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Autore: _hurricane    31/01/2012    13 recensioni
Quando Blaine viene assunto da un ricco signore per dare ripetizioni a suo figlio, non sa ancora che la sua vita cambierà.
Non sa ancora che conoscerà un ragazzo misterioso e bellissimo, la pelle bianca come la neve e troppo fragile per sopportare i raggi del sole. Non sa ancora che si innamorerà di tutti i segreti nascosti nell'abisso dei suoi occhi azzurri.
Questa è la storia di Kurt e Blaine, e di come si sono amati.
"Preoccuparsi della vita di Kurt, del dolore che si nascondeva dentro i suoi occhi, lo aveva fatto sentire per la prima volta come se avesse una missione, un motivo per cui svegliarsi ogni mattina. Ma allo stesso tempo, gli aveva fatto capire chiaramente che prima questo motivo non c’era, e non era un bene.
Non era forse un rischio, un rischio inutile, quando poteva benissimo vivere sereno tra le mura accoglienti della Dalton e lasciare quel ragazzo allergico al calore del sole ai suoi problemi, alla sua vita? Lasciare che passasse il resto dei suoi giorni nel buio, ma quello del cuore e dell’anima?"
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Non chiedere al sole perché hai freddo al cuore.

- Anonimo

 


Dopo aver finito di cenare – una cena che a Blaine sarebbe bastata per almeno una settimana – Burt si alzò dal tavolo e gli fece cenno di fare lo stesso. Avevano discusso dei dettagli più pratici: il prezzo (cento dollari al giorno, Blaine che aveva rischiato di strangolarsi con il sorbetto nel sentirlo), la possibilità di dormire lì per poi recarsi direttamente a scuola la mattina dopo, gli orari, il metodo e via dicendo. L’unica cosa di cui non avevano più parlato, era Kurt. Blaine era a dir poco curioso di conoscerlo, di capire che tipo di persona fosse. E allo stesso tempo, era terrorizzato all’idea di compiere qualche passo falso, di dire qualcosa di inopportuno come “Fa caldo, andiamo a prendere un po’ d’aria?” senza rendersene conto.

Tutte le sue speranze e le sue paure scoppiarono come un’esplosione dentro di lui, diventando impossibili da distinguere, quando Burt gli disse: “Direi che è il momento di conoscere Kurt.”

Blaine annuì, in piedi davanti a lui, e quando Flint tornò per iniziare a sparecchiare, Burt gli disse di andare a chiamare Kurt nella sua stanza per dirgli di raggiungerli. Rimasero di nuovo soli, a condividere un silenzio tutto sommato confortevole. Blaine si accorse distrattamente che c’era un piccolo fuoco crepitante nel camino alle spalle dell’uomo.

All’improvviso, sentirono dei passi frenetici che riecheggiarono nel corridoio, in netto contrasto con l’aura di quasi immobilità che sembrava regnare nella casa. Flint riapparve dalla porta, leggermente trafelato, ed esordì: “Non è nella sua stanza, signore. E c’è la porta del giardino posteriore aperta.”

“Cosa?!” esplose Burt, precipitandosi verso di lui con così tanta velocità che Blaine ebbe a malapena il tempo di rendersene conto, prima di poterlo seguire a passo svelto.

“Gli ho sempre detto di non andarci, perché non mi ascolta?” continuava a ripetere Burt, camminando a grandi falcate lungo il corridoio. Superarono di sfuggita le cucine, ma Blaine era troppo concentrato su quello che stava ascoltando per farci caso. Non capiva: era buio, non c’era il sole, quindi perché tutta quella preoccupazione?

Alla fine, raggiunsero la porta menzionata e uscirono all’aria aperta, investiti dalla frescura. Il famoso giardino posteriore era grande tanto quanto quello che Blaine aveva intravisto arrivando, se non di più: prati, e prati, e ancora prati, puntellati da piccoli insiemi di alberi e cespugli che creavano tante radure private, e in lontananza un altro lago artificiale. Essendo scarsamente illuminato, l’unico modo per trovarvi dentro una persona era addentrarsi e cercarla nel senso vero e proprio del termine.

Scesero una piccola scalinata di pietra e iniziarono a camminare nell’oscurità, Burt che chiamava a tratti il nome di suo figlio e a tratti farfugliava frasi preoccupate di cui Blaine continuava a non cogliere il senso. Percorsero il giardino in linea retta, scrutando però in tutte le direzioni, finchè non si ritrovarono sopra un piccolo rialzamento che dava proprio sul laghetto. Burt continuava a guardarsi intorno, gridando a gran voce, lo sguardo dritto davanti a sé; invece Blaine, particolarmente affascinato, abbassò lo sguardo per scrutare meglio la riva. E fu così che lo vide.

C’era un ragazzo disteso a pancia in su a pochi passi dall’acqua, le mani dietro la testa e le gambe distese e rilassate, il petto che si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro regolare. Aguzzando la vista, ormai abituata all’oscurità, Blaine si accorse che aveva un’espressione assolutamente beata sul viso, gli occhi chiusi, i lineamenti definiti ma allo stesso tempo delicati ed eleganti. Era così bello, così armonioso, che se Blaine non fosse stato proprio in cerca di un adolescente in quel preciso momento probabilmente lo avrebbe scambiato per una parte della natura stessa.

La luce della luna illuminava la sua pelle così come illuminava l’acqua, donandole un aspetto quasi sovrannaturale: era di un colore così pallido da sembrare madreperla, in contrasto con il buio della notte. Assorto com’era, non si accorse che anche Burt se ne era appena reso conto.

“Kurt!” sbraitò, correndo a perdifiato fino a raggiungere suo figlio. Blaine gli corse dietro, giusto in tempo per vederlo scuotere con forza la spalla del ragazzo, che si alzò di scatto con uno sguardo terrorizzato in viso.

“Kurt! Si può sapere che ti salta in mente?!” gli disse suo padre, in tono di rimprovero. “Te l’ho sempre detto, se ti sdrai qui all’aperto di notte rischi di addormentarti, e se poi io non riesco a trovarti? Se si fa giorno?!”

Oh. Improvvisamente Blaine capì, e non seppe più cosa pensare. Burt gli era sembrato troppo severo fino a quel momento, ma era solo preoccupato. Terrorizzato, in realtà. E Kurt sembrava davvero addormentato, quindi forse aveva perfettamente ragione.

“Lasciami” disse semplicemente Kurt, scostando la spalla dalla presa di suo padre e mettendosi in piedi. A Blaine dispiacque molto che quella fosse stata la prima parola pronunciata da lui, troppo breve, troppo perentoria, perché Kurt… aveva la voce di un angelo. Era come se vibrasse nell’aria notturna toccando le note più acute e perfette, come se danzasse sulla superficie dell’acqua lasciandovi sopra piccoli cerchi che a poco a poco si dissolvevano.

Kurt si risistemò il gilet leggermente sgualcito e poi alzò lo sguardo, incontrando quello di Blaine e notando per la prima volta la sua presenza. Trasalì lievemente, quasi spaventato, ma in un attimo passò sulla difensiva e si ricompose. Blaine era troppo impegnato a metabolizzare quanto fossero chiari i suoi occhi e contemporaneamente a respirare per notare il cambiamento.

“Lui chi è?” chiese Kurt, indicandolo. Blaine trasalì a sua volta e lo guardò con aria un po’ colpevole, sentendosi improvvisamente fuori posto.

“Si chiama Blaine. Ti terrà al passo con le lezioni di quest’anno” rispose suo padre, impedendo a Blaine di farlo. “Non cercare di cambiare discorso, tu-“

“Credevo di averti detto che il professor Taylor andava più che bene anche per quest’anno. Io non ho bisogno di nessuno” ribattè Kurt, interrompendo Burt a metà frase e scoccandogli un’occhiata che se avesse potuto lo avrebbe incenerito. Blaine non sapeva cosa dire, né cosa fare. Aveva pensato che sarebbe stato semplice, ma si era sbagliato. Era evidente che Kurt si era creato un muro intorno, forse più alto di quello che circondava la sua bellissima casa.

“Kurt, sei pregato di cambiare atteggiamento quando ti rivolgi a tuo padre! Altrimenti-“

“Altrimenti cosa? Mi metti in punizione dentro casa? Madre natura ci ha pensato al posto tuo, risparmiati lo sforzo” sbottò Kurt, prima di oltrepassarli a passo svelto e correre lungo il sentiero che conduceva alla casa. Blaine pensò di aver visto una lacrima luccicare in uno dei suoi occhi, ma forse era solo un’illusione. Forse era solo la luce della luna.

Forse aveva reso quel ragazzo più bello di quanto non fosse in realtà, stregando Blaine con una sorta di incantesimo, di inganno.

Blaine sperò che fosse così. Perché era passato un secondo da quando Kurt era scomparso dalla sua vista, e faceva già male.

 


 

“Ti chiedo scusa da parte di Kurt. Sono sicuro che non voleva essere così scortese” disse Burt, accompagnando Blaine alla sua auto. Blaine in realtà pensava che Kurt avesse voluto essere esattamente così scortese.

“Non si preoccupi” rispose, grattandosi la nuca. “E’ sicuro che vuole che torni?”

“Si, sono sicuro. Vedrai che domani si sarà calmato, e sarà più gentile. E’ per il suo bene, deve solo capirlo” rispose Burt con un sorriso triste, abbassando lo sguardo.

“Va bene, allora… a domani, signor- ehm, cioè, Burt” precisò Blaine all’ultimo secondo, tirando fuori dalla tasca le chiavi che Flint gli aveva restituito qualche minuto prima.

“A domani, Blaine.”

 


 

Il pomeriggio seguente, Blaine venne condotto per la prima volta nella stanza di Kurt. Flint aprì la porta per lui e lo fece entrare prima di chiudersela nuovamente alle spalle, lasciandolo praticamente solo e… al buio. Completamente al buio.

Blaine si guardò intorno spaesato, stringendo istintivamente la tracolla che aveva sulla spalla, come per ancorarsi a qualcosa di reale e solido.

“Kurt?” disse in tono incerto, squarciando quell’innaturale silenzio.

Si sentì un click, e un angolo della stanza venne improvvisamente illuminato da una piccola lampada a muro. Kurt era seduto sull’ampio davanzale di una delle finestre, il vetro completamente oscurato ma ugualmente dotata di maniglia, in modo da poter cambiare l’aria in sua assenza. Aveva le braccia incrociate appoggiate alle ginocchia, lo sguardo fisso sul vetro. Non disse nulla.

Blaine si guardò brevemente intorno, notando la presenza di un grande letto matrimoniale a baldacchino, un tavolo rotondo al centro della stanza e un enorme armadio di mogano dal lato opposto, tutto scarsamente illuminato da quella piccola luce giallastra, che rendeva l’ambiente vagamente sinistro, avvolto in una sorta di penombra.

Anche i lineamenti di Kurt ne risultavano più accentuati, la luce che si soffermava sullo zigomo visibile creando una linea d’ombra sotto i suoi occhi. Non aveva niente a che fare con l’effetto della sua pelle illuminata dalla luna, però.

“Ciao” disse Blaine, deglutendo così forte che pensò si potesse sentire a distanza. “Io- io sono Blaine.”

“Sì, me lo ricordo” rispose Kurt, continuando ad evitare il suo sguardo. Sembrava riflessivo, quasi rassegnato alla sua presenza. Poi, all’improvviso, si voltò e lo fissò con un’intensità tale da farlo sentire così scoperto, così vulnerabile, che Blaine ebbe la tentazione di girarsi e lasciare quella stanza alla velocità della luce. Ma c’era anche qualcosa, dentro quello sguardo, dalla quale non ebbe la forza di ritrarsi.

Era come una forza magnetica, un’attrazione, che gli rendeva impossibile guardare altrove. Come se gli occhi di Kurt fossero il polo positivo, e i suoi quello negativo; così diversi, eppure fatti per attrarsi. E una volta che Blaine si sentì in grado di fissarlo di rimando, potè vedere in quelle due pozze trasparenti molte più cose.

Fu come guardare un vero e proprio specchio d’acqua: se lo guardi da lontano, o di sfuggita, ti accorgi soltanto del tuo riflesso sulla superficie, del modo in cui l’acqua si increspa, ma soltanto soffermandoti puoi riuscire a vedere quello che è sommerso, nascosto sul fondale. Soltanto se vuoi vedere, puoi farlo. Altrimenti, puoi semplicemente accontentarti di guardare un bellissimo specchio d’acqua, senza preoccuparti di cosa ci vive dentro, di quali tormenti ne animano gli abissi, quali storie.

Blaine decise di immergersi, senza preoccuparsi di poter essere trascinato giù da chissà quale misteriosa forza oscura, incapace di tornare in superficie. Ci vide dentro tanta rabbia, e gli fece male al cuore vederla. Vedere come animava le acque di quegli occhi liquidi, creandovi dentro turbini e vortici che rischiavano di risucchiare tutto quello che c’era di buono.

Ci vide dentro rancore, meno palese ma più radicato, come un’alga malsana attaccata agli scogli del fondale, giù, in profondità, dove pochi potevano allungare una mano e sradicarlo.

Ma soprattutto, ci vide dentro tanta tristezza. Una tristezza silenziosa, non quella di pianti incontrollabili e singhiozzi, ma quella di chi soffre senza dire nulla. Pacata, riservata, quasi delicata mentre aleggiava sull’acqua come una sottile nebbiolina notturna, rendendo lievemente opaco l’azzurro di quegli occhi.

E anche se Kurt in quel momento lo stava guardando come se lo volesse cacciare da un momento all’altro, Blaine lesse nei suoi occhi che non desiderava altro che qualcuno lo salvasse, che allungasse una mano verso di lui, che lo tirasse fuori dall’abisso che si stava creando sotto i piedi. Blaine lesse Resta, non te ne andare, ti prego.

Ed era quello che avrebbe fatto. Se anche avesse avuto dei dubbi dopo l’esito della cena del giorno prima, decise in quel momento che sarebbe riuscito a riportare Kurt alla vita, o che almeno ci avrebbe provato con tutto quello che aveva da dare. Avrebbe cercato di scacciare con una mano quella nebbia opaca di tristezza, placare i vortici impetuosi della rabbia e annientare il rancore più profondo.

Perché se la tristezza rendeva Kurt così bello, poteva solo immaginare come fosse vederlo felice.

“Sono colpito. Solitamente tutti distolgono lo sguardo, dopo un po’” disse Kurt all’improvviso, sbattendo le palpebre e spezzando così quel silenzioso momento, insieme al viaggio mentale di Blaine.

“Tutti?” chiese, scuotendo la testa come per scacciare via quel turbine di pensieri e tornare nel presente.

“Sì, lo faccio spesso. E’ sorprendente scoprire quanto le persone riescano ad intimidirsi, quando provano pena per te” disse Kurt, roteando le gambe per appoggiarle al bordo del davanzale e poi saltando giù con un fluido movimento. Camminò verso Blaine, fermandosi a pochi passi da lui e guardandolo in modo totalmente diverso rispetto a pochi secondi prima. Era come se avesse appena superato un test, e per quanto Blaine non sapesse esattamente che tipo di test fosse, fu molto felice di essere risultato idoneo. Ci fu una breve pausa.

“Io non provo pena per te.”

Kurt ritrasse lievemente la testa, colpito da quella affermazione, ma si ricompose immediatamente, al sicuro dietro il suo solido muro protettivo. Ma Blaine ormai sapeva di aver creato una piccola breccia, e non avrebbe permesso che si richiudesse.

“Comunque sia, direi che quello di ieri non è stato un grande inizio. Forse è il caso che io mi presenti, anche se sai già il mio nome” disse Kurt, cambiando argomento con nonchalance. Allungò una mano verso Blaine. “Sono Kurt.”

Blaine gli sorrise e la strinse, lasciando andare finalmente la tracolla. Si guardarono nuovamente negli occhi, ma fu solo un impercettibile attimo; poi si separarono.

“Allora, Blaine, che cosa mi insegni oggi?”

 


 

Insegnare a Kurt fu sorprendentemente facile. In realtà, Blaine non seppe nemmeno se fosse giusto utilizzare la parola insegnare, perché si trattava semplicemente di ripercorrere insieme a lui le lezioni che aveva avuto quella mattina, come se le dovesse raccontare ad un compagno di scuola con l’influenza che sarebbe tornato presto in classe. Era utile anche per lui, visto che poteva fare i compiti con un’altra persona, ripetere e confrontarsi sugli argomenti.

Kurt era un compagno di studio acuto, attento ed intelligente, non di quelli che ti invitano a studiare per poi trovare qualsiasi scusa plausibile per distrarti. Sembrava prendere la cosa piuttosto seriamente, e Blaine si chiese se fosse per il senso del dovere nei confronti di suo padre, che sborsava una fortuna per tenerlo al passo con il resto dei suoi coetanei, o se fosse per un semplice desiderio di sentirsi “normale” facendo appunto una delle cose più normali del mondo, studiare.

Dopo due ore piene, decisero di fare una pausa. Kurt si alzò dal tavolo e si stiracchiò, massaggiandosi il retro del collo e roteando la testa rimasta china troppo a lungo. Sembrò riflettere per un attimo su qualcosa, poi parlò.

“Seguimi” disse, prima di voltarsi senza aspettare risposta e dirigersi verso una porta diversa da quella da cui Blaine era entrato. Il moro si alzò e fece come gli era stato detto, seguendo Kurt al di là della porta e ritrovandosi in un’altra stanza, ovviamente illuminata allo stesso modo da luci artificiali. Rimase a bocca aperta mentre la osservava.

Era una specie di grande sala hobby, piena zeppa di oggetti di ogni tipo. C’era un pianoforte nero al centro della stanza, con degli spartiti sopra, che gli fece luccicare gli occhi come un bambino; un’arpa – l’idea di Kurt che suonava uno strumento così elegante non avrebbe più abbandonato la sua mente – e un violino appoggiato alla sua custodia. Attaccati ai muri, scaffali e scaffali ricolmi di libri di ogni forma, colore e dimensione, e una scrivania con sopra un computer portatile e fogli sparsi senza un preciso ordine, alcuni dei quali addirittura sul pavimento.

All’angolo opposto rispetto a quello riservato alla musica, invece, c’erano tre grandi tele per dipingere e un’altra ampia scrivania, ancora più disordinata: pennelli di tutti i tipi, la maggior parte usati, tavolozze con sopra macchie fresche di colore, panni pieni di ditate.

Vicino alla scrivania troneggiava una specie di solido piedistallo, con sopra un ammasso marroncino ancora informe che Blaine immaginò fosse argilla, o un altro materiale per scolpire. Scolpire.

Più che guardare una stanza, fu come guardare un pezzo di vita. Ovunque si voltasse, poteva immaginare Kurt: seduto al pianoforte, le sue lunghe dita pallide che si muovevano con naturale eleganza sui tasti; all’arpa, gli occhi chiusi per la concentrazione e un sorriso ad increspargli le labbra mentre si lasciava trasportare dalla dolcezza delle note; davanti ad una tela vuota, la tavolozza in una mano e il pennello nell’altra, i capelli arruffati per essersi appena svegliato con un’ispirazione incontrollabile e le guance arrossate sporche dei colori più vivi; e ancora intento a scolpire, l’argilla fresca sui palmi mentre dava forma ad un’idea, un pensiero, un’immagine.

Era tutto… vissuto. Reale. Blaine pensò che quella fosse la stanza più bella che avesse mai visto. Quella casa poteva anche avere un salone grande quanto la Dalton, candelabri di cristallo e tavoli così lunghi da poter farvi sedere intorno tutta la sua settima generazione, ma era sicuro che niente avrebbe eguagliato il modo in cui quella stanza rifletteva l’essenza della persona che ci viveva, che ci passava dentro buona parte del suo tempo.

Era come un piccolo rifugio, dove Kurt aveva disposto in bella mostra le sue passioni, i suoi interessi, il suo modo di essere. Una sorta di santuario, il santuario più sporco e disordinato che Blaine avesse mai visto, ma allo stesso tempo il più vero.

Sarebbe stato presuntuoso da parte sua pensare che Kurt avesse voluto farglielo vedere perché si fidava di lui, perché sentiva il bisogno di aprirsi; si erano appena conosciuti e forse era soltanto un invito a svagarsi durante la loro pausa dallo studio. Ma Blaine si sentì onorato comunque.

“E’ bellissima” disse, ancora intento ad assimilare tutto quello che aveva intorno a sé.

“E’ anche la stanza più caotica della casa” rispose Kurt, dandogli le spalle. “Non permetto neanche alla cameriera di venire a pulire.”

“Però hai fatto entrare me” disse Blaine, prima di poter trovare il tempo di pentirsene. Kurt si voltò lentamente, scrutandolo con aria pensierosa, come se Blaine avesse appena puntualizzato una cosa ovvia di cui però lui si era appena reso conto.

“Già” disse infatti, abbassando leggermente lo sguardo. “Forse non avrei dovuto.”

“Perché no?”

Kurt sembrò vacillare, interdetto. Era la prima volta in cui sembrava incerto su cosa dire.

“Perché è più facile” rispose dopo un po’, la tristezza nei suoi occhi improvvisamente più nitida e palpabile. “Tenere tutto qui e… e non permettere a nessuno di vedere.”

Blaine gli rivolse un piccolo sorriso. “Facile non vuol dire per forza giusto.”

Kurt annuì debolmente, ma non gli rispose. Si voltò di nuovo e con fare pensieroso accarezzò lievemente la superficie del pianoforte a pochi passi da lui, facendo avanti e indietro con le punte delle dita. Blaine lo immaginò ad occhi chiusi, anche se non poteva esserne sicuro, visto che era ancora sulla porta. Non disse niente neanche lui, osservando il modo in cui le spalle di Kurt si alzavano e si abbassavano lievemente e la sua testa faceva movimenti impercettibili, a destra e a sinistra, come se avesse una melodia in atto nella sua mente. Desiderò ardentemente conoscerla.

Desiderò con tutto se stesso conoscere Kurt, come non aveva mai desiderato nient’altro nella sua vita. Di solito le persone erano come libri aperti per lui, agevolate ad aprirsi grazie al suo atteggiamento spigliato e sicuro di sé, con il quale nascondeva la sua segreta fragilità; mentre Kurt… Kurt era un mistero. Un completo mistero.

Tutte quelle cose che aveva visto nei suoi occhi avevano ragioni e implicazioni che conosceva soltanto in superficie, ne era più che certo. C’era molto di più che un ragazzo affetto da una rarissima malattia, davanti a lui. C’era un ragazzo che aveva deciso di lasciare il mondo fuori, perché faceva meno male. Perché era più facile.

Ma forse, Blaine avrebbe potuto fare in modo che fosse il mondo ad entrare lì dentro. Avrebbe potuto mostrargli che valeva la pena sorridere anche senza il sole ad illuminargli il volto.

Perché era più che certo che si sarebbe comunque eclissato, se Kurt avesse sorriso.

 

 


 

 

Nel prossimo capitolo:

Blaine si pone tante, tantissime domande, ma spesso è proprio quando la risposta è davanti ai nostri occhi che è più difficile vederla.


   
 
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