Buonasera,
fandom!
Ho passato un periodo un po’ difficile, e ho buttato
giù
questa storia, come sfogo, come per… descrivere il mio stato
d’animo attraverso
i nostri Sherlock e John. Ora va tutto bene per fortuna, grazie a delle
persone
che mi hanno aiutata tantissimo, e che non dimenticherò mai.
:)
Sherlock può risultare OOC (dipende dai punti di vista) ma
avevo bisogno che uscisse fuori una parte di lui umana,
dolce. E dopotutto,
io trovo che la scena della telefonata di Sherlock a John prima del
‘suicidio’
sia toccante, commovente e dolce come poche altre.
Sperando, come al solito, di non aver fatto troppo male, vi
auguro buona lettura!
S.
In
fondo all’anima
John non era se stesso da
tempo, ormai. Quella notte però, chiunque avesse conosciuto
il normale, pacato,
amichevole John Watson avrebbe stentato a riconoscere in lui la stessa
persona,
lo stesso uomo che era stato prima di quel… prima di quel giorno.
John non ne aveva potuto fare
a meno. Aveva pensato a qualunque cosa potesse distoglierlo da quello
che aveva
intenzione di fare, aveva pensato ad ogni motivo valido per
allontanarsi da
quella strada scura in cui si era avventurato per caso, aveva pensato a
qualunque possibile scusa per scappare via dalla luce di
quell’insegna verde
scuro, accesa solo per metà. Cosa più importante
aveva pensato a Harry, a
quello che era accaduto a lei, a quello che tante, tantissime volte le
aveva
ripetuto, aveva cercato in tutti i modi di scappare da tutti quei
pensieri, da
quel desiderio che lo stava lacerando.
Aveva pensato a lui.
E in quel momento, aveva
ceduto. Aveva dato ascolto a quella voce nella sua testa, a quel
bisogno pressante,
insensato eppure insopportabile.
Entrò in quel negozio dall’aria sporca e gli
scaffali impolverati. Osservò il
commesso di mezza età tracannare qualcosa da una bottiglia
semivuota e lo
invidiò, persino. Riempì il suo sacchetto di un
paio di bottiglie, senza
neanche guardare cosa fossero, deciso solo a uscire da quel posto il
più presto
possibile, per poter tornare a casa ad abbandonarsi sul suo letto, a
lasciarsi
tutto il passato alle spalle, a dimenticare
tutto almeno per qualche ora. John chiuse gli occhi mentre porgeva al
commesso
quello che aveva tra le mani, guardandolo distrattamente digitare
qualcosa alla
cassa e porgere la mano per incassare le sue sedici sterline e
cinquanta.
Impaziente, con movimenti quasi automatici John pagò,
poggiando sul bancone una
banconota da venti, e fuggendo
via senza neanche aspettare il resto, camminando svelto verso la via
principale
ignorando le grida del commesso mezzo sbronzo che grazie ai suoi soldi
avrebbe
potuto concludere la serata con un altro paio di bottiglie.
Arrivato in strada si guardò
intorno, il cuore ormai a mille, il cervello e la mente completamente
lontani
da ogni logica, da ogni possibilità di raziocinio. Almeno
per quella sera.
Almeno un paio d’ore. John chiedeva solo quello. Chiedeva di
staccare. Chiedeva
il nulla, il vuoto, la totale mancanza di…dolore.
Fermò un taxi, stringendo a
se il sacchetto mentre le bottiglie tintinnavano, cozzando
l’una con l’altra.
Il tassista lo osservò sottecchi, mentre lui saliva,
osservando Londra
sfrecciare davanti a se, in un turbine di colori e luci, di gente che
si
accalcava per le strade, viva.
John guardò il sedile accanto
a lui, sovrappensiero. La consapevolezza di quanto fosse
inevitabilmente vuoto, lo
colpì come un pugno in pieno
viso. Sarebbe stato sempre un trauma. Ogni santa volta.
Dopo qualche minuto l’auto si
fermo davanti al 221b e lui scese, in trance, infilando la chiave nella
toppa
proprio mentre Mrs Hudson apriva la porta davanti a lui.
“Oh caro, sei tornato” disse,
con voce preoccupata ed espressione sollevata, ponendosi una mano sul
cuore.
“ero tanto preoccupata per te, a quest’ora
così tarda…”
John si sforzò di sorridere all’affettuosa padrona
di casa, almeno quanto
bastava per tranquillizzarla completamente.
“Tutto bene, Mrs Hudson. Avevo bisogno di aria fresca,
stasera” si limitò a
dirle, cercando di nascondere meglio che poteva quello che aveva in
mano. La donna
lo fissò ma non disse nulla, come se non fosse completamente
convinta delle sue
parole. Alla fine abbassò lo sguardo e gli sorrise.
“Buonanotte, John”
“Buonanotte Mrs Hudson”
rispose lui gentile, chiudendo la porta dell’appartamento
dietro di lui, a chiave.
Si guardò intorno,
nell’oscurità infranta solo da una luce soffusa e
malinconica che proveniva
dalla strada, deserta anch’essa. Non si era ancora abituato a
quella quiete, a
quel silenzio. Ogni giorno, ogni santo giorno non riusciva a reprimere
l’impulso
di guardare la sedia accanto al tavolo del salotto, quasi aspettandosi
di
rivedere lui seduto davanti al suo computer.
John credeva in lui, sapeva che non era mai stato un bugiardo. Ma era
arrabbiato. Era pieno d’ira, risentimento, rabbia per quello
che era successo
ma non l’aveva mai esternata, non aveva mai
fatto…nulla per sfogare quel che
sentiva dentro, per far uscire quella belva che lo stava logorando da
dentro,
consumandogli lo spirito, consumandogli il cuore e la mente. Era stato
egoista,
stupido, avventato… così…John non
trovava le parole.
Posò le bottiglie sul tavolo
e si spogliò del cappotto pesante, la giacca, le scarpe,
all’improvviso
insopportabili, fastidiosi.
Aveva caldo, un caldo soffocante nonostante il freddo
d’ottobre che già congelava
i vetri chiari della finestra. Un calore che lo opprimeva, da dentro.
Si appoggiò al tavolo e lo
strinse forte, come a volerne strappar via un pezzo fino a farsi
diventare
bianche le nocche per lo sforzo. Poi svitò veloce in tappo
di una delle
bottiglie, senza nemmeno guardare quale fosse e la portò
alla bocca, senza
rimorso o remore, respingendo l’impulso di infrangerla contro
il muro
martoriato da spari disegni e strappi. John rise. Il liquido lievemente
ambrato
scivolò tra le sue labbra bruciante, forte ma John non se ne
curò. Bevve fino a
perdere sensibilità al palato e alla gola, cominciando a
sentire quella non
troppo familiare ma tanto agognata sensazione, quello che voleva,
quella che
bramava. La bottiglia gli scivolò di mano infrangendosi a
terra con un rumore
acuto che alle orecchie del dottore apparve sordo, ovattato.
Sentì la testa
cominciare a girare, e tutto intorno a lui sembrò perdere
consistenza, realtà.
Cercò di camminare, verso la cucina, o verso la sua stanza,
questo John non
riusciva a ricordarselo, e quasi cadde contro il vetro della porta,
reggendosi
come poteva alla maniglia. Respirò pesantemente, con un
sorriso sul volto che
non gli apparteneva. John Watson era un’altra persona, quella
notte.
Camminò barcollando, reggendosi agli stipiti delle porte
mentre il nulla, il
completo nulla s’impossessava del suo cervello e dei suoi
pensieri. John si
sentiva libero.
A occhi chiusi vacillò sulle
gambe instabili entrando in una stanza, senza nemmeno curarsi di quale
fosse.
Quando riaprì gli occhi, un lampo di lucidità lo
travolse.
Era la sua
stanza.
John aveva lasciato tutto
com’era da quel giorno. Il letto era ancora disfatto, le
lenzuola aggrinzite,
il cuscino sprimacciato. Sulla scrivania una pila di libri traballante
occupava
quasi tutto lo spazio e il suo violino, il suo amato violino, giaceva
inutilizzato contro il muro.
“Maledetto stronzo, Sherlock”
sussurrò John, incapace di rimanere ancora in piedi. Pur non
volendo rompere
quella sorta di dimensiona parallela –in cui il suo amico
sarebbe certamente
ritornato ad occupare quel letto e quella stanza- si
accasciò sul materasso,
affondando la testa dolorante sul cuscino trovando momentaneo sollievo.
Si
sentì in colpa un secondo dopo. Era come se avesse infranto
quell’ultima vana,
irrealizzabile speranza. Per quanto Sherlock Holmes fosse
imprevedibile,
geniale, plateale, quell’ultimo
miracolo era qualcosa di impossibile, persino per uno come lui.
John avvolse le lenzuola del
suo amico, del suo migliore amico
attorno a se, come a volerlo abbracciare, come a voler nuovamente
percepire la
sua presenza. Non era mai stato
particolarmente…sentimentale, con lui. Era
sempre stato impacciato in certe cose, e il carattere di Sherlock non
lo
spingeva certo a esternazioni d’affetto estreme…ma
in quel momento John avrebbe
desiderato solo abbracciarlo e dirgli tutto quello che si era tenuto
dentro
tutto quel tempo. Avrebbe voluto dirgli quanto teneva a lui come amico,
quanto…
era stato importante per la sua
vita.
La testa continuava a girare
e girare mentre ancora stringeva le coperte e il cuscino, con le membra
intorpidite ma ancora forti, le dita premute sulla fredda stoffa.
“Ti odio, Sherlock” sussurrò,
incapace di trattenere oltre quel pensiero. Aveva bisogno di sentirlo,
di
sentire la propria voce pronunciare quelle parole, aveva bisogno di
liberarsi
di quella lama affilata, di quel veleno che rischiava di ucciderlo.
“Davvero, John?”
Una voce lo fece sussultare,
nonostante lo stato nel quale si trovava e stringendo gli occhi
incredulo e
spaventato si voltò in corrispondenza della voce. Una figura
alta, slanciata
sedeva in ombra sulla sedia a dondolo. Un raggio di luna illuminava
solo un
lato del suo volto. Il cuore di John mancò un battito quando
riconobbe quegli occhi.
“Oh…Dio…”
bisbigliò mancando
la presa sulla testiera del letto e reggendosi appena in tempo.
“Non…tu…”
La figura sulla sedia non
sembrò muoversi di un millimetro. John chiuse gli occhi e li
riaprì, come se si
aspettasse che svanisse, da un momento all’altro.
“Sono un’illusione, John”
disse la voce di Sherlock, identica a come la ricordava
eppure…diversa. “la tua mente sa
che non può essere altro che così”
John gemette, incredulo,
atterrito. Era un’allucinazione, una visione irreale dovuta
all’alcol nel suo
organismo. Lo sapeva, succedeva spesso. Aveva curato talmente tanti
pazienti
con quel sintomo, in guerra…eppure, rivedere li quella
figura, quell’etereo e
perfetto ritratto di Sherlock che si stagliava accanto alla finestra
continuava
a sconcertarlo.
“Non voglio che tu stia qui. Non voglio sognarti, non
più” disse alla figura
che ancora non si mosse di un millimetro. La sentì
sospirare, distintamente.
“Questa è casa mia, John. Casa nostra.
Perché non dovrei essere qui?”
John non riuscì a
reprimere
una risata stentata, colma di sarcasmo.
“Perché sei solo una proiezione della mia mente,
un sogno una stupida
illusione. Perché io…io…”
“…perché tu vuoi dimenticarmi? Non
è così? Per questo motivo che sei in quello
stato pietoso?” concluse quello Sherlock immaginario al posto
suo.
“Si. Si è così, mio saccente scherzo
del mio cervello” disse John infuriato.
Perché non poteva trovare pace? “volevo
dimenticare. Ogni cosa”
“E perché? Perché vuoi dimenticare?”
John non rispose, non subito.
Si sistemò meglio sul materasso, stringendo le palpebre
così che le lacrime,
quelle lacrime che era riuscito a trattenere per tutto quel tempo, non
potessero nuovamente scorrere sul suo viso. John non voleva piangere.
“Perché fa male, Sherlock, ogni giorno di
più. Più male di un proiettile in una
spalla, più male di un pugno in pieno
viso…più… più male di una
coltellata al
cuore” disse, tutto d’un fiato con voce spezzata.
Sherlock rimase in silenzio
ma finalmente, si mosse. Le mani sembrarono tremargli, per un momento.
“Io ho dovuto farlo. Io non ho avuto scelta.”
Sussurrò.
John non aveva più forza, ne
voglia di assecondare quella follia, quella fantasia. Aveva
tanto… sonno…
“C’è sempre una scelta,
Sherlock. Sempre…” gridò “e
quello…quello che hai detto, prima di farlo… io
non
ce la faccio…io ho rinunciato a capire”
La figura sulla sedia alzò lo
sguardo. John riuscì a scorgere il profilo delle sue labbra.
Era talmente…vero. Un
crampo allo stomaco lo
costrinse a contrarsi. Gemette, senza distogliere lo sguardo da lui.
“Non c’è stata scelta per me.
Non questa volta, John” disse.
John scosse la testa che pulsava dolorosamente, mentre cercava di
calmarsi, di
pensare. Strinse la testa fra le mani, scuotendola freneticamente.
“Tu non hai idea di cosa ho passato quando ho detto a tutti
quello che tu mi
hai…quello che mi hai detto, al telefono. Tu non hai idea di
cosa è stato
leggere su tutti i giornali che eri un bugiardo, un criminale, una
persona
abietta, falsa!”
“John…”
“TU MI HAI LASCIATO SOLO!” gridò poi
John senza potersi più trattenere,
dimenticandosi di parlare solo con qualcosa di effimero, con un sogno,
con una
stupida allucinazione. Era Sherlock che scorgeva, era Sherlock in carne
ed ossa
che vedeva di fronte a lui. E doveva, doveva gettargli addosso tutto il
suo
dolore, tutte le sue colpe, tutta la sofferenza che era stato costretto
ad
affrontare.
“Tu mi hai lasciato solo ad
affrontare tutto questo” disse di nuovo, con voce rotta
“costretto a tacere su
quello che veramente penso, costretto a vederti screditato, odiato,
insultato
da tutti”
Quando parlò, la voce di
Sherlock sembrò innaturale, completamente cambiata da tutte
le altre volte che
John l’aveva ascoltata. Sembrava… addolorata?
“Mi dispiace, John. Mi
dispiace tanto” disse, semplicemente. La voce
tremò, ma John distolse lo
sguardo.
“Non me ne faccio nulla del
tuo dispiacere, Sherlock. Tieniti per te le tue scuse” il
medico si sdraiò,
incapace di rimanere ancora seduto. La nausea aveva cominciato a
tormentarlo.
“Io voglio solo…che mi lasci in pace”
Respirò ancora, tremante,
cercando di regolarizzare il battito del suo cuore, ma senza dargli la
soddisfazione di guardare il suo dolore, di godere di quella sua
debolezza.
“E’ questo che vuoi, John?”
domandò. La sua voce era una stilettata al cuore,
ogni volta.
“Va via, via,
via!…sono stato
uno stupido a desiderare che tornassi, uno stupido a credere di valere
qualcosa
per uno come il grande Sherlock Holmes!” sibilò
ancora, a denti
stretti, con voce resa roca dalla
rabbia.
John si voltò e affondò tra
le coperte, chiudendo gli occhi per non vederlo più, con la
testa che pulsava e
doleva rendendogli difficile pensare ad altro se non quel fastidio
pressante a
quel silenzio che assordava. John
lo
udì muoversi ma non si voltò, non lo
guardò. Voleva solo…svegliarsi.
“Io… io…” disse
quell’ombra,
quella visione. “io ho dovuto”
John morse il cuscino per non
rispondere, per non permettere a quell’ira,
quell’astio che covava dentro di
non esplodere nuovamente.
“Tu contavi per me” disse, e John lo
sentì tremare “tu conti
per me”
“Sherlock, io voglio…”
cominciò John ma le parole gli si bloccarono in gola.
“Tu sei la persona migliore che io abbia mai incontrato. E tu
sai quanto mi
costi dire una cosa del genere. Tu… tu eri quello che avevo
sempre cercato,
nella mia esistenza. Tu hai riempito le pagine vuote della mia
vita.” Sussurrò
come se stesse facendo…un’immane sforzo per
pronunciare quelle parole. Era
davvero un sogno poco realistico, pensò John. Sherlock non
lo avrebbe mai
fatto. Il dottore sentì un pugno invisibile stringere il suo
cuore in una
morsa. Strinse più forte le coperte.
“Tu… sei il mio migliore
amico, John”
disse, in un bisbiglio appena udibile.
“…io voglio che tu sparisca” concluse
John, drastico, nonostante le sue ultime parole gli avessero scavato
una ferita
lancinante nell’anima.
Sherlock non rispose. Rimase
in quel silenzio carico di dolore, di rimorso, di frammenti di vita
passata che
non sarebbe mai più ritornata. John strinse ancora gli occhi
fino a farsi male.
Avrebbe voluto colpirlo, se non fosse stato solo qualcosa di
immateriale, di
immaginario, incorporeo.
Senti un fruscio ovattato, ma
non riuscì a distinguere cosa fosse, cosa stesse facendo. Lo
sentiva proprio li
accanto, come se stesse vegliando su di lui, percepiva
la sua presenza chiara
per quanto illusoria.
“Addio” sussurrò quella voce
tanto familiare quanto sconosciuta. Il medico non rispose, ne lo
guardò. Voleva
solo che lui lo lasciasse in pace.
John non seppe descrivere
quello che provò dopo, quando non sentì
più nulla, quando il silenzio si fece
pesante, lugubre, angosciante come tutte le altre notti. Aveva paura di
riaprire gli occhi e vederlo ancora li, con quello sguardo colpevole,
supplicante.
Dopo qualche minuto, cercando di combattere la stretta che gli
stringeva le
viscere e il cuore riuscì ad alzarsi nuovamente, voltandosi
verso l’altro lato
della stanza, che trovò inesorabilmente vuoto. Era solo.
Un’altra volta.
John non riuscì a
trattenersi. Si alzò, tentennando, e rise. Rise, con tutto
il fiato che aveva
in gola, con tutta la forza che riuscì a trovare dentro di
se come se riuscisse
a liberarlo, come se quella risata vuota, isterica, senza alcuna
allegria,
potesse finalmente liberarlo del peso che lo opprimeva. Teneva una mano
sul
petto, che si muoveva al ritmo del suo respiro irregolare, di quella
risata
innaturale.
Corse fino alla sedia, ancora
ridendo e quasi crollando in ginocchio davanti ad essa, toccandola come
fosse
qualcosa di raro e prezioso. Come fosse qualcosa di valore sconfinato.
Alla
fine, guardando sulla seduta di legno scuro, qualcosa attirò
la sua attenzione,
costringendolo ad ammutolire, sconvolto.
Era un foglio. Un semplice pezzo di carta strappato da un qualche libro
o da un
blocchetto.
John lo guardò senza parlare,
la lingua bloccata contro il palato, incapace di articolare una sola
sillaba.
Con mani tremanti portò il foglio alla luce della luna per
leggere meglio,
spaventato e teso come non lo era mai stato.
Quando i suoi occhi si
abituarono alla luce, quando le sue mani smisero di tremare John lesse
le
parole, di una grafia a lui terribilmente familiare, che vi erano
scritte:
SH
L’inchiostro era sbavato,
opaco come se qualcuno vi avesse fatto scivolare sopra
dell’acqua o come se
avesse tenuto il foglio sotto una pioggia scrosciante. Ma John sapeva
benissimo
cosa fossero.
Gemette, una mano al cuore, precipitandosi sulle gambe instabili
giù per le
scale fino al pianerottolo, ansante, aprendo la porta del 221b con
violenza
facendola cozzare violentemente contro il muro e precipitandosi in
strada,
stravolto. Stringeva ancora in mano il foglietto, come se non volesse
perderlo
per nulla al mondo, come se stringerlo, sentire il contatto con
quell’oggetto
semplice eppure talmente importante potesse tenerlo in vita. Corse
rasentando
il muro lungo la strada, cercando un qualunque segno della sua
presenza, un
qualunque segno che rivelasse la sua presenza. John cercava una speranza. Con gli occhi sbarrati,
stravolto, con il cuore che sembrava pronto ad esplodergli nel petto
tornò
davanti alla porta di casa e si guardò ancora intorno
freneticamente osservando
la via vuota, senza vita, silenziosa. La consapevolezza di tutto quello
che era
successo lo colpì nuovamente, forte e dolorosa come uno
schiaffo in pieno viso.
Cosa aveva fatto?
Senza fiato, rimase fermo
sulla soglia. Le gambe gli cedettero e lui si ritrovò in
ginocchio sul freddo
vialetto a piedi nudi, a stringere quel foglio tra le mani, senza
lasciarlo mai
andare.
§
Mrs. Hudson fu svegliata da
un rumore forte, secco, come una porta sbattuta con veemenza.
Allarmata, si
mise addosso una vestaglia chiedendosi cosa fosse successo. Da
quando…da quando
Sherlock era morto non era più successo nulla, a Baker
Street. Quel pensiero
intristì la donna, e la nostalgia per un secondo
offuscò quasi lo spavento. Si
sporse dalla soglia, guardinga, attenta a non attirare
l’attenzione e vide la
porta d’ingresso spalancata, con l’aria gelida che
penetrava nel pianerottolo
con un suono lugubre, straziante. Scese per controllare,
definitivamente
agitata e quando arrivò sull’uscio, quello che
vide la costrinse a fermarsi,
impietrita. Sentì il cuore diventare improvvisamente
pesante, e si strinse
nella vestaglia, non osando ancora parlare.
Quello che vide fu un uomo, dai capelli biondi e gli occhi tristi
rannicchiato
a terra, come un bambino, che stringeva qualcosa fra le mani, sul cuore.
E quell’uomo, piangeva.
*