Titolo: Under everything,
just another
human being.
Autore: me medesima stessa, in preda
allo sconforto più profondo.
Beta: Idra_31
la mia bff ♥
Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson.
Rating: PG. Non è slash, diciamo
più pre-slash.
Disclaimer: Non mi appartengono, ma neanche se mi
sforzassi di crederci.
© Steven Moffat e Mark Gatiss, &BBC
Note: Tristezza a palate dopo Reichenbach. SPOILER
se non avete ancora
guardato la seconda serie (e shame on you, se davvero non l'avete
fatto!).
Il titolo è preso da Just Breathe, dei Pearl Jam.
Sommario: È questo, allora.
È questo che lo fa stare così male, è
questo che gli ha spezzato la voce e lo ha lasciato boccheggiante,
perché non
esiste più solo John, o solo Sherlock, perché
adesso siete diventati chissà
come e perché John e Sherlock, Sherlock e John, due esseri
divisi ma allo
stesso tempo indivisibili.
*
Le tue dita digitano veloci sul cellulare. Componi
l’unico numero che hai
imparato a memoria e deciso di non eliminare dal tuo cervello affollato
di
informazioni importanti; attendi uno, due squilli che sembrano durare
una vita
intera prima che la voce all’altro capo risponda.
Pronunci il suo nome con una sfumatura nuova mai usata prima. Tenti il
tuo tono
più freddo e distaccato ma la senti, oh se la senti, quella
cosa strana che
tutti chiamano “emozione” avvolgere
quell’unica e semplice parola. Quella che
pronunci sempre, in ogni istante della giornata; quella che in qualche
modo hai
sempre dato per scontata e solo adesso ti accorgi che scontata non lo
è, né lo
è mai stata.
La sua voce è preoccupata, il suo cervello è
riuscito a elaborare e finalmente
ha più o meno capito cosa sta succedendo. Più o
meno. Sei convinto, piuttosto,
che il suo cervello si rifiuti di capire sul serio perché
questo vorrebbe dire
sofferenza imminente per lui.
Gli chiedi di tornare indietro, lui tenta una protesta ma la tua voce
è
autorevole e svela un’urgenza, un’ansia che non hai
mai provato prima.
Finalmente si decide a darti retta; torna indietro e si ferma al suono
delle
tue parole. È quello il punto giusto.
Guarda in alto, quando gli riveli finalmente la tua posizione.
«Non… non… non posso scendere, quindi
dovremo fare così.»
«Che succede?», ti chiede allarmato. Sta
boccheggiando.
«Ti devo delle scuse.» Senti qualcosa di strano
nella gola e il telefono ti
porta il suo sospiro. «È tutto vero.»
A questo punto sai di avere la conversazione in pugno.
Sai che lui ti domanderà “Cosa?”, tu
risponderai dicendo che hai inventato
Moriarty per i tuoi scopi.
Di fatti, tutto va come avevi previsto. La tua voce sembra quasi
volerlo
accarezzare, confortare in qualche modo perché sai che
ciò che stai per fargli
non gli farà bene.
Ti volti a guardare il corpo alle tue spalle, il sangue sparso sul
pavimento di
quel tetto troppo alto, gli occhi aperti nell’espressione di
una muta epifania.
Lo senti sussurrare il tuo nome come non ha mai fatto prima.
Nonostante la distanza che vi separa, che forse vi ha sempre separati,
lo senti
sussultare al suono delle tue parole spezzate. Si rifiuta di crederti,
come
avevi immaginato. Si rifiuta di credere che tu sia solo un impostore,
un falso,
un’identità studiata e creata per un ignobile
scopo finale.
Deve dirlo a tutti gli altri. Deve dirlo, che li hai ingannati. Deve,
ma sai
che non lo farà.
La sua fiducia in te è troppo forte per poter essere
spezzata da una bugia come
quella; forse non smetterebbe di credere in te neanche se avesse
davanti agli
occhi le prove concrete della tua colpevolezza. È stato
così fin dall’inizio.
John ha fatto ciò che nessun altro essere umano si sarebbe
mai sognato di fare
dopo averti conosciuto: si è fidato di te. Ha messo la sua
vita nelle tue mani
e ha deciso di seguirti, nonostante potesse essere pericoloso.
Nonostante
avrebbe potuto non tornare mai.
Costruisci una bugia sopra l’altra, per lui. Su quel tetto,
sotto quel cielo
grigio che sembra evocare la sua sofferenza continui a costruire un
muro di
bugie, lo innalzi con una lentezza esasperante e l’impresa
richiede più forza
di quanto avessi in realtà previsto.
Non è semplice, mentirgli. Non come avevi prospettato.
Stringi le labbra, come se potesse in qualche modo aiutarti a costruire
la
prossima bugia.
«Era un trucco. Un semplice trucco di magia.»
«No. Va bene, adesso smettila.»
La sua voce trema mentre pronuncia quelle parole e scuote la testa. Il
pensiero
che tu stia dicendo la verità non lo sfiora neanche, e lo
sai.
Lo vedi muoversi, avanzare verso l’ingresso di
quell’ospedale che si è prestato
a tuo palcoscenico, e con voce autoritaria gli intimi di fermarsi.
«Non ti muovere.»
Mentre lo dici senti che qualcosa è cambiato, qualcosa di
impercettibile forse,
qualcosa che ti è difficile identificare e catalogare con
chiarezza. È nascosto
nei tuoi occhi che adesso bruciano, è un cambiamento sottile
racchiuso nella
lacrima che impertinente ti riga il viso contro la tua stessa
volontà.
Tende la mano verso di te, quasi volesse sfiorarti per dissuaderti da
quella
che secondo lui è pazzia, un atto sconsiderato e inutile.
«Okay.»
E non puoi fare a meno di tendere la tua mano attraverso il nulla, al
suono di
quell’unica parola che gli esce dalle labbra come un sospiro.
Hai la sensazione che se solo provassi a chiudere gli occhi la
sentiresti, la
sua mano. Le sue dita fredde per la dura aria londinese, le nocche
leggermente
screpolate; sentiresti la sua pelle gelida che emanerebbe calore a
contatto con
la tua per la più semplice delle reazioni chimiche. Sarebbe
facile da spiegare.
Quello che non ti è facile spiegare è
perché le vostre mani tese nel vuoto,
distanti eppure così vicine, ti provochino come un brivido
lungo la schiena, la
sensazione di un pugno allo stomaco che non capisci, non puoi
analizzare perché
semplicemente non è razionale. Non c’è
niente di logico in tutto questo, e ti
da sui nervi non riuscire a capire.
Non c’è niente di logico nel sentirsi come se ti
fosse passato addosso un
camion quando gli chiedi di tenere gli occhi fissi su di te, quando lo supplichi
di farlo. Forse perché non hai mai supplicato nessuno in
vita tua, nessuno
tranne lui.
« Questa telefonata… è il mio
biglietto. È questo che si fa, no? Si
lascia un biglietto?»
Scuote la testa e per un solo istante allontana il cellulare
dall’orecchio.
Puoi quasi sentire il singhiozzo che gli blocca la gola, quello che lui
non ha
voluto farti ascoltare. Puoi sentire il suo cuore accelerare il battito
e
diventare un tamburo frenetico nel suo petto, è tutta una
questione di chimica.
«Quando si lascerebbe un biglietto?», ti chiede, ma
conosce già la risposta. È
solo colpa del suo cervello che si rifiuta di processare correttamente
le
informazioni in suo possesso, che in qualche modo ha deciso di negare
la verità
che gli indizi gli forniscono.
Dovrebbe ragionare più logicamente, alle volte.
«Addio, John.»
«No. Non…»
Se la protesta continua, non puoi più sentirla.
Con una lentezza esasperante che non ti appartiene allontani il
cellulare
dall’orecchio e abbassi il braccio per gettarlo con poca
grazia sul pavimento.
Le lacrime. Le lacrime che ti scorrono sul viso, non le capisci. Non
sono
razionali, non hanno nessuna logica spiegazione, nessun ragionevole
motivo per
stare lì sulle tue guance come per beffarsi di te.
Lo stai facendo per lui. Tutto quello, ogni più piccolo
dettaglio, hai deciso
di farlo per lui perché non sopporteresti neanche il
pensiero che possa
accadergli qualcosa di male.
Non hai amici. Ne hai solamente uno.
Era giusto così. Era giusto che ci fosse solo lui, a
guardarti dalla strada.
Lui e nessun altro.
Gli altri avrebbero cercato di dissuaderti ma si sarebbero arresi
presto, lui
no. Lui non si arrenderà mai alle tue bugie, non si
arrenderà mai al pensiero
che tu possa esserti tolto la vita volontariamente perché,
nonostante tutto,
lui è l’unico che ti conosca veramente.
È per questo che gli hai lasciato degli indizi, nascosti tra
parole e bugie, e
sai che un giorno riuscirà a notarli. A mente fredda
ragionerà sull’accaduto,
rimetterà insieme i pezzi e finalmente capirà.
Perché fa così male, allora? Perché ti
senti così?
Stai per procurargli sofferenza gratuita e indesiderata. No, non
è gratuita, è
necessaria.
Il tuo piede fluttua nel niente oltre il cornicione.
Non riesci a spostare gli occhi da lui; ci provi e ci riprovi, a
guardare
altrove, ma non puoi. È come se in qualche modo assurdo e
incomprensibile i
suoi occhi ti stessero chiamando, attirando, supplicando, implorando di
non
farlo, di non lasciarlo.
Non vuole che tu vada via solo perché non vuole che tu lasci
lui.
Sentirà la tua mancanza ogni giorno, forse persino ogni
istante della sua vita;
non ci sarai più per riempirgli le giornate, per farti
insultare qualche volta
a causa di quelle che lui chiama “lacune” e tu
definisci “informazioni inutili
che il tuo cervello non sente il bisogno di conservare”. Non
ti ascolterà
suonare il violino. Non ti preparerà la cena o
forzerà a mangiare quando la
fame ti avrà abbandonato, durante uno dei vostri casi.
Vostri. Tuoi.
I tuoi casi. I vostri.
È questo, allora. È questo che lo fa stare
così male, è questo che gli ha
spezzato la voce e lo ha lasciato boccheggiante, perché non
esiste più solo
John, o solo Sherlock, perché adesso siete diventati
chissà come e perché John
e Sherlock, Sherlock e John, due esseri divisi ma allo stesso tempo
indivisibili.
Holmes e Watson.
Sta per perdere il suo coinquilino, e il suo migliore amico.
E tu stai per perdere l’unica persona che abbia davvero
contato qualcosa nella
tua vita, l’unica che sia riuscita a contare più
di tutto il resto.
Guardi di sotto un istante. È parecchio alto.
Inspiri profondamente ed eccoti, giù dal tetto in un volo
infinito.
Come per uno strano scherzo del destino vedi, con l’occhio
della mente, ogni
momento che hai trascorso con John.
Il primo incontro al Bart’s, la visita
all’appartamento di Baker Street; il
primo caso insieme, i suoi commenti, il tuo autocompiacimento. Riesci
quasi a
vedere il modo in cui il vostro rapporto si è consolidato,
istante dopo
istante, risata dopo risata. Non sono mancati gli insulti, le tue
solite
giornate “no”, il suo andar via e lasciarti ai tuoi
pensieri; questo anno e
mezzo trascorso con lui è stato pieno, pieno di quelle che
il mondo chiama
“emozioni” e che tu non sei riuscito a riconoscere
neanche quando le stavi
provando sulla pelle.
Adesso, mentre cadi, il mondo intero sembra rallentare per poter
permettere a
te di capire ciò che prima non riuscivi a vedere, di
analizzare ciò su cui non
avevi riflettuto. Tutto rallenta per mostrarti quanto in
realtà John significhi
per te e quanto male farà ad entrambi questa necessaria
separazione.
E poi, l’impatto.
*
«Ero così solo… e ti devo
davvero tanto.»
Si allontana di qualche passo. Vorrebbe andarsene, forse per non vedere
più
quella lapide scura e lucida che si prende gioco del suo dolore. Ci
ripensa, si
volta a guardarla, scura e terribile nel cimitero curato.
«Ma, ti prego, c’è ancora una
cosa. Un’ultima cosa, un ultimo miracolo,
Sherlock. Per me. Non essere… morto. Potresti farlo? Per me?
Smettila. Ferma
tutto questo!»
La sua voce si spezza, gli manca il respiro.
Vedi i suoi occhi lucidi e il tuo cuore reagisce stringendosi in una
morsa
senza neanche avvertirti, avrebbe dovuto farlo. Avresti dovuto essere
preparato
a quella contrazione.
A quel dolore; al tuo, per averlo lasciato. Al suo, per aver creduto
che tu lo
abbia lasciato.
Se solo avessi fatto attenzione ai segnali non ti saresti trovato
impreparato,
se avessi fatto attenzione ai segnali probabilmente ti saresti perso
tutto
questo perché avresti preso la decisione più
saggia e ti saresti allontanato da
lui molto prima.
Ti saresti risparmiato la sofferenza di doverlo abbandonare quando in
realtà
lui è l’unico di cui tu abbia mai avuto -e mai
avrai- bisogno.
Si asciuga le lacrime dagli occhi, riserva alla lapide un cenno secco
della
testa e va via, diretto verso una vita che vivrà a
metà.
Se avessi prestato attenzione all’inizio non ti saresti
ritrovato a morire per
lui. La cosa buffa è che hai deciso di farlo di tua
spontanea volontà, e lo
rifaresti senza ripensamenti se solo fosse necessario.
Moriresti per l’unica persona che abbia davvero importanza, e
che è riuscita in
qualche modo a te sconosciuto a cambiarti (ancora ti domandi come
ci sia
riuscito, forse non troverai mai una risposta).
Lui ti ha accettato per quello che sei, fin dall’inizio. Ha
accettato i
malumori, gli spari contro il muro e le teste nel frigorifero; i tuoi
silenzi
prolungati, il tuo non riuscire a provare quello
che i normali esseri
umani provano, ti ha preso per quello che sei e non è mai
andato via. Ti ha
dato tutto ciò che aveva da offrire senza mai chiedere nulla
in cambio.
Una goccia ti scivola sul viso e subito pensi che stia ricominciando a
piovere.
Ti guardi intorno e per un solo istante ti ritrovi tra le calde e
confortanti
pareti del 221b di Baker Street, seduto impeccabilmente sulla tua
poltrona con
tra le mani una tazza di tè. Per un istante rivedi John
seduto di fronte a te,
un sorrisetto beffardo dipinto sul volto, le mani giunte sul grembo. Sa
di aver
ragione e aspetta solo di sentirtelo dire, non tanto per provare un tuo
fallimento quanto più per provare un suo piccolo successo.
«D’accordo, John. Avevi ragione.»
Sospiri, e sorridi. «Forse sono solo un
essere umano. Solo un altro essere umano.»
Dopo un’ultima occhiata al cimitero deserto ti stringi nel
cappotto e ti
incammini verso la tua prossima avventura, che sarai costretto ad
affrontare da
solo.
È una bella giornata. Su Londra splende il sole.
*Fin*
I commenti sono sempre graditi ♥