How it all started
***
Era
tutto silenzioso e semi buio. L'unico rumore che si sentiva era
quello della bufera di neve che infuriava fuori dalla capanna di
legno. Fosse stata fatta bene, per lo meno, si sarebbe risparmiato
quel fastidioso tremore con cui si svegliò.
Era percorso da
brividi di freddo, i muscoli erano completamente indolenziti e le
braccia non le sentiva nemmeno più per la posizione
così scomoda
che da chissà quanto tempo teneva: aveva le braccia legate
in alto
da una corda, fissata ad una trave del soffitto. Toccava il pavimento
appena con le punte degli anfibi neri. Indossava un paio di pantaloni
da neve, scuri. Erano stretti da alcune cinghie lungo entrambe le
gambe per facilitarlo nei movimenti e per ridurne il volume in modo
da non essere troppo ingombranti. Quelle che erano fondine di pistole
e fodere di coltelli ora erano vuote.
Dio, gli facevano male i
polsi... Gli ci volle un po' di tempo per riprendere coscienza ed
aprire piano gli occhi, scoprendo quelle iridi così chiare,
cristalline. Aveva degli occhi di un azzurro talmente tenue e
trasparente che sembravano di vetro. Li roteò piano,
guardandosi
intorno: la capanna di legno era molto precaria, tanto che si
chiedeva come facesse a stare ancora in piedi sentendo la violenta
tempesta. C'erano parecchi buchi nei muri dai quali entrava ogni
singola corrente d'aria. Riusciva a scorgere dalle varie fessure che
fuori era tutto bianco. Notò di avere solamente i pantaloni
addosso
senza la parte superiore della tuta. Questo spiegava tutto quel
freddo che stava provando. Insieme al rumore della bufera, ora,
sentiva anche il suo respiro farsi più pesante ed affannoso,
interrotto dai vari brividi.
Schiuse le labbra e vide uscire
dalla sua bocca una densa nuvola di vapore. Sicuramente se fosse
rimasto lì ancora un po' sarebbe morto assiderato.
Aveva i
capelli corvini, di media lunghezza, chiusi in una mezza coda ormai
disordinata, tanto che alcuni ciuffetti gli ricadevano sul viso.
Alzò
piano il capo, sentendo persino il collo dolergli, notando che,
purtroppo per lui, la corda era assicurata troppo bene a quella trave
per sperare che si sciogliesse o che il legno si rompesse, era troppo
spesso.
Quella che sembrava la più semplice delle missioni si era
trasformata in un inferno dove probabilmente avrebbe marcito per
sempre. La rabbia, la tensione e la paura stavano per sopraffarlo,
tanto che stette quasi per urlare, per chiamare aiuto, ma
udì dei
passi nella neve e delle voci. Serrò la mascella, cercando
di
trattenere il respiro affannoso e di sottacere quegli spasmi
involontari dovuti al freddo pungente. Inspirò a fondo ed
espirò,
alcune volte, fin quando la porta di legno di quella baracca venne
aperta facendo entrare dell'aria talmente gelida che non appena
raggiunse il suo corpo gli sembrò come se mille piccoli aghi
gli si
infilzassero addosso.
V'erano due uomini alla porta, i quali si
avvicinarono a lui. Parlavano una lingua a lui sconosciuta.
“E-ehi..
Chi.. Siete??” Chiese, notando poi uno dei due che tagliava
la
corda che lo teneva assicurato alla trave. Era talmente stanco e
provato da quel freddo che la sua voce uscì in un sussurro.
Non
appena la corda fu tagliata sentì che le ginocchia cedettero
sotto
il suo peso, non riuscendo a sostenerlo, così cadde
rovinosamente in
ginocchio, appoggiando gli avambracci a terra. Aveva ancora i polsi
legati.
I due uomini lo alzarono di peso, uno per un braccio e uno
per l'altro.
“D-dove mi portate??!” Domandò
ancora.
“Odpeljite
ga v glavo, bom videl.“ Fu tutto quello che ricevette in
risposta.
“C-cosa?“ Non capì, cercò di
dimenarsi ma fu tutto
inutile: lo strattonarono in malo modo, colpendolo poi con il calcio
di una pistola contro la tempia.
Mugolò. Sentì dolore e poco
dopo un rivolo di sangue scendergli lungo la guancia. Non appena lo
portarono fuori, al freddo, cominciò a tremare
più forte.
“Lasciatemi!!!”
Cominciò a sbraitare e a dimenarsi. Tutto ciò non
presagiva nulla
di buono. Sentiva il cuore pulsare forte, l'adrenalina cominciare a
salire per via dell'agitazione e dell'ansia, ciò lo
aiutò un po'
contro il freddo. I brividi si attenuarono appena, nonostante faceva
un freddo boia.
“Samo,
utihni! Ustreli ga!”
Disse uno dei due uomini all'altro, il quale riprese la pistola e la
puntò contro lui. Fu tutta una questione di gran fortuna:
qualcuno
lì sopra doveva proprio volergli bene. Riuscì a
scattare appena in
avanti, piegandosi. Quando partì il colpo dalla canna della
pistola
lo sfiorò di striscio, ferendolo superficialmente, ma
mancandolo
alla grande. Il proiettile si conficcò nel cranio dell'altro
uomo
che lasciò la presa al suo braccio e scivolò a
terra mentre una
pozza di sangue si riversava nella neve.
Lo stupore si impadronì
di quel soldato, per ciò che aveva appena combinato, proprio
in quel
momento lui se ne approfittò per toglierselo di dosso e
– seppur
con poche forze – riuscì a tirare un calcio alla
sua mano, facendo
schizzare via la pistola.
L'uomo mugolò, poi si scagliò contro
di lui con tutto il peso, facendolo crollare a terra.
Il suo
cervello si annebbiò per un istante: sentire il gelo della
neve
sotto la sua schiena nuda gli fece venir voglia di urlare, non era
affatto una cosa piacevole. Non appena quella sensazione
andò ad
alleviarsi appena, notò che l'uomo sopra di lui aveva tirato
fuori
un brutto coltellaccio che brancolava in aria, minacciando di
colpirlo. Se lo ritrovò a pochi centimetri dal viso quando
bloccò
tempestivamente le mani del suo aggressore. Vedere quella lama
così
liscia ed affilata, così vicina al suo viso, quasi lo fece
sudare
nonostante tutto quel freddo.
“Te
bom ubil, kreten!”
Gli gridò addosso quello, spingendo con entrambe le mani il
pugnale
contro il suo viso.
Non riuscì a resistere ancora per molto –
era già tanto che le braccia eseguissero i suoi ordini
– poco dopo
infatti ebbe un cedimento: sentì la lama aprirgli la carne
in un
profondo taglio che partiva da poco sopra il labbro superiore fin
quasi giù al mento. Nella scarica di dolore che quella
ferita gli
provocò e nella fretta di allontanare la lama dal suo viso,
si
inferse un altro taglio, sul naso.
Gridò. Gridò per attenuare
il dolore. Gridò per sfogare la rabbia. Gridò per
farsi forza ed
invertire le posizioni. Una volta che si ritrovò sopra la
guardia
gli spinse un ginocchio contro lo stomaco mentre con le mani cercava
di disarmarlo in qualche modo. Finalmente, quando vi riuscì,
lanciò
lontano il coltello. In un impeto di rabbia si accanì contro
quel
soldato, lasciandosi sopraffare dall'istinto e portandogli entrambe
le mani al collo, stringendo con tutta la forza di cui disponeva in
quell'istante – e non era poca, per via della rabbia
– fin quando
l'uomo, dopo vari tentativi di toglierselo di dosso e dimenarsi, non
cominciò a diventare paonazzo e lento nei movimenti
finché le
braccia non gli ricaddero mollemente sulla neve.
Aveva il respiro
lievemente accelerato, osservava la faccia del soldato piena di
sangue... Del suo stesso sangue che colava giù dalle ferite,
gocciolando sul viso dell'uomo privo di vita sotto di lui.
Il suo
sguardo spaziò sulla neve bianca, candida e pura, divenuta
ormai
rossa come il peccato, il sangue, la colpa, il crimine.
***
La
mano ricoperta dal guanto nero percorreva lentamente le cicatrici sul
volto di Dragunov: i suoi occhi di ghiaccio, cristallini, osservavano
il cielo tinto di rosso mentre il sole scendeva oltre l'orizzonte.
Erano passati sei anni da quella spiacevole avventura. Si era
giurato a sé stesso che mai
più
si sarebbe piegato al dolore
e al terrore.
Si era giurato che mai
più
avrebbe provato paura. La paura era una cosa per deboli
e lui non
era
debole. Non
più.
Indossava
una divisa nera, i pantaloni erano infilati dentro gli stivali alti
fino al ginocchio mentre la giacca, recante due aquile dorate, era
stretta in vita da una cintura rossa con due cinghie che scendevano
giù. Teneva i capelli chiusi in una mezza coda e le vecchie
ferite
erano diventate cicatrici oramai. Cicatrici che lo avevano fatto
crescere.
Si
scansò dalla vetrata dell'ufficio proprio quando bussarono
alla
porta che qualche istante dopo si aprì: ne entrò
un uomo in divisa.
“Dragunov, la desidera il Colonnello.”
L'uomo nemmeno si
attese una risposta: era risaputo che Dragunov non parlava mai, se
non per lo stretto necessario ed in casi rarissimi, dunque
uscì e si
richiuse la porta alle spalle.
Sergei sospirò. Cosa volevano ora
da lui?
Lasciò tutto com'era ed uscì. Percorse i lunghi
corridoi
e salì al piano di sopra, dove si trovava l'ufficio del
Colonnello,
bussò.
“Avanti.” Si sentì una voce bassa e
calda
dall'interno.
Lui aprì la porta ritrovandosi per l'ennesima volta
in quella stanza. Di solito ciò accadeva quando c'era
qualche
missione delicata da portare a termine. Si chiuse la porta alle
spalle e subito il forte odore di sigaro gli entro nelle narici,
provocandogli un lieve fastidio. Si guardò intorno, notando
che
quell'ufficio non cambiava mai di una virgola: v'erano scaffali pieni
di libri e al centro la massiccia scrivania in legno pregiato. Dietro
di essa, come al solito, c'era Berkòv, seduto con il capo
chino su
alcune scartoffie. Era un uomo alto e ben piazzato. Il viso era
segnato dal tempo. Aveva i capelli biondi, corti, mentre gli occhi
erano di un verde profondo, puntati a leggere quei fogli.
Sergei
si avvicinò piano alle due sedie di fronte al tavolo.
“Dragunov.”
Gli fece un cenno il Colonnello di mettersi seduto. Così
fece lui.
“Sono contento che tu sia venuto subito, ho un incarico da
darti.”
Sapeva già di non doversi aspettare una risposta,
così alzò il
capo dai fogli per incrociare lo sguardo del soldato e
continuò.
“Ricorderai Ivan Skavnik, vero?” Domandò.
Il pazzo
fomentatore sloveno. Come dimenticarselo? Era lui a capo
dell'operazione, sei anni fa. Dragunov scivolò appena sulla
poltroncina, incrociò le braccia al petto. Che ironia, la
sorte..
Proprio mentre ripensava a tutto ciò che gli era successo,
si
presentava questa fortuita coincidenza.
“Bene, ho saputo che sua
figlia è in città. Ho chiamato te per questo
incarico perché so
che su di te posso fare affidamento: devi farla fuori.”
Una
ragazza? Continuò a guardarlo con sguardo impassibile.
Sapeva che
molti dei suoi 'colleghi' non si sarebbero nemmeno azzardati a
sfiorarla una donna, seppur per ordini.
“Cosa ha fatto di così
grave?” Chiese Dragunov, concedendo al Colonnello l'onore di
sentire la sua voce, che si schiarì poco dopo.
“Veramente
nulla. Dopo che è morto Skavnik è rimasta solo
lei della sua
famiglia... Ma sai, è la figlia di un soldato, non so come
suo padre
l'abbia fatta crescere. Se dovesse cominciare a covar l'idea della
vendetta, lo sai, non voglio altri problemi con gli sloveni, ne
abbiamo avuti fin troppi.. Comunque, lei ha una cosa di cui abbiamo
bisogno.”
L'uomo dai capelli neri alzò le sopracciglia, fu
abbastanza per far capire al Colonnello di continuare.
“So che
Skavnik aveva dei piani contro di noi e dei file che potrebbero
risultarci utili: devi recuperare quel disco.”
“Conti pure su
di me.” Mormorò il soldato con tono basso.
A quelle
informazioni se ne susseguirono altre di minor rilevanza, come dove
alloggiava la ragazza, che luoghi frequentava, gli orari delle sue
lezioni:
era un'insegnante, laureata da poco.
Dragunov uscì dall'ufficio
del Colonnello una buona mezz'ora dopo: aveva appreso tutto
ciò che
poteva essere importante ed infine aveva accettato l'incarico.
La
ricordava quella ragazzetta dagli occhi spaventati, che non sapeva
cosa stesse accadendo. Si ricordava di come lo guardava piena di
pena, vedendolo sofferente... Ma non proferì nemmeno una
parola per
porre fine a quelle crudeltà.
Tornò nel suo ufficio con questi
pensieri: finalmente si sarebbe preso la sua vendetta.. La sua
seconda vendetta, persino sulla figlia, su una ragazza che
probabilmente non si rendeva nemmeno conto di tutto ciò che
gli
stavano facendo.
Prese il lungo cappotto nero e pesante
dall'attaccapanni e se lo infilò, dopodiché
raggiunse la scrivania
prendendo il cappello e lasciò l'ufficio.
Percorse i lunghi
corridoi fino ad uscire dal complesso: una volta fuori sentì
una
ventata di freddo sferzargli il volto. Si mise il capello in testa ed
inspirò l'aria gelata a pieni polmoni, espirando poi
lentamente e
vedendo una nuvoletta bianca di vapore uscire fuori. Il paesaggio era
tutto bianco, coperto dalla neve, il freddo era pungente. Capitava
spesso che gli desse fastidio ma era una caratteristica della sua
Russia.
Si
infilò le mani coperte dai guanti neri nelle tasche e scese
i pochi
scalini che lo dividevano dal marciapiede, dirigendosi verso
casa.
Era buio ormai quando arrivò a casa. Si ritrovava
davanti la porta dell'appartamento e sentiva i vicini chiacchierare e
schiamazzare, insieme ad una musica molto alta.
Sospirò,
infastidito. Tirò fuori le chiavi dalla tasca e le
infilò nella
serratura della porta, aprendola. Entrò e se la richiuse
alle
spalle, accese la luce ed appoggiò le chiavi su un tavolino
all'entrata , dopodiché si tolse i guanti, insieme al
cappotto:
aveva bisogno di una bella doccia calda e rilassante. Si tolse la
giacca della divisa, lasciandola sul divano mentre si dirigeva verso
il bagno. Accese la luce e aprì l'acqua della doccia,
regolandola e
lasciandola scaldare. Si ritrovò davanti lo specchio ad
osservare il
suo riflesso mentre si allentava e sfilava la cravatta, poi con le
dita si sbottonò velocemente i bottoni della camicia, togliendosela.
Rimase a torso nudo. Sospirò piano, osservandosi, scorrendo
con lo
sguardo su quelle cicatrici...
Si voltò, finendo di spogliarsi e
finalmente entrando nella doccia. Non appena l'acqua bollente
cominciò a scivolare sul suo corpo, irrigidì i
muscoli. Gli ci
volle un po' ad abituarsi a quell'acqua così calda ma, una
volta che
vi riuscì, senti una piacevole sensazione di rilassamento
sciogliergli anche i muscoli tesi. Chiuse gli occhi, rimanendo sotto
il getto: sentiva il gorgoglio dell'acqua scivolargli addosso, sulle
orecchie, e poi giù per il corpo. Dopo lunghi istanti in cui
rimase
in quel totale relax, il tempo per togliersi tutti i pensieri di
testa, si diede una lavata veloce. Allungò una mano e
raggiunse il
rubinetto della doccia, chiudendolo. Si asciugò velocemente,
lasciando persino i capelli umidi, si infilò un paio di
pantaloni
grigi di una tuta e via, uscì dal bagno.
Raggiunse la camera e
non appena entrò gli sembrò come se quel letto lo
attirasse come
una calamita. Era stanco morto, seppur era ancora presto, forse le
otto appena passate. Si avvicinò al letto a due piazze,
abbandonandosi piacevolmente su di esso. Si lasciò sfuggire
un
profondo sospiro, beato. Non aveva fame, o meglio, il sonno si faceva
sentire più della fame in quel momento. Decise di rimanere
un po'
lì, così, se poi ne avrebbe avuta voglia si
sarebbe alzato e
sarebbe andato a cenare, sennò si sarebbe addormentato senza
cena.
Questo era il bello di essere soli, senza famiglia, senza
nessuno: poteva fare tutto quel che voleva, quando voleva e come
voleva senza doverne dare conto a nessuno.
E con questi pensieri,
insieme alla melodia di una canzone che non riusciva a togliersi
dalla testa, gli si chiusero gli occhi e cadde tra le braccia di
Morfeo, in un tiepido torpore.
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Bonsoir à tout le monde!
Eheh, buonasera a tutti! (Traduzione, ma no?)
Ed eccoci qui. Volevo scrivere una one-shot su Dragunov ma che poi per
le idee sembra essersi trasformata in una long.
Sono ispirata e non sono ispirata. Le idee ci sono ma è
difficile metterle insieme, forse perché non ho mai scritto
su di lui ed è parecchio difficile come personaggio.
Difatti, questo è il primo capitolo, ho abbastanza in mente
di ciò che succederà dopo però
dovrò vedere come riuscirò a buttarlo
giù.
SPERO vivamente che esca fuori una bella ff e di riuscire a portarla a
termine come si deve e qualcuno di voi sia incuriosito u.u
Ditemi un po' voi, insomma, come vi sembra, cosa ve ne pare! :P
Spero che noi sia totalmente pessima per lo meno, ehehhe!
Un ringraziamento anticipato a tutti quelli che decideranno di seguirmi
in questa nuova impresa in cui mi son cimentata!
Al prossimo capitolo!
Tchuss!!!