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Autore: Darseey    21/01/2012    6 recensioni
[...] Quando mi voltai di nuovo Sherlock Holmes mi sorrideva attraverso la scrivania. Mi alzai in piedi, lo guardai sbigottito per qualche secondo poi, a quanto pare, svenni- per la prima e ultima volta in vita mia. Davanti agli occhi mi roteò una nebbia grigia e, quando si dissipò, mi ritrovai col colletto sbottonato e un pungente sapore di brandy sulle labbra. Holmes era chino sulla mia poltrona, con la sua fiaschetta in mano
"Mio caro Watson" disse la voce che ricordavo così bene, "le devo mille scuse. Non pensavo che sarebbe rimasto così sconvolto" [...]
Tratto da "Il ritorno di Sherlock Holmes, L'avventura della casa vuota"
Personale ricostruzione di un futuro, anche se lontano, momento cruciale della 3X01.
Il ritorno di Sherlock e il re-incontro con John.
Spoiler di 2X03 The Reichembach Falls.
Completamente Bromance.
Enjoy yourselvs.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Every Step To The Pass



A well-remembered voice




Un viaggio di mille miglia comincia con un solo passo
[Lao Tse]






John Watson rimase fermo sul marciapiede di fronte al 221b di Baker Street per una decina di minuti prima di fare un passo avanti.
E poi un altro, subito dopo, indietro.

Qualcosa di bagnato gli cadde sulla guancia e la sua mente a malapena registrò l'informazione su un probabile imminente rovescio, troppo impegnata nel far fronte ad un problema decisamente più spinoso.
Perché dalla pioggia poteva sempre ripararsi, infondo.
Ma da quello...

Il pensiero di fermare il prossimo taxi e tornarsene dritto di filato a casa venne praticamente placcato e messo al tappeto da un altro, più insinuante e mordace.
Un anno prima quel portone nero, con il civico dipinto in numeri e lettere dorate sul vetro a mezzaluna e la pesante maniglia centrale, era l'ingresso di casa sua.

Loro.
Un taxi nero gli sfrecciò davanti.
Così un altro, due minuti dopo.
E un altro.
Ma lui continuò a dondolarsi da una gamba all'altra, con le mani infilate nelle tasche del giubbotto nero e lo sguardo sempre fisso davanti a sé, che vagava dal portone di fronte all'asfalto antracite ai suoi piedi. Quando provò a sollevarlo solo di poco, per mettere a fuoco la finestra del suo (loro) ex salotto il viso sbiancò e le labbra gli tremarono cogliendo un'ombra muoversi e poi scomparire dietro le cortine chiare.
Le mani avevano già preso a sudare copiosamente, nonostante il freddo pungente di quella mattina, prima che la sua lucidità, dopo un decimo di secondo di funzionalità interrotta, tirasse le redini dei suoi pensieri senza controllo e gli comunicasse che con schiacciante probabilità quell'ombra altro non era che la signora Hudson impegnata a pulire la stanza.

Chi altri, John?
La sensazione che seguì, la morte di una speranza repressa da mesi, di un desiderio incessante che la sua mente ancora non era riuscita a seppellire sotto il peso dell'evidenza dei fatti, gli provocarono una ben nota sensazione di fastidio a livello del petto.
Pungente e acre, quella percezione risalì dal cuore alla gola, graffiandola e chiudendola in un groppo rigido.
John lo scacciò via tossendo e distogliendo immediatamente lo sguardo dalla cornice chiara della finestra.
Chiuse gli occhi, fece qualche respiro profondo e si ripeté per la centesima volta che stava andando bene.
Forse, prima di mezzanotte sarebbe persino riuscito ad attraversare la strada.
Cacciò fuori l'aria dalla bocca, trasformandola in una nuvoletta chiara, e si diede dello stupido.
Non era così difficile infondo.
Bastava mettere i passi uno dietro l'altro, non farsi investire, avvicinarsi al portone e suonare il campanello.
No?

No.
Il solo pensiero di rimettere piede nel vecchio appartamento riusciva ad immobilizzargli i muscoli. Per sei mesi aveva evitato di tornarci, persino di avvicinarsi a quel quartiere. Non lo aveva fatto volontariamente o, come avrebbe tenuto a fargli notare la sua analista, non consciamente. All'inizio, dopo quello che era successo, aveva solo deciso di prendere una valigia piena dei suoi vestiti e andarsene via per qualche giorno, in un hotel, per evitare i giornalisti e tutte le altre rogne.
Per evitare di intravedere il fantasma di Sherlock disteso sul divano o in piedi in procinto di suonare il violino.

Aveva dormito nella sua stanza al 221b solo la prima notte.
Praticamente crollato sulla poltrona, troppo stanco e troppo sopraffatto.
Era piombato in un torpore senza sogni, in uno stato di dormiveglia che si era protratto fino alle prime luci dell'alba, quando aveva aperto gli occhi, disturbato dal rumore della pioggia e dall'impressione che la porta d'ingresso avesse sbattuto violentemente, al seguito di passi frettolosi e famigliari.
"Sherlock!" aveva urlato alla stanza vuota, spalancando gli occhi e tendendo ogni singolo muscolo del corpo fino allo spasmo per essere accolto solo da un fastidioso e incolmabile silenzio vuoto.
La prima di innumerevoli volte, di lì ai mesi che erano seguiti, in cui un singolo spiffero d'aria nella sua nuova stanza o un giaccone lungo nella sala d'aspetto dell'ambulatorio dove aveva ripreso a lavorare avevano costruito un castello di speranza destinato a crollare in pochi secondi di consapevolezza.
Quindi aveva deciso di andare via, per un po' di tempo.

Per far sbollire le acque.

Per ritrovare un po' di pace.
Ma chi lo spiegava ai suoi sogni che la pace era tutto quello che voleva?
E quello che assolutamente non voleva era chiudere gli occhi e rivivere il momento in cui aveva visto la figura di Sherlock abbandonarsi alla gravità, per ricadere poi con un terrificante e secco crak al suolo.
Non voleva sognare mai più i suoi occhi vitrei spalancati, il volto solcato da rivoli di sangue scuro, la posizione scomposta degli arti...
O la sua voce bassa e vibrante, dalla sfumatura metallica, che continuava a ripetergli:
Tieni i tuoi occhi fissi su di me, per favore, puoi fare questo per me?
[Puoi guardarmi morire?]
Di nuovo la sensazione gli attanagliò il cuore, lo stomaco e la gola, stringendoli in una morsa gelida.
Oh Dio no, non di nuovo.
Come se tutti i giorni da quel giorno avesse provato altro o ricordato altro.

L'Afghanistan aveva lasciato dentro di lui parecchie cicatrici dolorose, nella pelle forse più che nel cuore. Ma la morte di Sherlock era uno squarcio a cielo aperto nella carne, nei nervi, nei muscoli e fin dentro le ossa. Fin dentro l'anima.
A John sembrava di non aver mai compreso a fondo cosa volesse dire l'espressione "strappar via", prima del momento in cui aveva incespicato malamente sul marciapiede per raggiungere il suo corpo senza vita.
Non sapeva neanche bene cosa avesse strappato via Sherlock da... dal suo posto.
Dalla suo divano, dal suo violino,dai casi, dal microscopio, da quel salotto, dalla vita di John.

Non lo sapeva e forse non l'avrebbe mai saputo.
I fatti, quei fatti così importanti per lui, contavano poco quando tutto il resto era andato in pezzi.

E tra i danni collaterali della rottura c'era il fatto che niente da allora aveva più combaciato a dovere.
Perché non c'era nessuna vita oltre quella di Sherlock che potesse incastrarsi perfettamente con la sua.
Incastrarsi e funzionare in modo da non farlo sentire più solo, ma unicamente vivo.

Come non mai era stato in tutta la sua vita.
Era come se ci fosse una linea rossa dentro di lui, un sopra e sotto, come cielo e terra, e ogni sua esperienza, ogni sua relazione, ogni amicizia, ogni istante della sua vita fosse sempre fluito sotto, nella normalità, sulla terra.
Quotidianità. Ordinarietà. Flusso continuo.

Un mare calmo, con qualche tempesta sporadica.
Poi era arriva Sherlock.
E il flusso si era alzato, sollevato tutto un tratto, aveva superato quella linea rossa e invaso la parte sopra. Qualche zona nel suo cervello, qualche meccanismo che non era mai stato messo in moto, non spesso almeno. Sherlock gli aveva dato un colpettino ed ecco che quello aveva iniziato a funzionare. Sopra e sotto si erano mischiati, fusi, saldati. La linea era scomparsa.
Tutto era apparso più vivo, per la prima volta diverso, strano, indescrivibile nella sua complessità, ma completo.
E tutto era stato incatenato indissolubilmente alla vita di qualcun altro. Alla convivenza con qualcun altro. Ad un essere umano, il miglior essere umano che avesse mai incontrato.
Non era un vivere strano in funzione di, era un vivere davvero legato a...
Un qualcosa che non era riuscito a spiegare alla sua analista senza, con tutta probabilità, apparire un gay in pieno coming out.

Perché non era mai facile, per non dire impossibile, chiarire come mai avrebbe passato il resto della sua esistenza a correre dietro i ragionamenti incredibili e la schiena slanciata di Sherlock Holmes senza che non saltassero fuori domande ovvie sulle sue inclinazioni sessuali.

Come se bisognasse andare a letto con qualcuno per stabilire qualche tipo di connessione in più. Come se una relazione fosse troppo e un'amicizia troppo poco per spiegare come mai dopo sei mesi non riuscisse ancora a rimettere piede nel ripostiglio dei suoi ricordi senza sentirsi scuoiato vivo.
E il suo ripostiglio era lì ad aspettarlo, un portone nero e una scalinata ripida come preludi.
Il cellulare squillò nella sua tasca.
Lo afferrò e rispose automaticamente, senza controllare il numero.
"Pronto?"
"John, caro, non rimanga impalato lì a guardare la porta, sembra un maniaco. Entri, il tè e quasi pronto. Le lascio la porta aperta."
" Sì, signora Hudson. Arrivo."
Decisamente la donna lo stava spiando dalla finestra del piano superiore.
Chiuse la chiamata e si fece scivolare il cellulare nella tasca.
L'uscio davanti ai suoi occhi si dischiuse leggermente.
Forse non ci sarebbe stato bisogno di salire quella scala, quel giorno. Gli bastava superare la porta, prendere il tè con la signora Hudson, farsi dare il resto dei suoi vestiti e delle sue cose ( "Li ho già impacchettati io John caro, devi solo venire a prenderli, i nuovi inquilini arriveranno tra qualche giorno" aveva cinguettato la sua voce al telefono nemmeno ventiquattr'ore prima) e poi voltarsi e andar via.
Non le aveva chiesto che fine avessero fatto le cose di Sherlock, ma conoscendo Mycroft una squadra di silenziosi uomini in nero, o bellissime segretarie in tailleur, le aveva catalogate, inscatolate e portate via appena lui aveva lasciato l'appartamento.
Lo stesso appartamento dove avevano vissuto insieme, lui e il miglior amico che avesse mai avuto, e che ora sarebbe diventata la casa, il posto dove tornare, di qualcun altro.
Un posto che lui aveva perso e mai più ritrovato.
Chiuse un secondo gli occhi, cercando di focalizzare la sensazione di normalità e benessere di quando, in quella che sembrava ormai un infinità di tempo prima, attraversava quel portone e saliva le scale come se fosse il gesto più naturale del mondo. La porta del salotto era sempre aperta, e in giro c'era spesso odore dei solventi chimici. Alcune volte ad accoglierlo c'era la musica del violino, molto più spesso un caos di fogli, libri impilati, giornali, tazze di tè vuote o piatti pieni di briciole. Ma soprattutto il profilo pallido di un uomo con le dita congiunte, profondamente immerso nei complicati meccanismi della sua incredibile mente, o profondamente invischiato nella più estremamente dannosa noia quotidiana.
Dannosa per il muro e per John, solitamente.
Sorrise leggermente a quel ricordo, cercando di concentrarsi unicamente su di esso e tralasciando la parte dolorosa, il vuoto della mancanza, che sempre e inevitabilmente seguiva quei pensieri.
L'illusione funzionò così bene che per alcuni secondi decise di continuare ad ingannarsi e attraversò la strada. Fece un passo avanti e un altro ancora, decidendo di fingere che non fosse passato tempo, che niente fosse successo, mentre allungava la mano verso la maniglia dorata e spingeva verso l'interno.
Finse di stare oltrepassando quella soglia un giorno come tanti.
Nell'atrio arrivarono famigliari i rumori della tv della signora Hudson in sottofondo e l'effluvio caldo e profumato di qualcosa appena sfornato.
E poi...
L'acuta nota alta prodotta da uno strumento a corde vibrò nell'aria sopra di lui, oltre la porta in cima alle scale.
E Il cuore di John per un attimo venne compresso fino allo spasmo.
La vista divenne sfocata mentre le gambe scattavano verso i gradini e gli occhi furono accecati quando spalancò la porta.
La luce che filtrava dalla finestra aveva il fastidioso e dorato riverbero del sole riflesso sulle nuvole nelle giornate di pioggia, quella sfumatura che feriva gli occhi quasi più che guardare il sole stesso.
Come un'aura sfocava i bordi della figurata alta e sottile che teneva in mano il violino, in piedi e di spalle.
La musica si interruppe, lo strumento venne abbassato e l'uomo si voltò verso di lui.
Volto lungo e pallido, zigomi sporgenti, ricci scuri e un paio di acuti occhi azzurri fu tutto quello che John si concesse di osservare sommariamente per un decimo di secondo.
Poi arrivarono.
Il sollievo,

l'esultanza,

i "lo sapevo",

il fastidio,

la felicità,

la rabbia,

l'incredulità,

la voglia di urlare,

l'impossibilità di aprire bocca,

la scarica di adrenalina,

il battito accelerato nelle orecchie,

la pressione nella testa,

il subbuglio nello stomaco,

la spossatezza negli arti,

la vista completamente nera,

e ancora, ad ondate, di nuovo,

rabbia, gioia, stizza,

la vista che tornava

indignazione, appagamento, rancore

respiro affannato, nodo in gola
e per ultimi i perché.

Sherlock rimase immobile, senza dire una parola, guardandolo come se non avesse mai smesso di farlo, come se fosse una mattina come tante di un giorno come tanti, in cui lui tornava e ad accoglierlo c'erano quegli occhi, che se non impegnati in qualcosa di estremamente pressante si sollevavano e incrociavano i suoi.

La linea rossa scomparve in quel momento.
Cielo e terra si confusero di nuovo, e quella zona nel suo cervello ( che allungava le sue propaggini fino al cuore), quel meccanismo un po' arrugginito, scricchiolò e fischio forte, sul punto di animarsi.
Poi la voce che ricordava così bene riempì, con il suo tono basso e un po' rauco, l'aria intorno.
Coprì il frastuono dei suoi pensieri e si insinuò con forza nel respiro immobilizzato nei polmoni.
“ John...”
Quello fu davvero troppo da sopportare.
John Watson si voltò e prese a scendere velocemente le scale.
Aprì il portone, uscì in strada e a passo di marcia, con le prime gocce di pioggia che gli bagnavano i il viso e i pugni stretti nelle tasche del giubbotto, si avviò lungo il marciapiede.
Non smise di camminare nemmeno un secondo e nemmeno per un secondo si voltò indietro.
La sua coscienza si confuse con il ritmo dei suoi passi, smembrandosi nel rumore del traffico congestionato e disperdendosi nel sottofondo di voci dei passanti.












Esistono cammini senza viaggiatori.
Ma vi sono ancor più viaggiatori che non hanno i loro sentieri.

[Gustave Flaubert]















Note della quasi-autrice.

Nuovo fandom, nuova vita.
Si fa per dire perché non avevo più ispirazione da un bel po' di tempo e credevo non avrei mai più scritto su efp... questo naturalmente prima di mettermi a vedere Sherlock e sperimentare un intenso ritorno di fiamma verso le fanfic. Ero solita scrivere sui manga, ma ora ho deciso di infestare, sfortuna vostra, codesto fandom
Sinceramente la decisione è arrivata dopo la visione dell'ultima puntata della seconda serie, una vagonata di lacrime e un cestino di kleenex usati ( sì lo sapevo anche prima di avviare il vlc che era tutto finto, ma si può non cedere dopo l'ultima scena tra Sherlock e John? No ragazze mie, no davvero, non si può).
Così eccomi qui.
Sarà una fic in tre capitoli in cui cercherò di descrivere, frustrandomi per mantenere più possibile l'ic e il bromance, l'incontro tra Sherlock e Jhon dopo sei ( inventati da me) mesi di “assenza” del detective. Il primo atto si è appena concluso con una clamorosa battuta in ritirata, ma naturalmente è solo l'inizio.
Ho riletto, cancellato, riscritto, aggiustato, limato, ri-cancellato e riscritto questo capitolo così tante volte che non mi stupirei se il pc si animasse da un momento all'altro mi ordinasse di darmi una calmata.

Il risultato non è il massimo dei miei standard, sia perché è un bel po' che non scrivo sia perché tra le mie varie pecche quando lo faccio c'è una sfortunata aria drammatico romantica ( quando si parla di cose già di per loro non proprio allegre) che spesso oscilla tra l'angst morboso e il tendenzialmente melodrammatico.

È una tendenza naturale, per il quale mi bacchetto più che volentieri, ma non è il problema maggiore... perché quello è il bromance.
Citando Moriarty è per eccellenza “ il problema tra me e te”... dove “te” è proprio il bromance.
Perché io e il bromance abbiamo un problema.
Ora, io sono una yaoista nata.
E una amante dei racconti di Sherlock Holmes, ancor prima della serie della BBC, che è comunque stupenda oltre ogni dire.
Prima di mettermi a scrivere ho aspettato tre giorni per chiarire nella mia testa come volevo che fosse il rapporto tra i due protagonisti, se uno slash o, appunto un bromance.
L'istinto e la testa mi dicono che l'ic vuole un bromance e che nel bromance sta la complessità e la spiegazione del loro rapporto. Sinceramente non li vedo a fare l'amore con il corpo i personaggi che la BBC ci ha mostrato, ma questo non vuol dire che non si amino, in un modo unico e altrettanto intimo ( e a mio modesto parere reso davvero sublimemente).
[E naturalmente se qualcuno con qualche bella fic molto ben scritta volesse farmi cambiare idea sul lato sessuale della faccenda, la mia anima yaoi/slasher apprezzerebbe molto]
Il problema è che il bromance non mi viene molto facile, forse per il callo da yaoista/slasher, quindi per me questa fanfic è soprattutto una sfida.

Una sfida che spero poi risulti gradita a voi, naturalmente.
Una piccola nota finale sul titolo di capitolo, prima di postare la storia e mettermi seriamente a studiare per i miei esami.
Ho scelto il passo tratto da “ L'avventura della casa vuota”, quello in cui per la prima volta il dottor. Watson rivede Holmes che credeva morto in Svizzera, caduto dalla cascata di Reichembach, in parte per metterlo in contrasto con l'incontro tra i due personaggi tratti dalla serie tv... di cui il meeting sarà leggermente diverso.
In parte, per un piccolo tributo alla penna di Conan Doyle.
A well remembered voice è l'espressione originale inglese usata da Watson, riusata poi da me nell'ultima parte del capitolo, anche se italiano.
Un'altra nota di piccola importanza riguarda il titolo, scelto con un significato non proprio a caso, su cui vi illuminerò nell'ultimo capitolo... naturalmente fino ad allora accetto opinioni a riguardo.
E per finire questa post-presentazione molto antipatica in bellezza, spero che la fic sia di vostro gradimento:)
Torno a studiare la biografia di Conan Doyle.
A presto e


Believe in Sherlock :)



Darseey


  
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