Salve
a tutti, eccomi qui con una nuova one-shot su Hetalia!
Mi sono reso conto che, sebbene trovi interessantissimo il personaggio di
Russia, non ci ho mai scritto ancora nulla, perciò adesso è il momento di
rimediare!
È
certamente uno dei più riusciti, e con il suo sorriso onnipresente e la storia
travagliata che si porta dietro è capace di offrire un sacco di spunti
notevoli.
Questa
fic è ambientata nel 1918, ad Ekaterinburg, dove l’ultimo zar e la sua famiglia
sono appena stati giustiziati; cosa prova Ivan a contemplare il macabro
spettacolo?
Buona
lettura!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS:
Lungo la storia saranno inseriti i link della “colonna sonora” di questa
storia, nel caso vogliate ascoltarla mentre leggete ^_^
Non
c’è nessuna speranza per me.
Il
messaggio chiaro e conciso che leggeva nei rivoli e nelle macchie di sangue sul
pavimento appena davanti la punta dei suoi stivali.
Risalendo
quei torrenti con lo sguardo, arrivò ai corpi senza vita di Nicolaj, il suo
ex-capo, e di tutta la sua famiglia.
Così
finiva l’epopea degli zar, in un puzzolente e gocciolante scantinato di una
sperduta cittadina degli Urali.
Così
morivano nella sporcizia un padre di famiglia, una moglie, quattro ragazze e un
bambino.
Ovviamente,
lui che era la Russia, la “Grande Madre” del buon popolo proletario, non aveva
potuto rifiutarsi dall’assistere all’esecuzione dei sanguinari monarchi.
Aveva
espresso ovviamente le sue perplessità al riguardo, ma i suoi nuovi capi erano
stati inamovibili: i Bianchi, i lealisti, stavano avanzando, e se avessero
liberato la famiglia reale avrebbero riacceso la motivazione del nemico, e la
rivoluzione sarebbe stata ancora più a rischio di quanto non fosse già in quel
momento così delicato.
Messa
così riuscivano ancora a farli sembrare pericolosi, ma lui non si era ancora
convinto del tutto.
Che
male poteva ormai fare Nicolaj? L’avevano deposto, scacciato dal suo sfarzoso
palazzo per sbatterlo a vivere da misero contadino in quel tugurio, senza alcun
potere, senza alcuna ricchezza, senza alcuna armata, e aveva ugualmente
perdonato i suoi aguzzini, e a lui, Ivan, il suo paese, aveva augurato che la
guerra civile finisse presto e di tornare ad essere presto felice.
Lui
avrebbe messo a rischio la rivoluzione? Gli era sembrato ormai così
placidamente rassegnato a quell’esilio, rasserenato dalla moglie e dai figli
sempre vicini.
I
figli poi, che male potevano ormai fare?
Aleksej, L’erede al trono era debole e cagionevole: se non ci avessero pensato
loro, probabilmente sarebbe stato il gelo o il tanto temuto taglietto a
portarselo via.
Le
ragazze, pur perduta la gloria avevano conservato il loro orgoglio e la loro
allegria anche nella caduta, ancora giocavano insieme e sognavano i futuri
mariti che sarebbero un giorno giunti a portarle nei loro sontuosi castelli.
Invece
erano finite riempite di piombo in uno scantinato.
E
lui d’altro canto, non aveva fatto poi molte storie per provare a cambiare la
decisione del Soviet.
Non
era stato mai nella sua natura agitarsi troppo dopotutto.
Anche
da quello capiva che la speranza per lui non esisteva.
Sarebbe stato per sempre quel pacato, enorme paese dal cuore di ghiaccio e dal
cappotto macchiato di sangue, l’unica cosa di cui avvertiva e da cui attingeva
calore.
Che
ironia: aveva sperato che a liberarlo da quelle macchie rosse potessero essere
dei tipi che il rosso ce l’avevano sulla bandiera.
Proletari,
contadini, operai, gente umile e semplice, gente pacifista, che avrebbe fatto
uscire la Russia dal conflitto e avrebbe inaugurato una nuova era di lavoro,
uguaglianza e prosperità.
Ma
per come stavano andando le cose, aveva già capito che nessun salvatore,
nemmeno il più benintenzionato, sarebbe mai giunto a strapparlo da quella
storia intrisa di violenza e di morte che l’aveva reso ciò che era.
Un
gigante dal sorriso finto, arresosi troppo in fretta alla notizia che non si
sarebbero limitati a far fuori solo Nicolaj.
Un
mostro brutale che aveva assistito alla morte delle quattro granduchesse con
cui aveva raccolto girasoli, e di Aleksej, dopo averlo salvato tante volte da
cadute, spigoli e spine nascoste.
Un
apatico senza più speranza che osservava zitto i corpi riversi a terra, destinato
a riflettere così bene l’infinita, rigida e indifferente terra che gli
apparteneva e che lui stesso era.
Non
c’è nessuna speranza per me, si ripeteva con un velo grigio davanti le pupille
cieche: nessuno mi salverà dalla mia storia maledetta, nessuno mi restituirà
mai la mia innocenza.
Ammesso
che lui innocente lo fosse mai stato.
Degli
stracci si mossero.
Pensò
ad un abbaglio all’inizio, ma poi sentì un suono, un sibilo, un soffio.
Così impercettibile, e così sofferente.
Avanzò,
producendo sotto le suole degli stivali il rumore come di una pozzanghera
calpestata.
Vide
una testolina voltarsi e una mano muoversi, e il cuore gli saltò in gola.
“Bozhe
moĭ!”
Si
chinò e sollevò quel corpicino, livido ma ancora vivo.
“Anastasia!”
“… Signor Russiya…”
Sentì
un brivido scuoterlo sotto i pesanti strati di vestiti. Le scostò la frangia
dalla fronte, le guardò le braccia e la gambe in cerca di ferite senza
trovarle, scostò leggermente, con rispetto visto che non era più una bimba
ormai, la camicetta logora e bucata, e vide che i proiettili l’avevano
raggiunta, ma si erano fermati contro i monili e i gioielli che lei e le altre
granduchesse si erano cucite negli abiti quando erano state costrette ad
andarsene dal palazzo.
I
proiettili erano stati deviati o vi si erano conficcati, ma gli urti le avevano
comunque provocato dei grossi lividi rossi sul petto e sull’addome, oltre a
farle perdere i sensi.
Ivan
alzò gli occhi: le sue sorelle non erano state altrettanto fortunate.
Si
voltò e guardò la scala di legno che saliva di sopra, e la porta aperta.
Pregando
che non arrivasse nessuno proprio in quel momento.
“Signor
Russiya… Cosa è successo?”
La
sua voce era rotta dallo shock. I suoi abiti e la sua guancia macchiati del
sangue delle sue adorate sorelle morte e dei suoi genitori. Grazie al cielo era
in stato confusionale e non era in grado di accorgersi di nulla di tutto ciò.
“Signor
Russiya…”
“Ssssh! Silenzio!” –sussurrò coprendole la bocca con la mano guantata- “Non
parlare. Stai calma.”
“Mi
fa male…”
Ivan
guardò di nuovo la scala. E sapeva chi c’era al piano di sopra.
Guardò
Anastasia, la più piccola, la più vispa, la più irrequieta, confusa e
dolorante, orfana e abbandonata a morire in uno scantinato.
“Ti
porto via!”
La
rialzò in piedi, ma non si reggeva. La caricò sulle spalle, badò che non urtasse
la testa contro la lampadina ad incandescenza che pendeva dal soffitto basso, e
iniziò a salire i gradini scricchiolanti.
Nella
sua mente le chiese scusa per il silenzio e la fretta, ma per il suo bene non
le avrebbe concesso un ultimo saluto alla mamma e al papà, a Olga, Tatiana,
Marija ed Aleksej.
Per
evitare ogni rischio, spense la luce in cima alla scala.
Anastasia
emise un gemito, e Russia si morse il labbro chiedendosi quanto ci avrebbe
messo a ricordarsi le armi tuonare contro lei e i suoi cari, e rendersi conto.
Russia
uscì dalla isba dalla porta sul retro, oltrepassò una cascina di legno e
scavalcò lo steccato con la ragazzina riversa sulle sue grosse spalle.
Il
vapore del suo respiro si dissolse dinanzi il suo volto e iniziò a muoversi.
Era
notte, e lì intorno fortunatamente era pieno di alberi, non solo di guardie:
con un po’ di fortuna, raggiunti gli abeti, i tronchi e le fronde innevate
l’avrebbero nascosto e la loro fuga sarebbe proseguita agevolmente.
Poi
si rese conto delle impronte profonde che col loro peso avrebbero lasciato
nella neve; ma non aveva assolutamente il tempo per cancellarle, l’unica era
allontanarsi il più possibile, e occuparsi di far perdere le tracce solo dopo
aver accumulato un certo vantaggio.
“Signor
Russiya…”
Russia
si bloccò: “Cosa c’è?”
“Ho
freddo…”
Tenendola
per un braccio affinché non cadesse, si tolse la sciarpa e le chiese di alzare
il collo per cercare di mettergiela. Impresa difficile: non poteva appoggiarla
sulla neve gelida senza scarponi, e doveva fare tutto pressoché alla cieca, con
lei che collaborava il poco che poteva.
“Chi
va là?”
“Sono
io. Torna al tuo posto.”
Il
soldato abbassò il fucile e prese ad avvicinarsi: “Tovarish Russiya! Prende una
boccata d’aria?”
“Voglio
solo fumare in pace, torna al tuo posto.”
“Il
mio turno è quasi finito, se vuole fumo con lei… Cosa sta facendo?”
Russia capì che un terzo avvertimento ormai sarebbe stato inutile.
Lasciò
cadere la sciarpa a terra, estrasse la pistola e, col viso granitico, uccise il
soldato sparandogli al collo. Nessuno come lui ammazzava a sangue freddo gente
con cui aveva vissuto, sparato, bevuto e fumato insieme.
O
vissuto, cantato, giocato e riso insieme, pensò stringendo la mano di
Anastasia.
Ma
se anche con quel tipo non sarebbe stata l’ultima volta, non avrebbe aggiunto
lei al novero. Se era arrivato a quel punto, era per gridare, una volta per
tutte “Basta!”.
“Signor
Russiya… Cosa succede?” mormorò Anastasia, col viso ancora premuto contro la
sua spalla.
“Niente,
ma ora dobbiamo andare.”
Uno
sparo in piena notte in una zona semideserta: un copione già scritto.
Ecco
le urla, le imprecazioni, i caricatori innestati, il rumore di neve calpestata
che si avvicina sempre di più.
“Der’mo!”
imprecò Ivan.
Si
assicurò le braccia di Anastasia intorno al collo, mise la mani dietro lo schiena
per sostenerla e poi, puntato il folto scuro del bosco si impartì un solo
tassativo ordine: corri!
http://www.youtube.com/watch?v=74Hj7tsfl78
Corri!
Corri! Corri!
Non
ci volle molto prima di arrivare a sentire il sibilo di un proiettile
superarlo.
Strinse
i denti: “Dar’mo!”
“Signor
Russiya…”
La sentì appena, tra il rumore della sua corsa, dei rami spezzati e dei soffi
del vento che gli veniva di fronte, tagliandogli sulle guance come fatto di tanti
piccoli rasoi volanti.
“Si?”
“Non… si dicono… le parolacce…”
Ivan
sorrise, e non si curò del crepitio della corteccia d’abete scheggiata da un
altro proiettile appena alla sua sinistra.
Poi
arrivarono i colpi di mitragliatore e lì iniziò a preoccuparsi di più.
Estrasse
la pistola e sparò alla cieca alcuni colpi dietro di sé. Sentì gemere Anastasia,
sofferente per il rumore degli spari vicino le sue orecchie, e non solo per
quello.
“Resisti.
È per il tuo bene.”
Le
sue parole restarono spezzate.
Un
uomo col colbacco era saltato fuori da dietro un albero giusto davanti a lui.
Ivan
non si scompose. Ignorò il suo “alt” arrivandogli addosso a tutta velocità,
colpendolo con una spallata. Raccolse da terra il suo mitragliatore e lo
uccise.
Poi
sparò una nuova raffica nel buio dietro di sé e riprese a correre.
Corri!
Corri! Corri!
Quando
giocava ad acchiapparello con lei e le sorelline faceva sempre finta di essere
troppo lento, ora non era più il momento di risparmiarsi.
Degli
aghi d’abete gli finirono negli occhi infastidendolo; altri gli graffiarono la
guancia già provata dal vento freddo, che si squarciò in piccoli tagli
brucianti.
La
neve gli confondeva la vista, ma l’importante era andare nella direzione
opposta agli spari; fintanto era così, non c’era nient’altro a cui pensare.
Si
voltò, e vide tra gli alberi, in lontananza, delle lanterne, e capì che non erano
poi così lontani come sperava. Sparò ancora.
Come
potevano essere tanto tenaci nel voler uccidere una ragazzina?
Gli
montava una tale rabbia al solo pensarci. E ne era felice.
Nel
fondo del suo cuore, in quella fuga, era felice, anche senza alcun sorriso,
finto o vero. Non era mai stato tanto irrazionale, non aveva mai fatto battere
il suo cuore così violentemente.
Un
suono fortissimo squarciò e disperse i suoi pensieri.
Un
colpo di artiglieria.
L’attimo
dopo un bagliore infuocato si stampò sulla parte destra del suo volto,
accecandogli l’occhio. Le orecchie gli fischiavano, la testa gli pulsava,
poteva inciampare da un momento all’altro.
E
non aveva solo sé stesso a cui pensare.
“Anastasia!
Stai bene?”
Nessuna risposta.
“Dar’mo!
Dar’mo! Dar’mo!” ne approfittò lui.
Si
voltò e urlando scaricò tutto il resto del caricatore alle sue spalle. Esauriti
i proiettili, gettò via l’arma.
Un
secondo colpo non si fece attendere. Si girò verso la direzione dello scoppio,
in modo che le schegge infuocate di corteccia colpissero solamente lui.
Sopportò
e si lanciò a testa bassa nella direzione intrapresa.
Corri!
Corri! Corri!
Anastasia,
con il rimbombo delle esplosioni a tormentarle la testa, continuava a venire
sballottata contro la sua schiena ad
ogni passo, ad ogni falcata, ad ogni salto, gemendo di tanto in tanto, o almeno
credeva di sentirla gemere.
Come
potevano essere così insensibili?
Non era da lui farsi certe domande. Anzi, lui per primo che diritto aveva di
dare dell’insensibile a qualcun altro?
Quindi
c’era speranza anche per lui?
Un
fischio. Sempre più acuto e vicino.
Un
mortaio!
Il
terrore gli allungò la falcata.
“Dar’…”
http://www.youtube.com/watch?v=ysSxxIqKNN0&ob=av2e
L’onda
d’urto fortissima gli diede appena il tempo di stringerle di riflesso le
braccia per trattenerla a sé.
Si
sentì deviare dal percorso, sollevare, volare.
Atterrò
a metà tra l’in piedi e l’inginocchiato; si rese conto di essere uscito fuori
dal bosco, e che stava per inciampare lungo un pendio innevato, macchiato qui e
là di cespugli scuri.
Roteò
e riuscì per miracolo ad abbracciare la granduchessa prima di cadere.
Iniziò
a rotolare giù, una discesa interminabile, che gli graffiava la faccia, lo
riempiva di lividi, gli slogava le giunture.
Il
dolore gli spense il cervello, e non riuscì a pregare per nessuno dei due.
Quando
si furono fermati, non riusciva a sentire nulla, ma sapeva sarebbe stata solo
una sordità temporanea. Si sollevò a fatica sulle braccia.
Anastasia
era riversa a faccia in giù nella neve.
“Bozhe
moĭ! No! No!”
La
sollevò, le spazzò la neve via dalla faccia.
Si
guardò intorno: nessuno a cui chiedere aiuto, ma se non altro nemmeno nessuno
degli inseguitori in vista. Se riprendevano la corsa potevano distanziarli.
Ma
non si sentì in grado di ripartire senza accertarsi di non trovarsi a proseguire
con un cadavere sulle spalle.
“Granduchessa! Anastasia! Rispondimi! Rispondi! Tu devi vivere! Devi vivere!”
Era
la sua speranza.
Era
la sua innocenza.
La
ragazza che persino il suo gelido cuore non aveva voluto abbandonare agli
assassini.
La
dimostrazione che era “caldo”, come tutti.
“Anastasia!
Devi vivere! Mi senti? Anastasia?”
“Signor
Russiya…”
Ivan si avvicinò. Aveva solo visto muovere le sue labbra, ma le parole si erano
perse nell’ennesima raffica che continuava a schiaffeggiarli impietoso.
“Ho
freddo…”
Si
tolse il giaccone, il maglione, i guanti, gli stivali e la coprì il più
possibile.
Le
palpebre le cascavano tristi e pesanti, i denti battevano, il naso rosso era
l’unica parte che sembrava rimasta viva in quel dolce volto pallido, così
spento che si confondeva col buio della notte, bramosa di prenderlo per sé.
“Tranquilla.”
–sorrise- “Ti porto via.”
La
caricò sulle spalle, e il vento rise di lui, tagliandolo lungo i contorni degli
abiti che gli restavano, giungendo fino sotto di essi, alla pelle, per graffiarla
e provocargli brividi incontrollabili.
Chi
meglio di lui conosceva i rischi dell’esposizione al gelo? Le sue mani erano
già livide, i suoi piedi scalzi nella neve non li sentiva più, il torpore lo
assaliva e gli sottraeva ogni forza, costringendolo a piegarsi.
La
neve proseguiva a perdita d’occhio, interrompendosi solo molto più in là nella
valle, con le luci delle case di un villaggio. Vide anche il serpente metallico
della ferrovia luccicare alla luce della luna e attraversare la cittadina da
parte a parte.
Con
quel treno avrebbe potuto portarla via lontano, fin oltre il confine.
Ma
il piede non rispose al suo desiderio di avanzare.
Allora
strinse la mano di Anastasia, e guardò truce la terra, dura come il cemento,
che si nascondeva sotto quel fitto tappeto bianco.
La
guardò con sfida. La guardò per dirle che non ce l’avrebbe fatta a congelarlo.
Non
ce l’avrebbe fatta a fermarlo.
Lui
era più freddo!
Lui
era la Russia!
Quella
terra così dura ed ostile era lui stesso, e gli avrebbe obbedito.
Con
un ampio respiro si riempì i polmoni di ghiaccio.
Grugnì
per lo sforzo e il piede rispose.
Grugnì
ancora e le gambe si sbloccarono.
Corri! Corri! Corri!
Le
urla tornarono ad echeggiargli alle spalle. Il limitare del bosco si punteggiò
della luce delle lanterne.
Corri!
Corri! Corri!
La
sua speranza, il suo riscatto, la sua adorata granduchessa contavano su di lui.
Corri!
Corri! Corri!
C’era
altro di cui era arrivato ad avvertire il calore.
Questa
fic è venuta fuori proprio “hard-boiled”: inseguimenti, esplosioni, spari,
uccisioni, un eroe al salvataggio di una sfortunata ragazza…
Non
vi immaginavate Russia potesse essere così, vero? Per una volta, ha deciso di
ribellarsi al suo destino, al suo “freddo”, al suo riflettere così dannatamente
bene la difficile terra in cui vive, per riguadagnarsi il diritto di sentirsi
un essere umano (per quanto lo sia una nazione personificata XD) con le sue
passioni e, soprattutto, il proprio calore.
Per
il titolo, le esclamazioni e le imprecazioni in russo ringrazio il traduttore
di google!
Commentate!
^^
PS: NARUTO X HINATA ORA E SEMPRE!