Che
cos'è la critica?
Qual'è
il suo valore agli occhi del Dio di cui tutti parlano, agli occhi del
mondo, ai miei occhi?
E
cosa spinge un pubblico a criticare già prima di aver visto,
di aver
assaporato appieno? Di aver percepito scoppiare l'emozione dentro al
cuore, essa sia dolce come la carezza di una madre, cortese come il
falso sorriso di un venditore, accogliente come le cosce di una
puttana o certo, anche insopportabile, come morsa di gelida acqua
attorno ad un corpo, ciò che può provare una
sventurata che cade in
un fiume e in esso trova morte e fama?
Nella
mia mente, torbidamente assopita dal freddo dell'attesa, appare
“La
morte della Vergine” di Michelangelo Merisi detto il
Caravaggio, un
olio su tela dipinto nel 1604; che scandalo fu, la Madre di Dio priva
di tributo mistico, una faccia smorta, la pelle pallida, il ventre
gonfio e le gambe scoperte! Non
più ascendeva al cielo ma riscattava il proprio diritto ad
una morte
terrena, così come terrena era stata la sua vita. Anche
allora la
critica fece la sua comparsa a braccetto del buon gusto: ma ad essi,
io non credo. Non credo nemmeno a Dio.
Credo
solo alla forza vibrante dell'ingegno umano e alle pennellate
generose di un'abile mano, che non teme la tela bianca su cui dipinge
e contro quella si contrae in orgasmi violenti, perchè ama
sentir
cedere il colore quando lo spalma con tocchi decisi e vigorosi.
Sono
un pittore e lo si intuisce dal mio aspetto. Alla pallida luce del
tramonto, il mio volto si intravede appena, nascosto com'è
dalla
sciarpa che ho tirato su come morbida barriera alla brezza serale: ma
il resto è visibile ed è il mio biglietto da
visita. Un cappotto
lungo e vecchio, logoro, un abito che si vedrebbe meglio appeso su
una gruccia in soffitta, grigio e smorto se non fosse per le macchie
di colore che lo decorano come pezze cucite con imprudenza; spessi
pantaloni di un tessuto una volta pregiato, scarpe che hanno
camminato tanto e che mostrano incuranti le punte smangiate.
Nonostante faccia freddo non indosso guanti e le mie mani ruvide e
callose, abituate a tenere in mano il pennello come uno scrittore la
stilo, sono intirizzite. Puzzo di vernici, solventi, colle. I miei
capelli sono impiastricciati degli stessi composti e non mi sono
curato di lavarli quando sono uscito in cerca di ispirazione.
Camminando
senza meta sull'asfalto umido, ho scorto questo circo da lontano e
come Icaro tanto affascinato dal sole, l'ho raggiunto ebbro dello
stesso desiderio. Stavo cercando da tempo qualcosa di simile e come
un miracolo è apparso davanti ai miei occhi stanchi per il
troppo
dipingere. Mi sono mischiato alla folla già presente davanti
ai
cancelli.
Tutto
questo nero e bianco delle tende e dei lembi di terreno visibile mi
attrae: sussurra la lotta continua di concetti opposti, il bene e il
male, il positivo e il negativo. Non c'è spazio per le
ambiguità,
se non nel cielo grigio che tuttavia è indifferente a
ciò che
succede quaggiù sulla terra: ironico.
Ogni
circo sprizza talento e magia, inganno ed illusione: ma in questo si
percepisce qualcosa di più, qualcosa di diverso che non ha
troppo a
che vedere con l'inusuale scelta di aprirlo al crepuscolo, azzardata
ma vincente, tante le persone che già vorrebbero pagare il
biglietto. La sensazione non è neppure influenzata dal
profumo di
caramello che aleggia goloso fra noi. C è ben altro, solo
che la
gente non riesce a coglierlo ed allora critica: detesto questo
comportamento, l'insofferenza, l'incapacità a pazientare.
Potrebbero
smetterla di lamentarsi e soffermare l'attenzione su ciò che
già
vedono di splendido, cogliere frammenti di piacere qua e là
e
limitarsi ad essi, solo ad essi. Ma non lo fanno e continuano a
giudicare prima di sapere, di avere il mosaico completo della
situazione, conoscere i fatti, i motivi, i perché: dentro di
loro,
hanno già catalogato il circo prima ancora di esserci
entrati e
scalpitano come cavalli nervosi.
Detesto
la critica e ai miei occhi non vale nulla; eppure dipendo da essa
come una pianta dall'acqua e dal sole.
Non
accade spesso che qualcuno abbia tanto interesse in me da voler
sondare con dedizione la mia anima attraverso le mie pennellate,
arrivando più vicino al mio inconscio di quanto io l'abbia
mai
afferrato realmente: ma quando succede, mi sento vivo e potente. Solo
in quel momento ho la certezza che la mia arte mi ha reso immortale
ed allora non desidero altro che dipingere ancora ed ancora.
Sono
uno schiavo ribelle del giudizio altrui: ma esso è per lo
più
superficiale ed ignorante e ciò mi distrugge, annientando in
me
anche l'ispirazione.
Perché
attendo riconoscenza, rispetto e lode da chi ben prima di varcare i
cancelli del circo o della mia arte già determina cosa
gradisce e
cosa no?
Non
smetto di riflettere finché qualcosa scatta: si ode uno
scoppiettio,
sfrigolano bagliori e si accendono in luci colorate. Inclinò
la
testa per leggere meglio l'insegna incandescente che dà nome
al
circo,“Le
Cirque des Rêves”. Un
titolo altisonante che una madre non esita a tradurre: “il
circo
dei sogni”.
I
cancelli si aprono ed io entro, come tutti gli altri. A passo lento,
procedo tra le tende e mi accorgo che solo esse sono bicolori: il
resto è frizzante di tonalità diverse. Sono
colorati i vestiti
degli artisti che con gioia catturano sorrisi, lo sono i dolciumi
nelle bancherelle, i pupazzi mossi dai polpastrelli di burattinai.
Sono però tutte tinte pastello, diafane e sospese nel tempo,
malinconiche, fiabesche ma irreali, così come le forme che
non hanno
nulla di regolare o geometrico.
Rido,
perchè ora davvero penso di aver varcato la soglia del mondo
dei
sogni o piuttosto, di essere entrato in un quadro di Picasso nel suo
periodo rosa: eppure questo è l'unico colore che non scorgo.
Passeggio
fra le attrazioni come un bambino troppo cresciuto e pigro per
volersi ancora emozionare davanti a vecchi, misteriosi trucchi.
Tra
la folla intravedo una ragazza che mi ammicca: ha il volto dipinto di
bianco, lacrime tinte di scuro, una bocca a cuore anch'essa dipinta
di nero e il collo lungo da cigno. Credo sia molto bella, nonostante
il cerone confonda i tratti del suo volto: vorrei posarle le mani sul
corpo, per sentire se è vera e pulsante o è
piuttosto una bambola
in un mondo di balocchi. Fremo perchè l'eccitazione si fa
pressante,
ma lei non ha tempo e io non ho cura che di vederla come una modella,
piuttosto che come una donna.
Pur
ammirando le opere dei grandi pittori, nei miei quadri ritraggo il
vero, ciò che vedo in Natura. Agile mimo, lei sarebbe
perfetta, nuda
e fredda come una statua, bianca come il latte, la Galatea di
Pigmalione; eppure la lascio indietro e sfuma dai miei pensieri, come
vapore troppo leggero.
I
ragazzini sono chiassosi e si entusiasmano facilmente: più
in là
c'è un coniglio che corre e crudelmente lo vogliono
catturare per il
loro divertimento. E' la metafora perfetta dell'ispirazione che mi
rifugge, costringendomi ad essere vuoto e patetico come la gabbia da
cui è scappato l'animale.
“Smettetela!”
vorrei urlare a loro “non vedete? Continuerà a
scappare finché
voi tenterete di afferrarlo con così tanta determinazione e
rabbia!”
ma so che è inutile, poiché io per primo non
riesco a stare fermo
ad attendere che il mio personale coniglio torni a me di propria
volontà.
Continuo
nel mio giro e vedo altre cose. Non so da dove, ma mi cadono addosso
petali e coriandoli e fra le mie ciocche chiare, seppur maschili ed
aggrovigliate, sembrano fiori tra la chioma di Flora nella
“Primavera” di Botticelli.
Davvero,
non riesco a pensare che all'arte. Vorrei non averla mai studiata e
non aver mai posato pennello su tela, non averne subito tanta
fascinazione. Ma la vedo dovunque, anche in questo circo!
Così forse
intuisco cosa c'è di meraviglioso entro i cancelli del
“Le
Cirque des Rêves” e comprendo la
seduzione del suo nome:
quaggiù prendi coscienza di ciò che sogni, di
ciò che brami con
passione.
Ogni
persona in questo circo adesso sta facendo i conti con i propri sogni
ancora irrealizzati; magari accantonati e dimenticati, a favore di
una vita monotona e consueta, rassicurante ma tetra.
-Apre
al Crepuscolo, Chiude all’Alba- cita
un'insegna nera e bianca: credo di sapere perchè. Il circo
lavora di
notte, perché la notte è amica dei sogni.
La
notte ti permette di scorgere particolari che alla luce del sole non
noteresti affatto: è una confidente preziosa, ma
è anche cruda e
volgare. Non usa mezzi termini per spaventarti, cela i tuoi peccati
ma non lesina commenti sarcastici: ciò che fai di giorno
seguendo lo
schema della società, dice, non è ciò
che fai sotto i raggi della
luna, quando ti senti veramente libero di importi se hai abbastanza
volontà per farlo. Volontà per realizzare i sogni.
Lavoro
sempre al calare delle tenebre, come il più classico vampiro
che non
sono, ma di cui condivido lo stile romantico: non ho mai pensato
però
che un giorno avrei abbandonato le mie tele per filosofeggiare in un
circo.
Sorrido.
Sorrido e poi rido, scuoto la testa incredulo. Porto infine una mano
alla fronte per scostarmi i capelli dagli occhi. Li ho legati in una
morbida coda dietro la nuca, ma la frangia sfugge sempre
all'elastico. Ed è in quel momento preciso che davanti a me,
come
l'apparizione di una fata, compare una bambina: è piccola e
mora, il
suo viso è tondo come una bella mela. Ha un sorriso gentile
e gli
occhi scuri mi scrutano con un'ambigua consapevolezza. Sa di essere
diversa e ne è fiera, ma allo stesso tempo teme se stessa.
Veste con
un costume prezioso, un corpetto pieno di pietre brillanti, una gonna
a ruota; intorno al collo ha una collana decorata da una medaglietta
a forma di stella in cui c'è scritto
“Celia” e forse questo è
il suo nome.
Nei
palmi aperti regge in stabile equilibrio una statuetta di pietra,
rappresentazione perfetta del “Perseo” di Benvenuto
Cellini:
l'eroe è in
piedi sul corpo di Medusa appena decapitata e con la mano sinistra
solleva trionfante la testa del mostro, tenendola per i capelli.
Non mi intendo di scultura come di pittura, ma ne sono ugualmente
fervido ammiratore perchè è arte anch'essa: e
certo è sublime
questo fanciullo che pare vivo, con i muscoli tanto ben definiti, le
membra così flessuose, la pelle levigata che non s'addice ad
un uomo
e che, eppure, fa di Perseo una giovane tentazione.
Riconosco
l'opera all'istante e lei annuisce a conferma, forse leggendomi nel
pensiero.
Improvvisamente
scosta i palmi l'uno dall'altro, facendo mancare la superficie a
reggere la statuetta: con sgomento seguo la sua traiettoria verso il
basso, finché essa non impatta a terra spaccandosi in mille
pezzi.
Rimango a fissarla per qualche istante, angosciato. Poi rialzo gli
occhi e guardo la bambina.
“Perché
l'hai fatto?” le domando contrariato. Lei ride e la sua
risata mi
ricorda il suono di leggeri campanellini, adorabile.
“Guarda
le mie mani” mi suggerisce e io le osservo, più
per obbedienza che
per interesse. Le tiene con il palmo aperto rivolto al cielo, le dita
rilassate, staccate ancora quanto basta per aver fatto cadere la
statuetta. Intorno a noi colori, risate, profumi, magia. La vita
scorre frenetica, ma tutto mi appare al rallentatore, tranne i suoi
movimenti.
“Perché
l'hai fatto?” chiedo ancora e la mia voce ora vibra di
irritazione.
La
bambina non cambia espressione e continua a fissarmi serena ma
divertita, maliziosa. Il paragone con la “Gioconda”
di Leonardo è
immediato.
“Questa”
mi mostra la mano destra, alzandola meglio davanti al mio sguardo
“è
la tua esitazione; e questa” fa lo stesso con la sinistra
“la tua
paura”. Ora le abbassa entrambe sul suo bel vestito,
lasciandole
inermi appoggiate ai fianchi avvolti da un nastro di seta azzurra.
Di
scatto appoggia sui cocci la punta di un piede calzato da una
scarpetta dorata e preme con decisione, come si calpesta una
sigaretta sull'asfalto per spegnerla.
Mi
accorgo di averla fermata solo quando le mie mani sono già
ad
avvolgerle le spalle esili, per frenarla: ho gli occhi spalancati per
la rabbia, ma la mia bocca ora è esangue, da tanto stirata
per il
disappunto.
Lei
annuisce e ride ancora “questa invece è la tua
speranza!” esulta
soddisfatta.
Alza
l'indice e sento, contro i miei occhi che chiudo per istinto, il suo
polpastrello che scende a seguire il profilo del mio naso aquilino,
fino ad appoggiarsi sulla mia bocca “che lotta e ti scuote,
ti fa
muovere e ti esorta: la speranza a cambiare qualcosa” dice.
Poi
inclina la testa ed appoggia la guancia calda sul dorso di una mia
mano che ancora le tiene la piccola spalla “questa mano
invece”
cambia guancia, si appoggia al lato opposto “e quest'altra
anche,
sono i tuoi strumenti. Con queste tu puoi davvero realizzare
ciò che
sogni”.
Si
libera dalla mia presa ed indietreggia. Io sono confuso e sbigottito.
Non oso parlare.
“E
ciò che tu sogni è di riuscire a realizzare opere
tanto belle da
commuovere gli animi altrui, oggi come domani. Odi le critiche
perchè
esse sole riescono a scatenare la tua speranza o al contrario la tua
paura e la tua esitazione. Ne sei cosciente, lo so, eppure ti ostini
a farti condizionare tanto..” la sua voce è
aumentata di
intensità, ma il suo volto non ha mutato il pacifico
splendore.
“Guarda
ai tuoi piedi” e io come una marionetta ai suoi comandi
obbedisco.
C'è ancora il Perseo a terra, in mille pezzi.
“Quello
è il tuo sogno, in frantumi” mi spiega dolce
“e rimarrà per
sempre tale se continuerai ad obbedire ai limiti che tu stesso ti sei
imposto, irragionevolmente”.
Tengo
la testa china. Desidero poter piangere, perchè
ciò che lei sta
dicendo è crudele, ma credo di aver dimenticato come le
lacrime
possano scorrere giù dagli occhi: l'ultimo pianto
è stato tanto
tempo fa.
“Vorrei..ma..”
balbetto “non so.. come fare” mormoro infine
sconfitto.
Lei
si avvicina. Penso che sia bellissima e che da grande
diventerà una
donna avvenente; tuttavia ora la vedo come la più temibile
attrazione del circo e vorrei che stesse lontana.
Lei
riesce a vedere il mio viso che tengo chinato in avanti, il mento tra
le clavicole: la pesante sciarpa ora non mi copre più come
vorrei.
La bambina alza le sopracciglia ed il suo sguardo è fisso e
concentrato su di me: mi sta sondando il cuore, lo sento, ma come ci
riesce? E' una sensazione calda ed avvolgente, vorrei non finisse
mai.
“Non
ti vuoi abbastanza bene, così non credi in te stesso:
è solo questo
che ti opprime. Smettila di farti del male da solo”.
Mi
chiedo se ha notato che oltre ai calli, le mie dita sono rovinate
anche dall'ansia che scarico contro le unghie, martoriandomi la pelle
intorno. Sanguino costantemente e lavorare con i solventi non mi
aiuta: eppure non smetto di farlo e in questo traggo un masochistico
piacere.
“Pensi
di non avere la forza e la creatività necessaria a
raggiungere il
tuo sogno” comincia di nuovo a parlare lei, con la sua voce
limpida
e squillante “pensi di non essere dotato di abbastanza
pazienza”
continua, mentre i musicisti vicini cambiano melodia ed il profumo di
crepês
attira i bambini come farfalle sui fiori
“infine” conclude la piccola “sei
convinto che anche
impegnandoti, il lavoro finale non ti porterà mai vera
gloria”.
Incantato,
seppur rassegnato, annuisco.
Costretta
a mettersi in punta di piedi per sopperire alla differenza fra le
nostra altezze, mi obbliga a sollevare il mento con indice, medio ed
anulare: mi invita così a guardarla direttamente negli occhi
che
seppur verdi, sono come pozzi profondi.
“Allora
sappi che Cellini lavorò anni ed anni al suo Perseo.
Pensò di
arrendersi ma mai lo fece. La fusione della statua in bronzo fu
complessa e difficile: soffrì fisicamente, fu afflitto da
febbri che
lo sfiancarono. Allo stremo della forza, continuò comunque a
credere
in ciò che poteva fare. Nemmeno un temporale ad abbassare la
temperatura della fornace, evento certo funesto, lo distrasse dal suo
proposito: quando mancò lo stagno per rendere la sua lega
più
fluida non si diede per vinto e gettò tutte le stoviglie che
aveva
in casa nella fusione. Tanti credevano fosse impossibile ottenere con
un unico getto un corpo di bronzo come il Perseo, con le braccia
tanto proiettate in alto: eppure lui riuscì.
Perfezionò la sua
statua negli anni, con dedizione: essa divenne la sua amante e lui il
suo fedele, per sempre. Cellini ci credette; non permise mai alle sue
mani di cedere, fino a far scivolare il suo sogno a terra, per
guardarlo frantumarsi e compiangerne le spoglie, come tu ora stai
facendo”.
Le
sue parole mi trafiggono come le frecce di Amore. Al
suo discorso, spudorato vorrei piuttosto domandarle “tu non
sei
davvero una bambina, giusto? Parli come una donna: una donna che sa
molte cose”. Eppure rimango muto a riflettere, mentre
paziente lei
mi dà il tempo di farlo.
Qualcuno
fa scoppiare un palloncino poco lontano da noi ed io sobbalzo:
ciò
mi risveglia da alcune considerazioni ed è il momento giusto
per
muoverle un'osservazione.
“Cellini
usufruì dell'aiuto di collaboratori..”
Lei
annuisce “è vero” conferma “ma
essi non sarebbero riusciti
nell'impresa senza un genio come il suo ad istruirli” punta
un dito
verso di me “ed un temperamento tanto impetuoso ed energico
da
essere certo simile al tuo!”.
“Io
però non ho nessuno ad aiutarmi” faccio notare con
stizza.
“Tu
non ne hai bisogno” mi risponde compiaciuta, illudendomi
forse di
avere realmente le potenzialità di esprimermi appieno,
realizzando
da solo il mio sogno.
“Tuttavia”
mi scopro a dire “ora la statuetta è rotta: e
quando è rotta,
nulla può ripararla. Un sogno ormai rotto è un
sogno ormai
distrutto per sempre”.
Lei
allora schiude la bocca e mi dà l'idea che non aspettasse
altro per
poterlo fare. Sospira. Mi sento tremare, ma è piacevole:
come
soffici dita ad accarezzarmi la schiena.
Allunga
le mani davanti a sé. Sotto al mio sguardo allibito, fra i
ciuffi di
erba che spuntano dall'acciottolato, la statuetta inizia a ricomporsi
e lo fa velocemente, diventando più salda e resistente di
prima,
come se niente ora possa romperla sul serio, non più una
caduta.
Il
tempo pare scorrere al contrario, mentre il piccolo Perseo torna
integro e perfetto: ed a quel punto, si solleva in aria e percorre al
contrario la sua precedente discesa, raggiungendo le mani della
bambina che si riaccostano quando la statua si appoggia nuovamente
sopra ai suoi palmi.
Di
nuovo Perseo è in equilibrio e questa volta la bambina lo
porge,
perchè io l'afferri: lo faccio e tocco la pietra famelico,
incapace
di credere davvero a ciò che ho visto se non con il tatto
che
conferma. La statuetta è come nuova.
“Tu
puoi ripararla quando vuoi!” mi svela allegra e sto per
ribattere
stupidamente che non è vero, che lo ha fatto lei con
chissà quale
diavoleria, ma come è nel suo personaggio essere,
è già sparita.
Mi
siedo su una panchina che trovo tra le tende. Rimango fermo ad
osservare il Perseo per intere ore: “posso riparare il mio
sogno”
è questo ciò che intendeva la bambina e lo
capisco in fretta.
Quando
credo non sia passato più di mezz'ora, ecco il sole spuntare
all'orizzonte. E' l'alba e molte persone hanno compreso in questo
circo che i sogni sono fatti per essere realizzati; alcuni li hanno
ricordati dopo tanto tempo, altri come me hanno ottenuto da questa
visita nuova speranza.
Gli
artisti tornano nelle tende. La musica sfuma, fino a spegnersi come
le luci dell'insegna. Nel fragore della città che torna a
vivere, il
circo invece si addormenta e so che questo è il momento per
andarmene: esco dal cancello, là dove sono entrato. Quando
anche
l'ultimo visitatore si allontana, il cancello si chiude.
La
mia esperienza intera sembrerebbe un sogno come il nome del circo, ma
reggo tra le mani la prova di ciò che ho vissuto, imperniata
di
incantesimo.
Torno
indietro, torno a casa: vivo in un appartamento piccolo e sporco e
condivido la mia esistenza con tele bianche sui cavalletti e tele
dipinte sulle pareti. Molte di esse le vendo al miglior offerente,
forse ciò è denigrante ma è la mia
fonte di sostentamento.
Appoggio
il Perseo su una mensola. Fremente di rinnovato impulso, raccolgo del
colore sulle morbide setole di un pennello: e se inizio a dipingere
il capolavoro di Cellini in miniatura, ben presto devio senza
rendermene conto, ritraendo un soggetto totalmente diverso che
è
sorto nel mio cuore.
Ed
è nuova ispirazione.