarlo in completo silenzio, «Non ho mai avuto bisogno di nessun altro per potermela cavare, in ogni singolo momento della mia vita ho dato per scontato che nessuno potesse darmi l’aiuto di cui avevo bisogno. Ho imparato a fidarmi di me stesso, ho imparato a conoscermi e ho voluto mettermi alla prova per capire dove fossero i miei limiti. Li hai definiti ‘cimeli di guerra’, in realtà, come ti ho già detto, sono parte di me, sono la testimonianza di ciò che ho fatto per appurare chi io fossi sul serio».
Jack la osservava, le braccia portate dietro il collo e gli occhi ridotti a due saette. Non aveva mai parlato così apertamente della propria personalità, in realtà non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che avesse aperto il proprio cuore a qualcuno, permettere di conoscerlo abolendo la barriera che per tanto tempo l’aveva difeso dal mondo circostante.
Aveva capito che quella ragazza potesse provocargli una cicatrice peggiore della altre dalla prima volta che l’aveva vista, su quella stessa tavola, amica di tante avventure. L’aveva guardata negli occhi, occhi scuri, profondi, occhi che differivano dall’oceano soltanto per il colore cupo, ma dalla stessa intensità. E aveva percepito un cigolio all’altezza del petto, consapevole che, se avesse permesso a quella sconosciuta di avvicinarsi, non gli avrebbe lasciato scampo.
«Devi esserti sentito molto solo», quel commento lo colse alla sprovvista.
Sbatté le ciglia, sbarrando appena gli occhi.
«Come fai a dirlo?», le domandò di rimando, notando che la ragazza avesse iniziato a muovere le mani nell’acqua per raggiungerlo.
«Una persona che si comporta come te dimostra di non avere nulla da perdere», esaminò con fare attento, mentre un’onda la scuoteva e le faceva perdere l’uso della parola.
Jack si sentì in dovere di lasciarla lì, in preda al panico, per farle capire cosa avesse davvero provato lui, quando suo padre gli aveva chiesto di non muoversi, di non aiutarlo, di chiamare semplicemente aiuto alle navi che sarebbero passate di lì.
Tornò indietro nel tempo in una manciata di secondi, ricordò lo sguardo spaventato del padre, la sua caviglia intrappolata tra gli scogli, la bombola d’ossigeno ormai prosciugata e una grande voglia d’abbandonarsi al destino.
Aveva ragione: non aveva avuto più nulla da perdere, dopo che l’oceano gli aveva strappato l’unica compagnia che gli fosse mai stata data per diritto.
Uno spruzzo d’acqua lo riportò al presente e si accorse di quanto Meredith fosse vicina.
«Ci sono riuscita», un sorriso le nacque sulle labbra e Jack fu tentato d’imitarla, così lo fece.
Le si avvicinò e si aggrappò alla tavola, lei fece spazio per farlo salire, ma le bloccò un braccio e scosse la testa.
«Ti riporto a riva», si fece forza con il braccio libero e prese a nuotare, la mano fossilizzata sulla pelle di lei, resa fredda dal vento che s’imbatteva sul mare.
«Non devi aver paura, sai?», mormorò ad un tratto lei.
«Io non ho paura», rispose l’altro, turbato.
«Il mondo non è così male», Meredith sorrise intenerita, «C’è sempre qualcuno disposto ad aiutarti, dopo tutto».
«Dubito», fu la risposta arcigna di lui, «Non puoi fare affidamento su nessuno».
«Io l’ho fatto», sussurrò con timore, «Con te».
Jack si voltò a guardarla per un istante, osservò quelle ciglia folte, quella labbra dischiuse e fu tentato di carezzarle una guancia. Gli sembrò così esposta in quel momento.
«Sbagli», fu l’unica cosa che seppe dirle, «Sono l’ultima persona sulla quale contare, Meredith».
Arrivarono a riva e l’aiutò ad alzarsi, Meredith inciampò nei suoi stessi piedi, ma le braccia di Jack l’afferrarono per evitarle un capitombolo in acqua.
La ragazza si ritrovò ad alzare il volto imporporato dall’imbarazzo, osservò gli occhi chiari di Jack ed ebbe la sensazione di stare affogando.
«Sei tu a sbagliare, Jack», soffiò, i loro visi più vicini di quanto entrambi si aspettassero, «Faccio bene a contare su di te, tu ci sei», gli sorrise appena, prima di scansarsi dalla sua presa e marciare verso la battigia, dove aveva rimasto i propri oggetti personali.
Indossò la vestina leggera senza asciugarsi e gli rivolse uno sguardo, notandolo ancora immerso nell’acqua, un’espressione pensierosa.
«Vediamoci di nuovo domani», gli suggerì, «Stavolta sarai tu a conoscere un pezzo di me».
Gli sorrise un’ultima volta e quando si voltò per raggiungere casa, il cuore gongolò pensando che lui avesse ricambiato quel sorriso ricolmo di speranza.
 

 
Trascorsero così le settimane.
Jack insegnò a Meredith che non tutte le cose che reputava impossibili, fossero davvero tali, iniziando dal padroneggiare la tavola da surf.
Nonostante fossero stati miriadi i tuffi nell’acqua per la perdita dell’equilibrio, era riuscita finalmente ad imparare quale fosse il metodo giusto per approcciarsi a quella sfida, così come Jack, a sua volta, aveva imparato che potesse evitare di chiudersi a riccio.
Meredith aveva ragione, il mondo non era così male, se a prenderne parte c’erano persone come lei.
Di rimando, Jack aveva appurato che il concetto di famiglia non fosse morto dentro di sé, soltanto accantonato per non tirare in ballo una sofferenza che lo scottava costantemente. Meredith l’aveva coinvolto nella sua vita, era giunta come un uragano e gli aveva donato tutti i benefici di cui poteva farsi portatrice.
Erano innumerevoli le ore che avevano trascorso insieme, per lo più su quella spiaggia divenuta ormai il loro piccolo ritrovo. Un giorno, presi dal chiacchierare, avevano osservato il tramonto ritrovandosi senza parole, lasciando che fosse la natura a riempire le loro orecchie di vezzeggiativi che mai avrebbero saputo esprimere con le proprie corde vocali. Erano rimasti vicini, le braccia a sfiorarsi per ricordare l’un l’altro la propria presenza, e si erano guardati, infine, con un timido sorriso sulle labbra.
E fu lì che per la prima volta le labbra di Jack sfiorarono quelle di Meredith, un assaggio della fiducia che entrambi si riponevano reciprocamente.
Dimenticarono cosa significasse l’ombra, entrambi erano divenuti la luce, nessuno poteva negare che insieme brillassero quanto una stella e, in fondo, bastava osservare i loro occhi per capire quanta gioia illuminasse i loro cuori.
Fu un tremendo acquazzone a rovinare la tranquillità che avvolgeva entrambi: un macigno opprimeva il loro futuro, entrambi avevano accantonato un pensiero che avrebbe potuto destabilizzare il loro rapporto e avevano preferito rimandare l’inevitabile.
Fino a quella sera d’Ottobre.
Dal cielo irruente gocce di pioggia battevano sul paesino di mare, Meredith osservava l’acqua scalfire il vetro della finestra e i suoi pensieri vorticavano nella testa senza darle tregua. Strinse le ginocchia al petto e fissò le pozzanghere che si erano formate nel suo viale, quando una figura si stagliò sotto la luce del lampione e riconobbe in essa Jack.
Sussultò e scattò in piedi, corse lungo le scale e spalancò la porta di casa. Gli si avvicinò, le lacrime premute contro gli occhi a causa di quel peso pronto ad eruttare.
«Parlamene», soffiò lui, il volto contratto in una smorfia indefinita.
«Jack», gemette l’altra, ondulando sul posto.
«Parlamene, Meredith», grugnì, le labbra piegate in un morso di astio.
«Dovresti essere tu a parlarmene», rispose lei, colta improvvisamente da un fulmine, «Avevamo rimandato e lo sapevamo che sarebbe arrivato questo giorno».
Jack si passò una mano tra i capelli. «Perché abbiamo aspettato?»
Non seppe rispondere, Meredith.
Si limitò ad osservare quel viso bagnato dalla pioggia, fece un passo nella sua direzione e Jack l’accolse tra le braccia, la strinse a sé e immerse il viso tra i suoi capelli scuri, resi fili di cotone dall’acqua piovana.
«Abbiamo avuto paura entrambi, Jack», mormorò con la voce impastata dall’emozione.
«Partirò domani», fu l’annuncio del ragazzo che mandò in frantumi la bolla di cristallo che fino a quel momento aveva avvolto il suo cuore, «L’ho saputo questa sera».
«Perché lo fai?», gemette la ragazza, scasandosi dalla sua presa, «Cos’è che ti manca? L’adrenalina? Potresti darti alle corse clandestine, se è quello che cerchi!», esclamò risentita, sapendo di non avere nessun diritto d’intromettersi nelle sue decisioni.
Jack s’irrigidì. «Sai perché lo faccio».
«Non lo capisco», ribatté lei, il volto contratto in una smorfia di dolore, «Non è quello che realmente vuoi, non puoi continuare a vivere la tua vita seguendo l’ombra di un fantasma!»
Quelle parole uscirono dalla sua bocca senza volontà e se ne pentì all’istante.
«Che ti piaccia o no, è questa la mia vita», ringhiò in difesa dei suoi ricordi, «E’ questo che avrei dovuto fare, con o senza di lui. Ogni anno salpo perché è ciò che voglio fare, non sarai tu a farmi desistere».
La risposta seccata che le arrivò alle orecchie, le fece tremare le ginocchia. Per quanto contorto apparisse come concetto, ciò che le arrivò fu ben chiaro: non avrebbe rinunciato per una persona che non valeva neppure una briciola di ciò che poteva valere la propria passione, il proprio passato, il proprio legame con un padre scomparso.
Lei era nulla, una nube passeggera che stava perdendo consistenza.
«Voglio soltanto aprirti gli occhi, Jack», balbettò, gli occhi umidi, «Potresti avere molto di più dalla vita».
«Cosa?», chiese sull’orlo dell’esasperazione, «La vita non mi ha dato nulla, ciò che ho è solo merito mio».
«Ma tu non hai nulla!», controbatté con il cuore in tumulto, «Non hai alcuna stabilità, non hai un progetto per il futuro. Semplicemente segui una scia che poteva andar bene da ragazzino, quando avevi tanti sogni nel cassetto. Devi diventare un uomo e non sarà un fantasma a farlo», si affievolì in un sussurro, notando lo sgomento negli occhi di Jack.
«Credevo avessi imparato qualcosa su di me, a quanto pare mi sono sbagliato sul serio».
Le volse le spalle, scuotendo la testa, e si allontanò sotto la pioggia.
«Jack», ululò con un groppo in gola.
Il ragazzo non si fermò, proseguì nel suo cammino e Meredith lo seguì con passo malfermo.
«Non puoi andare via in questo modo», lo afferrò per un braccio e lo scosse.
Jack la fulminò con lo sguardo, gli occhi privi di luce. «Vuoi impormi un destino che non fa per me, Meredith. Non sono come te, io non sono te. Non voglio diventare un medico né un infermiere, non voglio lavorare nel retrobottega di un negozio e non voglio avere legami, non fanno per me! Avresti dovuto capirlo sin da subito, sei entrata nella mia vita con prepotenza e non mi hai lasciato scelta. Non puoi impormi di restare qui, qui non ho nulla», a parte te, ma non si sentì in grado d’aggiungerlo.
Meredith fu colpita di nuovo, sentì la lama di un coltello perforarle il cuore e sussultò. Jack captò il vuoto nei suoi occhi e si morse la lingua, inveendosi contro mentalmente.
«Non volevo importi nulla, Jack», la sua voce non sembrò neppure appartenerle, «Volevo soltanto farti capire che, nonostante tu pensi di non avere nessuna capacità, potresti davvero spiccare, senza dover rischiare la vita. Hai un grande cuore, Jack, questo ti fa onore, ma non puoi vivere accompagnato dal fantasma di tuo padre per sempre. La tua vita va avanti, ti scorre tra le mani, non riesci ad afferrarla ed era giusto che qualcuno te lo dicesse, qualcuno che osserva insieme a te tutto questo. Non posso più farlo, non posso restare a guardare come fai tu», le fecero male quelle parole, sgusciarono dalle sue labbra e s’iniettarono nella mente di Jack, presero a pulsare e sentì un freddo avvolgergli l’anima.
«Questo è soltanto il consiglio di chi comunque non è nulla», non permise al cuore di protestare, lasciò che fosse la razionalità ad agire.
Meredith si scostò indietro e abbozzò un sorriso ricolmo di tristezza, si portò una ciocca ormai spugnata di capelli dietro l’orecchio e retrocesse, osservando quella sagoma per quella che avrebbe creduto l’ultima volta.
Non fu così.
Quella notte non dormì, la mattina fu accolta da immense nuvole grigie, ma non si fece abbattere e corse all’impazzata verso il porticciolo dal quale sarebbe salpata la nave. Meredith corse, il cuore schizzato in gola per l’angoscia che lo attanagliava, e si fermò soltanto quando osservò il marchio della nave che avrebbe trascinato via con sé l’unica persona che avrebbe potuto concretizzare il suo futuro.
Perlustrò i marinai che si accingevano ad abbandonare famiglie intere per poter portare a casa uno straccio di stipendio e il cuore le si strinse ancor di più: era certa che nei panni di quella povera gente, sarebbe impazzita, e si rese conto, con ancor più orrore, che, nonostante il loro legame fosse stato tagliato, avrebbe patito ugualmente la stessa identica sofferenza.
Osservò una capigliatura castana che si affacciava verso il mare, i gomiti poggiati al bordo di legno e l’espressione dispersa nell’acqua. Gonfiò i polmoni d’aria e si preparò ad urlare, quando la nave sbuffò e attirò l’attenzione dei presenti, per informare che il tempo era scaduto.
Sobbalzò e si avvicinò verso il ponte che collegava la nave alla terraferma. Lo sorpassò e proseguì lungo il bordo del molo, fino a giungere dinanzi quegli occhi assenti.
Non resistette più. «Jack!»
Il ragazzo sussultò e la osservò come se non la vedesse sul serio. Immaginò fosse uno scherzo della ragione, ma, non appena assaporò i suoi dettagli umani, capì d’avere ancora i piedi per terra.
Non parlò, si limitò a fissarla, un calore al centro del petto.
«Sii chi vuoi essere», gli urlò con una stretta allo stomaco, «Hai bisogno di contare prima per te stesso che per gli altri, e se ti fa piacere saperlo, tu qui hai qualcuno che a te tiene», non seppe cosa fu a spingerla verso quell’impresa, sapeva di non poter fare alcune pretese verso quel ragazzo così scostante nei confronti di tutti.
Jack sorrise, prima di frugare nella tasca.
Ne estrasse una catena in argento e gliel’agitò per farle capire le future intenzioni: gliela lanciò e Meredith l’afferrò senza cascare in acqua, nonostante fosse mancato molto poco.
Si rigirò la catena tra le mani, mentre il ponte in legno veniva ritirato sulla nave e susseguì un nuovo sbuffo per affermare la partenza.
Osservò l’iscrizione sul ciondolo nel retro e si ritrovò a sorridere, intenerita.
«Non aspettarmi, Meredith», fu il richiamo del ragazzo, «Realizzati, anche per me».
Si guardarono negli occhi, tra le dita Meredith strinse quel ciondolo sapendo che avrebbe sempre ricordato il loro legame; era da lì che proveniva il loro tutto.
«Torna», mormorò, sapendo che non l’avrebbe sentita.
Jack rimase immobile e lasciò che gli occhi della ragazza gli perforassero l’anima e, quando ormai la distanza divenne ovvia, si ritrovò a passarsi una mano nervosa tra i capelli.
Nonostante tutto, sperava di trovare quel qualcuno al suo ritorno per realizzare il futuro al quale mai aveva pensato prima d’allora.
 

 
Meredith partì quello stesso mese.
La passione per la medicina era nata sin da piccola, quando, anziché giocare alla famiglia spensierata, curava i bambolotti dalle cadute accidentali e sottoscriveva finte ricette alle Barbie in malattia. Era solita giocare all’allegro chirurgo nei pomeriggi di pioggia, anziché svolgere i compiti scolastici, e puntualmente sua madre la rimproverava di dover badare prima al dovere e poi al piacere.
Del resto, era stata sua madre a suggerirle quella passione. Purtroppo, non essendo stata fortunata dal punto di vista economico, ai suoi tempi non poté seguire gli studi, poiché costosi, ma aveva seguito, dopo il matrimonio, un corso per poter divenire infermiera, in modo da acquietare in parte il rimorso della vita passata.
Per Meredith la vita era stata diversa: sin d’adolescente, aveva seguito dei lavoretti, più consistenti d’Estate, meno d’Inverno, per cui aveva accumulato soldi sufficienti per garantirle un supporto indipendente dalla famiglia. Non era ingenua, sapeva che non avrebbe potuto pagare tutto da sola, per quanto avesse potuto racimolare, le rette universitarie non potevano essere sostenute in completa autonomia, ma quantomeno contribuiva per non mandare la propria famiglia in mezzo ad una strada.
Da quando il loro padre aveva perso la vita, la situazione economica era varata e la nonna aveva dovuto rinunciare alla pensione, per portare avanti un’attività che, nonostante non desse molti risultati, riusciva a sostenere le spese mensili.
Studiare medicina era il sogno di una vita, ammirato e desiderato a lungo, e quando divenne realtà, Meredith sentì che avrebbe barattato la sua laurea con qualcos’altro.
Aveva trascorso anni lontana da casa, neppure l’Estate poteva tornare senza occupare il tempo studiando e lavorando, le sue giornate erano plasmate con i libri e, nonostante all’inizio avesse temuto di poter abbandonare quella strada, era riuscita a tener testa alle sfide.
Il primo anno universitario era scivolato con rapidità, aveva dato i primi esami sentendosi improvvisamente capace di poter affrontare qualsiasi problema e ne era rimasta molto soddisfatta. La prima estate era rincasata, soltanto per poter trovare un lavoro a tempo pieno che potesse ricambiarla di un compenso maggiore.
Di Jack, neppure l’ombra.
Sapeva che la nave fosse tornata, eppure nessuno aveva saputo dare spiegazioni sul ragazzo assente. Temette che fosse accaduto qualche incidente in alto mare, ma tutti smentirono e soltanto dopo varie peripezie, riuscì a scoprire che avesse cambiato imbarcazione, per restare più tempo in mezzo al mare.
Rimase delusa, in parte; come una sciocca, per un anno intero aveva pregustato il ritorno a casa, aveva mandato avanti le proprie forze soltanto per il compenso che avrebbe ricevuto al termine del tunnel.
E quel compenso non era mai giunto.
I mesi passavano, Meredith fioriva sia nel corpo che nella mente, la sua cultura accresceva così come il bagaglio d’esperienza che costruiva dentro di sé.
Ogni qualvolta un uomo le poggiava gli occhi addosso o le rivolgeva un sorriso, sapeva di non dover provare sensazioni sbagliate, ma si sentiva traditrice soltanto nel pensare di aver ricambiato un sorriso o uno sguardo.
Le aveva chiesto di proseguire nella sua vita, realizzarsi, vivere anche per lui.
E l’aveva fatto.
E, quando aveva creduto di aver dimenticato le sensazioni che il cuore provava soltanto nel pensare a lui, tornò.
Era una calda giornata di primavera. Meredith usciva dall’Università per dirigersi al suo appartamento, scendeva le scale stringendo i libri contro il petto, i pensieri rivolti alla serata che avrebbe trascorso quel giorno stesso. Avrebbe vissuto, quella sera, di nuovo.
E sentirsi viva le piaceva.
Venne sovrastata da un’ombra non appena poggiò il piede sul marciapiede, alzò il viso contraddetta e lo stupore si riflesse nelle sue pupille scure. Le si dischiuse la bocca e i libri le scivolarono di mano, caddero al suolo emettendo un tonfo, fortunatamente non colpirono nessuno, ma Meredith non se ne importò.
Osservò i lineamenti mascolini che aveva dinanzi, i capelli più corti di come li ricordava, una cicatrice sul sopracciglio destro e un sorriso abbozzato sulle labbra carnose.
Non parlarono, semplicemente le braccia si cercarono. Si strinsero l’uno all’altro in una morsa soffocante, assaporarono la loro consistenza e, dopo quelli che erano divenuti anni, a entrambi sembrò d’essere ritornati nel luogo d’origine, un ritorno a casa.
Meredith appurò che il corpo di Jack avesse subìto dei cambiamenti: quello che stringeva, era il corpo di un uomo.
Jack, a sua volta, scoprì d’avere dinanzi a sé una donna in tutto e per tutto. Sospirò inalando il suo profumo, di ciliegia, e si ritrovò a sorridere. Aveva dimenticato cosa significasse stringerla tra le braccia, avrebbe voluto assaporare le sue labbra, certo di non restarne deluso, ma si arrestò.
Meredith si scansò e osservò quell’uomo negli occhi. «Sei tornato».
Lui le carezzò una guancia, provato nell’essere. «In realtà, sono appena arrivato».
Lei sorrise. «Hai intenzione di restare?»
«No», rispose di getto, non aveva la forza di mentirle, «Torno al paese questo pomeriggio, ho il treno alle cinque», le lasciò una carezza sulla guancia, rattristato al pensiero di avere poche ore per godere della sua compagnia.
Notò la tristezza affiorarle negli occhi, ma seppe camuffarla e si riparò dietro un finto sorriso. «Approfittiamone, allora».
 
Trascorsero il tempo seduti su di un prato, il sole giocava a nascondino dietro le nuvole e l’aria fresca beava i loro pensieri. Jack raccontò del tempo trascorso in mare, delle esperienze esilaranti che avevano caratterizzato i suoi giorni e dei suoi compagni d’equipaggio. Meredith, al tempo stesso, aveva informato il ragazzo di tutto ciò che avesse imparato in quegli anni, ma badò bene di non nominare neppure una volta la sofferenza che aveva provato quando era tornata al porto, ogni giorno, quell’Estate, aspettando che la sua nave attraccasse.
Averla davanti agli occhi non gli sembrò vero. Quella mattina era finalmente tornato a casa, non aveva chiuso occhio quella notte, al pensiero di rivederla. Aveva scoperto da pettegolezzi di paese che fosse partita per la città ormai da autunno inoltrato e improvvisamente ricordò tutto: il motivo per il quale era partito, la distanza che li aveva separati, le decisioni per il futuro. Ricordò la paura che l’aveva colto impreparato e il vuoto nel petto quando aveva messo a fuoco ciò che oramai era impossibile da negare: Meredith era andata avanti, lui no.
Osservare la sua carnagione chiara, i suoi occhi scuri, il sorriso armonioso, furono tutti dettagli che gli ricordarono la ragazzina di un tempo, dal broncio pronto e dalla parola velenosa. Eppure, la luce che emanavano le sue pupille era divenuta la testimonianza dei suoi pensieri, ogni movenza, ogni parola che le usciva dalla bocca non era mai azzardata, bensì studiata e calibrata.
Era diventata una donna, a tutti gli effetti.
«Cosa mi nascondi?», le chiese, quando il silenzio divenne asfissiante.
«Perché pensi che ti nasconda qualcosa?», inarcò un sopracciglio e scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Jack notò che fossero più corti e meno ondulati rispetto ai suoi ricordi.
«Ti conosco», fu la risposta che le diede.
«Sono incredula, tutto qui», osservò i lineamenti dell’uomo che aveva di fronte, immaginò che in quei mesi d’assenza avesse conosciuto molta altra gente, sicuramente disponibile a trascorrere qualche minuto piacevole in compagnia.
«Che io sia qui?», domandò, amaro.
«Jack», sospirò, seccata «Non prenderla come un affronto. Sì, sono incredula di averti davanti. Ti ho aspettato tutta l’Estate, ho scoperto per pettegolezzo dove ti trovassi e non sono rimasta piacevolmente colpita dalla notizia, sai?», sapeva che prima o poi sarebbe tornata a galla quella storia.
«Non puoi farmene una colpa, non ti ho fatto alcuna promessa», ribatté Jack, le labbra serrate per evitare che parole poco cortesi uscissero senza il permesso.
Nonostante tutto, Meredith si risentì. «Sei stato molto vago, Jack. Mi hai suggerito di realizzarmi, ma non mi hai detto di dimenticarti».
«Ti ho detto di non aspettarmi», puntualizzò con stizza, «Mi è sembrato un messaggio molto chiaro».
«Non potevi chiedermelo», gracchiò l’altra, «Sapevi che ti avrei aspettato ugualmente».
«Non era un problema mio, a quel punto».
Meredith osservò quell’uomo dinanzi a sé  e immaginò che il mare avesse risucchiato anche quella briciola d’umanità che possedeva. Quelle parole continuavano a ferirla, come se un uragano inveisse contro di lei, per demolirla.
«Lo chiami problema?», fu talmente scossa che dovette alzarsi in piedi.
«Siediti», le suggerì, ma la ragazza lo ignorò.
«Tu chiami i miei sentimenti un problema, Jack?», sentì gli occhi inumidirsi, «Continui a mancarmi di rispetto: mi accusi di essere stata un’ingenua per averti aspettata, nonostante tutto; accusi i miei sentimenti di essere un peso nei tuoi confronti e poi sarei io a nasconderti qualcosa?», soffocò un gemito nella gola, la voce impastata.
Non lo lasciò parlare, mentre si alzava per sovrastarla.
«Sei tornato, prepotente e menefreghista. Hai invaso la mia vita, ora che iniziavo a riprendermi da te. Non puoi capirmi, non puoi affatto, Jack. Perché tu non sei me. E ti auguro di non esserlo mai», sprezzante, scansò lo sguardo di lui, sapendo di poter crollare da un momento all’altro.
«Ho tentato di starti lontano», scoppiò lui, afferrandola di spalle, «Non ce l’ho fatta».
«Sei un bugiardo!», esclamò la ragazza, in preda al panico, «Sei soltanto un insulso ragazzino bloccato nel corpo di un uomo che continua a pensare al suo futuro con pesci rossi e anguille attorno, una tavola da surf e una capanna di paglia sulla spiaggia. Quando aprirai gli occhi e capirai che nessuno è disposto ad aspettarti, Jack?», parole ricolme di risentimento le uscirono dalle labbra e si scansò, come se la sola vicinanza potesse corroderla.
Jack fu tempestato da una raffica di schiaffi invisibili, si sentì dolere le guance per quell’ammissione veritiera e dischiuse le labbra per replicare, ma nessuna parola gli uscì dalla gola.
Aveva sempre creduto che lei ci fosse stata per lui; nonostante tutto, sarebbe rimasta al suo fianco, l’avrebbe appoggiato e accolto come un porto sicuro. La realtà gli era stata sbattuta in faccia come una ventata d’aria gelida e sussultò, comprendendo ciò che con un soffio aveva sempre tentato di spiegargli: nulla era per sempre.
«E tu?», le agguantò il viso tra le mani e la guardò, con disperazione, «Tu non sei disposta ad aspettarmi?»
Meredith sentì il cuore cigolare.
Il ragazzo di cui tempo addietro si era invaghita era lì, sotto i suoi occhi, ad implorarla di tenerlo con sé, d’ospitare ancora l’amore che provava per lui senza accantonarlo. Le stava chiedendo asilo.
E il suo cuore non poteva rifiutare.
«Ti ho aspettato», mormorò, una lacrima a rigarle la guancia.
«Sono qui, adesso», soffiò, fronte contro fronte.
«Adesso, Jack, non è abbastanza», altre lacrime le solcarono il volto, «Non sarò io a dirti cosa fare, non di nuovo. Se pensi che la tua vita sia su quella nave, allora va’, cerca altrove la tua felicità».
Quella resa lo spiazzò, sentì il cuore diramarsi e soffrì silenziosamente per quell’abbandono. Doveva ammetterlo, doveva riconoscere che Meredith era divenuta l’unica sua ancora di salvezza.
«Ho delle faccende in sospeso con me stesso», era certo che non l’avrebbe capito, «Ti chiedo soltanto un anno, un altro anno», le lasciò una carezza sulla guancia e osservò quegli occhi dilatati dal terrore di dover attendere ancora.
«Prometto di tornare da te, in un modo o nell’altro», sfiorò le sue labbra con il pollice e rabbrividì, tentato di assaggiarle.
E lo fece.
Lasciò che il cuore dettasse le regole, il calore che gli avvolse la gabbia toracica fu immenso, le strinse il volto tra le dita tremanti e si aggrappò con disperazione alle porte del suo Paradiso.
I respiri s’incatenarono fino a divenire un tutt’uno. Meredith strinse le dita di Jack tra le sue e rimase appigliata a quel bacio disperato fino alla fine, fino a consumarsi con lui.
Sospirò, con rammarico, non appena lui demorse e lasciò la presa. Jack la osservò, attendendo una risposta che il cuore aveva già dato, ma che la bocca non riusciva a riportare. Troppo dolore, nei ricordi.
«Mi aspetterai?», mormorò, occhi negli occhi.
Mosse appena il capo, lei. «Un anno, non uno di più».
Lui le sorrise, le passò una mano sul viso e le regalò un bacio sulla fronte. E, mano nella mano, si diressero alla stazione che sovrastava alle loro spalle. Meredith osservò il treno fischiare in lontananza e una morsa allo stomaco le serrò persino il respiro. Strinse le dita di Jack con forza e non le lasciò andare, quando fu il turno di salire nella carrozza.
Jack costatò quanta sofferenza fosse riflessa nei suoi occhi e volle imprimerle i suoi sentimenti, con l’immane speranza che potesse custodirli nel suo cuore, anche per lui.
La baciò, con tenerezza, e Meredith chiuse gli occhi, abbandonandosi al dolore.
Non pronunciarono una sola sillaba, quando si separarono. Jack continuò a fissarla, pur salendo i gradini, pur attraversando il corridoio vetrato, pur quando s’issò verso il finestrino spalancato. Non fiatò, si limitò ad osservare la donna alla quale aveva affidato il compito di vegliare sul proprio cuore, con la promessa che sarebbe tornato a prenderlo.
Il treno fischiò per l’ultima volta, prima di muoversi sulle rotaie e prendere velocità. Meredith mosse istantaneamente un passo, poi un altro. Accompagnò il treno fino al varco, prima d’iniziare a correre, disperata.
Jack la osservava in silenzio, il  dolore che logorava la sua anima dall’interno.
«Non mi deludere, Jack», soffiò con voce innalzata, «Non di nuovo, non lo sopporterei».
Sentì il cuore sanguinare, piccole schegge di rimorso gli si conficcarono nella carne pulsante e gemette in silenzio. Assimilò la tristezza che traspariva da quegli occhi scuri e capì improvvisamente quale fosse la sua più grande fortuna.
Quella donna, ferita, illusa, martoriata, era lì, per lui.
«Non lo farò», le rispose quando la notò fermarsi, senza fiato, «Tornerò, in un modo o nell’altro!»
Quella fu l’ultima frase che le riservò.
Fu l’ultima volta che poterono guardarsi negli occhi con luci ricolme di speranza e timore.
Fu l’ultima volta che poterono illudersi, ancora una volta.
 

 ≈

 
 
Quella sera il vento soffiava impetuoso, i rami degli alberi davano l’idea di poter abbandonare gli arbusti e neppure un’anima si aggirava per le strade.
L’ospedale inaugurato da qualche anno spezzava l’oscurità che avvolgeva la cittadina, i pazienti riposavano nelle loro camere e i medici in servizio gironzolavano nei corridoi, per assicurarsi che nessuno avesse avuto la brillante idea di uscire in giardino, con quel tempo.
Una donna scrutava meticolosa una cartellina sotto il naso, una mano armata di caffè e l’altra tra i capelli, arruffati.
Meredith Benson non ricordava cosa significasse addormentarsi, da quando aveva iniziato il tirocinio presso il S. Patrick’s Hospital. Erano ormai ore che osservava le pareti monocolore dell’ospedale con la certezza che non avrebbe visto altro per il resto della sua vita e questo la spaventò.
Nonostante fosse una serata tranquilla, nonostante il lavoro arretrato fosse diminuito, la stanchezza le pesava come un enorme macigno sulle spalle. Sospirò, bevendo l’ultimo sorso di caffè, prima di scansare la cartellina e lanciare uno sguardo alla finestra. Si avvicinò, gettando un’occhiata in basso, laddove spiccava la fontana che decorava il giardino.
Osservò l’acqua ondulare al ritmo del vento e un ennesimo sospiro le uscì dalle labbra.
La quiete sembrava irreale persino nell’ospedale, tanto che Meredith si guardò attorno per cercare di capire cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
Non l’avrebbe mai immaginato.
In fondo al corridoio, un telefono suonò. Callie, la donna che in quel momento aveva sfilato il cartellino per potersene tornare dalla propria famiglia, lanciò un’occhiata annoiata in direzione di Meredith, ma, sapendo che non toccasse a quest’ultima, innalzò la cornetta e rispose con una voce gracchiante.
Si riprese immediatamente quando un colorito paonazzo le decorò il viso. Balbettò qualche consenso, prima di agganciare e digitare altri numeri.
«Nave in fiamme, ci sono feriti e dispersi!», ululò e diede le indicazioni sufficienti per inviare una squadra di medici sulla zona e una che si preparasse all’arrivo dei presunti feriti.
Meredith scattò in direzione della donna trafelata dalla notizia, non le permise di sgusciare via che la braccò.
«Cosa succede?»
«Una nave ha preso fuoco prima d’entrare nel porto», la informò, turbata, «Ci sono molti feriti e dispersi in acqua».
La mente di Meredith elaborò quelle parole e con orrore si ritrovò a sbarrare le pupille. Corse lungo le scale e raggiunse la squadra incaricata di raggiungere il posto, pur sapendo che non avrebbe potuto muovere dito, essendo il suo un tirocinio. Non le importava, non sarebbe stata neppure in grado di operare a mente lucida in realtà. Tutto quello che voleva era assicurarsi che non fosse quella nave e che non riguardasse lui.
Sapeva di doverlo dimenticare, sapeva d’essere stata illusa, di nuovo.
L’aveva atteso, anche quella volta, e lui nuovamente non si era presentato. Aveva preferito salpare ancora e ancora, anziché tornare da lei per mantenere la parola data. E lei aveva sofferto, di nuovo, pur sapendo di non doversi concedere simili lussi.
A distanza di tre anni, Meredith Benson non era stata in grado di sottomettere il cuore, aveva permesso che prendesse nuovamente il sopravvento sulla ragione.
E lo sentì spezzarsi, quando da lontano scorse i residui della nave che era stata avvolta dalle fiamme, pezzi di legno galleggiavano nell’acqua e qualche scialuppa si dirigeva verso il molo per far sbarcare i sopravvissuti. Meredith non poté costatare l’aria turbata dei presenti, poiché i suoi occhi vigilavano come sentinelle alla ricerca dell’unico volto che avrebbe realmente voluto vedere.
Lacrime e singhiozzi volteggiavano nell’aria, di cuori gettati nel panico. Qualcuno biascicò delle scuse insensate, qualcun altro gemette tra le braccia della moglie. Meredith osservò la divisa di un ragazzo, strappata in più punti, e sentì il cuore morire quando lesse il logo del marinaio.
Era quella nave.
E lui non c’era.
Con gambe tremanti, anziché gettarsi verso le scialuppe, percorse il molo con le ginocchia ridotte come due budini, i polmoni elemosinarono una tregua, ma non si arrestò. Scese i gradini che portavano alla spiaggia, una volta raggiunta, e percorse quel tratto con il cuore in gola, ogni affondo nella sabbia era una lama conficcata nel cuore. Scrutava in lontananza le fiamme affievolirsi e singhiozzò, colpita dalla brutale realtà.
Aveva escluso a priori il fatto che Jack non si trovasse su quella nave, per quanto sembrasse assurdo, era convinta che lui fosse lì, che il destino avesse nuovamente dirottato contro vento per infierire ulteriori sofferenze alle loro vite e nessuno le avrebbe dissolto quella sensazione. Continuò a correre, l’angoscia sovrana delle sue azioni, le labbra dischiuse e piegate in una morsa di dolore, gli occhi volti alla ricerca estenuante di quelle perle blu, come l’oceano.
Provò un moto di rabbia, la colse all’improvviso, senza spiegazione alcuna. Provò rabbia, contro il fato che perseverava nell’abbattersi sulla sua vita. Non aveva avuto il coraggio di dimenticarlo, ma, nonostante tutto, era riuscita a realizzarsi, come lui stesso aveva voluto. Aveva preso in mano le redini della propria vita e aveva raggiunto la destinazione che si era prefissata. E, come la volta precedente, uno tsunami in piena regola l’aveva travolta, aveva permesso al suo cuore d’affogare in quelle acque di disperazione e non se lo perdonò.
Provò odio, contro se stessa, per essere così vulnerabile al richiamo dell’amore.
Una lacrima percorse la sua guancia e le gambe si arrestarono di botto, quando gli occhi scorsero nell’acqua una sagoma arrampicata ad una stecca di legno. Si portò una mano sul cuore, in preda agli spasmi, e si avvicinò all’acqua, il camice le si inzuppò, ma non vi diede conto. Gli occhi ridotte a due fessure, osservavano quella sagoma che, nonostante tutto, tentava di aggrapparsi alla vita in ogni modo possibile. Agitava appena una mano, l’acqua testimone di quel gesto s’increspò appena, ma non gli permise di muoversi.
Meredith sentì lo stomaco contrarsi e, senza ragionare, proseguì fino a quando l’acqua non le arrivò alla gola. Gli abiti attutirono sulla sua pelle, il peso che si trascinava si amplificò e si morse un labbro per non singhiozzare, quando costatò che quella fosse una capigliatura castana.
In quel momento, da perfetta egoista soggiogata dall’amore, pregò Dio che non fosse Jack, che lui fosse approdato in un porto sicuro e che stesse trascorrendo la sua vita tra le braccia di una donna che avrebbe giostrato il suo futuro in una maniera impeccabile. Pregò, come mai fatto prima d’allora, sapendo di peccare secondo dopo secondo.
E Dio la punì.
Raggiunse quella sagoma con il cuore in gola, non riuscì a proferire parola e non appena la sua mano si poggiò su quel braccio ghiacciato, la sua pelle traditrice riconobbe per prima quel contatto.
Il cuore ci arrivò dopo.
Meredith scosse quell’uomo fino a che quest’ultimo non alzò il volto nella sua direzione. I loro occhi s’incrociarono e la ragazza sentì che la lucidità la stava abbandonando per permettere alle sensazioni di malessere di fiorire, per non lasciarla libera mai più.
Gemette e si tuffò sul volto di Jack, pallido e freddo come il ghiaccio.
«Non doveva andare così», soffiò lei, lacrime salate che copiose imperlavano il suo volto, «Non era così che saresti dovuto tornare».
Jack, affaticato, si reggeva su quell’asta di legno. Sapeva perfettamente che il proprio corpo avrebbe retto per poco alla temperatura dell’oceano, ma, nonostante tutto, si aggrappò con le unghie e con i denti alla sensazione di benessere che aveva provato nel rivederla.
«Te l’avevo detto, sirenetta», mormorò, prima che il petto fosse scosso da forti spasmi che lo portarono a tossire, «Sarei tornato, in un modo o nell’altro».
Quelle parole echeggiarono nella testa di Meredith, traditrici, sporche. Avrebbe dovuto immaginarlo, avrebbe dovuto capire che non promettessero nessun buon auspicio.
«Non era in pezzi che volevo tornassi, Jack!», afferrò il suo braccio e cominciò ad agitare  i piedi sott’acqua, per spingersi verso la riva.
L’uomo, affranto e stremato, non ebbe cuore di risponderle, nonostante sapesse che la sua Meredith fosse troppo ingenua, talvolta.
Osservò la tenacia di quella donna, la forza con la quale arpionava la speranza e la sofferenza dipinta nei suoi occhi che la spingeva a superarsi.
Non poteva donare a persona migliore il proprio amore.
La sentì tentennare, la vide stancarsi, ma mai fermarsi. Osservò con occhi socchiusi quella donna emanare una luce meravigliosa, una scintilla rivolta a salvare ciò che restava di loro.
Sentì la sabbia solleticargli il collo, non appena Meredith riuscì a raggiungere la riva. Lo trascinò, lo sostenne e si chinò al suo fianco, le sue dita sfiorarono il volto contratto di Jack, come a volersi imprimere nella mente ogni dettaglio di quella pelle spenta.
«Devi darmi una spiegazione, Jack», la voce rotta dall’emozione la rese irreale, «Non ti permetterò di lasciarmi di nuovo, non andrai via portando via con te tutti i segreti che nascondi».
Jack scosse appena il capo e le riservò un sorriso. Quanto poteva essere testarda la sua Meredith?
«Ho atteso, Jack. Ho atteso, anche quando la mente mi suggeriva di smetterla, di crescere. Sono cresciuta, senza averti accanto. Sono diventata questo, oggi, senza te. E non volevo. Ogni volta che mi sono guardata allo specchio, sai cosa ho pensato? ‘Mi manca qualcosa’. Continuavo a ripetermi d’essere soltanto una sciocca a pensarlo, eppure ogni sera, prima di addormentarmi, mi rispondevo che a mancarmi eri tu, che quell’attesa sarebbe finita prima o poi. Voglio essere libera, Jack. Sei come un veleno per me», gemette e si lasciò sfuggire un singhiozzo, mentre arpionava il cerca persone per chiedere aiuto.
Jack la bloccò, poggiò la mano sulla sua e scosse nuovamente la testa.
«Non ancora», biascicò con una luce negli occhi che Meredith non seppe decifrare.
«Non posso, Jack!», strillò in preda al panico, «Non chiedermi di vederti morire, non posso lasciarti andar via, non posso!»
Lacrime salate grondavano dai suoi occhi arrossati, Jack allungò una mano verso quel viso dolce e ne accarezzò la consistenza, sentì il cuore perdere qualche battito, non per la stanchezza, non per la debolezza, ma per l’incanto che osservava e che sapeva di aver avuto per tutto quel tempo, senza mai apprezzarlo.
«Voglio restituirti la libertà», mormorò, la voce impastata dall’acqua marina, «Voglio che tu vada avanti, hai bisogno di serenità, di stabilità e io non so dartela».
«Bugie», sibilò lei, il rancore elevato nel petto, «Sono tutte bugie, Jack. Tu hai paura, paura di crescere, di essere apprezzato e di apprezzare. Perché ti spaventa così tanto? Tutti hanno il diritto d’avere qualcuno accanto», soffiò, perdendo consistenza man mano che le parole uscivano di bocca.
Lui sorrise, di rimando. «Io ho avuto te», le lasciò una carezza sulla guancia deturpata dalle lacrime, «Sei tu a non aver avuto nessuno per tutto questo tempo».
Meredith fu colpita da quelle parole e l’effetto fu identico ad un pugno. Strabuzzò gli occhi, pronta a ribattere riguardo quell’assurdità, ma lasciò che fosse la mente questa volta ad elaborare il concetto, e non il cuore.
Il cuore singhiozzò, sanguinò. Meredith sentì gocce rosse avvolgerle il petto e si portò una mano a stringerlo, quasi volesse tamponare quella ferita che si allargava sempre più, man mano che la verità affiorava dentro di lei.
«Lascia che sia io a fare qualcosa per te, questa volta», gli occhi di Jack la perlustravano, avevano quasi timore di romperla per quanto gli sembrasse fragile, «Non dovrai più aspettarmi, Meredith. Non dovrai più vederti incompleta, troverai qualcuno che sappia colmare quel vuoto e che riesca a farti sentire apprezzata, come io non sono riuscito a fare».
La gola gli bruciò per quanto avesse parlato, sapeva di sforzarsi, ma non rimpianse una sola parola che le aveva dedicato. Doveva capire, doveva lasciarsi alle spalle il passato per permettere al suo futuro di brillare. E Jack, amaramente, aveva capito di non poter mai diventare quella luce, sarebbe appartenuto sempre al passato, come le spine di una rosa essiccata.
Meredith scuoteva il capo, singhiozzava, stringeva le sue mani con gelosia, con possesso. Si chinava su di lui e soffocava il respiro sul suo petto. Jack la strinse a sé, imprimendo il calore che soltanto quel corpo riusciva a regalargli.
«Mi hai salvato, sirenetta», le soffiò all’orecchio.
«Di nuovo», mormorò lei, la voce contratta dalla disperazione.
«Sei sempre stata tu il mio porto sicuro, Meredith. Avrei dovuto investire su di te per concretizzare un futuro, avrei dovuto apprezzare l’amore che mi regalavi soltanto guardandomi, ma sono fuggito pur di non affrontare la realtà», tossì, colpito da un forte spasmo.
Meredith s’illuminò e chiese aiuto col cerca-persone, il cuore in tumulto e gli occhi rossi.
«Mi hai salvato da me stesso», le sussurrò, gli occhi lucidi e un sorriso sulle labbra, «E te ne sono grato, te ne sarò sempre grato».
«Non puoi arrenderti, tu non lo fai mai», biascicò accecata dal dolore, «Hai sempre combattuto, Jack. Non lasciarmi sola, sei l’unica persona che per me conti qualcosa», lo implorò, le labbra umettate dalle lacrime che bagnavano ininterrottamente la sua pelle diafana.
Jack sussultò per quella dichiarazione, la strinse forte a sé e ispirò il profumo dei suoi capelli, ricordando quanto amasse farlo, in passato, dove tutto era stato più semplice, quando il futuro restava soltanto una grande nuvola sulle loro teste, in attesa di sopraggiungere.
Jack era scappato, col timore di non esserne all’altezza, all’altezza delle aspettative di lei, all’altezza dell’amore che gli aveva riservato. Ed era stato così sciocco, da rendersene conto soltanto in quel momento, con il battito lieve e la sua vita tra le braccia.
Non si curò delle luci alle sue spalle, né della squadra di medici che correva nella loro direzione. Osservò per l’ultima volta quel viso ricolmo d’amore e le lasciò un bacio amaro sulle labbra.
«Non aspettarmi più, Meredith. Ti chiedo soltanto di non dimenticarmi, se puoi», seppe di contraddirsi in quell’istante, non era il buio a spaventarlo, ma sapere di essere andato via ed essere accantonato per sempre.
Meredith avrebbe avuto la sua vita, avrebbe avuto ciò che meritava di avere, ma avrebbe conservato quella spina in un cassetto del suo cuore, per sanguinare quando ne avrebbe avuto bisogno.
Si guardarono negli occhi un’ultima volta, un’attesa sconfinante e miriadi di parole diffuse nell’aria con la sola forza dello sguardo. Non si dichiararono amore, non avevano mai avuto il bisogno di farlo, ma Jack glielo sussurrò con un bacio, un ultimo bacio, prima che la sua mano scivolasse via per raggiungere l’oscurità.
 

*

Tutto ciò che il mare sequestra, riporta alla luce. E, così come restituisce, in cambio qualcosa ottiene.
Il mare le aveva strappato l’unica cosa che le avesse donato, l’unica che il cuore aveva imparato a conoscere, ad apprezzare, ad amare.
Meredith aveva conosciuto l’amore e l’aveva conservato gelosamente, sapendo che prima o poi le sarebbe servito da insegnamento.
Jack aveva insinuato che fosse stata Meredith ad averlo salvato da se stesso; eppure, in quel momento, si sentì in dovere di ringraziarlo, di rivolgere a lui un’immensa gratitudine per aver capito cosa significasse l’amore, nonostante tutto.
Ogni mattina guardava la propria immagine allo specchio e non vedeva più un’ombra solitaria, in attesa. Vedeva una donna, in tutto e per tutto. Quel vuoto, quella mancanza, era stata colmata nel momento in cui aveva capito che la felicità non doveva essere rincorsa per perseverare, ma che doveva essere apprezzata in quello sprazzo che la caratterizzava. Doveva essere colta, per poi essere custodita. Così come l’amore.
Jack aveva trascorso una vita intera ad inseguire le orme di qualcun altro, aveva assaporato le ingiustizie e ne aveva fatto tesoro, si era aggrappato alla speranza di poter rivendicare il proprio padre, portare avanti la sua passione per dimostrare quanto grande fosse il suo cuore.
Meredith aveva mantenuto la promessa.
La sua vita aveva intrapreso un cammino ben delineato, dove la presenza di Jack era costante. Nel suo cuore, aveva intrappolato tutti i loro ricordi, era lì il loro posto.
Si alzò in piedi e osservò la sporgenza dalla felpa. Carezzò la pancia, con un sorriso sulle labbra. Era certa che Jack, ovunque fosse, la stava osservando e sorrideva, proprio come lei, per aver mantenuto la promessa.
Si avvicinò alla riva, la schiuma del mare le bagnò i piedi e sospirò, stringendo tra le dita quella catenina in argento che aveva assistito al progresso della sua vita.
Giungeva al termine il suo percorso.
Meredith voleva che tornasse da dov’era venuta, voleva ingenuamente liberarla dalla sorte in cui era stata imprigionata, in modo che entrambi avessero un peso in meno sul cuore.
Baciò il ciondolo, il colore della pietra le ricordò gli occhi di Jack e le si inumidirono gli occhi. Si fece coraggio e, ruotando il braccio, lanciò la catena verso l’orizzonte. La vide cascare nell’acqua, portando con sé la scia dei loro ricordi e delle loro emozioni.
Una lacrima le scivolò lungo la guancia, sentendo un senso di pace avvolgerle il cuore.
Sei libero, Jack.
E con te, adesso, lo sono anch’io.
Fa’ qualcosa per me, però: aspettami, come ho fatto io.

 

 

 

E se senti la fiamma dell’amore stanotte
E tu sei troppo debole per portare questo fuoco,
Scompari.
Sarò qui nelle notti a venire, ti aspetterò.


 

The End.
 

NdA finali:
Questa storia mi ha condotta al terzo posto di un contest valutato da  _Calypso_ e devo ammettere d’essere rimasta piacevolmente colpita dal risultato. Ho scritto questa storia in due giorni, un po’ per la foga dell’idea, un po’ perché il termine del contest era vicino. Tutto sommato, ciò che ne è uscito fuori, mi è piaciuto molto e mi auguro che possa essere piaciuto anche a chi abbia posato uno sguardo!
La vena drammatica è presente, anche perché il contest era a base drammatica, ma ho cercato d’inserire anche altri fattori.
So che questo non è affatto il momento adatto, in quanto siamo a Natale e a nessuno piacerebbe deprimersi, o almeno a me non piacerebbe, per cui mi scuso per il tempismo fuori luogo, ma ciò nonostante auguro un felice Natale e, in tal caso, un buon inizio anno a chiunque voglia essere così temerario da leggere.
Ricordo il mio link del Gruppo Facebook, per chi fosse interessato.
Ancora tanti auguri (:

 

 
 
 
   
 
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