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Autore: Aly Zefy    13/02/2012    13 recensioni
Nel Mind Palace di Sherlock c’è una stanza solo per John.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nel Mind Palace di Sherlock c’è una stanza solo per John.

Autore: Aly Zefy
Fandom: Sherlock BBC
Titolo: Nel Mind Palace di Sherlock
Personaggi: Sherlock, John
Rating: Giallo
Avvisi: Slash
Note: Prima fanfic, nata per sfogare i flussi continui di idee che la coppia Sherlock/John mi procura costantemente...

Buona lettura :)

*°o.o°*o0o*°o.o°*



Era sdraiato su divano, nella sua posizione preferita per addentrarsi nel suo palazzo menatale, le mani giunte sotto il mento, il corpo disteso apparentemente rilassato.


La sua mente però era in agitazione, qualcosa nel suo regno era cambiato, percepiva qualcosa di diverso da quando si era immerso nel suo mondo di idee, qualcosa che stonava, o forse qualcosa era mutato?


La mente febbrile del consulente investigativo percorreva ogni corridoio, aprendo stanza dopo stanza, prima l’ala delle scienze naturali, il corridoio di chimica, fitta di camere stracolme di molecole, particelle, reazioni, soluzioni, fasi, combustioni, reazioni... no, il problema non era lì, le pareti erano solide, tutto era in ordine nella sua intricata ragnatela mentale.


Non trovò nulla nemmeno nei successivi locali, geologia, storia, matematica, filosofia…
Ogni ala del palazzo era ancora perfetta, ordinatissima, impeccabile; ogni nozione era disposta correttamente al suo posto, esattamente dove le aveva riposte lui, come gli piaceva che fossero, con le porte a collegare le stanze, sale e aree dove voleva lui. Ogni dettaglio era come doveva essere.


Il corpo di Sherlock Holmes sospirò nel mondo fisico.


C’era solo un’ala del palazzo che non aveva controllato. Odiava quella parte del suo perfetto maniero, ma ovviamente se un problema si era manifestato doveva accertarsi di risolverlo, così con questo spirito risoluto e un po’ rassegnato si diresse nel sotterraneo, scendendo scale man mano sempre più buie, sempre meno ampie, più usurate.


Concluse la sua discesa con l’ultimo gradino di una piccola scala a chiocciola.


C’era solo un corridoio.


Cinque stanze.


Si fermò.


C’era una stanza in più.


In fondo al corridoio, di fronte a lui scorgeva una porta di legno, incredibilmente solida in confronto alle altre quatto porte disposte sul corridoio, queste erano dozzinali, porte di metallo, fatte per resistere nel tempo ma non per essere ammirate o usate di frequente, di quel genere che chiunque piazzerebbe in un edificio in un porto di periferia, buone solo a tener lontano i ladri.


Sherlock le ignorò, si avvicinò alla porta che non doveva esserci, quella porta che non ricordava di aver eretto. Era una bella porta obbiettivamente, in noce, massiccia, senza decori o simboli, la porta della sala dei veleni, ad esempio, aveva vezzose spirali che si intrecciavano a teschi che parevano ridere all’osservatore, ma quella no, era liscia, c’era solo una bordatura ad incorniciarla e non farla apparire scialba, la maniglia semplice e pratica, in ottone lucido.


Doveva entrare, qualcosa lo agitava, lo inquietava e lo attraeva in quella stanza e ancora non sapeva, non voleva sapere, cosa nascondeva.
Si fece forza, qualunque mostro ci fosse al di là della sua costruzione mentale avrebbe potuto cancellarlo, come ogni informazione inutile o deconcentrante. Lui lì era un dio.


Spalancò la porta in un unico gesto, quasi violento, afferrando e spingendo la maniglia registrando appena la strana sensazione dell’ottone nella sua mano, era caldo.


Inchiodato sull’uscio Sherlock Holmes guardava stupito ciò che lo strato più profondo della sua mente aveva eretto, tanto profondo da non essersi mai accorto di quella stanza incredibile e stupefacente che gli riempiva gli occhi.


Era John.


Era tutto di John.


A quella profondità non poteva esserci luce ma quella stanza non poteva che essere la più luminosa di ognuna delle parti del suo castello, era accecante, e calda e incredibilmente bizzarra.


Le pareti erano di tronchi di legno, pietre e mattoni, un camino ricavato in una parete era acceso e ardeva con impeto pulsando come un cuore vivo, il pavimento era disseminato di spessi tappeti di lana, talmente tanti che non riusciva a scorgere cosa c’era sotto di essi (ma ormai sapeva che sicuramente sarebbe stato in legno). Tutta quella luce proveniva da due grandi finestre ai lati del camino, erano semplici, come il resto della stanza.


L’interno della stanza era stupefacente.


C’era il sorriso di John,
le sue guance piene quando non riesce a trattenersi al ridere ad una battuta inappropriata sulla scena del delitto,
i suoi occhi grandi e colmi di stupore,
i suoi occhi che lo guardano preoccupati se non ha mangiato o dormito o non si è adeguatamente occupato della propria persona,
i suoi gesti misurati quando prepara il the,
il modo in cui inclina leggermente la testa quando lo ascolta stupito ed interessato,
e ancora il suo sorriso un po’ imbarazzato quando non capiva un ragionamento particolarmente brillante,
il suo sorriso di scusa quando si dimentica qualcosa,
la piega delle labbra che assume quando è arrabbiato con lui se non passa a prendere il latte (non lo farà mai),
la calma nel sedersi per sorbirsi i suoi ragionamenti ad alta voce,
il suo corpo rilassato quando suona una melodia che sa piacergli in modo particolare,
le sua sopracciglia espressive,
la sua mira con la pistola,
i complimenti che gli fa disinteressatamente ogni volta che lo stupisce,
i libri che legge a seconda del suo stato d’animo,
il balbettio quando è in imbarazzo,
i suoi maglioni (che assomigliano in modo inquietante ai tappeti disseminati per la stanza [anche se è il contrario]),
il suo passo militare che non lo abbandonerà mai,
le urla che sentiva di notte i primi giorni di convivenza sui ricordi traumatici della Fob in cui stava in Afghanistan,
i suoi capelli disordinati la mattina,
i suoi cibi preferiti e quelli più odiati,
il modo in cui arriccia li viso in un’espressione incredibilmente buffa quando proprio non capisce qualcosa,
le sue mani grandi ma ben curate e sempre pulite,
il modo in cui ricuce il pollo ripieno (come se fosse un paziente sul letto operatorio),
i suoi silenzi,
le sue parole misurate,
come lo guarda quando pensa di non essere visto,
i gusti preferiti del gelato,
la modestia,
la cicatrice sulla spalla,
il torace largo ma asciutto,
il suo pessimo gusto per la moda,
come si lecca il labbro superiore quando prende il cappuccino da angelo,
come si rannicchia sul divano per guardare un film alla tv,
le sue scapole scoperte quando mette la maglietta a righe,
la sua pelle ormai pallida lontana dal sole medio – orientale,
le sue ciglia chiare…

E poi tante, tantissime altre immagini di John, John, John...


Sherlock sorrise nel mondo fisico.


Dentro al suo Palazzo mentale, nella stanza di John H. Watson, il consulente investigativo aveva deciso che era ora di dimostrare quando anche lui fosse umano.


Girò su se stesso ed uscì da quel meraviglioso ambiente caldo e caotico, chiuse delicatamente la porta dietro di sé e si apprestò a risalire in superficie.


Si ritrovò vigile e determinato sul divano del 221b di Baker Street.


Doveva aggiungere alla sua collezione di “John” moltissime immagini nuove… era ora di andare dal lui.


*°o.o°*o0o*°o.o°*


   
 
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