Sul
tavolino di cristallo del salotto erano disposti diversi cioccolatini
assortiti, una bottiglia di succo di frutta, una di aranciata, le paste
di
mandorla nella loro confezione e un tripudio di biscotti e pasticcini
da tè,
raccolti in un elaborato recipiente. Mancava chiaramente un pasticcino,
quell’uno che permetteva ai dolci con la ciliegia rossa di
essere in egual
numero rispetto a quelli con la ciliegia verde; per quel pasticcino
Paolina
aveva dato di matto e il piccolo Sandrino si nascondeva dietro la
porta,
presentendo la sculacciata in arrivo.
Non
si poteva dire che quella fosse stata la sua giornata migliore: lungi
dall’essere padrona della situazione, si trascinava la fatica
accumulata
manifestandola nei gesti furiosi e nei solchi degli occhi,
più scavati del
normale. Abbandonata la ricerca del figlio minore, pensò che
fosse meglio
dedicarsi al ripescaggio del più grande, barricato in camera
sua ormai da un
paio d’ore.
Sfortunatamente
nel dirigersi verso le camerette passò davanti ad uno
specchio e si ricordò che
sì, aveva preparato con cura il salotto e le vivande da
offrire agli ospiti, ma
non aveva minimamente pensato a cosa indossare!
La
sortita in camera di Teo fu perciò rimandata e Paolina si
avventò sul suo
armadio, frugando i ripiani e i cassetti alla ricerca di una
combinazione
originale e gradevole – nulla che Ida, la moglie di Carlo, le
avesse già visto
indosso –. Sempre più sconfortata dal poco tempo
che aveva a disposizione e
dalla scarsità di risorse tirò fuori una camicia
lucida di un bel rosso vivo e
una semplice gonna di accompagnamento, riuscendo perfino a trovare un
paio di
calze elastiche di colore nero; spogliatasi della tenuta casalinga
indossò la
camicia senza abbottonarla e si sdraiò di schiena sul
materasso, alzando le
gambe e preparandosi ad infilare le calze, operazione sempre molto
ostica.
Mentre
le raccoglieva e inseriva il piede all’interno delle maglie
fece un rapido
ripasso mentale dei regali acquistati per la coppia ospite ed il loro
pargolo:
giallo per il marito, rosso per Ida e il rimanente al bambino; o era al
contrario, ed il giallo era per lei? O forse quello di Carlo era il
pacco
viola?
Paolina
non ebbe tempo di lambiccarsi sulla corretta associazione dei regali,
perché
dal corridoio provenne il rumore di qualcosa di pesante che
s’infrangeva a
terra, provocando un’eco che giunse fino al letto su cui la
donna lottava
contro le calze. Subito il pensiero le andò a Sandrino, quel
pestifero
ragazzino che pareva trarre gusto dal disobbedire alla madre;
immaginò che
avesse rovesciato una sedia, una pentola, o che – assunse
un’espressione di
puro terrore – fosse andato in frantumi il vaso sito
all’ingresso, sul
mobiletto. Già calcolava i dieci minuti che le sarebbero
occorsi per ripulire
tutto e uno sguardo alle lancette dell’orologio
alimentò in lei la sensazione
di avere l’acqua alla gola. Chiuse un momento gli occhi,
chiedendosi se non
fosse meglio rimandare l’incontro pre-natalizio, ma fu solo
un attimo isolato
prima che tornasse a infilare i piedi nelle calze con più
energia.
«Reagisci,
reagisci!», si disse.
«Tesoro,
tutto bene?».
Paolina
scattò a sedere, le calze tirate su solo fino a
metà coscia e la camicia
sbottonata, per incontrare lo sguardo perplesso di suo marito, Uccio.
Conscia
di essere assolutamente ridicola, aggrappata a
quell’auto-incitamento
pronunciato poco prima, tentò di darsi un contegno.
«Sì,
sì. Cos’è stato quel rumore,
prima?», domandò, tirando su l’elastico
fino
all’ombelico e intrappolandovi mutande e canottiera.
«No,
niente, è che ho fatto cadere il portaombrelli
dell’ingresso… come piove
fuori!».
Uccio
sembrò non voler fare commenti sulla scena imbarazzante a
cui aveva assistito,
ma era anche un po’troppo tranquillo per i gusti di sua
moglie.
«Come
mai i pasticcini in soggiorno?».
«Tra
un quarto d’ora o poco più viene Carlo con la
moglie, a portarci i regali di
Natale! Non dirmi che te n’eri dimenticato!».
«I
regali di Natale? E noi non abbiamo comprato niente per
loro?».
«Certo
che li abbiamo comprati! Ma possibile che non ti ricordi, ti ho anche
spiegato
quanto sono costati!».
«Ah
sì, certo! Certo, scusa, me lo ricordavo…
è che sono un po’ stanco, sono appena
uscito dal lavoro».
«Ah,
davvero? E che cosa abbiamo comprato al bambino? Scommetto che non
ricordi
nemmeno come si chiama la moglie!».
Uccio
tentennò, intimidito dal modo in cui gli occhi di Paolina
andavano
allargandosi.
«Eva?»,
tentò.
«Ma
quale Eva! Ida, Ida si chiama, quella cafona che va ogni settimana a
farsi la
tintura».
«Ma
sì, Eva, Ida, è lo stesso… e poi tutte
le donne si fanno la tintura».
Paolina
sentì un molosso di dimensioni gigantesche travolgerle
metaforicamente l’umore
e con aria ferita obiettò:
«Io
no, non l’ho mai fatta».
Lui
la guardò per un momento con attenzione.
«Ah
sì, in effetti».
Uccio
si liberò del soprabito, neanche lontanamente turbato
dall’espressione
catatonica sul volto della moglie.
«Allora
vado a cambiarmi di là».
«Ma
guarda che puoi anche stare qui, eh».
«No,
no, tranquilla, mi cambio nello sgabuzzino».
Uccio
uscì dalla camera lasciando Paolina in uno stato, se
possibile, ancor più
disastroso di quello in cui l’aveva trovata; era stato
capace, in due battute,
di demolire completamente l’autostima della moglie, il tutto
senza rendersene
conto. Paolina non poté evitare di pensare che se lei non
fosse stata una
quarantenne magra e ipertesa, con le calze elastiche della farmacia
tirate su e
la camicia aperta su un petto più piatto dell’asse
da stiro, forse suo marito
avrebbe voluto cambiarsi nella sua stessa stanza e magari ripagarla
della
faticosa giornata con qualche carezza affettuosa.
Le
tremò il labbro, ma fu solo un momento prima che si rendesse
conto della
necessità di scacciare quei tristi pensieri con
un’azione tanto rapida quanto
vigorosa.
Si
abbottonò la camicia, s’infilò la
collana di perle e relativi orecchini, si
sistemò la gonna in vita e, inforcate le pantofole, si
diresse a passo di
marcia verso la stanza del suo primogenito.
«Mamma!
Perché non bussi?», si lamentò lui,
colto di sorpresa mentre stava steso sul
letto a fantasticare.
«Forza
Teo, muoviti! Lo sai che abbiamo ospiti e tu sei ancora a zero! Su,
vestiti e
lavati che fra cinque minuti sono qui!».
«E
allora? Neanche li conosco… e poi non mi va di mettere la
camicia».
«E
invece te la metti, che fai un po’ di figura!
Alessandro!», sbraitò verso il
corridoio, ricordandosi improvvisamente della presenza di un bambino di
otto
anni non ancora pronto e domo.
Accompagnata
dai borbottii di Teo, Paolina percorse l’appartamento a
grandi passi alla
ricerca del piccolo monello; la caccia non durò molto,
perché trovò Sandrino
intento a consumare quanti più cioccolatini possibili
riusciva dal rinfresco
che lei aveva preparato con cura. Questa volta nessuno poté
evitargli uno
scapaccione, dato più per sfogare l’ansia che per
reale desiderio di punirlo.
«Guarda
come ti sei sporcato! Niente più dolci o biscotti per
stasera! Su, fatti
vestire…».
Sandrino
subì passivamente le operazioni a cui lo sottopose la madre
e si lasciò
imprigionare in un gilet di lana a rombi.
«Sei
arrabbiata, mamma?», chiese, forse sentendosi in colpa.
«No,
tesoro, non sono arrabbiata. Sono solo stanca e mi fa male la
testa», sospirò
lei.
In
effetti sentiva montare un crescente dolore alle tempie che
l’avrebbe
probabilmente accompagnata per tutta la serata, a meno di non ricorrere
a
qualche medicinale. Lasciò Sandrino, ormai pronto, in balia
del padre e si
spostò velocemente in cucina; dalla vetrina delle medicine
trasse fuori il
tubetto delle compresse effervescenti di Efferalgan e recuperando
l’ultima
rimasta, certa che una media dose di paracetamolo l’avrebbe
rimessa in sesto.
Aveva preso da parte uno dei bicchieri del servizio buono,
già pronti a far la
loro bella figura su un vassoio d’argento, attendendo che la
pastiglia si
sciogliesse nell’acqua, che udì suonare il
citofono.
Nella
concitazione dei secondi successivi si dimenticò della
compressa, più
preoccupata di controllare lo stato ultimo delle cose: i ragazzi erano
tutto
sommato in ordine, suo marito aveva le lenti degli occhiali pulite e la
cravatta del giusto colore, ma sbirciando in salotto notò la
mancanza di buona
parte dei cioccolatini.
«Vi
avevo detto di non toccare niente!».
«Dai,
non ti preoccupare, che sarà mai», intervenne suo
marito con aria
pacificatrice, «nemmeno se ne accorgeranno».
«Enzo,
non giustificarli! Ora mi raccomando, niente versacci. Teo, sorridi un
po’!».
«Mamma…».
«No,
ora non ho tempo. Infilati la camicia nei pantaloni,
veloce!», intimò Paolina,
sentendo già il rumore della porta dell’ascensore
che cigolava.
«Mamma!»,
alzò la voce Sandrino, per farsi ascoltare.
«Che
cosa c’è?».
«Mamma,
hai ancora le pantofole».
Solo
una grande presenza di spirito poté evitare a Paolina di
imprecare a pieni
polmoni piuttosto che correre nella stanza da letto, infilare i primi
tacchi
che trovò e ritornare all’ingresso, giusto in
tempo per ascoltare il trillo del
campanello, ma non abbastanza tardi per eludere i sorrisi sul volto di
Sandrino, Teo e suo marito.
Poi
arrivarono gli ospiti e ogni dettaglio fu dimenticato, travolto
dall’ingombrante presenza di Carlo e dal profumo molto
intenso che aveva
addosso Ida.
Per
cinque minuti buoni si susseguirono convenevoli e baci sulle guance,
accompagnati da reciproche osservazioni riguardanti la rapida crescita
dei
ragazzi, il progressivo snellimento delle donne e l’avanzare
della pinguedine
nei due uomini.
«Paolina,
mi sembri un po’ sciupata, eh?»,
commentò Ida.
«Eh
sì, sarò un po’ stanca»,
confermò lei, cacciando indietro un velenoso commento
sui capelli dell’altra, tenuti in un corto caschetto dal
colore uniforme.
«Vogliamo
spostarci di là?», propose Uccio, indicando la
porta del salone, «mia moglie ha
preparato un rinfresco niente male».
«Oh
no, no… ci fermiamo pochissimo, giusto il tempo di
scambiarci i regali».
A
dispetto di tutto ciò, qualche minuto più tardi
erano tutti sprofondati nei
divani del salotto, una famiglia di fronte all’altra e a
dividerle il tavolino
con i dolcetti sopra. Si scambiavano sguardi esitanti e sorrisi di
cortesia,
eccezion fatta per Paolina che contava mentalmente il numero dei
pasticcini,
preoccupandosi che non fossero abbastanza da soddisfare la fame di
tutti.
Alla
sistemazione iniziale seguì qualche secondo di silenzio
imbarazzato,
intervallato da Teo che tirava su col naso e dal rumore della busta in
mano ad
Ida.
«Be’,
che gentili! Avete preparato tutte queste cose… noi ci
fermiamo poco, giusto il
tempo di portarvi i regali».
«Ma
no, non fate complimenti… prego, prendete. Servi i
biscotti», disse Paolina
rivolgendosi al marito.
«Ecco,
prendete».
Lui
subito si adoperò per far passare davanti agli ospiti il
vassoio, da cui Ida e Carlo
non presero nulla, ma subito adocchiato dai ragazzi; Sandrino
allungò una mano
per afferrarne una manciata, suscitando l’occhiata adirata di
sua madre.
«Allora»,
esordì Ida, «pare che Babbo Natale sia passato da
noi e abbia lasciato dei
regali… ».
«Oh
sì, anche da noi!», scattò Paolina,
alzandosi per andare a recuperare i pacchi
nascosti dietro a un mobile.
Quell’anno
non aveva badato a spese: Ida e suo marito acquistavano sempre doni
molto ricercati
e soprattutto costosi, mentre i suoi pacchetti scomparivano decisamente
in
tutta la loro pochezza; umiliata ripetutamente dal quel confronto,
aveva deciso
di voler stupire l’amica ed evitare quegli sguardi di
disapprovazione celata a
cui doveva sottoporsi ogni anno.
Con
in testa questa spavalderia prese le buste e tornò al suo
posto, mentre Teo,
Uccio e Sandrino avevano già scartato i loro.
«Allora,
vi piacciono?», chiedeva Ida col suo sorriso migliore.
Paolina
si preoccupò per un momento, viste le facce della sua
famiglia, decisamente
dubbiose e deluse, e soprattutto viste le tre identiche felpe marroni,
con una
qualsiasi stampa sul davanti, in mano ai tre; Teo scambiò
uno sguardo perplesso
col padre, indeciso su cosa rispondere.
«Ho
pensato di prenderle uguali, che ne pensate?»,
incalzò Ida.
«Ma
sì, dopotutto puoi metterla anche tu, no, Enzo?»,
fece Carlo, «Non siamo poi
così vecchi, eh?».
«Ma
sì… ».
Uccio
non era mai stato molto attento a quel genere di cose, ma Paolina
notò
benissimo che perfino suo marito era rimasto lievemente turbato da quel
tris
inaspettato. Intuendo che la situazione stava complicandosi, mise su la
sua
migliore espressione accondiscendente.
«Ma
che belle, Ida!», cominciò, usando un tono di voce
troppo stridulo perché
sembrasse naturale, «e pensare che sia Teo che Sandrino ne
hanno pochissime ed
avevo proprio intenzione di comprargliele! Che belle,
vediamo… proprio un bel
colore! Anche la tua, Enzo!».
«Grazie
tante, sono uguali», fece lui, non troppo convinto.
Paolina
ne prese una, la spiegò e la esaminò per bene
davanti e dietro, poi la ripiegò
con aria soddisfatta.
«Grazie
Ida, sono davvero bellissime».
«Guarda,
sono proprio contenta che vi siano piaciute! Il fatto è che
poi con i ragazzi
non si sa mai cosa prendere. Per le femminucce è
già più semplice, per loro
proprio… be’, sono contenta! Apri il tuo,
Paolina».
Mentre
Uccio, Teo e Sandrino riponevano le felpe nella busta, Paolina si
trovò a dover
fare i conti con un pacchetto tutto per lei, di una nota industria di
pelletteria, dal quale si aspettava decisamente qualcosa in
più rispetto ai
precedenti regali. Poggiò un momento le sue buste per terra
e prese in mano la
sua confezione.
«Spero
proprio che ti piaccia», commentò Ida.
Al
tatto il pacchetto sembrava morbido e della forma giusta per essere un
portafoglio, accessorio del quale Paolina aveva bisogno e che
immaginava già
favoloso. Scartò rapidamente la carta, aspettandosi di veder
comparire la pelle
lavorata, ma restando straordinariamente delusa quando ne
uscì fuori qualcosa
che decisamente non assomigliava ad un portafoglio; sulle prime non
capì cosa
fosse, troppo occupata a metabolizzare la delusione e a riprendersi dal
colpo
d’occhi scatenato dal rivestimento viola e luccicante che lo
copriva. Poi lo
esaminò meglio e concluse che si trovava fra le mani
un’agenda dalla copertina
talmente brillante da meritarsi un posto dignitoso nella sua personale
classifica del trash. Nemmeno la sua presenza di spirito e la sua
parlantina
allenata da anni e anni di quel tipo di conversazioni le
impedì di domandarsi
perché diavolo qualcuno avrebbe dovuto regalare qualcosa di
così insulso,
restando così per qualche secondo in silenzio.
A
salvarla intervenne Pierlorenzo, il figlio della coppia ospite, che
tirò la
manica della mamma domandando dell’acqua.
«Ah,
ho dimenticato di portare l’acqua!», fece Uccio,
alzandosi in piedi.
«Vado
a prenderla io?», chiese Paolina, sperando di potersi esimere
dalla domanda che
sarebbe seguita.
«No
no, cara, faccio io, tranquilla».
Così
non le restò altro che guardare suo marito allontanarsi dal
salotto e rimanere
con in mano quell’agenda, che dava il capogiro solo a
guardarla. Tornò a
poggiarsi contro lo schienale della sedia con un sospiro.
«Ti
piace, Paolina?».
«Sì,
certo, molto».
«Cos’hai,
non ti senti bene?».
«No,
no, solo un po’ di capogiro».
«Prendi
qualcosa, no?».
Paolina
accettò il cioccolatino che l’altra le porgeva e
lo masticò senza entusiasmo,
riflettendo su quanto denaro aveva speso per comprare i regali e quanto
fosse
stato inutile il suo lavoro, vista la noncuranza con cui avevano
acquistato i
loro doni; ad essere maliziosi, avrebbero potuto pensare che li
avessero
comprati in un qualsiasi outlet all’ultimo minuto, proprio
prima di passare da
loro.
«Ecco,
questi sono i vostri: quello giallo è per Carlo, il rosso
per Ida e questo per
Pierlorenzo».
Riuscì
a riprendersi giusto in tempo per consegnare le buste agli ospiti ed
assistette
senza entusiasmo, del tutto risentita, allo stupore degli amici alla
vista dei
regali che lei, con tanto impegno e dispendio economico, si era
preoccupata di
comprare. Quando Uccio ritornò in salotto, reggendo un
vassoio con sei
bicchieri pieni d’acqua, Ida si stava profondendo in
ringraziamenti a non
finire.
«Ma
non dovevi, sul serio! Siete stati troppo generosi. Bellissima questa
collana,
davvero, non avevo mai visto questo tipo di colore azzurro».
«Mi
fa piacere, figurati… ».
«Non
dovevi, ti sarà costata un bel po’!».
«Eh…
».
«Chi
voleva da bere?».
Ancora
una volta Uccio la trasse fuori da una spiacevole situazione,
evitandole di
manifestare la sua stizza e non permettendo ad Ida di infierire.
«Ah,
grazie Enzo, ci voleva proprio».
Paolina
posò sul tavolo l’agenda colorata,
perché solo guardandola e confrontandola con
la collana che aveva acquistato per Ida sentiva la testa iniziare a
girare.
Approfittò del momento di silenzio, in cui gli ospiti erano
impegnati a far
tintinnare i fondi dei bicchieri, per chiudere gli occhi e raccogliere
le
ultime forze, ripetendosi che il più era fatto e che mancava
ormai poco perché se
ne andassero e non le toccasse di vedere quella faccia appuntita e
imbellettata
prima di Pasqua o, se le andava bene, del prossimo Natale.
Dopo
il momento di calma parve che la sua testa si liberasse dal pensiero
dei regali
e si ricordò di avere mal di testa; nello stesso momento in
cui si ricordò di
aver sciolto una compressa nel bicchiere ed averla lasciata in cucina,
in cui
si drizzò sullo schienale con l’intenzione di
andarla a recuperare, sentì Ida
schioccare le labbra.
«Mmm,
quest’acqua è strana... la prendete dal
rubinetto?».
La
smorfia che aveva sulla bocca non lasciava presagire un giudizio
positivo e
quando Paolina scambiò uno sguardo col marito, del tutto
ignaro della
situazione, si rese conto che quella che la donna aveva ormai
trangugiato per
metà era la sua medicina anti cefalea.
«Ma
no, abbiamo preso quella marca un po’ frizzante questa
volta... così, per
provare».
«Veramente
no».
Uccio
poteva anche non aver compreso il disguido e neppure di esserne stato
il
fautore, ma perlomeno possedeva un certo istinto di autoconservazione
che gli
suggeriva di tenere bassa la voce al momento dei commenti personali.
«Ma
che acqua hai messo? È proprio strana»,
rincarò Ida, che ormai aveva mandato
giù tutta la medicina.
«Non
so, a me pare normalissima».
«La
mia è effervescente naturale, cara».
«Ma
sì, è quella».
Sentendo
ad ogni secondo in più il mal di testa crescere e batterle
contro le tempie con
la costanza di un pistone, irritata da quei tre che ancora disputavano
sulla
sua ultima compressa andata sprecata, si conferì una
vivacità che non possedeva
e interruppe le loro congetture.
«Allora,
Pierlorenzo, come va a scuola? Quest’anno cosa fai, la prima
media?».
«No,
la quarta elementare».
«Ah».
L’argomento
scuola era un preziosissimo salvagente, nel caso in cui Paolina avesse
voluto
far trascorrere del tempo senza impiegare troppe forze, lasciando ad
Ida il
compito di sindacare sull’assurda quantità di
compiti assegnati per le vacanze
e limitandosi ad annuire e buttare di tanto in tanto un
“certo”, “proprio”,
“sì”, “ma robe da
matti”.
Nel
frattempo che Teo si guardava fissamente le scarpe e Sandrino arraffava
a
intervalli regolari un pasticcino o un biscotto, suo marito
chiacchierava
animatamente con Carlo di questioni lavorative; a quanto pareva,
c’erano stati
soprusi da parte di una dipendente veterana nei confronti di loro,
più giovani,
per quel che concerneva l’assegnazione delle ferie.
«Ti
pare possibile che ora a me tocchi di lavorare vigilia e trentuno? E no
scusa,
allora gliel’ho detto, ho detto: senta, non è
giusto».
«Hai
fatto bene».
«Che
poi la cosa assurda è che passi anche per maleducato! Ti
prendono per quello
scansafatiche che non vuole fare nulla, ma tu stai zitto una volta, due
volte,
poi la terza non se ne può più!».
«E
tu gliel’hai detto?».
«Sì,
gliel’ho detto!».
Uccio
era un uomo piuttosto bonario, allegro e giocherellone, ma tutta la sua
verve
umoristica pareva convergere dappertutto meno che su sua moglie, non
complice
delle sue risate ma oggetto di battute e fonte inesauribile di spunti
ironici.
A volte Paolina aveva l’impressione di non essere presa
affatto sul serio da
suo marito, di essere come un pagliaccio; se della sua rabbia e dei
suoi scatti
d’ira Uccio ridacchiava non era certamente per affetto,
piuttosto perché la
vedeva come una ridicola e grottesca marionetta preda di un vortice di
cui era
vittima e dal quale non riusciva ad uscire. Cosa le sarebbe costato
alzarsi,
annunciare che aveva mal di testa, ritirarsi in camera e salutare gli
ospiti
così costretti ad andarsene? Ma era certa che nessuno
l’avrebbe presa sul
serio, e forse lei stessa non era abbastanza coraggiosa da scrollarsi
di dosso
la maschera della brava moglie e amica cortese. No, ne era cosciente,
non ce la
faceva.
I
dieci minuti successivi passarono senza che lei ricordasse
alcunché di quello
che aveva detto Ida, o di quel che lei stessa le aveva risposto;
riprese la
cognizione del tempo e dello spazio quando notò che suo
marito si era sistemato
con la testa su una mano, poggiato al bracciolo del divano, e annuiva
svogliatamente all’indirizzo di Carlo; era il segno
inequivocabile che si stava
annoiando e Paolina colse al volo l’occasione.
«Mamma
mia, ma che ore sono?».
Subito
anche Uccio si ridestò e controllò il quadrante
che aveva al polso.
«Eh,
son quasi le otto».
«Quasi
le otto? Oh, dobbiamo proprio scappare allora».
Era
quella l’affermazione che attendevano un po’ tutti,
difatti nessuno restò
impalato sul suo sedile ma subito ciascuno scattò in piedi e
si diresse
all’ingresso, scambiando i convenevoli di circostanza e
premurandosi di
augurare buone feste ai membri dell’altra famiglia.
Fu
solo quando il portone di casa si chiuse che Paolina poté
sospirare di sollievo
e portarsi una mano alla testa dolente.
«Be’,
che tipi!», commentò Uccio, «hanno fatto
dei regali un po’ strani».
«Io
una maglia uguale a lui non la metto!», precisò
immediatamente Teo.
«Comunque,
sempre meglio dell’agenda di tua madre!», lo
consolò suo padre con aria
complice, lasciandosi scappare una piccola risata.
Paolina
non gradì affatto e si precipitò in cucina,
decidendo che per quella sera
avrebbero mangiato non più che una fetta di carne e che
sarebbero corsi tutti a
letto presto. Non vedeva proprio l’ora di potersi
rannicchiare sotto le calde
coperte, avvolgersi nel tessuto morbido del pigiama e cancellare dalla
sua
memoria quel devastante pomeriggio. Una volta nel letto, al buio della
sua
camera, chiuse gli occhi e tentò di non pensare a nulla,
ignorando perfino il
cerchio alla testa che non le lasciava scampo. Se solo avesse bevuto
quella
medicina prima di correre ad aprire la porta, si ripeteva!
«Tesoro?».
Paolina
sapeva benissimo che, avendo Uccio avvertito una certa
riottosità da parte sua,
avrebbe cercato di farsi perdonare mostrandosi attento e premuroso. Per
questo
in risposta al suo richiamo mandò un grugnito poco
amichevole.
«Va
tutto bene? Cos’hai, ti senti male?».
«Niente».
«E’
per i regali?».
«No».
«E
allora cos’hai?».
«Ho
mal di testa, lasciami stare».
«Hai
mal di testa? E perché non hai preso una
compressa?».
Voltata
dall’altra parte, Paolina strinse gli occhi e si impose di
tacere l’equivoco
del bicchiere d’acqua; ma la mano che si allungò
per cingerle la vita le
procurò uno spontaneo senso di sollievo per cui, dimentica
per un attimo del
mal di testa, spiegò:
«Io
l’avevo presa la compressa, avevo lasciato il bicchiere sul
tavolo della
cucina, solo che tu non hai capito niente e l’hai portata in
salotto. Per
questo l’acqua di Ida era strana, capito? Perché
c’era dentro la medicina!».
«E
si è bevuta la tua medicina? E non potevi prenderne
un’altra?».
«E
no, era l’ultima!».
Il
senso di sollievo svanì nello stesso momento in cui Uccio la
lasciò andare e si
abbandonò ad una risata contagiosa.
«Che
faccia schifata che faceva lei! E per questo tu stavi così
mogia sulla sedia!».
Forse,
se non avesse avuto quel malore a tormentarla, Paolina ci avrebbe riso
su
liquidando il tutto come una spiacevole piccola disavventura. Ma quel
fastidio
la opprimeva e le rendeva tutto meno sopportabile, così
nella risata di suo
marito intravide ancora una volta quell’immagine di lei resa
marionetta e di
lui spettatore assolutamente disinteressato delle sue disgrazie. Dopo
quel
pensiero si voltò dalla sua parte con maggiore decisione,
affondando la testa
nel cuscino e stringendo le lenzuola, sperando di trovare pace, mentre
suo
marito terminava di ridere e si addormentava placidamente.
Paolina
sprofondò a quel punto in un luogo senza tempo e senza
spazio, una sorta di
stato semicosciente, nel quale poteva distinguere la forma del cuscino
e il
materasso sotto di lei, ma non sapeva più formulare un
pensiero o riconoscere
il lieve respiro di Uccio che, perlomeno, non russava. E
così avrebbe voluto
restare, perché sentiva già più
lontano il dolore alla testa.
«Mamma?».
Una
fastidiosa voce infantile la riportò in camera sua, dandole
coscienza di essere
sdraiata sul lato destro del letto. Pensò di ignorarla e
fece finta di dormire.
«Mamma?».
Doveva
essere certamente Sandrino, a giudicare dalla voce, e Paolina
sperò che
scivolasse in fretta nel letto dei genitori senza domandarle il
permesso, se
proprio doveva.
«Mamma!».
Quella
volta fu costretta a spalancare gli occhi al buio perché suo
figlio le aveva
tirato una manica del pigiama; contemporaneamente alla sua piccola
sagoma
ricomparve ancora il dolore alla testa.
«Che
cosa c’è?», chiese con voce roca,
sperando che se ne andasse, già pregustando
il ritorno a quel piacevole stato di dormiveglia.
«Mamma,
mi scappa».
Così,
seduta sul bordo della vasca con in mano un rotolo di carta igienica,
impegnata
a prestare assistenza a Sandrino, vittima di un violento attacco di
diarrea
provocato certamente dai numerosi cioccolatini ingurgitati durante il
giorno,
Paolina terminò la sua giornata, con uno sgradevole odore
nelle narici, una
stanchezza indicibile addosso e il rumore dello sciacquone che si
ripeteva
ossessivamente nella sua testa.