Disclaimer: I fatti narrati
sono completamente di mia invenzione, i personaggi presenti in questa storia
sono realmente esistenti ed appartengono a loro stessi, ed io non intendo dare
rappresentazione veritiera ne del loro carattere ne della loro sessualità o
offenderli in alcun modo. E per finire non guadagno nulla da tutto questo, boohya! \o/
Timeline: Primavera 2003.
Conteggio parole: 3.871
Note: Scritta per il P0rnFest#5 @ fanfic_italia con
il prompt: RPF
BRAND NEW/RPF TAKING BACK SUNDAY, Jesse Lacey/John Nolan, I'm sick of writing
every song about you. (Head Club - Taking Back Sunday) e per il COW-T#2 @ maridichallenge
con il prompt: pioggia.
Questa storia è ambientata
nel 2003 e in teoria, seguendo l’ordine temporale delle shot,
sarebbe la terza parte di quattro, ma il fato ha voluto che cominciassi da
questa e la finissi pure e, siccome che cadeva a pennello con il prompt del COW-T e che i City Angels
devono vincere, la pubblico comunque e FUCK DA POLICE! Tanto non come se spoilerassi cose che la gente non puo'
leggere su wikipedia XD.
In fondo ho scritto un po’
di TBS facts così anche i riferimenti qui dentro sono
più facili da capire :D
Mi dispiace di aver
trattato Adam come l’ultimo degli stronzi in sta fict D: Tanto ne ho così tante in fase di plottaggio che rimedierò di sicuro /o/
Titolo da Okay I Believe in You But My Tommy Gun Don’t dei Brand New.
We’re concentrating
on falling apart.
-Ho
deciso di lasciare la band.- dice John mentre finisce
la birra rimasta sul fondo della sua bottiglia, mettendosi a posto gli occhiali
sul viso.
Jesse smette di giocare con le manopole
della radio della macchina e sorride, come se lui non fosse presente. Quando
alza lo sguardo, John si volta verso il sedile posteriore, prendendo un’altra
bottiglia di birra da un sacchetto di plastica per tenersi occupato. Entrambi
sanno che quella frase si trascina dietro parole che rimangono sospese in aria
e che John non sta parlando solamente di musica.
-E
così è questo quello di cui mi dovevi parlare.- mormora e la sua voce si piega
in un nuovo sorriso. –Sempre saputo che sarebbe successo. Però ti davo tempo
fino al tour in Europa.- John alza le spalle e non dice nulla. Erano settimane
che ci ragionava su e non ne veniva fuori, e Jesse l’aveva sempre saputo. –Non
preoccuparti- continua recuperando l’apribottiglie nel cassetto davanti a John,
accanto ad alcune cassette. –Non credo che te ne pentirai.-
-Ne
dubito.- risponde John passandogli un’altra bottiglia. –Questa è probabilmente
la decisione più stupida che potessi prendere.-
Jesse appoggia le mani sul volante, fa
vagare lo sguardo davanti a se, ma rimane in silenzio e John riprende a
parlare, sentendosi quasi in dovere di giustificarsi di nuovo. –Tanto per iniziare,
dovrò ricominciare da capo.-
-Ci
sei riuscito una volta, ci riuscirai anche la seconda. Senza contare che ormai
la gente sa chi è John Nolan, non sarà così
difficile.-
Quando
apre nuovamente la bocca, John si rende conto di stare per mormorare timori di
cui nemmeno lui ha realmente paura. Quando quella sera aveva chiamato Jesse chiedendogli di uscire sapeva già quale sarebbe stata
la sua reazione; non sopportava Adam, gli piacevano
ancora meno le loro canzoni e, probabilmente, sarebbe stata l’ultima persona
che in quel momento avrebbe provato a convincerlo di stare facendo un errore.
E
questo era uno dei motivi per cui gli ha telefonato. Non ha bisogno di
consigli, ha solamente voglia di sentire qualcuno che gli dia ragione e dica
che questa è la decisione giusta.
Il
silenzio cade nell’abitacolo della macchina.
Il
parcheggio davanti a loro è completamente deserto. Fuori dalla macchina si
sente il leggero eco delle onde del mare che si infrangono sulla riva, il cielo
è quasi arancione per via dello smog e delle insegne luminose e, davvero, non potevano scegliere una
serata peggiore per decidere di uscire in piena notte e rimanere fermi in mezzo
al nulla, in una macchina che ha rischiato più volte di lasciarli a piedi,
facendo finta di osservare stelle che non si riescono a vedere.
Jesse apre leggermente il finestrino e
l’aria diventa un po’ più fredda nonostante sia primavera inoltrata.
L’altra
ragione per cui ha chiamato lui e non Adam, o
Michelle, o Mark, o chiunque altro, è semplicemente perchè
Jesse è il suo migliore amico. La persona che conosce
da quando ha nove anni, con cui si chiudeva in camera ad ascoltare gli Smith
senza dire una parola per ore, quella che ha ferito e che lo ha ferito ma con
cui, comunque, si ritrova sempre alla fine.
E’
il primo a cui si rivolge quando vuole parlare, tutto ciò che vuole ma che non
si azzarda a chiedere.
Non
è amicizia, non è amore, è semplicemente Jesse; qualche bacio dato quando si è così ubriachi da
poter fingere di non ricordare nulla la mattina successiva, chi gli viene in
mente mentre scrive parole a caso sul suo taccuino, la persona con il quale non
è mai onesto ma a cui ha sempre detto troppo.
Ci
sono state litigate furibonde e la voglia di tagliare tutti i legami che lo
uniscono a lui per poi trovarsi a comporre il suo numero di telefono quasi automaticamente
qualche ora dopo, il terrore che possa diventare qualcosa di più e allo stesso
tempo la sensazione di non stare aspettare altro.
E
sa che non è giusto pensare una cosa del genere, non quando ha ancora sulle
labbra il sapore delle sigarette di Adam. Ma è
impossibile fermare un’idea e John aveva smesso ormai da tempo di provarci.
C’era
stato un periodo in cui aveva davvero pensato che le cose tra di loro sarebbero
potute essere grandiose ma le litigate, le scenate di gelosia, ogni sua
reazione che sembrava sempre spropositata, gli rendevano difficile
ricordaglielo.
Per
un attimo tenta di convincersi di non essere così stronzo come si sente, che
forse è stato Adam a far diventare le proprie paure
reali con i suoi atteggiamenti del cazzo, ma non è vero. Quei pensieri sono
sempre stati lì e John sta solamente mentendo a se stesso.
No,
si merita il peso di tutti questi sensi di colpa. Ma questo non lo ferma dal
continuare ad aspettare.
Alcune
gocce di pioggia cominciano a cadere, facendo rumore mentre rimbalzano contro
il parabrezza.
Dopo
qualche istante Jesse apre la portiera ed esce,
appoggiandovisi con la schiena. L’acqua scivola lungo le sue guancie ma lui non
sembra accorgersene.
-Ma
che diavolo…?- John impreca e appoggia la bottiglia
che ha in mano contro il sedile, aggirando la macchina per raggiungerlo. La
terra dello sterrato diventa in fretta fango che gli sporca i jeans ma lui
continua a camminare nella sua direzione.
-Si
puo’ sapere che ti prende?- gli domanda strofinandosi
le mani sulle braccia nella speranza di smettere di tremare.
Jesse alza le spalle e porta di nuovo lo
sguardo oltre l’orizzonte.
Con
un sorriso amaro nota come, ultimamente, la sua vita assomigli sempre più a
quella di un animale in gabbia. Non puo’ andare da
nessuna parte ed è costretto a passare il suo tempo correndo sulla ruota; alla
fine della giornata è senza energie e si trova comunque nello stesso posto.
Ma
la verità è che tra lui e John le cose non sono state mai semplici, loro non
sono mai stati capaci a farle rimanere tali.
Avevano
nove anni quando si erano incontrati per la prima volta. Era il primo giorno di
scuola del nuovo anno, John era arrivato in ritardo e l’unico banco libero che
aveva trovato era accanto a Jesse. Aveva passato tre
giorni senza rivolgergli la parola, fino a quando Jesse
non si era stancato di aspettare ed aveva fatto il primo passo, cercando un
argomento qualsiasi di cui parlare.
Sette
anni dopo John, con in mano la sua prima chitarra, aveva convinto Jesse a chiedere ai suoi genitori un basso elettrico per
Natale. Per mesi avevano passato i pomeriggi seduti sul tappeto del salotto di Jesse, schiacciando tasti a caso e componendo canzoni di
cui entrambi si vergognano ancora ma, per una volta, a Jesse
andava bene che le cose andassero a rallentatore; suonare senza amplificatore
per non disturbare i vicini e scrivere testi oscenamente banali su quella
ragazza per cui aveva una cotta non era poi così male.
A
diciassette anni, quando ogni cosa dal liceo alle ragazze sembra essere
destinata a durare per sempre, Jesse aveva capito
davvero cosa significasse avere il cuore spezzato. Sorprendentemente non aveva
a che fare con un appuntamento andato male o una ragazza con gli occhi verdi,
ma con un sorriso imbarazzato e la scoperta che, nonostante tutto, migliore amico è solo una parola.
Non
erano bastate le litigate e i successivi chiarimenti, gli occhi neri e le
promesse, la faccenda era rimasta aperta per molto tempo.
Jesse non aveva più affrontato l’argomento
con John. Al contrario, aveva scritto una canzone al riguardo sperando fosse
sufficiente per fargli capire quanto ancora la delusione bruciasse e sapendo
infondo che non lo sarebbe mai stata. Fu abbastanza solamente per fare
aumentare le parole non dette tra di loro, tra una nota di una canzone e
l’altra.
Poi
era arrivato Adam; con quello stupido accento e
l’energia che sembrava non esaurire mai, aveva conquistato tutti nel giro di
poche settimane.
Improvvisamente
era diventato il migliore amico di Mark, di Eddie e anche di John. Tutti
sembravano adorarlo. A Jesse faceva pena perché
sapeva già come sarebbe andata a finire.
Adam non aveva idea di dove si stava
andando a cacciare e finire in mezzo a quel casino che erano loro due era
l’ultima cosa che augurava a chiunque, nonostante solo la vista di Adam gli facesse venire i nervi.
Lui
stesso ne era sfinito.
Si
ricorda la luce che brillava sul suo viso ogni volta che il suo sguardo
incontrava quello di John e la stretta di gelosia che si formava alla base del
suo stomaco mentre li osservava. John non glielo aveva mai detto apertamente ma
lui aveva capito che stavano insieme mezzora dopo averlo conosciuto.
Aveva
sorriso e gli aveva stretto la mano, notando con la coda dell’occhio che John
era l’unico in quella stanza ad essere felice che loro due facessero conoscenza.
Adam lo odiava.
Jesse non ne era stupito; magari gli aveva
raccontato quello che era successo tra di loro, mettendo enfasi su quanto Jesse fosse stato uno stronzo o di tutte le volte in cui
gli ha spezzato il cuore e probabilmente Adam era convinto di
sapere tutto sul loro conto. Jesse si tratteneva dal
ridere per la sua ingenuità.
E
ora che a quanto pare, Adam era uscito dal quadretto,
erano nuovamente solo loro due esattamente come sapeva che sarebbe andata.
La
pioggia non accenna a smettere, continua a cadere mentre un lampo illumina il
cielo. Jesse rimane a in attesa del rumore di un
tuono che non sentirà mai.
John
è ancora fermo davanti a lui, sfregandosi le mani sulla camicia ormai fradicia,
e Jesse lo odia.
Lo
detesta con una rabbia che potrebbe essere solamente indirizzata verso John,
l’unica persona che sa che non riuscirebbe mai ad odiare nonostante tutte le
volte in cui ci ha provato.
John
sente le dita di Jesse sfiorargli appena il polso. Lo
vede sorridere di nuovo, come una persona rassegnata dopo aver provato a
spiegare lo stesso concetto per ore. Ormai John ha perso il conto di tutte le
volte in cui ha la sensazione di essersi perso qualcosa con lui. E vorrebbe
cancellargli quel sorriso a forza di pugni perché lui è sotto la pioggia in
mezzo al nulla e Jesse non ha mai fatto nient’altro
che questo; sorrisi che non arrivano mai agli occhi mentre gli sbatte in faccia
quanto sia facile, quando in realtà è
tutto tranne che così.
Per
molti istanti si sente solamente il rumore della pioggia.
Avevano
le parole sulla punta della lingua da tutta la vita, le urlavano in un
microfono ad ogni concerto davanti a ragazzi convinti di sapere cosa volessero
dire ma che non ne avevano alcuna idea,
eppure non erano mai riusciti a pronunciarle davvero. E questa volta è John a sorridere perché, nonostante a Jesse piacesse credere e convincere la gente del contrario,
la colpa non appartiene sicuramente solo a lui.
Tutto
quello che John sa sullo spezzare i cuori, l’ha imparato da Jesse.
John
respira dal naso, non si sposta di un millimetro e Jesse
volta la testa indietro, verso il volante della macchina, con l’impressione che
ogni secondo che passa sia un’occasione persa per andarsene e mettere fine al
casino che stanno diventando lui e John, ma non muovendo un muscolo.
Vorrebbe
semplicemente che le cose cambiassero, in un modo o nell’altro, perché non è
come John, non riesce a vivere in attesa. E odia,
odia essere lui a dover fare qualcosa per cambiare quella situazione, odia
sentirsi così insicuro, odia lasciarlo vincere e, soprattutto, odia che
nonostante tutto nemmeno questo sembri importante. In quel momento odia John
come non gli sembra di aver mai odiato qualcuno in vita sua e odia ancora di
più se stesso per non riuscire ad odiarlo davvero.
Questa
volta Jesse gli afferra il polso, stringendolo così
forte che John riesce a sentire le sue unghie graffiargli la pelle nonostante
la stoffa bagnata. Il loro sguardo si incontra e gli occhi di Jesse sembrano quasi trasparenti.
Quando
qualche secondo dopo lo bacia, John si sente quasi soffocare. Jesse gli stringe la camicia con le dita, non chiude le
palpebre, non fa nient’altro che premere le labbra sulle sue e provare a cambiare le cose. Ma tutto rimane
esattamente uguale, sono sempre loro, con l’alito che sa di birra e i lampi di
un temporale estivo alle loro spalle.
Jesse si volta, aprendo la portiera della macchina
e tornando a sedersi ma John è ancora appoggiato al cofano, mentre prova a
capire che cosa sia appena successo. Cerca qualcosa da dirgli, considera l’idea
di chiedergli scusa, di mandarlo a quel paese o magari entrambe le cose, ma non
ha il tempo di fare niente. Appena si siede in auto, Jesse
accende la musica e mette in moto.
Per
tutto il tragitto nessuno dei due dice nulla. Jesse
frena davanti alla porta del appartamento che divide con Adam
e John decide che è arrivato il momento per dire qualcosa, non importa se non
sono le parole giuste.
-Jesse, io…-
–Nolan, siamo arrivati. Scendi.-
John
si morde un labbro ma non si muove e, non importa quanto il volume sia alto, la
musica della radio non avrebbe mai potuto coprire il silenzio.
-Nolan. Scendi.- mormora tra i denti. –Come
ti pare.- dice alla fine, accendendo di nuovo il
motore.
Quando
arriva davanti a casa sua, Jesse non si preoccupa
nemmeno di chiudere la macchina. Vuole solo andarsene da lì, magari farsi un tè
e passare la serata giocando con la playstation o immaginando John mentre viene
derubato nel Queens; sbattersi la porta alle spalle
prima di prenderlo a pugni o fare qualcosa di ancora più stupido, come mandare
a quel paese l’orgoglio per lui ancora una volta.
John
esce in fretta dall’auto e prima che la porta si chiuda la blocca con il piede,
seguendolo dentro. Jesse sta cominciando a perdere la
pazienza.
L’
appartamento di Jesse è piccolo, sul tavolino in
salotto ci sono ancora i cartoni della rosticceria cinese e alcuni avanzi di
una pizza che lui e Vin hanno mangiato nel pomeriggio.
Jesse si dirige verso il frigorifero,
lasciando impronte bagnate sulle piastrelle, e apre una lattina di birra,
appoggiandola sul tavolo sopra dei fogli di quaderno pasticciati. Non lo degna
nemmeno di uno sguardo.
John
si allontana con un sospiro e raggiunge il bagno.
Appoggia
gli occhiali sul ripiano del lavandino, cerca un asciugamano e si passa una
mano sul viso, fissando la propria immagine riflessa nello specchio per vedere
se, oltre che sentirsi come una merda, ne avesse anche l’aspetto. Prende in
mano il telefono, guardando lo schermo e chiedendosi se fosse il caso di
mandare un messaggio ad Adam per avvertirlo che
quella sera avrebbe fatto più tardi del previsto.
La
verità è che ormai ogni secondo che passano insieme è una scusa per litigare, e
John ha l’impressione che, non importa quello che potrebbe succedere questa
sera, in realtà è finita da settimane. Anche se, forse, questa non è altro che
l’ennesima scusa che cerca di rifilare a se stesso.
Rimette
il telefonino in tasca ed esce, raggiungendo Jesse in
soggiorno. Non ha alcuna idea di quello che sta per fare.
-Che
cazzo vuoi, John?- chiede e nella sua voce c’è più stanchezza di quella che
vorrebbe mostrare. Si è cambiato i vestiti ed è in piedi, davanti alla finestra
che da su un incrocio in quel momento deserto.
John
rimane sulla porta, fissando le luci della città e facendo il possibile per non
incontrare gli occhi azzurri di Jesse. -Non lascerò
che tu te ne vada ancora.-
-Cos’è, proiezione di se stessi sugli
altri?- domanda voltandosi verso di lui. –Io
non sono mai scappato.-
-No,
è vero- esclama, una risata forzata gli esce dalle labbra mentre fa un passo
verso di lui. –Jesse Lacey
non lo farebbe mai. La colpa è completamente mia. Dio, deve essere così bello
essere te.-
-Tu
non hai alcuna idea di che cosa
voglia dire essere me.-
-Già,
è una delle cose che ami di più, vero? Sentirti perennemente incompreso. Perché
non mi dici quello che vuoi sentirti dire? Visto che sicuramente io non ci
arriverei mai…-
-Sono
sicuro che non ci arriveresti nemmeno se ti dicessi cosa devi dire parola per
parola.- mormora e i suoi occhi non sono che piccole fessure. Farlo entrare in
casa sua era stata una pessima idea, soprattutto perché ora non può andarsene
da lì senza sembrare un idiota.
John
ormai è a meno di un passo da lui. Non aspetta nemmeno di sentire quale altra
stronzata uscirà questa volta dalla bocca di Jesse,
preme le labbra sulle sue e lo bacia.
Non
c’è nulla di romantico, solo un silenzio pesante e la tensione che ormai è così
tangibile da poter essere toccata con le dita.
Jesse fa un passo in dietro; ha il fiato
corto, le nocche delle mani che gli prudono e forse questa volta gli avrebbe
davvero spaccato la faccia, se solo John non gli si fosse buttato nuovamente
addosso.
Rimane
fermo guardandolo negli occhi e si morde la lingua, mentre anche lui cerca di
regolarizzare il suo respiro. John non gli ha detto di più quella sera di
quanto non avesse fatto nei quindici anni in cui si conoscevano e Jesse è stanco tanto del suo atteggiamento, quanto di
cercare di resistere.
Si
avvicina di nuovo a lui, gli stringe la camicia con le dita, le sue labbra
cercando quelle di John, e lui sorride perché per la prima volta dopo anni è
sicuro che non andrà da nessuna parte. E’ tutto completamente nuovo ma, allo
stesso tempo, entrambi hanno la sensazione che era sempre stata solo una
questione di tempo, sapevano da anni che sarebbe finita così.
Jesse smette di baciarlo e gli afferra il
braccio, cominciando a camminare verso la camera da letto. E’ probabilmente
l’idea più stupida che gli sarebbe potuta venire in mente, ma la verità è che,
nel suo cervello, era raro che John e
logica riuscissero a stare nella
stessa frase.
John
si siede sulle coperte disfatte e si slaccia la camicia bagnata, che cade a
terra lasciando una macchia umida sulla moquette.
La
camera è quasi completamente buia, i buchi delle tapparelle abbassate
filtravano piccole losanghe di luce, illuminando appena il muro. Jesse sale in ginocchio sul materasso, allontanando il viso
da John solo per riuscire a togliersi la maglietta.
Lui
non mentiva prima, darebbe qualsiasi cosa per fare cambio con Jesse. Perché, mentre a lui non sembra importare, John si rende conto di stare facendo
l’ennesima cazzata, ma questo non lo ferma dall’intrecciare le dita nelle sue e
muovere i fianchi contro i suoi. Il respiro di Jesse
si spezza nella sua bocca e ancora una volta non c’è nulla di romantico, solo
gemiti che si bloccano in gola, rabbia, frustrazione, desiderio, bisogno…
John
si morde l’interno della guancia e si mette a sedere sul letto, facendo cadere
le coperte sulla moquette. Nonostante la poca luce ha l’impressione che gli
occhi di Jesse non fossero mai stati così luminosi.
Lui
chiude le palpebre e gli graffia la pelle delle spalle quando John si
inginocchia davanti a lui, prendendoglielo in bocca. Mormora parole incoerenti,
spinge il bacino contro il suo viso e forse si lascia sfuggire più di quanto
dovrebbe. John si ferma un istante e lo guarda, intrecciando le dita con le sue
e, quando tutto ricomincia, Jesse socchiude gli occhi
perché fare un pensiero che abbia senso compiuto diventa difficile.
Si
morde un labbro, trattiene un imprecazione tra i denti, e il viso di John è di
nuovo alla distanza di un respiro dal suo. Gli lascia piccoli baci veloci sulle
labbra e sul collo, dove c’è un leggero accenno di barba, e Jesse
gli scosta appena l’elastico di boxer, facendo scivolare dentro la mano. John
apre lievemente la bocca e ansima sulla sua guancia, avvicinandosi ancora di
più a lui.
Si
chiede come abbia fatto ad aspettare quindici anni, visto che stare con Jesse, ora, sembra essere l’unica cosa che abbia un senso.
E’ nel letto con lui ed è strano e fuori luogo ma allo stesso tempo ha la
sensazione che tutto ciò che sia successo fino a quel momento non abbia fatto
altro che portarli a questo.
Quando
John appoggia la testa sui cuscini ha il fiato corto ed un leggero sorriso. Jesse gli posa una mano sul viso e John lo bacia
lentamente, ma dalle sue labbra non esce nemmeno una parola. Per un istante, Jesse non ha idea di cosa fare. Nonostante fosse sicuro di
aver precisato l’ovvio quando aveva detto quelle due, semplici parole, non
ricevere risposta lo avevano reso vulnerabile come raramente si era sentito
prima. Ma John ormai era entrato sotto la sua pelle e, nonostante non volesse
ammetterlo, aveva deciso da tempo di prendersi anche le sue parti cattive.
Dopo
qualche istante, John si passa una mano sul viso e si siede sul bordo del
letto, cercando gli occhiali caduti sulla moquette. Jesse
sospira e incrocia le braccia sotto la testa, guardandolo con la coda degli
occhi. –Che stai facendo?- domanda senza accendere la luce.
John
alza le spalle e guarda la sua camicia ancora fradicia. –Vado a casa…- mormora non sapendo cos’altro dire.
Jesse alza un sopracciglio. –Io non
intenzione di prendere la macchina.-
-Vorrà
dire che camminerò.-
-Lazzara si preoccuperà
vedendoti tornare così tardi…- Sul viso di Jesse spunta un mezzo sorriso mentre si gira di lui, e John
lo fulmina con lo sguardo perché pensare ad Adam è
l’ultima cosa che ha voglia di fare. Soprattutto dopo aver passato una delle
serate più incasinate della sua vita.
Jesse recupera le coperte dal pavimento e
si lascia ricadere sul letto. –Nolan, mettiti a
dormire.-
John
esita un momento, si morde le labbra e poi annuisce, lasciando cadere di nuovo
i suoi vestiti bagnati.
-Jess…- sussurra mentre si
stende accanto a lui. –Quello che ti ho detto questa sera è vero. Ho davvero
intenzione di lasciare la band.- Jesse
gli da ancora le spalle e John allunga una mano, sfiorandogli appena un
braccio.
–Nolan, dormi.-
Lui
annuisce nonostante Jesse non possa vederlo. Esita
solo un secondo e gli lascia un piccolo bacio accanto alla spalla, prima di
chiudere gli occhi. –Buonanotte, Jess…- sussurra
piano prima di girarsi su un fianco e chiudere gli occhi.
Jesse si morde un labbro e alla cieca
cerca le sue mani, stringendo le dita tra le sue. –Buonanotte, John.- Non è sicuro di averlo detto davvero ad alta voce oppure
solamente pensato ma è quasi certo che, qualche istante dopo, la mano di John
abbia ricambiato la stretta.
Note 2.0: Ci sono alcune
cose vere dentro questo capitolo.
John
e Jesse si sono conosciuti davvero alle elementari,
in una scuola cattolica di Long Island, ed è stato davvero John a convincere Jesse a cominciare a suonare (e il primo strumento mi pare
fosse proprio il basso). Anni dopo Jesse occupò la
posizione di bassista nella prima formazione dei Taking
Back Sunday (John alla chitarra solista, Eddie a
quella ritmica, Mark alla batteria, Jesse al basso e
un certo Antonio Longo come cantante). Quando dopo pochi mesi decide di
andarsene per formare con i suoi vicini di casa Vin Accardi,
Garret Tierney e Brian Lane
i Brand New, il suo posto venne preso da un ragazzo
che Eddie ha conosciuto quando andava in vacanza da sua nonna: Adam \o/
Appena
i ragazzi lo sentirono cantare (e notarono la sua presenza scenica) gli diedero
il posto del povero Antonio (che, poveraccio, era anche una chiavica a scrivere
testi XD) che venne licenziato per sempre. Per il ruolo di bassista arrivò
invece Shaun /o/
Durante
l’ultimo anno di liceo, Jesse dette una festa a casa
sua. Mentre lui era in cucina ad ubriacarsi, John è salito nella sua camera con
la ragazza di Jesse (ormai ex) e ci ha fatto le zozzerie. Naturalmente, lui l’ha scoperto (John, ma
seriamente, davvero pensavi di farla franca? XD), si è incazzato come una
biscia e gli ha portato rancore per un botto di tempo. Nel primo album dei Brand New (datato 2001) è infatti presente Seventy Times 7,
scritta proprio al riguardo di questa brutta storia (nonostante fossero passati
un po’ di anni e John considerasse la questione chiusa). John rispose con There’s No ‘I’ In Team, una canzone nel primo
album dei Taking Back Sunday.
Drama ensues D:
Per
ultimo, il parco di cui parlo è il Wantangh e si
affaccia sul mare. Dalle foto che ho trovato su internet sembra anche un posto
carino XD