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Autore: TonyCocchi    07/02/2012    8 recensioni
Non c’è nessuna speranza per Ivan. È e sarà sempre un paese gelido, che avverte il calore solo quando il sangue scorre copioso. Ma in quella pozza rossa che ha sotto gli occhi adesso, si cela la sua speranza, la sua occasione di riscattare la sua umanità e il suo calore.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Russia/Ivan Braginski, Sorpresa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Russia - Anastasia fuga

Salve a tutti, eccomi qui con una nuova one-shot su Hetalia!
Mi sono reso conto che, sebbene trovi interessantissimo il personaggio di Russia, non ci ho mai scritto ancora nulla, perciò adesso è il momento di rimediare!

È certamente uno dei più riusciti, e con il suo sorriso onnipresente e la storia travagliata che si porta dietro è capace di offrire un sacco di spunti notevoli.

Questa fic è ambientata nel 1918, ad Ekaterinburg, dove l’ultimo zar e la sua famiglia sono appena stati giustiziati; cosa prova Ivan a contemplare il macabro spettacolo?

Buona lettura!

 

PS: GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!

 

PPS: Lungo la storia saranno inseriti i link della “colonna sonora” di questa storia, nel caso vogliate ascoltarla mentre leggete ^_^

 

 

 

Non c’è nessuna speranza per me.

Il messaggio chiaro e conciso che leggeva nei rivoli e nelle macchie di sangue sul pavimento appena davanti la punta dei suoi stivali.

Risalendo quei torrenti con lo sguardo, arrivò ai corpi senza vita di Nicolaj, il suo ex-capo, e di tutta la sua famiglia.

Così finiva l’epopea degli zar, in un puzzolente e gocciolante scantinato di una sperduta cittadina degli Urali.

Così morivano nella sporcizia un padre di famiglia, una moglie, quattro ragazze e un bambino.

Ovviamente, lui che era la Russia, la “Grande Madre” del buon popolo proletario, non aveva potuto rifiutarsi dall’assistere all’esecuzione dei sanguinari monarchi.

Aveva espresso ovviamente le sue perplessità al riguardo, ma i suoi nuovi capi erano stati inamovibili: i Bianchi, i lealisti, stavano avanzando, e se avessero liberato la famiglia reale avrebbero riacceso la motivazione del nemico, e la rivoluzione sarebbe stata ancora più a rischio di quanto non fosse già in quel momento così delicato.

Messa così riuscivano ancora a farli sembrare pericolosi, ma lui non si era ancora convinto del tutto.

Che male poteva ormai fare Nicolaj? L’avevano deposto, scacciato dal suo sfarzoso palazzo per sbatterlo a vivere da misero contadino in quel tugurio, senza alcun potere, senza alcuna ricchezza, senza alcuna armata, e aveva ugualmente perdonato i suoi aguzzini, e a lui, Ivan, il suo paese, aveva augurato che la guerra civile finisse presto e di tornare ad essere presto felice.

Lui avrebbe messo a rischio la rivoluzione? Gli era sembrato ormai così placidamente rassegnato a quell’esilio, rasserenato dalla moglie e dai figli sempre vicini.

I figli poi, che male potevano ormai fare?
Aleksej, L’erede al trono era debole e cagionevole: se non ci avessero pensato loro, probabilmente sarebbe stato il gelo o il tanto temuto taglietto a portarselo via.

Le ragazze, pur perduta la gloria avevano conservato il loro orgoglio e la loro allegria anche nella caduta, ancora giocavano insieme e sognavano i futuri mariti che sarebbero un giorno giunti a portarle nei loro sontuosi castelli.

Invece erano finite riempite di piombo in uno scantinato.

E lui d’altro canto, non aveva fatto poi molte storie per provare a cambiare la decisione del Soviet.

Non era stato mai nella sua natura agitarsi troppo dopotutto.

Anche da quello capiva che la speranza per lui non esisteva.
Sarebbe stato per sempre quel pacato, enorme paese dal cuore di ghiaccio e dal cappotto macchiato di sangue, l’unica cosa di cui avvertiva e da cui attingeva calore.

Che ironia: aveva sperato che a liberarlo da quelle macchie rosse potessero essere dei tipi che il rosso ce l’avevano sulla bandiera.

Proletari, contadini, operai, gente umile e semplice, gente pacifista, che avrebbe fatto uscire la Russia dal conflitto e avrebbe inaugurato una nuova era di lavoro, uguaglianza e prosperità.

Ma per come stavano andando le cose, aveva già capito che nessun salvatore, nemmeno il più benintenzionato, sarebbe mai giunto a strapparlo da quella storia intrisa di violenza e di morte che l’aveva reso ciò che era.

Un gigante dal sorriso finto, arresosi troppo in fretta alla notizia che non si sarebbero limitati a far fuori solo Nicolaj.

Un mostro brutale che aveva assistito alla morte delle quattro granduchesse con cui aveva raccolto girasoli, e di Aleksej, dopo averlo salvato tante volte da cadute, spigoli e spine nascoste.

Un apatico senza più speranza che osservava zitto i corpi riversi a terra, destinato a riflettere così bene l’infinita, rigida e indifferente terra che gli apparteneva e che lui stesso era.

Non c’è nessuna speranza per me, si ripeteva con un velo grigio davanti le pupille cieche: nessuno mi salverà dalla mia storia maledetta, nessuno mi restituirà mai la mia innocenza.

Ammesso che lui innocente lo fosse mai stato.

 

Degli stracci si mossero.

Pensò ad un abbaglio all’inizio, ma poi sentì un suono, un sibilo, un soffio.
Così impercettibile, e così sofferente.

Avanzò, producendo sotto le suole degli stivali il rumore come di una pozzanghera calpestata.

Vide una testolina voltarsi e una mano muoversi, e il cuore gli saltò in gola.

“Bozhe moĭ!”

Si chinò e sollevò quel corpicino, livido ma ancora vivo.

“Anastasia!”
“… Signor Russiya…”

Sentì un brivido scuoterlo sotto i pesanti strati di vestiti. Le scostò la frangia dalla fronte, le guardò le braccia e la gambe in cerca di ferite senza trovarle, scostò leggermente, con rispetto visto che non era più una bimba ormai, la camicetta logora e bucata, e vide che i proiettili l’avevano raggiunta, ma si erano fermati contro i monili e i gioielli che lei e le altre granduchesse si erano cucite negli abiti quando erano state costrette ad andarsene dal palazzo.

I proiettili erano stati deviati o vi si erano conficcati, ma gli urti le avevano comunque provocato dei grossi lividi rossi sul petto e sull’addome, oltre a farle perdere i sensi.

Ivan alzò gli occhi: le sue sorelle non erano state altrettanto fortunate.

Si voltò e guardò la scala di legno che saliva di sopra, e la porta aperta.

 

Pregando che non arrivasse nessuno proprio in quel momento.

 

“Signor Russiya… Cosa è successo?”

La sua voce era rotta dallo shock. I suoi abiti e la sua guancia macchiati del sangue delle sue adorate sorelle morte e dei suoi genitori. Grazie al cielo era in stato confusionale e non era in grado di accorgersi di nulla di tutto ciò.

“Signor Russiya…”
“Ssssh! Silenzio!” –sussurrò coprendole la bocca con la mano guantata- “Non parlare. Stai calma.”

“Mi fa male…”

Ivan guardò di nuovo la scala. E sapeva chi c’era al piano di sopra.

Guardò Anastasia, la più piccola, la più vispa, la più irrequieta, confusa e dolorante, orfana e abbandonata a morire in uno scantinato.

“Ti porto via!”

La rialzò in piedi, ma non si reggeva. La caricò sulle spalle, badò che non urtasse la testa contro la lampadina ad incandescenza che pendeva dal soffitto basso, e iniziò a salire i gradini scricchiolanti.

Nella sua mente le chiese scusa per il silenzio e la fretta, ma per il suo bene non le avrebbe concesso un ultimo saluto alla mamma e al papà, a Olga, Tatiana, Marija ed Aleksej.

Per evitare ogni rischio, spense la luce in cima alla scala.

Anastasia emise un gemito, e Russia si morse il labbro chiedendosi quanto ci avrebbe messo a ricordarsi le armi tuonare contro lei e i suoi cari, e rendersi conto.

 

Russia uscì dalla isba dalla porta sul retro, oltrepassò una cascina di legno e scavalcò lo steccato con la ragazzina riversa sulle sue grosse spalle.

Il vapore del suo respiro si dissolse dinanzi il suo volto e iniziò a muoversi.

Era notte, e lì intorno fortunatamente era pieno di alberi, non solo di guardie: con un po’ di fortuna, raggiunti gli abeti, i tronchi e le fronde innevate l’avrebbero nascosto e la loro fuga sarebbe proseguita agevolmente.

Poi si rese conto delle impronte profonde che col loro peso avrebbero lasciato nella neve; ma non aveva assolutamente il tempo per cancellarle, l’unica era allontanarsi il più possibile, e occuparsi di far perdere le tracce solo dopo aver accumulato un certo vantaggio.

“Signor Russiya…”

Russia si bloccò: “Cosa c’è?”

“Ho freddo…”

Tenendola per un braccio affinché non cadesse, si tolse la sciarpa e le chiese di alzare il collo per cercare di mettergiela. Impresa difficile: non poteva appoggiarla sulla neve gelida senza scarponi, e doveva fare tutto pressoché alla cieca, con lei che collaborava il poco che poteva.

“Chi va là?”

“Sono io. Torna al tuo posto.”

Il soldato abbassò il fucile e prese ad avvicinarsi: “Tovarish Russiya! Prende una boccata d’aria?”

“Voglio solo fumare in pace, torna al tuo posto.”

“Il mio turno è quasi finito, se vuole fumo con lei… Cosa sta facendo?”
Russia capì che un terzo avvertimento ormai sarebbe stato inutile.

Lasciò cadere la sciarpa a terra, estrasse la pistola e, col viso granitico, uccise il soldato sparandogli al collo. Nessuno come lui ammazzava a sangue freddo gente con cui aveva vissuto, sparato, bevuto e fumato insieme.

O vissuto, cantato, giocato e riso insieme, pensò stringendo la mano di Anastasia.

Ma se anche con quel tipo non sarebbe stata l’ultima volta, non avrebbe aggiunto lei al novero. Se era arrivato a quel punto, era per gridare, una volta per tutte “Basta!”.

“Signor Russiya… Cosa succede?” mormorò Anastasia, col viso ancora premuto contro la sua spalla.

“Niente, ma ora dobbiamo andare.”

Uno sparo in piena notte in una zona semideserta: un copione già scritto.

Ecco le urla, le imprecazioni, i caricatori innestati, il rumore di neve calpestata che si avvicina sempre di più.

“Der’mo!” imprecò Ivan.

Si assicurò le braccia di Anastasia intorno al collo, mise la mani dietro lo schiena per sostenerla e poi, puntato il folto scuro del bosco si impartì un solo tassativo ordine: corri!

 

http://www.youtube.com/watch?v=74Hj7tsfl78

 

Corri! Corri! Corri!

 

Non ci volle molto prima di arrivare a sentire il sibilo di un proiettile superarlo.

Strinse i denti: “Dar’mo!”

“Signor Russiya…”
La sentì appena, tra il rumore della sua corsa, dei rami spezzati e dei soffi del vento che gli veniva di fronte, tagliandogli sulle guance come fatto di tanti piccoli rasoi volanti.

“Si?”
“Non… si dicono… le parolacce…”

Ivan sorrise, e non si curò del crepitio della corteccia d’abete scheggiata da un altro proiettile appena alla sua sinistra.

Poi arrivarono i colpi di mitragliatore e lì iniziò a preoccuparsi di più.

Estrasse la pistola e sparò alla cieca alcuni colpi dietro di sé. Sentì gemere Anastasia, sofferente per il rumore degli spari vicino le sue orecchie, e non solo per quello.

“Resisti. È per il tuo bene.”

Le sue parole restarono spezzate.

Un uomo col colbacco era saltato fuori da dietro un albero giusto davanti a lui.

Ivan non si scompose. Ignorò il suo “alt” arrivandogli addosso a tutta velocità, colpendolo con una spallata. Raccolse da terra il suo mitragliatore e lo uccise.

Poi sparò una nuova raffica nel buio dietro di sé e riprese a correre.

 

Corri! Corri! Corri!

 

Quando giocava ad acchiapparello con lei e le sorelline faceva sempre finta di essere troppo lento, ora non era più il momento di risparmiarsi.

Degli aghi d’abete gli finirono negli occhi infastidendolo; altri gli graffiarono la guancia già provata dal vento freddo, che si squarciò in piccoli tagli brucianti.

La neve gli confondeva la vista, ma l’importante era andare nella direzione opposta agli spari; fintanto era così, non c’era nient’altro a cui pensare.

Si voltò, e vide tra gli alberi, in lontananza, delle lanterne, e capì che non erano poi così lontani come sperava. Sparò ancora.

Come potevano essere tanto tenaci nel voler uccidere una ragazzina?

Gli montava una tale rabbia al solo pensarci. E ne era felice.

Nel fondo del suo cuore, in quella fuga, era felice, anche senza alcun sorriso, finto o vero. Non era mai stato tanto irrazionale, non aveva mai fatto battere il suo cuore così violentemente.

Un suono fortissimo squarciò e disperse i suoi pensieri.

Un colpo di artiglieria.

L’attimo dopo un bagliore infuocato si stampò sulla parte destra del suo volto, accecandogli l’occhio. Le orecchie gli fischiavano, la testa gli pulsava, poteva inciampare da un momento all’altro.

E non aveva solo sé stesso a cui pensare.

“Anastasia! Stai bene?”
Nessuna risposta.

“Dar’mo! Dar’mo! Dar’mo!” ne approfittò lui.

Si voltò e urlando scaricò tutto il resto del caricatore alle sue spalle. Esauriti i proiettili, gettò via l’arma.

Un secondo colpo non si fece attendere. Si girò verso la direzione dello scoppio, in modo che le schegge infuocate di corteccia colpissero solamente lui.

Sopportò e si lanciò a testa bassa nella direzione intrapresa.

 

Corri! Corri! Corri!

 

Anastasia, con il rimbombo delle esplosioni a tormentarle la testa, continuava a venire sballottata  contro la sua schiena ad ogni passo, ad ogni falcata, ad ogni salto, gemendo di tanto in tanto, o almeno credeva di sentirla gemere.

Come potevano essere così insensibili?
Non era da lui farsi certe domande. Anzi, lui per primo che diritto aveva di dare dell’insensibile a qualcun altro?

Quindi c’era speranza anche per lui?

Un fischio. Sempre più acuto e vicino.

Un mortaio!

Il terrore gli allungò la falcata.

“Dar’…”

 

http://www.youtube.com/watch?v=ysSxxIqKNN0&ob=av2e

 

L’onda d’urto fortissima gli diede appena il tempo di stringerle di riflesso le braccia per trattenerla a sé.

Si sentì deviare dal percorso, sollevare, volare.

Atterrò a metà tra l’in piedi e l’inginocchiato; si rese conto di essere uscito fuori dal bosco, e che stava per inciampare lungo un pendio innevato, macchiato qui e là di cespugli scuri.

Roteò e riuscì per miracolo ad abbracciare la granduchessa prima di cadere.

Iniziò a rotolare giù, una discesa interminabile, che gli graffiava la faccia, lo riempiva di lividi, gli slogava le giunture.

Il dolore gli spense il cervello, e non riuscì a pregare per nessuno dei due.

 

Quando si furono fermati, non riusciva a sentire nulla, ma sapeva sarebbe stata solo una sordità temporanea. Si sollevò a fatica sulle braccia.

Anastasia era riversa a faccia in giù nella neve.

“Bozhe moĭ! No! No!”

La sollevò, le spazzò la neve via dalla faccia.

Si guardò intorno: nessuno a cui chiedere aiuto, ma se non altro nemmeno nessuno degli inseguitori in vista. Se riprendevano la corsa potevano distanziarli.

Ma non si sentì in grado di ripartire senza accertarsi di non trovarsi a proseguire con un cadavere sulle spalle.
“Granduchessa! Anastasia! Rispondimi! Rispondi! Tu devi vivere! Devi vivere!”

Era la sua speranza.

Era la sua innocenza.

La ragazza che persino il suo gelido cuore non aveva voluto abbandonare agli assassini.

La dimostrazione che era “caldo”, come tutti.

“Anastasia! Devi vivere! Mi senti? Anastasia?”

“Signor Russiya…”
Ivan si avvicinò. Aveva solo visto muovere le sue labbra, ma le parole si erano perse nell’ennesima raffica che continuava a schiaffeggiarli impietoso.

“Ho freddo…”

Si tolse il giaccone, il maglione, i guanti, gli stivali e la coprì il più possibile.

Le palpebre le cascavano tristi e pesanti, i denti battevano, il naso rosso era l’unica parte che sembrava rimasta viva in quel dolce volto pallido, così spento che si confondeva col buio della notte, bramosa di prenderlo per sé.

“Tranquilla.” –sorrise- “Ti porto via.”

La caricò sulle spalle, e il vento rise di lui, tagliandolo lungo i contorni degli abiti che gli restavano, giungendo fino sotto di essi, alla pelle, per graffiarla e provocargli brividi incontrollabili.

Chi meglio di lui conosceva i rischi dell’esposizione al gelo? Le sue mani erano già livide, i suoi piedi scalzi nella neve non li sentiva più, il torpore lo assaliva e gli sottraeva ogni forza, costringendolo a piegarsi.

La neve proseguiva a perdita d’occhio, interrompendosi solo molto più in là nella valle, con le luci delle case di un villaggio. Vide anche il serpente metallico della ferrovia luccicare alla luce della luna e attraversare la cittadina da parte a parte.

Con quel treno avrebbe potuto portarla via lontano, fin oltre il confine.

Ma il piede non rispose al suo desiderio di avanzare.

Allora strinse la mano di Anastasia, e guardò truce la terra, dura come il cemento, che si nascondeva sotto quel fitto tappeto bianco.

La guardò con sfida. La guardò per dirle che non ce l’avrebbe fatta a congelarlo.

Non ce l’avrebbe fatta a fermarlo.

Lui era più freddo!

Lui era la Russia!

Quella terra così dura ed ostile era lui stesso, e gli avrebbe obbedito.

Con un ampio respiro si riempì i polmoni di ghiaccio.

Grugnì per lo sforzo e il piede rispose.

Grugnì ancora e le gambe si sbloccarono.


Corri! Corri! Corri!

 

Le urla tornarono ad echeggiargli alle spalle. Il limitare del bosco si punteggiò della luce delle lanterne.

 

Corri! Corri! Corri!

 

La sua speranza, il suo riscatto, la sua adorata granduchessa contavano su di lui.

 

Corri! Corri! Corri!

 

C’era altro di cui era arrivato ad avvertire il calore.

 

 

 

 

Questa fic è venuta fuori proprio “hard-boiled”: inseguimenti, esplosioni, spari, uccisioni, un eroe al salvataggio di una sfortunata ragazza…

Non vi immaginavate Russia potesse essere così, vero? Per una volta, ha deciso di ribellarsi al suo destino, al suo “freddo”, al suo riflettere così dannatamente bene la difficile terra in cui vive, per riguadagnarsi il diritto di sentirsi un essere umano (per quanto lo sia una nazione personificata XD) con le sue passioni e, soprattutto, il proprio calore.

Per il titolo, le esclamazioni e le imprecazioni in russo ringrazio il traduttore di google!

Commentate! ^^

PS: NARUTO X HINATA ORA E SEMPRE!

  
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