Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: lady hawke    30/12/2011    2 recensioni
Marco Furio Camillo è dittatore da poco tempo, ma sa che poco gliene resta per conquistare l'irriducibile Veio, nemica dei Romani. L'assedio fallisce, gli auguri chiedono tempo. L'ultima scelta possibile è invocare direttamente la Dea Giunone, madre degli Dei, sacra per Roma e protrettrice di Veio
Questa storia partecipa al Giro dell'Oca di Writers Arena Rewind
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me. Erano anni che volevo scrivere una storia di questo tipo; più o meno da quando ho letto sul manuale di storia romana che la leggenda vuole che Camillo abbia patteggiato con Giunone la vittoria su Veio in cambio di un tempio, lol. Mi sono documentata qua e là, ma non garantisco perfettissima attinenza storica. Nel caso abbiate pietà, è pur sempre una leggenda. Storia partecipante al giro dell'Oca di Writers arena rewind


Citazione (da "Un eroe del nostro tempo", di M. J. Lermontov): Amo i nemici, sebbene non in modo cristiano. Essi mi procurano dello svago, mi agitano il sangue. Stare sempre in guardia, afferrare ogni sguardo, il significato di ogni parola, indovinare le intenzioni, mandare all'aria i complotti, fingersi ingannato e poi d'un colpo rovesciare tutto l'immenso e complicato edificio di astuzie e trame, ecco ciò che io chiamo vivere. //


Marco Furio Camillo cominciava a comprendere veramente il suo ruolo di dittatore solo in quel momento: era il capo supremo delle forze armate, l’uomo del momento, ovvero quello a cui si richiedeva la sconfitta decisiva contro l’eterna nemica, Veio. Ricopriva quel ruolo già da due mesi, e non molti gliene sarebbero rimasti per portare a compimento la guerra. Vincere o regalare la propria testa in pegno al senato, in attesa di nuovi consoli, o di un nuovo dittatore. Le alte mura di tufo rendevano difficile la battaglia, e l’assedio stava consumando le truppe. La stagione avanzava, e con essa il caldo. Armature, lunghe attese e sole a picco sulla nuca non erano buoni ingredienti, e Camillo lo sapeva.
Rispettava i suoi nemici, lo aveva sempre fatto. I veienti erano ottimi soldati, e c’era del vero onore a battersi con loro. Eppure l’assedio era ad un punto morto, le sue legioni sfiduciate, lui stesso frustrato: non faceva che fissare quei blocchi porosi, sperando di scioglierli con lo sguardo. Da giorni, ormai, non si verificavano battaglie; i gladi erano stati rinfoderati. Auguri e vaticini venivano chiesti in continuazione, Dei e spiriti venivano disturbati, pregati, interrogati sia da Romani che da Etruschi. Marco Furio Camillo, lo diceva il suo stesso nome, sapeva pazientare, ma l’attesa lo stava consumando e aveva bisogno di agire. L’ultima volta che aveva chiesto il parere di un sacerdote di Marte, questi gli aveva risposto che avrebbe dovuto aspettare la luna nuova, per avere un giorno propizio all’assalto, ma avrebbe significato attendere altri dodici giorni.
Gli Dei non avevano fretta; lui, invece sì.
Uscì dalla sua tenda con aria corrucciata: era quasi mezzogiorno, l’aria era soffocante. Scorse uno degli hastati entrare nel suo campo visivo mentre attraversava l’accampamento, e lo chiamò: - Valerio!
Il soldato, un giovane sui diciassette anni, accaldato e quasi schiacciato dal peso della sua armatura, si precipitò verso di lui.
- Ai suoi ordini, comandante. – si mise ritto davanti al suo superiore, come gli era stato insegnato.
- Fammi avere una capra bianca, subito.
- Comandante? – il giovane soldato era perplesso. – Tito e gli altri sacerdoti non hanno fatto i sacrifici ieri e non è necessario farne altr…
- Valerio, subito! – il dittatore ne aveva abbastanza dell’opinione di uomini incapaci di reggere una spada.
- Sì, comandante. – Valerio chinò la testa e si allontanò in direzione del recinto di animali che tenevano per i sacrifici e per la provvigione delle truppe. Roma era molto generosa, con questo tipo di rifornimenti.
Il soldato Valerio tornò poco dopo con l’animale richiesto, porse al dittatore la corda con cui aveva legato la capra e si dileguò quanto prima: non era certo che agli Dei sarebbe piaciuta un’idea simile, e non voleva imbattersi nelle loro ire, diventando il primo a morire al prossimo assalto.
Camillo, rimasto solo con l’animale, uscì dall’accampamento, cercando di non farsi notare: operazione non difficile, la truppa bighellonava senza scopo e non si aspettava di entrare in azione in tempi brevi. Non aveva intenzione di usare le are dell’accampamento, perché a quel punto non sarebbe stato lasciato in pace. Cercava silenzio e tranquillità, e solo nel bosco poco lontano avrebbe saputo trovarla. Non appena si trovò in mezzo a lecci e frassini cercò una roccia abbastanza ampia perché potesse assolvere alle funzioni di altare. Ci mise un po’, ma le fronde degli alberi rendevano i raggi del sole meno violenti.
Quando si rese conto di aver trovato un blocco di pietra abbastanza grande sospirò: nessun sacerdote, nessun rituale, nessuna invocazione particolare. Questo era il genere di cose per cui gli dei sterminavano città, eppure qualcosa andava fatto.
Prese in braccio la capra e la mise sopra al masso; tenendola ferma con una mano, estrasse il gladio dal suo fodero e con un movimento molto rapido sventrò l’animale. Questo gemette, scalciò e cercò in tutti i modi di liberarsi, ma il sangue fluiva copioso dalla sua ferita, inondando pietra e terreno sottostante. La presa del dittatore era ben salda e alla bestia non restò che gemere fino a che non gliene mancarono le forze.
Con le mani e il gladio zuppi di sangue, Camillo estrasse fegato, cuore e polmoni dalla capra, controllò che fossero intatti e li infilò su uno spiedo ricavato da un ramo di frassino. Con alcune sterpaglie secche preparò e accese un piccolo fuoco su cui pose lo gli organi infilzati: il resto della carcassa rimase sul masso, inerme. Le mosche vi si avventarono subito sopra, ma l’uomo non se ne curò, i suoi pensieri erano altrove. In breve tempo, il fumo e l’aroma della carne sulla fiamma si sparsero nell’aria, e Furio Camillo inspirò a pieni polmoni, pensando intensamente alla Dea Giunone, e alle sue terribili vendette.
Non aveva pensato a come si sarebbe manifestata la Dea, e non era nemmeno del tutto certo che si sarebbe mostrata, ma quando la vide, lo spettacolo fu tremendo.
Comparvero per primi gli occhi: enormi, neri, cupissimi. Lo sguardo che si posò su di lui gli mozzò il fiato, perché ebbe l’impressione che riuscisse a penetrare nei più profondi recessi della sua anima. La Dea sbattè gli occhi, e la sua figura fu visibile per intero, sopra l’altare improvvisato. Era bellissima e spaventosa, a stento Camillo riuscì a distogliere il suo sguardo da quegli occhi intensi e penetranti per posarsi sul resto della figura: i capelli raccolti, la splendida corona in oro sul capo, il velo e la veste blu e luminescente come il manto di un pavone.
- Ave Regina degli Dei. – Camillo abbassò il capo, e sentì lo sguardo della Dea posarsi sulla sua nuca con una violenza tale da ricordagli delle lame nemiche.
Giunone non aprì bocca, ma la sua voce divina, potente e vibrante, attraversò la mentre del dittatore. Non pareva affatto contenta di essere lì.
A quali trucchi scende l’uomo per invocare una Dea. Dov’è il sacerdote, dove sono gli auguri, Marco Furio Camillo?
L’uomo deglutì, incerto. Era paralizzato dalla magnificenza dell’apparizione e consapevole che la Dea davanti a lui gli era incredibilmente ostile e nemica. Abituata a templi e grandi cerimonie, si ritrovava evocata in un bosco sopra una carcassa assalita da mosche.
Conscio di questo, Camillo capì di stare per intraprendere la più difficile delle sue battaglie, e per questa ragione sentì l’eccitazione crescere in lui: il fascino di Giunone e la sua vendetta potevano sconfiggerlo ed ucciderlo, ma se avesse giocato bene la partita il risultato sarebbe stato inimmaginabile.
- Il tempo dei sacerdoti e degli auguri è finito, mia Regina.
Ed è così che tu, soldato sacrilego e spergiuro, intendi evocare gli Dei, d’ora in poi?
- Nell’ora del bisogno, sì, mia Regina.
Gli occhi di Giunone furono attraversati da un lampo di rabbia, ma niente accadde a Camillo.
Perché mi trovo qui, in mezzo alle sterpaglie? Quale urgenza costringe il dittatore dei Romani a questo empio gesto?
Ogni parola che usciva dalla mente di Giunone per entrare in quella di Camillo sprizzava odio, ira e una condanna certa all’Averno per il mortale. Avrebbe combattuto armato solo della sua parola e non del suo gladio per sé, il suo esercito e Roma.
- Roma ha bisogno della sua sovrana, ora più che mai. Siete colei che viene invocata senza sosta da molti.
La Dea era muta, ma lo sguardo era sempre fisso e penetrante; quasi insopportabile alla vista e impossibile da sostenere, ma bellissimo.
- Senza di voi, ormai, siamo perduti. – proseguì l’uomo. Giunone era vanitosa, si diceva amasse le lusinghe: se era questo che voleva gliel’avrebbe dato.
Conosco le invocazioni, soldato. Non ho più riposo da tempo, i tuoi sacerdoti non fanno che chiedere. Che cosa vuoi tu, mortale?
Furio Camillo fece un profondo respiro. – Sconfiggere Veio, l’eterna nemica. – rispose. – Lunghe le battaglie, lunghi gli assedi, e ormai è chiaro che quelle mura di tufo sono impenetrabili per noi. Le truppe sono sfiancate, gli Dei paiono non ascoltare. Se Veio vince Roma rischia la morte.
Alla parola Veio, gli occhi della Dea lampeggiarono: Giunone stessa veniva pregata e invocata nella città etrusca, di cui lei era la protettrice.
Le guerre sono sempre incerte, dittatore. Non sempre si è dalla parte di colui che può vincere.
- Eppure, mia splendida Regina, non potrete a lungo proteggere Veio ed amare Roma. Una sola vivrà.
Una folata di vento scosse l’uomo e la boscaglia, Giunone era furiosa.
Quale mortale osa imporre agli Dei una scelta? Giunone protegge chi l’ama, protegge chi la invoca, non chi è spergiuro.
Marco Furio Camillo si inchinò sull’erba, volgendo lo sguardo al terreno.
- Vostra è la scelta, nessuno ha diritto di imporre nulla alla Regina degli Dei, perché voi sola avete il potere di far vivere o meno. Quello che io in nome dei romani invoco e chiedo, è salvezza, vittoria e protezione. Nessuno, a Veio, potrà amarvi e servirvi come un romano fa. Siete la nostra madre, non la madre dei veienti.
La Dea rimase per un po’ in silenzio, come se pensasse a cosa fare; il vento faceva ondeggiare la sua veste iridescente.
Ogni città nasce e muore, soldato, ogni città ha il suo tempo. Quello che voi chiedete è accelerare la fine di una perché l’altra cresca forte. Niente viene fatto per niente, mortale.
Camillo lo sapeva. Disturbare gli Dei era pericoloso, costoso e a volte letale. Nonostante ciò era riuscito a intravedere uno spiraglio: Giunone era curiosa, offriva uno scambio. Veio, forse, non era più così amata, e la sua sorte segnata già chissà dove sul libro del destino.
- Per Veio, mia Regina, cosa chiedete? Quale prezzo per abbandonare la vostra città amica?
Veio cadrà comunque, dittatore. Per mano vostra o di un altro.
- Ma io ho giurato al senato, mia Regina, che gliel’avrei consegnata di mio pugno, è un dovere, il mio.
Dovere o vanagloria, Furio Camillo?
- Dovere, mia Regina. Evocandovi in questo luogo non avrò di certo glorie negli Inferi e la vanagloria cerca i Campi Elisi. – non mentiva. Nessuna ricompensa l’avrebbe ripagato come la caccia, la lotta, la frenesia della guerra del misurarsi con un nemico, mortale o celeste che fosse.
Giunone intanto pareva soddisfatta delle parole del mortale. I suoi pensieri e i suoi desideri erano imperscrutabili, ma per qualche ragione doveva ormai esser certa di preferire le invocazioni romane a quelle degli etruschi.
Dovere sia, soldato. Tu ed io condurremo Roma alla vittoria.
- Se così sarà, mia Regina, giuro solennemente che avrete uno splendido tempio per voi, che verrete amata e ringraziata eternamente. Parte del bottino sarà spesa per voi e voi sola.
E sia.
Giunone annuì impercettibilmente. Furio Camillo sospirò: la Dea era con loro, li avrebbe protetti e guidati, e lui l’avrebbe degnamente ricompensata.
Che il tempio sia posto in cima la collina, lontano da sterpaglie e boschi insalubri.
- Sì, mia Regina.
Il patto sembrava stretto. Era come se Giunone avesse solo atteso le parole giuste per dare l’avvio al prodigio richiesto. C’era voluto un po’ di tempo, forse, ma Furio Camillo era riuscito a trovarle.
Tenete d’occhio gli auguri veienti, saranno loro a suggerirvi la via giusta. Apollo a Delfi vi aiuterà, gli Dei aiuteranno chi sarà rispettoso e audace. Abbandoneranno Veio, se io lo chiedo. Scomparsi gli Dei sarà una faccenda da mortali.
- Non avrei potuto chiedere di meglio, mia giusta e buona Regina.
Camillo alzò lo sguardo, notando che Giunone era scomparsa alla vista. Davanti a lui, ancora inginocchiato, vide posarsi una piuma di pavone, simbolo della Dea. Il dittatore la raccolse, la baciò e la nascose all’interno dell’armatura.
Giunone avrebbe abbandonato Veio alla mercè del suo esercito, lui avrebbe conquistato la città in suo nome, rendendola non più Dea di protezione, ma Regina incontrastata di Veio.
Si alzò e decise di tornare all’accampamento, lasciando la carcassa agli animali: a nessuno sarebbe più servita. Avrebbe dato ordine di spiare i riti etruschi: presto, molto presto avrebbero commesso un passo falso e si sarebbero traditi.
La visione della Dea e il colloquio con lei l’avevano reso euforico e stordito, ma avrebbe ripreso lucidità armandosi del suo gladio.
Giunone avrebbe cavalcato con lui e guidato l’assedio fianco a fianco, invincibili. Per Roma e contro Veio.
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: lady hawke