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Autore: Kuroi    27/12/2011    4 recensioni
Viaggiare in treno non è cosa facile.
E se i ricordi ti abbracciano, pungolandoti, non c'è più scampo.
Regalo per la Nau adorata
e piccolissimo grazie a Fed e al Senpai.
Genere: Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I-n-t-e-r-r-o-t-t-o

 

Mi colse l’ira, sul treno del ritorno. 

Viaggiavo da ore, eppure il tempo volava a singhiozzi, come strozzato.
Mi ritrovai a calciare contro una porta vetrosa e sporca, di quelle che dividono gli scompartimenti polverosi e maleodoranti come un pugno sulla coscia. 

Un uomo che mi era vicino odorava di birra. Aveva appena collassato in una busta e la bottiglia vuota galleggiava in quello schifo.
La donna di fronte a me, invece, non smetteva di cucire. Non smise neanche per un attimo! Incredibilmente disorganica! Sferruzzava da ore, col suo uncinetto, e non si accorse neanche del momento in cui io e il tipo del posto dietro le versammo dell’acqua sulla faccia.

Continuava, continuava, e noi le ridevamo davanti senza tanti timori. 

Eppure dopo che l’ubriaco vomitò di nuovo come un vulcano in eruzione e la donna che cuciva cominciò ad utilizzare l’uncinetto per pulirsi i denti, iniziai a trovare tutto noioso. Anche perché il tipo del posto dietro si era immerso in un giornale di cronaca nera e non ne usciva più. 

Che cazzo avrà avuto da leggere poi… 

A me non l’aveva insegnato nessuno, ma ero sempre stato convinto che non fosse una gran cosa.

Mi avevano detto che mi avrebbe permesso di conoscere, ma nel conoscere non avevo mai visto nulla di buono. Mia madre era stata felice fino al momento in cui non aveva saputo che mio padre la tradiva con la posteggiatrice della sua azienda malconcia. E fui l’unico sostenitore del fatto che mio zio si fosse suicidato perché capiva troppo rispetto a noi.

Presa la borsa, mi affacciai dal finestrino. 

–Patafran !

Finii di sotto.

Mi ero ristretto un po’, notai che avevo le gambe nel taschino.

Eppure appena toccai terra:

–Pof !

Ritornai normale.

Iniziai a rotolare, senza saperne il perché. Iniziai a rotolare, con i fiori tra i capelli sporchi di viaggio in treno e la polvere che mi finiva nei calzini. Una strana melodia russa invase i miei polmoni e a stento riuscii a tirar fuori dal naso qualche nota. Ne fui contento, perché stavo rischiando grosso.

Smisi di rotolare e ringraziai una lepre, che mi si parò innanzi. Ma la sua risposta non fu affatto carina: arrivò ad utilizzare strani sberleffi che non conoscevo, nonostante sapessi con certezza quanto fossero agghiaccianti ed oltraggiosi. Ci rimasi male! Accidenti, se ci rimasi male. Avevo riposto la mia momentanea fiducia in lei ed invece ero stato tradito. Tradito! Ancora? 

Alzai lo sguardo e mi resi conto di quanto fossi malridotto. Constatai d’esser in un bel luogo, nonostante la luce iniziasse a scarseggiare. 

Quella in cui mi ritrovai era una stradina di campagna, poco frequentata. In lontananza vidi una casa allegra e illuminata e da essa la gente usciva tenendosi stretta ad un compagno, ad un amico, ad una donna. Incontri fortuiti o intenzionali - non so. 

Mi incamminai, fiero della certezza di essere l’unico a non barcollare lì in mezzo. Avevo un andamento leggermente zigzagante, è vero, ma non era colpa dell’alcol, quanto invece di una strana pasticca che quel tipo del posto dietro mi aveva infilato nell’orecchio poco prima.

 Mi affacciai, e nessuno mi notò.

Fin qui nulla di strano, ero abituato. 

Poi giunse una ragazza, giovane abbastanza, che mi tirò con sé e mi introdusse in quel baccano assordante. Entrai attraverso una porticina raffinata e fui ben presto nella grande stanza da festa, dove tutti erano ammassati come rari funghi porcini in una mostra. 

La ragazza bella rise del mio volto contratto dal rumore spacca timpani, rise del mio aspetto dimesso e poco articolato, rise di una gioia che era solo sua e che non proveniva da me.

Ballai per ore insieme a lei, ed ogni volta che mi si avvicinava respiravo un po’, solo un po’, ed il cronometro della mia vita iniziava a contare i secondi del mio esistere. 

Interrotto.

Ecco cos’ero. 

Mi muovevo come scandagliato da una moviola, i movimenti lenti in maniera esacerbante e le parole dilatate.
Vedevo in quella ragazza un sorriso così bello ed impudico che smisi di chiedermi cosa ne sarebbe stato di me. Mi cullai in quella danza assurdamente frenetica e spinsi la testa indietro, come per trovare il mio spazio. Poi s’affacciò un ricordo triste. 

[I miei provarono ad internarmi, anni fa, sotto mia richiesta. 
Ma il fatto ch’io sapessi il mio male mi costringeva fuori da ogni clinica e tutti mi chiamarono Zeno da quel dì in poi.]

 Ballavo, ballavo, e rivedevo quei pochi attimi che avevano fatto di me un  giovane di trent’anni e niente sogni. 

[Una suora che all’asilo mi picchiava, mia madre che piangeva e mi abbracciava –lei conosceva il mio dolore. 
Vidi anche l’amore della mia infanzia. 
Era una bella bambina, ma poi non le piacqui più perché piuttosto che giocare a calcio 
preferivo starla a guardare ed ammirare quei capelli che la rendevano una dea ai miei occhi.]
 

Ballavamo, ballavamo, e non c’era niente di più bello!  La sua carne nuda sfiorò il mio  braccio e mi sentii rinascere. Era tempo che non avevo contatto con nessuno. E non parlo solo di sesso, nossignori, parlo di sfiorarsi le guance per un saluto formale, o abbracciarsi se la propria squadra fa goal, o stringersi la mano alla fine di un patto d’acciaio.

Niente, non avevo avuto niente di tutto questo da troppi lustri torridi di noia. 

Mentre la musica si faceva sincopata, mi sorrise maliziosa ed i boccoli neri le ricaddero sulle guance. Aveva un vestito bordeaux ed una stola nera a serrarle le spalle. Fece una giravolta per mostrarmi come la sua gonna fosse prodigiosa e mi portò via da quel fracasso. 

Ne fui sorpreso. Non so cosa le potesse piacere di me. Non so tuttora cosa vide oltre quegli abiti schifosi e la barba incolta, raccolta sul volto in maniera sparuta. Non so cosa notò nei miei occhi affusolati di uggia, né cosa provò nello stringere le mie mani magre e finte. 

Iniziò a spogliarmi, piano piano.

Eravamo fuori da quel casolare e qualche strascico di musica ci rincorreva ancora.

Vidi uscire due uomini in tuta, che bevevano ancora sottobraccio e piangevano disperati, le guance gridavano dolore per loro. Dovevamo andare nell’altro continente per trovare lavoro, ma uno si sarebbe diretto ad est, l’altro ad ovest.
Assurda separazione, nella quale non avrebbero mai creduto!
Avevano condiviso anni e storie e case e passioni e lavoro e fiori e campi e passeggiate e confidenze.

Dovevano dimenticare tutto per poter continuare a vivere.

 E dietro di loro passeggiavano due ragazzine, con una scarpa sola per quattro piedi tremanti. Se la contendevano al soldo di qualche bacio sulla fronte e le loro risate da oche trillarono nel mio petto. Inneggiarono d’un tratto vecchie rime di marinai e sostarono per un po’ nel cielo dei loro sogni infranti. 

Ella rivolle l’attenzione tutta per sé. Non capii cosa volesse da un obbrobrio come me sino a quando non infilò le sue mani stupende nei miei pantaloni troppo larghi ed iniziò a carezzarmi lascivamente, senza mai giungere nel punto focale. Preso dal desiderio animalesco, dimentico degli affanni e dell’angoscia, eclissai i miei sogni.

Continuai però a chiedermi come una perla del genere potesse rotolare su una bestia così scissa quale ero io.

Riuscì a spogliarmi, ma, preso dalle mie elucubrazioni senza soluzione, non me ne accorsi.

Ella si spogliò, capì che nonostante l’offuscamento non l’avrei mai fatto per lei. Mai mi sarei permesso! Mi sentivo al cospetto di una dea, di nuovo, come già mi era accaduto, ed i suoi capelli solleticavano le mie spalle raggrinzite.
Iniziò a baciarmi il collo, l’addome, il basso ventre, senza mai violare qualche zona proibita. Con le mani cingeva i miei fianchi, e li accarezzava, su e giù.
Io chiudevo gli occhi, ma spesso li aprivo di scatto quando ella giungeva in zone perifericamente pericolose. Ad un tratto si fermò. E mi guardò, le mani ai fianchi.

La fissai incredulo e deluso. Amare una donna. Non ne ero in grado. 

[Mia moglie mi aveva fatto fuggire di casa a suon di sberle e dal quel giorno passai la ma esistenza su una panchina in Via Borromini, 
in attesa che qualcuno si sedesse accanto a me. 
Davo da mangiare ai cani dell’ingegner Balli, sempre abbandonati nel giardino sfarzoso 
e liberi di scappare da quella casa-prigione a causa del bel cancello dimenticato aperto. 
Qualche prostituta mi si avvicinava,convinta che fossi un artista,  
ma mi ripromisi che mai più avrei toccato una donna, 
perché esse sono dee e streghe e noi uomini, oh! 
Ci si fa abbindolare così facilmente! Provo vergogna per la nostra puerilità.]

 

E mentre il passato tornò ancora una volta a schiantarmisi dentro, ella non ebbe problemi nell’avvicinarsi ed aderire a quel palo secco ch’ero ormai. Prese le mie mani e fece in modo ch’io l’abbracciassi. La sentii pulsare sotto di me e mi inebriai del suo calore così matto e giovane che inspirai profondamente. I suoi capelli odoravano d’ebano e sale, mentre le sue mani erano fredde e setose, e le unghie mi graffiavano appena la schiena stanca. Percepii le labbra roventi sulla mia mascella e la gamba destra percorrere la mia, con sottile licenziosità. 

Provavo una sensazione bislacca, stavo perdendo il controllo di me. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti e sognai di scivolare per una discesa d’acqua, alzando le mani al cielo e gridando come un forsennato.

Nel frattempo ella iniziò a baciare tutto il mio corpo, senza tralasciare nulla. Mi sentivo poco romanticamente percorso da una lumaca ed il contatto con l’aria fresca mi fece trasalire. Mi accarezzò i capelli e percorse col dito i tratti del mio volto. 

Mi sorrise.

Era un  sorriso bello, di quelli con tutti i denti in mostra, le fossette ai lati delle guance, gli occhi che si riducono a due fessure giocose.

 

Iniziai.

Ad.

Urlare.

 

Non potevo sopportare tutto questo , non potevo esser vittima della sua bella attenzione, della sua carne stupenda, delle sue mani lisce e al sapore di cannella. Non potevo meritare quei giochi di eros, quando thanatos era parte di me. Non potevo permetterle di amarmi, neanche per quella notte, non potevo farla mia, entrare in lei, e poi dimenticare. Non potevo affogare i gemiti nella sua chioma corvina. Non potevo stringerla forte e portarla via con me, non potevo soffocare la mia rabbia nella passione. 

Urlavo, forte. Come se non avessi mai fatto altro in vita mia. Urlavo come un folle ossessionato dal dolore, come il buono che passa la vita ad accondiscendere il prossimo e d’improvviso scoppia. 

Bum! 

Ero scoppiato, come un palloncino bucato, gonfio d’aria torbida e malsana. Urlavo ed ella mi sorrideva. Rividi la bimba che amavo da piccino in quegli occhi grigi e strampalati, rividi le corse per l’altalena più  bella e le costruzioni meno usate e i soldatini con le armi da duri.

Ella continuava a sorridere, con intensità vigorosa e dolcezza autentica. Quella limpidezza, quella spontaneità mi fecero male, come una camera sterile. È come se si tentasse di ripulire l’aria di una metropoli… Il contatto con l’ossigeno puro mi stava dilaniando il petto. 

Ed io urlavo ed ella sorrideva, ed io strepitavo ed ella sorrideva, ed io farneticavo ed ella sorrideva. Stavo immobile, e si rivestiva, stavo immobile e prese a giocare col mio corpo, di nuovo, incurante. Era di nuovo nel suo abito e nel suo scialle. Io, nudo dinanzi a lei, urlavo e stavo immobile, il mio volto divenuto ormai una pozza rossa e sudaticcia.

Mi strinse forte e sussurrò una frase dolce che non ricordo.

Era ardente, era provocante.

Ed io facevo ribrezzo. 

Patafran!

Venni di nuovo risucchiato nel vortice e la melodia russa aiutò i miei arti a ricoprirmi con gli stracci di prima. La musica riprese ad invadere i polmoni e stavolta giunse fino alle tempie. Avevo di nuovo le gambe nel taschino e scivolavo su una tragedia avvizzita e sul viale di un suicida. Le mie gambe seguivano il ritmo della soavità cosacca e le mie mani fingevano di strimpellare una tastiera di vimini.
 

Pof!

Tornai normale ed ero sul treno.

Il tipo del posto dietro posò il giornale e mi si avvicinò.

«Ho finito di leggere la mia amabile cronaca nera. Riprendiamo le nostre facezie.»

Ne fui felice come se mi avessero detto che il paese del balocchi non è una finzione per bimbi cattivi, ma il premio per tutti - indistintamente.

Risi con lui, per una buona mezz’ora. Ci davamo pacche sulle spalle come vecchi compagni di servizio militare, scostavamo la busta colma di vomito dell’ubriaco dormiente, salutavamo gli steli d’erba dal finestrino.
Corremmo festosi al bagno e riempimmo un vecchio secchio azzurro di acqua limpida, per innaffiare di nuovo quella donna che cuciva.

Usciti dal bagno, la trovammo impiccata fra i suoi stessi filamenti.
Ci guardava, feroce, con l’uncinetto fra i denti penzolanti.

Ghignò.

Cercai di scendere immediatamente.

Le porte erano serrate con strani drappi di piombo, laccati d’oro.

Strinsi il tipo del posto dietro per contrappasso. E si sbriciolò fra le mie braccia.


  
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