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Autore: SAranel    04/02/2012    5 recensioni
SPOILER 2x03 THE REICHENBACH FALL!
Quattro mesi dopo, John non ha ancora superato la sua perdita. Una notte difficile, più di tutte le altre, John farà un incontro che stravolgerà tutto quello in cui aveva creduto.
"John aveva lasciato tutto com’era da quel giorno. Il letto era ancora disfatto, le lenzuola aggrinzite, il cuscino sprimacciato. Sulla scrivania una pila di libri traballante occupava quasi tutto lo spazio e il suo violino, il suo amato violino, giaceva inutilizzato contro il muro.
“Maledetto stronzo, Sherlock” sussurrò John, incapace di rimanere ancora in piedi."[...]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera, fandom!
Ho passato un periodo un po’ difficile, e ho buttato giù questa storia, come sfogo, come per… descrivere il mio stato d’animo attraverso i nostri Sherlock e John. Ora va tutto bene per fortuna, grazie a delle persone che mi hanno aiutata tantissimo, e che non dimenticherò mai. :)
Sherlock può risultare OOC (dipende dai punti di vista) ma avevo bisogno che uscisse fuori una parte di lui umana, dolce. E dopotutto, io trovo che la scena della telefonata di Sherlock a John prima del ‘suicidio’ sia toccante, commovente e dolce come poche altre.
Sperando, come al solito, di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.

 

In fondo all’anima

 

 

John non era se stesso da tempo, ormai. Quella notte però, chiunque avesse conosciuto il normale, pacato, amichevole John Watson avrebbe stentato a riconoscere in lui la stessa persona, lo stesso uomo che era stato prima di quel… prima di quel giorno.
John non ne aveva potuto fare a meno. Aveva pensato a qualunque cosa potesse distoglierlo da quello che aveva intenzione di fare, aveva pensato ad ogni motivo valido per allontanarsi da quella strada scura in cui si era avventurato per caso, aveva pensato a qualunque possibile scusa per scappare via dalla luce di quell’insegna verde scuro, accesa solo per metà. Cosa più importante aveva pensato a Harry, a quello che era accaduto a lei, a quello che tante, tantissime volte le aveva ripetuto, aveva cercato in tutti i modi di scappare da tutti quei pensieri, da quel desiderio che lo stava lacerando.

Aveva pensato a lui.

E in quel momento, aveva ceduto. Aveva dato ascolto a quella voce nella sua testa, a quel bisogno pressante, insensato eppure insopportabile.
Entrò in quel negozio dall’aria sporca e gli scaffali impolverati. Osservò il commesso di mezza età tracannare qualcosa da una bottiglia semivuota e lo invidiò, persino. Riempì il suo sacchetto di un paio di bottiglie, senza neanche guardare cosa fossero, deciso solo a uscire da quel posto il più presto possibile, per poter tornare a casa ad abbandonarsi sul suo letto, a lasciarsi tutto il passato alle spalle, a dimenticare tutto almeno per qualche ora. John chiuse gli occhi mentre porgeva al commesso quello che aveva tra le mani, guardandolo distrattamente digitare qualcosa alla cassa e porgere la mano per incassare le sue sedici sterline e cinquanta.
Impaziente, con movimenti quasi automatici John pagò, poggiando sul bancone una
banconota da venti, e fuggendo via senza neanche aspettare il resto, camminando svelto verso la via principale ignorando le grida del commesso mezzo sbronzo che grazie ai suoi soldi avrebbe potuto concludere la serata con un altro paio di bottiglie.
Arrivato in strada si guardò intorno, il cuore ormai a mille, il cervello e la mente completamente lontani da ogni logica, da ogni possibilità di raziocinio. Almeno per quella sera. Almeno un paio d’ore. John chiedeva solo quello. Chiedeva di staccare. Chiedeva il nulla, il vuoto, la totale mancanza di…dolore.
Fermò un taxi, stringendo a se il sacchetto mentre le bottiglie tintinnavano, cozzando l’una con l’altra. Il tassista lo osservò sottecchi, mentre lui saliva, osservando Londra sfrecciare davanti a se, in un turbine di colori e luci, di gente che si accalcava per le strade, viva.
John guardò il sedile accanto a lui, sovrappensiero. La consapevolezza di quanto fosse inevitabilmente vuoto, lo colpì come un pugno in pieno viso. Sarebbe stato sempre un trauma. Ogni santa volta.
Dopo qualche minuto l’auto si fermo davanti al 221b e lui scese, in trance, infilando la chiave nella toppa proprio mentre Mrs Hudson apriva la porta davanti a lui.
“Oh caro, sei tornato” disse, con voce preoccupata ed espressione sollevata, ponendosi una mano sul cuore. “ero tanto preoccupata per te, a quest’ora così tarda…”
John si sforzò di sorridere all’affettuosa padrona di casa, almeno quanto bastava per tranquillizzarla completamente.
“Tutto bene, Mrs Hudson. Avevo bisogno di aria fresca, stasera” si limitò a dirle, cercando di nascondere meglio che poteva quello che aveva in mano. La donna lo fissò ma non disse nulla, come se non fosse completamente convinta delle sue parole. Alla fine abbassò lo sguardo e gli sorrise.
“Buonanotte, John”
“Buonanotte Mrs Hudson” rispose lui gentile, chiudendo la porta dell’appartamento dietro di lui, a chiave.
Si guardò intorno, nell’oscurità infranta solo da una luce soffusa e malinconica che proveniva dalla strada, deserta anch’essa. Non si era ancora abituato a quella quiete, a quel silenzio. Ogni giorno, ogni santo giorno non riusciva a reprimere l’impulso di guardare la sedia accanto al tavolo del salotto, quasi aspettandosi di rivedere lui seduto davanti al suo computer. John credeva in lui, sapeva che non era mai stato un bugiardo. Ma era arrabbiato. Era pieno d’ira, risentimento, rabbia per quello che era successo ma non l’aveva mai esternata, non aveva mai fatto…nulla per sfogare quel che sentiva dentro, per far uscire quella belva che lo stava logorando da dentro, consumandogli lo spirito, consumandogli il cuore e la mente. Era stato egoista, stupido, avventato… così…John non trovava le parole.
Posò le bottiglie sul tavolo e si spogliò del cappotto pesante, la giacca, le scarpe, all’improvviso insopportabili, fastidiosi.
Aveva caldo, un caldo soffocante nonostante il freddo d’ottobre che già congelava i vetri chiari della finestra. Un calore che lo opprimeva, da dentro.
Si appoggiò al tavolo e lo strinse forte, come a volerne strappar via un pezzo fino a farsi diventare bianche le nocche per lo sforzo. Poi svitò veloce in tappo di una delle bottiglie, senza nemmeno guardare quale fosse e la portò alla bocca, senza rimorso o remore, respingendo l’impulso di infrangerla contro il muro martoriato da spari disegni e strappi. John rise. Il liquido lievemente ambrato scivolò tra le sue labbra bruciante, forte ma John non se ne curò. Bevve fino a perdere sensibilità al palato e alla gola, cominciando a sentire quella non troppo familiare ma tanto agognata sensazione, quello che voleva, quella che bramava. La bottiglia gli scivolò di mano infrangendosi a terra con un rumore acuto che alle orecchie del dottore apparve sordo, ovattato. Sentì la testa cominciare a girare, e tutto intorno a lui sembrò perdere consistenza, realtà. Cercò di camminare, verso la cucina, o verso la sua stanza, questo John non riusciva a ricordarselo, e quasi cadde contro il vetro della porta, reggendosi come poteva alla maniglia. Respirò pesantemente, con un sorriso sul volto che non gli apparteneva. John Watson era un’altra persona, quella notte.
Camminò barcollando, reggendosi agli stipiti delle porte mentre il nulla, il completo nulla s’impossessava del suo cervello e dei suoi pensieri. John si sentiva libero.
A occhi chiusi vacillò sulle gambe instabili entrando in una stanza, senza nemmeno curarsi di quale fosse. Quando riaprì gli occhi, un lampo di lucidità lo travolse.

Era la sua stanza.

John aveva lasciato tutto com’era da quel giorno. Il letto era ancora disfatto, le lenzuola aggrinzite, il cuscino sprimacciato. Sulla scrivania una pila di libri traballante occupava quasi tutto lo spazio e il suo violino, il suo amato violino, giaceva inutilizzato contro il muro.
“Maledetto stronzo, Sherlock” sussurrò John, incapace di rimanere ancora in piedi. Pur non volendo rompere quella sorta di dimensiona parallela –in cui il suo amico sarebbe certamente ritornato ad occupare quel letto e quella stanza- si accasciò sul materasso, affondando la testa dolorante sul cuscino trovando momentaneo sollievo. Si sentì in colpa un secondo dopo. Era come se avesse infranto quell’ultima vana, irrealizzabile speranza. Per quanto Sherlock Holmes fosse imprevedibile, geniale, plateale, quell’ultimo miracolo era qualcosa di impossibile, persino per uno come lui.
John avvolse le lenzuola del suo amico, del suo migliore amico attorno a se, come a volerlo abbracciare, come a voler nuovamente percepire la sua presenza. Non era mai stato particolarmente…sentimentale, con lui. Era sempre stato impacciato in certe cose, e il carattere di Sherlock non lo spingeva certo a esternazioni d’affetto estreme…ma in quel momento John avrebbe desiderato solo abbracciarlo e dirgli tutto quello che si era tenuto dentro tutto quel tempo. Avrebbe voluto dirgli quanto teneva a lui come amico, quanto… era stato importante per la sua vita.
La testa continuava a girare e girare mentre ancora stringeva le coperte e il cuscino, con le membra intorpidite ma ancora forti, le dita premute sulla fredda stoffa.
“Ti odio, Sherlock” sussurrò, incapace di trattenere oltre quel pensiero. Aveva bisogno di sentirlo, di sentire la propria voce pronunciare quelle parole, aveva bisogno di liberarsi di quella lama affilata, di quel veleno che rischiava di ucciderlo.
“Davvero, John?”
Una voce lo fece sussultare, nonostante lo stato nel quale si trovava e stringendo gli occhi incredulo e spaventato si voltò in corrispondenza della voce. Una figura alta, slanciata sedeva in ombra sulla sedia a dondolo. Un raggio di luna illuminava solo un lato del suo volto. Il cuore di John mancò un battito quando riconobbe quegli occhi.
“Oh…Dio…” bisbigliò mancando la presa sulla testiera del letto e reggendosi appena in tempo. “Non…tu…”
La figura sulla sedia non sembrò muoversi di un millimetro. John chiuse gli occhi e li riaprì, come se si aspettasse che svanisse, da un momento all’altro.
“Sono un’illusione, John” disse la voce di Sherlock, identica a come la ricordava eppure…diversa. “la tua mente sa che non può essere altro che così”
John gemette, incredulo, atterrito. Era un’allucinazione, una visione irreale dovuta all’alcol nel suo organismo. Lo sapeva, succedeva spesso. Aveva curato talmente tanti pazienti con quel sintomo, in guerra…eppure, rivedere li quella figura, quell’etereo e perfetto ritratto di Sherlock che si stagliava accanto alla finestra continuava a sconcertarlo.
“Non voglio che tu stia qui. Non voglio sognarti, non più” disse alla figura che ancora non si mosse di un millimetro. La sentì sospirare, distintamente.
“Questa è casa mia, John. Casa nostra. Perché non dovrei essere qui?”

John non riuscì a reprimere una risata stentata, colma di sarcasmo.
“Perché sei solo una proiezione della mia mente, un sogno una stupida illusione. Perché io…io…”
“…perché tu vuoi dimenticarmi? Non è così? Per questo motivo che sei in quello stato pietoso?” concluse quello Sherlock immaginario al posto suo.
“Si. Si è così, mio saccente scherzo del mio cervello” disse John infuriato. Perché non poteva trovare pace? “volevo dimenticare. Ogni cosa”
“E perché? Perché vuoi dimenticare?”
John non rispose, non subito. Si sistemò meglio sul materasso, stringendo le palpebre così che le lacrime, quelle lacrime che era riuscito a trattenere per tutto quel tempo, non potessero nuovamente scorrere sul suo viso. John non voleva piangere.
“Perché fa male, Sherlock, ogni giorno di più. Più male di un proiettile in una spalla, più male di un pugno in pieno viso…più… più male di una coltellata al cuore” disse, tutto d’un fiato con voce spezzata.
Sherlock rimase in silenzio ma finalmente, si mosse. Le mani sembrarono tremargli, per un momento.
“Io ho dovuto farlo. Io non ho avuto scelta.” Sussurrò.
John non aveva più forza, ne voglia di assecondare quella follia, quella fantasia. Aveva tanto… sonno
“C’è sempre una scelta, Sherlock. Sempre…” gridò “e quello…quello che hai detto, prima di farlo… io non ce la faccio…io ho rinunciato a capire”
La figura sulla sedia alzò lo sguardo. John riuscì a scorgere il profilo delle sue labbra. Era talmente…vero. Un crampo allo stomaco lo costrinse a contrarsi. Gemette, senza distogliere lo sguardo da lui.
“Non c’è stata scelta per me. Non questa volta, John” disse.
John scosse la testa che pulsava dolorosamente, mentre cercava di calmarsi, di pensare. Strinse la testa fra le mani, scuotendola freneticamente.
“Tu non hai idea di cosa ho passato quando ho detto a tutti quello che tu mi hai…quello che mi hai detto, al telefono. Tu non hai idea di cosa è stato leggere su tutti i giornali che eri un bugiardo, un criminale, una persona abietta, falsa!”
“John…”
“TU MI HAI LASCIATO SOLO!” gridò poi John senza potersi più trattenere, dimenticandosi di parlare solo con qualcosa di effimero, con un sogno, con una stupida allucinazione. Era Sherlock che scorgeva, era Sherlock in carne ed ossa che vedeva di fronte a lui. E doveva, doveva gettargli addosso tutto il suo dolore, tutte le sue colpe, tutta la sofferenza che era stato costretto ad affrontare.
“Tu mi hai lasciato solo ad affrontare tutto questo” disse di nuovo, con voce rotta “costretto a tacere su quello che veramente penso, costretto a vederti screditato, odiato, insultato da tutti”
Quando parlò, la voce di Sherlock sembrò innaturale, completamente cambiata da tutte le altre volte che John l’aveva ascoltata. Sembrava… addolorata?
“Mi dispiace, John. Mi dispiace tanto” disse, semplicemente. La voce tremò, ma John distolse lo sguardo.
“Non me ne faccio nulla del tuo dispiacere, Sherlock. Tieniti per te le tue scuse” il medico si sdraiò, incapace di rimanere ancora seduto. La nausea aveva cominciato a tormentarlo. “Io voglio solo…che mi lasci in pace”
Respirò ancora, tremante, cercando di regolarizzare il battito del suo cuore, ma senza dargli la soddisfazione di guardare il suo dolore, di godere di quella sua debolezza.
“E’ questo che vuoi, John?” domandò. La sua voce era una stilettata al cuore, ogni volta.

“Va via, via, via!…sono stato uno stupido a desiderare che tornassi, uno stupido a credere di valere qualcosa per uno come il grande Sherlock Holmes!” sibilò ancora, a  denti stretti, con voce resa roca dalla rabbia.
John si voltò e affondò tra le coperte, chiudendo gli occhi per non vederlo più, con la testa che pulsava e doleva rendendogli difficile pensare ad altro se non quel fastidio pressante a quel silenzio che assordava. John lo udì muoversi ma non si voltò, non lo guardò. Voleva solo…svegliarsi.
“Io… io…” disse quell’ombra, quella visione. “io ho dovuto”
John morse il cuscino per non rispondere, per non permettere a quell’ira, quell’astio che covava dentro di non esplodere nuovamente.
“Tu contavi per me” disse, e John lo sentì tremare “tu conti per me”
“Sherlock, io voglio…” cominciò John ma le parole gli si bloccarono in gola.
“Tu sei la persona migliore che io abbia mai incontrato. E tu sai quanto mi costi dire una cosa del genere. Tu… tu eri quello che avevo sempre cercato, nella mia esistenza. Tu hai riempito le pagine vuote della mia vita.” Sussurrò come se stesse facendo…un’immane sforzo per pronunciare quelle parole. Era davvero un sogno poco realistico, pensò John. Sherlock non lo avrebbe mai fatto. Il dottore sentì un pugno invisibile stringere il suo cuore in una morsa. Strinse più forte le coperte.
“Tu… sei il mio migliore amico, John” disse, in un bisbiglio appena udibile.
“…io voglio che tu sparisca” concluse John, drastico, nonostante le sue ultime parole gli avessero scavato una ferita lancinante nell’anima.
Sherlock non rispose. Rimase in quel silenzio carico di dolore, di rimorso, di frammenti di vita passata che non sarebbe mai più ritornata. John strinse ancora gli occhi fino a farsi male. Avrebbe voluto colpirlo, se non fosse stato solo qualcosa di immateriale, di immaginario, incorporeo.
Senti un fruscio ovattato, ma non riuscì a distinguere cosa fosse, cosa stesse facendo. Lo sentiva proprio li accanto, come se stesse vegliando su di lui, percepiva la sua presenza chiara per quanto illusoria.
“Addio” sussurrò quella voce tanto familiare quanto sconosciuta. Il medico non rispose, ne lo guardò. Voleva solo che lui lo lasciasse in pace.
John non seppe descrivere quello che provò dopo, quando non sentì più nulla, quando il silenzio si fece pesante, lugubre, angosciante come tutte le altre notti. Aveva paura di riaprire gli occhi e vederlo ancora li, con quello sguardo colpevole, supplicante.
Dopo qualche minuto, cercando di combattere la stretta che gli stringeva le viscere e il cuore riuscì ad alzarsi nuovamente, voltandosi verso l’altro lato della stanza, che trovò inesorabilmente vuoto. Era solo. Un’altra volta.
John non riuscì a trattenersi. Si alzò, tentennando, e rise. Rise, con tutto il fiato che aveva in gola, con tutta la forza che riuscì a trovare dentro di se come se riuscisse a liberarlo, come se quella risata vuota, isterica, senza alcuna allegria, potesse finalmente liberarlo del peso che lo opprimeva. Teneva una mano sul petto, che si muoveva al ritmo del suo respiro irregolare, di quella risata innaturale.
Corse fino alla sedia, ancora ridendo e quasi crollando in ginocchio davanti ad essa, toccandola come fosse qualcosa di raro e prezioso. Come fosse qualcosa di valore sconfinato. Alla fine, guardando sulla seduta di legno scuro, qualcosa attirò la sua attenzione, costringendolo ad ammutolire, sconvolto.
Era un foglio. Un semplice pezzo di carta strappato da un qualche libro o da un blocchetto.
John lo guardò senza parlare, la lingua bloccata contro il palato, incapace di articolare una sola sillaba. Con mani tremanti portò il foglio alla luce della luna per leggere meglio, spaventato e teso come non lo era mai stato.
Quando i suoi occhi si abituarono alla luce, quando le sue mani smisero di tremare John lesse le parole, di una grafia a lui terribilmente familiare, che vi erano scritte:

 -Credo in te, John. E crederò sempre.
SH

L’inchiostro era sbavato, opaco come se qualcuno vi avesse fatto scivolare sopra dell’acqua o come se avesse tenuto il foglio sotto una pioggia scrosciante. Ma John sapeva benissimo cosa fossero.
Gemette, una mano al cuore, precipitandosi sulle gambe instabili giù per le scale fino al pianerottolo, ansante, aprendo la porta del 221b con violenza facendola cozzare violentemente contro il muro e precipitandosi in strada, stravolto. Stringeva ancora in mano il foglietto, come se non volesse perderlo per nulla al mondo, come se stringerlo, sentire il contatto con quell’oggetto semplice eppure talmente importante potesse tenerlo in vita. Corse rasentando il muro lungo la strada, cercando un qualunque segno della sua presenza, un qualunque segno che rivelasse la sua presenza. John cercava una speranza. Con gli occhi sbarrati, stravolto, con il cuore che sembrava pronto ad esplodergli nel petto tornò davanti alla porta di casa e si guardò ancora intorno freneticamente osservando la via vuota, senza vita, silenziosa. La consapevolezza di tutto quello che era successo lo colpì nuovamente, forte e dolorosa come uno schiaffo in pieno viso. Cosa aveva fatto?
Senza fiato, rimase fermo sulla soglia. Le gambe gli cedettero e lui si ritrovò in ginocchio sul freddo vialetto a piedi nudi, a stringere quel foglio tra le mani, senza lasciarlo mai andare.

§

 

Mrs. Hudson fu svegliata da un rumore forte, secco, come una porta sbattuta con veemenza. Allarmata, si mise addosso una vestaglia chiedendosi cosa fosse successo. Da quando…da quando Sherlock era morto non era più successo nulla, a Baker Street. Quel pensiero intristì la donna, e la nostalgia per un secondo offuscò quasi lo spavento. Si sporse dalla soglia, guardinga, attenta a non attirare l’attenzione e vide la porta d’ingresso spalancata, con l’aria gelida che penetrava nel pianerottolo con un suono lugubre, straziante. Scese per controllare, definitivamente agitata e quando arrivò sull’uscio, quello che vide la costrinse a fermarsi, impietrita. Sentì il cuore diventare improvvisamente pesante, e si strinse nella vestaglia, non osando ancora parlare.
Quello che vide fu un uomo, dai capelli biondi e gli occhi tristi rannicchiato a terra, come un bambino, che stringeva qualcosa fra le mani, sul cuore.

E quell’uomo, piangeva.


*

 

 

 

 

 

 



 

 

  
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