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Autore: Pichichi    08/01/2012    2 recensioni
Paolina è la tipica donna di mezza età impegnata a compiere i propri doveri di moglie e madre, costretta in questo caso a preparare se stessa e la sua famiglia per la visita pre-natalizia di alcuni ospiti. La serata, tuttavia, non si svolgerà secondo i suoi piani.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sul tavolino di cristallo del salotto erano disposti diversi cioccolatini assortiti, una bottiglia di succo di frutta, una di aranciata, le paste di mandorla nella loro confezione e un tripudio di biscotti e pasticcini da tè, raccolti in un elaborato recipiente. Mancava chiaramente un pasticcino, quell’uno che permetteva ai dolci con la ciliegia rossa di essere in egual numero rispetto a quelli con la ciliegia verde; per quel pasticcino Paolina aveva dato di matto e il piccolo Sandrino si nascondeva dietro la porta, presentendo la sculacciata in arrivo.

Non si poteva dire che quella fosse stata la sua giornata migliore: lungi dall’essere padrona della situazione, si trascinava la fatica accumulata manifestandola nei gesti furiosi e nei solchi degli occhi, più scavati del normale. Abbandonata la ricerca del figlio minore, pensò che fosse meglio dedicarsi al ripescaggio del più grande, barricato in camera sua ormai da un paio d’ore.

Sfortunatamente nel dirigersi verso le camerette passò davanti ad uno specchio e si ricordò che sì, aveva preparato con cura il salotto e le vivande da offrire agli ospiti, ma non aveva minimamente pensato a cosa indossare!

La sortita in camera di Teo fu perciò rimandata e Paolina si avventò sul suo armadio, frugando i ripiani e i cassetti alla ricerca di una combinazione originale e gradevole – nulla che Ida, la moglie di Carlo, le avesse già visto indosso –. Sempre più sconfortata dal poco tempo che aveva a disposizione e dalla scarsità di risorse tirò fuori una camicia lucida di un bel rosso vivo e una semplice gonna di accompagnamento, riuscendo perfino a trovare un paio di calze elastiche di colore nero; spogliatasi della tenuta casalinga indossò la camicia senza abbottonarla e si sdraiò di schiena sul materasso, alzando le gambe e preparandosi ad infilare le calze, operazione sempre molto ostica.

Mentre le raccoglieva e inseriva il piede all’interno delle maglie fece un rapido ripasso mentale dei regali acquistati per la coppia ospite ed il loro pargolo: giallo per il marito, rosso per Ida e il rimanente al bambino; o era al contrario, ed il giallo era per lei? O forse quello di Carlo era il pacco viola?

Paolina non ebbe tempo di lambiccarsi sulla corretta associazione dei regali, perché dal corridoio provenne il rumore di qualcosa di pesante che s’infrangeva a terra, provocando un’eco che giunse fino al letto su cui la donna lottava contro le calze. Subito il pensiero le andò a Sandrino, quel pestifero ragazzino che pareva trarre gusto dal disobbedire alla madre; immaginò che avesse rovesciato una sedia, una pentola, o che – assunse un’espressione di puro terrore – fosse andato in frantumi il vaso sito all’ingresso, sul mobiletto. Già calcolava i dieci minuti che le sarebbero occorsi per ripulire tutto e uno sguardo alle lancette dell’orologio alimentò in lei la sensazione di avere l’acqua alla gola. Chiuse un momento gli occhi, chiedendosi se non fosse meglio rimandare l’incontro pre-natalizio, ma fu solo un attimo isolato prima che tornasse a infilare i piedi nelle calze con più energia.

«Reagisci, reagisci!», si disse.

«Tesoro, tutto bene?».

Paolina scattò a sedere, le calze tirate su solo fino a metà coscia e la camicia sbottonata, per incontrare lo sguardo perplesso di suo marito, Uccio.

Conscia di essere assolutamente ridicola, aggrappata a quell’auto-incitamento pronunciato poco prima, tentò di darsi un contegno.

«Sì, sì. Cos’è stato quel rumore, prima?», domandò, tirando su l’elastico fino all’ombelico e intrappolandovi mutande e canottiera.

«No, niente, è che ho fatto cadere il portaombrelli dell’ingresso… come piove fuori!».

Uccio sembrò non voler fare commenti sulla scena imbarazzante a cui aveva assistito, ma era anche un po’troppo tranquillo per i gusti di sua moglie.

«Come mai i pasticcini in soggiorno?».

«Tra un quarto d’ora o poco più viene Carlo con la moglie, a portarci i regali di Natale! Non dirmi che te n’eri dimenticato!».

«I regali di Natale? E noi non abbiamo comprato niente per loro?».

«Certo che li abbiamo comprati! Ma possibile che non ti ricordi, ti ho anche spiegato quanto sono costati!».

«Ah sì, certo! Certo, scusa, me lo ricordavo… è che sono un po’ stanco, sono appena uscito dal lavoro».

«Ah, davvero? E che cosa abbiamo comprato al bambino? Scommetto che non ricordi nemmeno come si chiama la moglie!».

Uccio tentennò, intimidito dal modo in cui gli occhi di Paolina andavano allargandosi.

«Eva?», tentò.

«Ma quale Eva! Ida, Ida si chiama, quella cafona che va ogni settimana a farsi la tintura».

«Ma sì, Eva, Ida, è lo stesso… e poi tutte le donne si fanno la tintura».

Paolina sentì un molosso di dimensioni gigantesche travolgerle metaforicamente l’umore e con aria ferita obiettò:

«Io no, non l’ho mai fatta».

Lui la guardò per un momento con attenzione.

«Ah sì, in effetti».

Uccio si liberò del soprabito, neanche lontanamente turbato dall’espressione catatonica sul volto della moglie.

«Allora vado a cambiarmi di là».

«Ma guarda che puoi anche stare qui, eh».

«No, no, tranquilla, mi cambio nello sgabuzzino».

Uccio uscì dalla camera lasciando Paolina in uno stato, se possibile, ancor più disastroso di quello in cui l’aveva trovata; era stato capace, in due battute, di demolire completamente l’autostima della moglie, il tutto senza rendersene conto. Paolina non poté evitare di pensare che se lei non fosse stata una quarantenne magra e ipertesa, con le calze elastiche della farmacia tirate su e la camicia aperta su un petto più piatto dell’asse da stiro, forse suo marito avrebbe voluto cambiarsi nella sua stessa stanza e magari ripagarla della faticosa giornata con qualche carezza affettuosa.

Le tremò il labbro, ma fu solo un momento prima che si rendesse conto della necessità di scacciare quei tristi pensieri con un’azione tanto rapida quanto vigorosa.

Si abbottonò la camicia, s’infilò la collana di perle e relativi orecchini, si sistemò la gonna in vita e, inforcate le pantofole, si diresse a passo di marcia verso la stanza del suo primogenito.

«Mamma! Perché non bussi?», si lamentò lui, colto di sorpresa mentre stava steso sul letto a fantasticare.

«Forza Teo, muoviti! Lo sai che abbiamo ospiti e tu sei ancora a zero! Su, vestiti e lavati che fra cinque minuti sono qui!».

«E allora? Neanche li conosco… e poi non mi va di mettere la camicia».

«E invece te la metti, che fai un po’ di figura! Alessandro!», sbraitò verso il corridoio, ricordandosi improvvisamente della presenza di un bambino di otto anni non ancora pronto e domo.

Accompagnata dai borbottii di Teo, Paolina percorse l’appartamento a grandi passi alla ricerca del piccolo monello; la caccia non durò molto, perché trovò Sandrino intento a consumare quanti più cioccolatini possibili riusciva dal rinfresco che lei aveva preparato con cura. Questa volta nessuno poté evitargli uno scapaccione, dato più per sfogare l’ansia che per reale desiderio di punirlo.

«Guarda come ti sei sporcato! Niente più dolci o biscotti per stasera! Su, fatti vestire…».

Sandrino subì passivamente le operazioni a cui lo sottopose la madre e si lasciò imprigionare in un gilet di lana a rombi.

«Sei arrabbiata, mamma?», chiese, forse sentendosi in colpa.

«No, tesoro, non sono arrabbiata. Sono solo stanca e mi fa male la testa», sospirò lei.

In effetti sentiva montare un crescente dolore alle tempie che l’avrebbe probabilmente accompagnata per tutta la serata, a meno di non ricorrere a qualche medicinale. Lasciò Sandrino, ormai pronto, in balia del padre e si spostò velocemente in cucina; dalla vetrina delle medicine trasse fuori il tubetto delle compresse effervescenti di Efferalgan e recuperando l’ultima rimasta, certa che una media dose di paracetamolo l’avrebbe rimessa in sesto. Aveva preso da parte uno dei bicchieri del servizio buono, già pronti a far la loro bella figura su un vassoio d’argento, attendendo che la pastiglia si sciogliesse nell’acqua, che udì suonare il citofono.

Nella concitazione dei secondi successivi si dimenticò della compressa, più preoccupata di controllare lo stato ultimo delle cose: i ragazzi erano tutto sommato in ordine, suo marito aveva le lenti degli occhiali pulite e la cravatta del giusto colore, ma sbirciando in salotto notò la mancanza di buona parte dei cioccolatini.

«Vi avevo detto di non toccare niente!».

«Dai, non ti preoccupare, che sarà mai», intervenne suo marito con aria pacificatrice, «nemmeno se ne accorgeranno».

«Enzo, non giustificarli! Ora mi raccomando, niente versacci. Teo, sorridi un po’!».

«Mamma…».

«No, ora non ho tempo. Infilati la camicia nei pantaloni, veloce!», intimò Paolina, sentendo già il rumore della porta dell’ascensore che cigolava.

«Mamma!», alzò la voce Sandrino, per farsi ascoltare.

«Che cosa c’è?».

«Mamma, hai ancora le pantofole».

Solo una grande presenza di spirito poté evitare a Paolina di imprecare a pieni polmoni piuttosto che correre nella stanza da letto, infilare i primi tacchi che trovò e ritornare all’ingresso, giusto in tempo per ascoltare il trillo del campanello, ma non abbastanza tardi per eludere i sorrisi sul volto di Sandrino, Teo e suo marito.

Poi arrivarono gli ospiti e ogni dettaglio fu dimenticato, travolto dall’ingombrante presenza di Carlo e dal profumo molto intenso che aveva addosso Ida.

Per cinque minuti buoni si susseguirono convenevoli e baci sulle guance, accompagnati da reciproche osservazioni riguardanti la rapida crescita dei ragazzi, il progressivo snellimento delle donne e l’avanzare della pinguedine nei due uomini.

«Paolina, mi sembri un po’ sciupata, eh?», commentò Ida.

«Eh sì, sarò un po’ stanca», confermò lei, cacciando indietro un velenoso commento sui capelli dell’altra, tenuti in un corto caschetto dal colore uniforme.

«Vogliamo spostarci di là?», propose Uccio, indicando la porta del salone, «mia moglie ha preparato un rinfresco niente male».

«Oh no, no… ci fermiamo pochissimo, giusto il tempo di scambiarci i regali».

A dispetto di tutto ciò, qualche minuto più tardi erano tutti sprofondati nei divani del salotto, una famiglia di fronte all’altra e a dividerle il tavolino con i dolcetti sopra. Si scambiavano sguardi esitanti e sorrisi di cortesia, eccezion fatta per Paolina che contava mentalmente il numero dei pasticcini, preoccupandosi che non fossero abbastanza da soddisfare la fame di tutti.

Alla sistemazione iniziale seguì qualche secondo di silenzio imbarazzato, intervallato da Teo che tirava su col naso e dal rumore della busta in mano ad Ida.

«Be’, che gentili! Avete preparato tutte queste cose… noi ci fermiamo poco, giusto il tempo di portarvi i regali».

«Ma no, non fate complimenti… prego, prendete. Servi i biscotti», disse Paolina rivolgendosi al marito.

«Ecco, prendete».

Lui subito si adoperò per far passare davanti agli ospiti il vassoio, da cui Ida e Carlo non presero nulla, ma subito adocchiato dai ragazzi; Sandrino allungò una mano per afferrarne una manciata, suscitando l’occhiata adirata di sua madre.

«Allora», esordì Ida, «pare che Babbo Natale sia passato da noi e abbia lasciato dei regali… ».

«Oh sì, anche da noi!», scattò Paolina, alzandosi per andare a recuperare i pacchi nascosti dietro a un mobile.

Quell’anno non aveva badato a spese: Ida e suo marito acquistavano sempre doni molto ricercati e soprattutto costosi, mentre i suoi pacchetti scomparivano decisamente in tutta la loro pochezza; umiliata ripetutamente dal quel confronto, aveva deciso di voler stupire l’amica ed evitare quegli sguardi di disapprovazione celata a cui doveva sottoporsi ogni anno.

Con in testa questa spavalderia prese le buste e tornò al suo posto, mentre Teo, Uccio e Sandrino avevano già scartato i loro.

«Allora, vi piacciono?», chiedeva Ida col suo sorriso migliore.

Paolina si preoccupò per un momento, viste le facce della sua famiglia, decisamente dubbiose e deluse, e soprattutto viste le tre identiche felpe marroni, con una qualsiasi stampa sul davanti, in mano ai tre; Teo scambiò uno sguardo perplesso col padre, indeciso su cosa rispondere.

«Ho pensato di prenderle uguali, che ne pensate?», incalzò Ida.

«Ma sì, dopotutto puoi metterla anche tu, no, Enzo?», fece Carlo, «Non siamo poi così vecchi, eh?».

«Ma sì… ».

Uccio non era mai stato molto attento a quel genere di cose, ma Paolina notò benissimo che perfino suo marito era rimasto lievemente turbato da quel tris inaspettato. Intuendo che la situazione stava complicandosi, mise su la sua migliore espressione accondiscendente.

«Ma che belle, Ida!», cominciò, usando un tono di voce troppo stridulo perché sembrasse naturale, «e pensare che sia Teo che Sandrino ne hanno pochissime ed avevo proprio intenzione di comprargliele! Che belle, vediamo… proprio un bel colore! Anche la tua, Enzo!».

«Grazie tante, sono uguali», fece lui, non troppo convinto.

Paolina ne prese una, la spiegò e la esaminò per bene davanti e dietro, poi la ripiegò con aria soddisfatta.

«Grazie Ida, sono davvero bellissime».

«Guarda, sono proprio contenta che vi siano piaciute! Il fatto è che poi con i ragazzi non si sa mai cosa prendere. Per le femminucce è già più semplice, per loro proprio… be’, sono contenta! Apri il tuo, Paolina».

Mentre Uccio, Teo e Sandrino riponevano le felpe nella busta, Paolina si trovò a dover fare i conti con un pacchetto tutto per lei, di una nota industria di pelletteria, dal quale si aspettava decisamente qualcosa in più rispetto ai precedenti regali. Poggiò un momento le sue buste per terra e prese in mano la sua confezione.

«Spero proprio che ti piaccia», commentò Ida.

Al tatto il pacchetto sembrava morbido e della forma giusta per essere un portafoglio, accessorio del quale Paolina aveva bisogno e che immaginava già favoloso. Scartò rapidamente la carta, aspettandosi di veder comparire la pelle lavorata, ma restando straordinariamente delusa quando ne uscì fuori qualcosa che decisamente non assomigliava ad un portafoglio; sulle prime non capì cosa fosse, troppo occupata a metabolizzare la delusione e a riprendersi dal colpo d’occhi scatenato dal rivestimento viola e luccicante che lo copriva. Poi lo esaminò meglio e concluse che si trovava fra le mani un’agenda dalla copertina talmente brillante da meritarsi un posto dignitoso nella sua personale classifica del trash. Nemmeno la sua presenza di spirito e la sua parlantina allenata da anni e anni di quel tipo di conversazioni le impedì di domandarsi perché diavolo qualcuno avrebbe dovuto regalare qualcosa di così insulso, restando così per qualche secondo in silenzio.

A salvarla intervenne Pierlorenzo, il figlio della coppia ospite, che tirò la manica della mamma domandando dell’acqua.

«Ah, ho dimenticato di portare l’acqua!», fece Uccio, alzandosi in piedi.

«Vado a prenderla io?», chiese Paolina, sperando di potersi esimere dalla domanda che sarebbe seguita.

«No no, cara, faccio io, tranquilla».

Così non le restò altro che guardare suo marito allontanarsi dal salotto e rimanere con in mano quell’agenda, che dava il capogiro solo a guardarla. Tornò a poggiarsi contro lo schienale della sedia con un sospiro.

«Ti piace, Paolina?».

«Sì, certo, molto».

«Cos’hai, non ti senti bene?».

«No, no, solo un po’ di capogiro».

«Prendi qualcosa, no?».

Paolina accettò il cioccolatino che l’altra le porgeva e lo masticò senza entusiasmo, riflettendo su quanto denaro aveva speso per comprare i regali e quanto fosse stato inutile il suo lavoro, vista la noncuranza con cui avevano acquistato i loro doni; ad essere maliziosi, avrebbero potuto pensare che li avessero comprati in un qualsiasi outlet all’ultimo minuto, proprio prima di passare da loro.

«Ecco, questi sono i vostri: quello giallo è per Carlo, il rosso per Ida e questo per Pierlorenzo».

Riuscì a riprendersi giusto in tempo per consegnare le buste agli ospiti ed assistette senza entusiasmo, del tutto risentita, allo stupore degli amici alla vista dei regali che lei, con tanto impegno e dispendio economico, si era preoccupata di comprare. Quando Uccio ritornò in salotto, reggendo un vassoio con sei bicchieri pieni d’acqua, Ida si stava profondendo in ringraziamenti a non finire.

«Ma non dovevi, sul serio! Siete stati troppo generosi. Bellissima questa collana, davvero, non avevo mai visto questo tipo di colore azzurro».

«Mi fa piacere, figurati… ».

«Non dovevi, ti sarà costata un bel po’!».

«Eh… ».

«Chi voleva da bere?».

Ancora una volta Uccio la trasse fuori da una spiacevole situazione, evitandole di manifestare la sua stizza e non permettendo ad Ida di infierire.

«Ah, grazie Enzo, ci voleva proprio».

Paolina posò sul tavolo l’agenda colorata, perché solo guardandola e confrontandola con la collana che aveva acquistato per Ida sentiva la testa iniziare a girare. Approfittò del momento di silenzio, in cui gli ospiti erano impegnati a far tintinnare i fondi dei bicchieri, per chiudere gli occhi e raccogliere le ultime forze, ripetendosi che il più era fatto e che mancava ormai poco perché se ne andassero e non le toccasse di vedere quella faccia appuntita e imbellettata prima di Pasqua o, se le andava bene, del prossimo Natale.

Dopo il momento di calma parve che la sua testa si liberasse dal pensiero dei regali e si ricordò di avere mal di testa; nello stesso momento in cui si ricordò di aver sciolto una compressa nel bicchiere ed averla lasciata in cucina, in cui si drizzò sullo schienale con l’intenzione di andarla a recuperare, sentì Ida schioccare le labbra.

«Mmm, quest’acqua è strana... la prendete dal rubinetto?».

La smorfia che aveva sulla bocca non lasciava presagire un giudizio positivo e quando Paolina scambiò uno sguardo col marito, del tutto ignaro della situazione, si rese conto che quella che la donna aveva ormai trangugiato per metà era la sua medicina anti cefalea.

«Ma no, abbiamo preso quella marca un po’ frizzante questa volta... così, per provare».

«Veramente no».

Uccio poteva anche non aver compreso il disguido e neppure di esserne stato il fautore, ma perlomeno possedeva un certo istinto di autoconservazione che gli suggeriva di tenere bassa la voce al momento dei commenti personali.

«Ma che acqua hai messo? È proprio strana», rincarò Ida, che ormai aveva mandato giù tutta la medicina.

«Non so, a me pare normalissima».

«La mia è effervescente naturale, cara».

«Ma sì, è quella».

Sentendo ad ogni secondo in più il mal di testa crescere e batterle contro le tempie con la costanza di un pistone, irritata da quei tre che ancora disputavano sulla sua ultima compressa andata sprecata, si conferì una vivacità che non possedeva e interruppe le loro congetture.

«Allora, Pierlorenzo, come va a scuola? Quest’anno cosa fai, la prima media?».

«No, la quarta elementare».

«Ah».

L’argomento scuola era un preziosissimo salvagente, nel caso in cui Paolina avesse voluto far trascorrere del tempo senza impiegare troppe forze, lasciando ad Ida il compito di sindacare sull’assurda quantità di compiti assegnati per le vacanze e limitandosi ad annuire e buttare di tanto in tanto un “certo”, “proprio”, “sì”, “ma robe da matti”.

Nel frattempo che Teo si guardava fissamente le scarpe e Sandrino arraffava a intervalli regolari un pasticcino o un biscotto, suo marito chiacchierava animatamente con Carlo di questioni lavorative; a quanto pareva, c’erano stati soprusi da parte di una dipendente veterana nei confronti di loro, più giovani, per quel che concerneva l’assegnazione delle ferie.

«Ti pare possibile che ora a me tocchi di lavorare vigilia e trentuno? E no scusa, allora gliel’ho detto, ho detto: senta, non è giusto».

«Hai fatto bene».

«Che poi la cosa assurda è che passi anche per maleducato! Ti prendono per quello scansafatiche che non vuole fare nulla, ma tu stai zitto una volta, due volte, poi la terza non se ne può più!».

«E tu gliel’hai detto?».

«Sì, gliel’ho detto!».

Uccio era un uomo piuttosto bonario, allegro e giocherellone, ma tutta la sua verve umoristica pareva convergere dappertutto meno che su sua moglie, non complice delle sue risate ma oggetto di battute e fonte inesauribile di spunti ironici. A volte Paolina aveva l’impressione di non essere presa affatto sul serio da suo marito, di essere come un pagliaccio; se della sua rabbia e dei suoi scatti d’ira Uccio ridacchiava non era certamente per affetto, piuttosto perché la vedeva come una ridicola e grottesca marionetta preda di un vortice di cui era vittima e dal quale non riusciva ad uscire. Cosa le sarebbe costato alzarsi, annunciare che aveva mal di testa, ritirarsi in camera e salutare gli ospiti così costretti ad andarsene? Ma era certa che nessuno l’avrebbe presa sul serio, e forse lei stessa non era abbastanza coraggiosa da scrollarsi di dosso la maschera della brava moglie e amica cortese. No, ne era cosciente, non ce la faceva.

I dieci minuti successivi passarono senza che lei ricordasse alcunché di quello che aveva detto Ida, o di quel che lei stessa le aveva risposto; riprese la cognizione del tempo e dello spazio quando notò che suo marito si era sistemato con la testa su una mano, poggiato al bracciolo del divano, e annuiva svogliatamente all’indirizzo di Carlo; era il segno inequivocabile che si stava annoiando e Paolina colse al volo l’occasione.

«Mamma mia, ma che ore sono?».

Subito anche Uccio si ridestò e controllò il quadrante che aveva al polso.

«Eh, son quasi le otto».

«Quasi le otto? Oh, dobbiamo proprio scappare allora».

Era quella l’affermazione che attendevano un po’ tutti, difatti nessuno restò impalato sul suo sedile ma subito ciascuno scattò in piedi e si diresse all’ingresso, scambiando i convenevoli di circostanza e premurandosi di augurare buone feste ai membri dell’altra famiglia.

Fu solo quando il portone di casa si chiuse che Paolina poté sospirare di sollievo e portarsi una mano alla testa dolente.

«Be’, che tipi!», commentò Uccio, «hanno fatto dei regali un po’ strani».

«Io una maglia uguale a lui non la metto!», precisò immediatamente Teo.

«Comunque, sempre meglio dell’agenda di tua madre!», lo consolò suo padre con aria complice, lasciandosi scappare una piccola risata.

Paolina non gradì affatto e si precipitò in cucina, decidendo che per quella sera avrebbero mangiato non più che una fetta di carne e che sarebbero corsi tutti a letto presto. Non vedeva proprio l’ora di potersi rannicchiare sotto le calde coperte, avvolgersi nel tessuto morbido del pigiama e cancellare dalla sua memoria quel devastante pomeriggio. Una volta nel letto, al buio della sua camera, chiuse gli occhi e tentò di non pensare a nulla, ignorando perfino il cerchio alla testa che non le lasciava scampo. Se solo avesse bevuto quella medicina prima di correre ad aprire la porta, si ripeteva!

«Tesoro?».

Paolina sapeva benissimo che, avendo Uccio avvertito una certa riottosità da parte sua, avrebbe cercato di farsi perdonare mostrandosi attento e premuroso. Per questo in risposta al suo richiamo mandò un grugnito poco amichevole.

«Va tutto bene? Cos’hai, ti senti male?».

«Niente».

«E’ per i regali?».

«No».

«E allora cos’hai?».

«Ho mal di testa, lasciami stare».

«Hai mal di testa? E perché non hai preso una compressa?».

Voltata dall’altra parte, Paolina strinse gli occhi e si impose di tacere l’equivoco del bicchiere d’acqua; ma la mano che si allungò per cingerle la vita le procurò uno spontaneo senso di sollievo per cui, dimentica per un attimo del mal di testa, spiegò:

«Io l’avevo presa la compressa, avevo lasciato il bicchiere sul tavolo della cucina, solo che tu non hai capito niente e l’hai portata in salotto. Per questo l’acqua di Ida era strana, capito? Perché c’era dentro la medicina!».

«E si è bevuta la tua medicina? E non potevi prenderne un’altra?».

«E no, era l’ultima!».

Il senso di sollievo svanì nello stesso momento in cui Uccio la lasciò andare e si abbandonò ad una risata contagiosa.

«Che faccia schifata che faceva lei! E per questo tu stavi così mogia sulla sedia!».

Forse, se non avesse avuto quel malore a tormentarla, Paolina ci avrebbe riso su liquidando il tutto come una spiacevole piccola disavventura. Ma quel fastidio la opprimeva e le rendeva tutto meno sopportabile, così nella risata di suo marito intravide ancora una volta quell’immagine di lei resa marionetta e di lui spettatore assolutamente disinteressato delle sue disgrazie. Dopo quel pensiero si voltò dalla sua parte con maggiore decisione, affondando la testa nel cuscino e stringendo le lenzuola, sperando di trovare pace, mentre suo marito terminava di ridere e si addormentava placidamente.

Paolina sprofondò a quel punto in un luogo senza tempo e senza spazio, una sorta di stato semicosciente, nel quale poteva distinguere la forma del cuscino e il materasso sotto di lei, ma non sapeva più formulare un pensiero o riconoscere il lieve respiro di Uccio che, perlomeno, non russava. E così avrebbe voluto restare, perché sentiva già più lontano il dolore alla testa.

«Mamma?».

Una fastidiosa voce infantile la riportò in camera sua, dandole coscienza di essere sdraiata sul lato destro del letto. Pensò di ignorarla e fece finta di dormire.

«Mamma?».

Doveva essere certamente Sandrino, a giudicare dalla voce, e Paolina sperò che scivolasse in fretta nel letto dei genitori senza domandarle il permesso, se proprio doveva.

«Mamma!».

Quella volta fu costretta a spalancare gli occhi al buio perché suo figlio le aveva tirato una manica del pigiama; contemporaneamente alla sua piccola sagoma ricomparve ancora il dolore alla testa.

«Che cosa c’è?», chiese con voce roca, sperando che se ne andasse, già pregustando il ritorno a quel piacevole stato di dormiveglia.

«Mamma, mi scappa».

Così, seduta sul bordo della vasca con in mano un rotolo di carta igienica, impegnata a prestare assistenza a Sandrino, vittima di un violento attacco di diarrea provocato certamente dai numerosi cioccolatini ingurgitati durante il giorno, Paolina terminò la sua giornata, con uno sgradevole odore nelle narici, una stanchezza indicibile addosso e il rumore dello sciacquone che si ripeteva ossessivamente nella sua testa.

   
 
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