Desclaimer: come al solito,
tutti i personaggi della serie sono proprietà prima di Sir Doyle,
poi di mr. Moffat e mr. Gatiss; io li uso
semplicemente per puro divertimento non retribuito che il più delle volte
sfocia nell’angst (sì, c’è gente che ha dei fetish particolari).
Note: mi
terrò breve, perché probabilmente qualcuno vorrà scuoiarmi dopo XP
Il titolo e praticamente
tutta l’idea di fondo sono tratti dalla legge di Murphy (Wikipedia
vi accenderà la luce) e, nello specifico, dal libro che è anche la mia Bibbia:
“La Legge di Murphy e altri motivi per cui le cose vanno a rovescio” scritto da
Arthur Block.
Avviso che, per cause di
forza maggiore, forse Sherlock mi è andato un po’ OOC. Forse. Non saprei dire.
Quello che è descritto è,
inoltre, il decorso del virus influenzale più brutto della mia vita. Lo ricordo
ancora con reverenza e terrore e quasi mi dispiace averci fatto passare anche
Sherlock... ma in realtà vuole essere ironica XD Ah, e la medesima cosa vale
per le dita e la caviglia... ho scritto dopo averlo provato sulla pelle ;D
Infine, avverto che la shot è lunga, ed effettivamente mi era balenato per la
mente di dividerla in due... ma spezzare a metà i corollari mi faceva perdere
di continuità, così ho preferito somministrarvela tutta insieme 8D spero non vi
sanguinino gli occhi.
Dico davvero.
Detto ciò, auguro buona
lettura a chi vorrà sottoporsi ♥
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Murphy’s Law of Existence
Legge di Murphy:
Se
qualcosa può andar male, lo farà.
38,7
°C.
John
fissò il termometro come se fosse il bollettino ufficiale di un’imminente
catastrofe.
In
piedi davanti al divano, la destra abbandonata lungo il fianco a sfiorare la
vestaglia bordeaux sopra i pantaloni azzurrini e larghi del proprio pigiama, guardò
con reverenziale terrore il piccolo schermo analogico finché non si spense con
un lieve “bip”.
Almeno...
forse Mrs. Hudson, al suo fianco, lo percepì come un “bip”.
Lui, personalmente, udì un sentito e metallico “condoglianze”.
« Oh Santo Cielo,
Sherlock! » pigolò la donna
in vestaglia di lana rosa, portandosi le mani alla bocca: « è altissima!
Perché non ci ha avvertito prima? » domandò premurosamente, chinandosi verso
uno Sherlock Holmes seduto a gambe incrociate sul divano e posandogli una mano
sulla fronte, sotto i riccioli scuri.
Cosa
che Sherlock si lasciò fare solamente perché era mrs.
Hudson.
« Prima non aveva
febbre... » rispose John
ancora sconvolto, evitando che fosse Sherlock stesso a prendere la parola (per
il bene sia della sua sanità mentale di persona svegliata nel cuore della
notte, che di quella della gentile padrona di casa).
Anche
se, a guardarlo bene, probabilmente non aveva comunque intenzione di spiccicare
parola: sguardo languido, occhi lucidi, guance ed orecchie arrossate... se non
avesse collegato quella visione a molte altre espressioni febbricitanti che
aveva visto in tutta una carriera medica, avrebbe potuto esserne terribilmente
attratto.
Scosse
la testa, riprendendosi dalla trance per non distrarsi troppo. Non era proprio il
momento adatto per perdersi in considerazioni puramente ormonali sul suo
attuale compagno.
« Caro, forse le
farebbe bene qualcosa di caldo. Magari un tè? O preferisce un latte caldo? » cominciò tutta
gentile la donna, continuando ad intervalli regolari a tastare con il dorso
della mano la fronte di Sherlock.
Ovvero,
la fronte di una persona che aveva sufficiente pazienza solo quando si trattava
di aspettare e scovare un serial killer; per tutte le altre situazioni di vita
quotidiana i nervi di Sherlock Holmes avevano una durata che andava mediamente
dai trenta secondi ai due minuti e mezzo.
E,
con la signora Hudson, quel tempo stava per scadere. John si sentiva obbligato
a fare qualcosa prima che Sherlock prendesse fiato per esprimere la sua
opinione.
« Mrs. Hudson,
credo che un tè non sia una buona idea. Se è il virus di stagione è possibile
che fra poco gli verrà la nausea » disse, deformato professionalmente ad
assumere il tono del medico curante; prese la donna per le spalle,
trasportandola delicatamente verso la porta dell’appartamento con una mano
sulla sua schiena: « ci penso io da
qui in poi, scusi per averla svegliata e torni pure a dormire » aggiunse,
restituendole il termometro con un lieve cenno del capo sia come convincimento
che come ringraziamento.
« Per fortuna che
lei è medico, John caro... » disse la donna riprendendosi l’oggetto: « mi sento più
tranquilla sapendo che c’è lei a tenerlo d’occhio. Però dovreste comprare un
termometro! » disse con
convinzione, augurandogli la buona notte e cominciando a scendere le scale.
Chiudendole
la porta alle spalle, fu John quello a pensare di avere avuto sfortuna.
Il
periodo medio di incubazione di un virus influenzale era di una settimana, ma
anche facendo mente locale e tornando indietro nel tempo, Watson non faticava a
trovare il momento esatto in cui Sherlock avrebbe potuto ammalarsi. O meglio,
diciamo che aveva una cosa come svariate possibilità, dal tuffo nel Tamigi con
-2 gradi di temperatura esterna (figurarsi quella dell’acqua...) alla corsa a perdifiato
per Londra in giacca e camicia perché, ovviamente, stavano facendo tutto
all’ultimo secondo e Sherlock aveva ottimizzato i tempi nel non indossare il
cappotto prima di uscire. Il suo pensiero passava poi per tantissime altre
situazioni di pericolo per la salute dell’altro e si stupì che si fosse preso solo l’influenza.
Ritrovando
una sorta di coraggio zen dentro di sé – perché conosceva Sherlock e sapeva che
non se ne sarebbe stato buono e calmo anche se impossibilitato a muoversi per
cause di forza maggiore – tornò all’interno dell’appartamento e si diresse a
passo veloce verso il divano.
Sherlock
era ancora lì; aveva appoggiato la testa alla spalliera e aveva chiuso gli
occhi ma il respiro appena accelerato, e le dita delle mani che tremavano leggermente
sulla coperta, gli dicevano senza ombra di dubbio che non si sentiva per niente
bene. Anche la mancanza di parlantina, ma quella era una cosa relativa.
« Ci sono momenti
in cui vorrei dirti “te lo avevo detto”, ma so che sarebbe completamente inutile
» disse John,
allungando una mano e posandogliela sul collo. Era terribilmente caldo.
Sherlock
sospirò piano. « Però fai in modo
dirmelo comunque » ribatté sagace,
stirando le labbra in un lievissimo sorrisetto. Nel frattempo, approfittando
della mano di John sul proprio collo, piegò il capo verso di essa.
A
Watson sfuggì un sorriso. « Non ti vedo bene » gli disse però.
« Mi sembra ovvio » rispose Holmes.
« Potevi dirmelo,
Sherlock » cominciò allora
il dottore, evidentemente ansioso di potergli fare la solita ramanzina con i
fiocchi: « non può esserti
venuta da un momento all’altro, avresti dovuto avere altri sintomi. Mal di
gola, tosse, malessere diffuso... dovresti essere in grado di riconoscere
quando non ti senti bene! » esclamò.
Sherlock
ridacchiò appena e, nel farlo, tossì. « John, passo la metà del tempo sotto
nicotina e l’altra metà a correre per Londra. Ero tossicodipendente e “non
dormo abbastanza, non mangio decentemente e non mi curo di me stesso”, parole
tue » gli disse: « ...e poi stare
male è una perdita di tempo e di energie. Se mi concentro e dico al mio cervello
di controllare il mio corpo, sono sicuro che riuscirò ad ignorare la mia
condizione fisica e a continuare il mio lavoro ».
« Tu te lo scordi,
il tuo lavoro » obiettò però Watson,
inorridito anche solo dalla prospettiva, assumendo l’atteggiamento duro del
soldato: « tu starai a
letto, al caldo, almeno finché non guarisci del tutto » asserì.
Sherlock
lo fissò come se gli avesse detto di aver sbagliato una deduzione. « Ma... John! »
« Niente “ma”
Sherlock, sono il tuo medico » disse.
« No, sei il mio
ragazzo! » si lamentò
l’altro: « e non puoi
impedirmi di pensare, John! ».
Il
cuore di John perse un battito, ancora non del tutto abituato a queste
esternazioni sincere. Il detective non lo faceva spesso, e solitamente solo
quando erano da soli, nudi e avvinghiati sotto le lenzuola della camera di
Sherlock – da qualche settimana divenuta la loro
camera – ma quando si faceva sfuggire qualcosa era sempre un piacere sentirlo.
Tuttavia, dato che in quel momento doveva sembrare più convincente che
lusingato, si sforzò di mantenere il sangue freddo.
« Ringrazia che il
tuo ragazzo ha una laurea in medicina, allora » gli disse, prendendolo per un
braccio e caricandoselo sulle spalle, diretto verso la camera da letto.
Erano
le due e venti del mattino e, chissà per quale motivo, John aveva già il
presentimento che non sarebbe stata una cosa rilassante, avere Sherlock
influenzato.
Corollari:
1.
Niente è facile come sembra.
Erano
le tre e un quarto del mattino, e John imprecò.
Il
che, se prendiamo in considerazione le persone normali, non è poi così strano.
Tutti imprecano.
Ma
si sta parlando di John Hamish Watson, qualcuno che
aveva imprecato seriamente solo ed
esclusivamente quando un calibro 7,62 gli aveva aperto un buco nella spalla, e
dalla sua aveva il lunghissimo periodo passato in guerra e la consapevolezza
che la ferita appena ricevuta gli sarebbe costata il congedo.
Il
semplice fatto che avesse ripetuto l’imprecazione all’interno di un appartamento
di Londra, quasi due anni dopo l’esercito, faceva supporre che non stesse vivendo
un bel momento.
In
sintesi, aveva passato l’ultima ora a ribaltare qualsiasi cassetto, mensola,
mobiletto, scatola, anfratto e persino calzino alla ricerca di qualcosa che
potesse aiutare il suo coinquilino a diminuire la febbre che, tanto per
gradire, era salita superando i 39°C.
Si
sarebbe abbassato ad implorare Dio per avere un antipiretico, perché in casa
non avevano altro che un blando antidolorifico a base di ibuprofene
– quello per il ciclo mestruale, per capirci, e per la propria sanità mentale
non si soffermò sul perché lo
avessero – e quelli di mrs. Hudson avevano l’aria di
essere scaduti durante la guerra del ‘15/’18.
In
alternativa, e in attesa che aprisse la prima farmacia disponibile, John si era
ritrovato a mettere in pratica non solo la sua conoscenza medico-militare,
inventandosi modi con cui tenere a bada la febbre prima che il prezioso
cervello del suo amato compare fondesse, ma anche a raschiare il fondo delle
sue conoscenze di livello accademico.
Dopo
aver combattuto una battaglia prettamente fisica contro uno Sherlock reticente
a stendersi sul letto, vinta senza nemmeno troppa fatica date che condizioni
svantaggiose del detective, lo aveva coperto togliendo il piumone e
sostituendolo con una coperta un po’ più sottile. La febbre era, di base, uno
scompenso termico del corpo e coprire Sherlock con qualcosa di troppo pesante
non avrebbe fatto altro che alzare la temperatura senza motivo.
Poi
era passato alla pezza bagnata sulla fronte, questa volta più per alleviargli
il mal di testa che per abbassargli veramente la temperatura corporea.
Si
era poi messo a spremere delle arance e a zuccherarne il succo, in modo da
avere un giusto apporto di vitamine e glucosio, infine a cercare in frigorifero
qualcosa che potesse dare vita ad un brodino vegetale, o qualcosa di simile, da
dare all’altro per colazione.
Inutile
dire che aveva trovato solo una cipolla ammuffita, un pezzo verde di qualcosa
che ricordava vagamente del formaggio e un sacchetto pieno di padiglioni
auricolari.
Farmacia
e supermercato, si era appuntato
mentalmente.
Tutto
questo, c’è da aggiungere, mentre Sherlock entrava effettivamente in contatto
con la realtà e si accorgeva di essere decisamente febbricitante. In parole
povere, aveva fatto tutte le operazioni sopra descritte mentre Holmes lo
chiamava ogni due minuti e mezzo circa, puntuale come un orologio svizzero e
con la cadenza perfetta di una goccia cinese.
John!
Non posso avere la febbre, fa qualcosa!
John,
mi è caduta la coperta e non riesco a prenderla! (Aspetta Sherlock, non ti
alzare, vengo io!).
John...
ho mal di testa.
John,
non riesco ad alzarmi! (Sherlock, non
devi alzarti!).
John,
devo andare in bagno.
John!
JOHN! Dammi qualcosa per questo mal di testa! (Se smettessi di lamentarti
staresti meglio!).
John,
John, John, John, John, John!
Aveva
sentito il suo nome talmente tante volte che gli era passata la voglia di
chiamarsi “John”.
Sherlock
Holmes con la febbre era qualcosa di talmente simile ad un moccioso delle
elementari alla sua periodica influenza stagionale, che se solo avesse perso
l’uso della parola avrebbe anche potuto essere considerato “carino”. Il
problema era che non stava zitto, per l’appunto.
Fu
dopo l’ultimo “John!” gridato dal detective, mentre era in procinto di farsi un
tè per aiutare i suoi neuroni ad affrontare la lunga notte davanti a sé, che avvenne.
Perse
la presa sul pentolino bollente e, per evitare di versare la bevanda a terra,
si limitò a rovesciarsela sulla mano.
E
allora dolore fu. E imprecò.
Le
persone sottovalutano le scottature, ma soprattutto non prendono sul serio in
considerazione la quantità di male che fa la pelle una volta scottata. Pulsa in
una maniera incredibile, fa male a contatto con qualsiasi cosa che superi anche
di un grado la temperatura corporea (dunque anche l’acqua della doccia, sì) e
persino l’acqua corrente fa sufficiente pressione per far sì che provochi
dolore.
Tuttavia
sospirò lasciando la mano sinistra immersa al freddo nel lavello e, ritrovando
sé stesso, ebbe il coraggio di arrivare fino al piano inferiore – ignorando per
una decina di minuti Sherlock ed il suo continuo “John, John”.
Scusandosi
per averla svegliata di nuovo, si fece dare dalla signora Hudson la sua crema
idratante per le mani, in sostituzione della pomata antiscottature che
ovviamente non avevano, e dopo essersi fatto un bendaggio approssimativo con un
fazzoletto pulito di stoffa tornò di sopra.
Erano
solo le tre e un quarto del mattino e John sentiva di avere davanti a sé una
giornata infinita.
2.
Tutto richiede più tempo di quanto si pensi.
Rientrò
in camera da letto, spegnendo tutte le varie luci di casa e lasciando accesa
solamente quella del comodino dal suo lato del letto.
Si
sedette sul materasso, schiena appoggiata alla testiera con il cuscino
sollevato, tenendosi con la mano destra la sinistra fasciata in un silenzioso
tentativo di imporre alle sue dita scottate di smettere di bruciare come
l’Inferno.
Al
suo fianco, nella penombra, Sherlock era chiuso in un bozzolo di coperte. Non
dormiva, cosa che dimostrò girandosi in sua direzione e fissandolo con gli
occhi lucidi – e azzurrissimi, damn it.
John,
incrociando il suo sguardo non senza emozione – l’emozione profonda e radicata
che gli dava la consapevolezza che quell’essere unico adesso era suo – gli sorrise gentilmente. « Come va? » domandò, forse
impossibilitato a chiedergli qualsiasi altra cosa senza sembrare uno stupido.
Sherlock
però ignorò bellamente la sua domanda. « Non mi hai risposto, quando ti ho chiamato...
» cominciò, per poi
aggiungere subito dopo: « cos’hai fatto
alla mano? Ti ho sentito imprecare ».
John
mosse un poco le dita fasciate, che bruciarono puntualmente. « Una lieve
scottatura, tutto bene » disse.
«
Il tè
sta bene? » ironizzò Sherlock
con la voce lievemente nasale, alla quale John ridacchiò.
« Ancora sul
fornello. Era un peccato sprecare dell’Earl Grey, magari domani lo recupero » spiegò,
coprendosi fino alla vita.
Ormai
era scontato che non avrebbe dormito. Non ne sarebbe comunque stato in grado a
causa dell’ansia che il lasciare Sherlock senza sorveglianza in quelle
condizioni gli provocava, ma il motivo principale era un sincero voler stare
accanto all’altro per essergli utile.
Sherlock,
come leggendogli nel pensiero – cosa che secondo John poteva fare davvero –
puntellò i gomiti e si avvicinò a lui, appoggiando la testa sulla sua coscia e
chiudendo gli occhi subito dopo. « Mi gira la testa... » biascicò,
sistemandosi meglio contro di lui.
Beh,
se lo usava come cuscino non poteva muoversi per forza di cose, no?
« È normale, con la
febbre che ti ritrovi... » disse John
inserendo le dita della mano non fasciata fra i ricci scuri dell’altro,
carezzandogli la testa lentamente e delicatamente. « Cerca di dormire,
Sherlock » suggerì poi.
Holmes
scosse il capo contro la sua gamba. « Mi da fastidio, mi gira tutto... e ho mal
di testa. E male alle ossa. E i brividi e quando tossisco ho mal di schiena » si lamentò,
esattamente come un bambino.
John
non poté trattenere un sorriso dolce, a quella vista.
Sicuramente
Sherlock sapeva perfettamente cosa succede ad un corpo umano quando si contrae
un virus influenzale, perché certe zone fanno male e certe no, ma in quel
momento era evidentemente regredito ad un’età umorale di dieci anni... sperava
solo che non avesse cominciato a chiamarlo “mamma” o peggio, “fratellone”. Sarebbe
stato inquietante.
« John? ».
La
voce di Sherlock lo distrasse del tutto, facendogli riportare la piena
attenzione al presente. « Mh? » gli diede
ascolto, continuando sempre ad accarezzargli i capelli.
« Forse dovresti
andare a dormire nella camera di sopra » ipotizzò.
Watson
non si stupì di sentirlo, ma non si fece prendere inutilmente da un panico
immotivato e dettato solamente dalla “sindrome del rifiuto causa relazione
sentimentale appena instaurata”. « Perché? » domandò allora, cercando di
suonare calmo e tranquillo.
Sentì
Sherlock sorridere contro la sua gamba. « Non per quello che stai pensando » lo rassicurò « però potrei
attaccarti l’influenza » continuò.
« Io ho fatto il
vaccino. Comunque, sai, la malattia ti rende più docile e pieno di
considerazione per gli altri. Hai mai pensato di ammalarti più spesso? » scherzò il medico
alla vista, decisamente strana, di uno Sherlock che si preoccupava per un
eventuale contagio.
Il
detective storse il naso in una smorfia di disappunto. « Io spero di no,
mi blocca il cervello e non riesco a riflettere efficacemente su niente » commentò: « mi sento come
tagliato fuori ».
Non
che Sherlock Holmes non si preoccupasse affatto per l’ormai davvero suo John
Watson. Solo... John non era abituato a vederla manifestarsi così palesemente,
soprattutto non sottoforma di frase concreta proveniente dalle labbra sottili
del moro.
« È come il sesso » continuò
imperterrito il consulting detective: « non ho avuto modo di confrontarti con
altri John, ma nelle nostre sessioni di contatto fisico hai la capacità di
farmi perdere la testa. Letteralmente. Sarà l’esperienza accumulata, suppongo.
Fatto sta che regredisco ad un livello di semplicità cerebrale che trovo disarmante,
soprattutto quando mi avvicino all’orgasmo; quasi mi dimentico come si fa a
respirare e per la prima volta ho trovato utile il fatto che sia un movimento
inconscio, altrimenti... »
John
si schiarì la voce, interrompendo l’apologia di Sherlock sulle loro “attività
da lenzuola”. « Beh...
personalmente spero che tu non avrai presto altri con cui confrontarmi a quel
livello, ecco... » bofonchiò il
soldato decisamente in imbarazzo, anche se tentava di non darlo troppo a
vedere.
« Non credo proprio
» si sbrigò a dire
Sherlock, il tono pratico e scientifico: « non penso di riuscire ad abbandonarmi
così tanto con qualcuno che non sia tu. Tu mi
possiedi quando facciamo sesso, John. Nel vero senso del termine.
Completamente, praticamente. Non mi fido della gente in modo così esagerato, lo
sai » asserì.
Il
che, tradotto in inglese dal codice Holmes, probabilmente era un gran bel
complimento. Forse.
Watson
non si soffermò a scoprirlo.
Doveva
semplicemente fermare quel fiume di ragionamenti sconnessi e fin troppo
imbarazzanti – per entrambi, anche se l’unico a disagio era solamente lui –
perché era sicuro che Sherlock, da vigile e cosciente di sé, non avrebbe mai e
poi mai ammesso ad alta voce una cosa simile.
Anche
se lo lusingava, ovviamente.
« Sherlock, smetti
di blaterare e dormi. Io sono qui se hai bisogno » si risolse a dirgli, la mano
sempre fra i suoi capelli.
« Lo so » rispose
semplicemente l’altro, decidendosi a chiudere gli occhi e a cercare di
rilassarsi.
Quasi
un istante dopo che il respiro del moro si era regolarizzato, il cellulare di
John vibrò sul comodino. Lo raggiunse con la mano fasciata – non aveva la
minima intenzione di staccare la destra dalla testa di Sherlock – e, con
movimenti un po’ impacciati ma comunque efficaci, sbloccò lo schermo e lesse
l’sms appena arrivatogli.
-
Come sta?
MH
John
non si chiese come aveva fatto a saperlo dopo solo un’ora dall’effettiva
misurazione della temperatura di Sherlock, così come non si chiese se
quell’uomo dormisse. Anche Mycroft faceva di cognome
“Holmes”, tanto gli bastava.
Rispose
con un breve “febbre 39, dorme. Ti tengo informato.” per poi guardare l’ora.
Le
tre e trenta.
Sarebbe
stata una giornata più lunga del previsto.
3. Se
c’è una possibilità che varie cose vadano male,
quella
che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo.
Appena
quaranta minuti dopo aver preso sonno, Sherlock si era svegliato dicendo di
avere la nausea. John aveva fatto appena in tempo a portarlo in bagno.
Aveva
rimesso tutta la cena della signora Hudson e probabilmente anche il tè delle
cinque, il cenone di San Silvestro e anche quello di Natale. La nausea era
continuata anche dopo che lo stomaco fu effettivamente vuoto, torturando il
consulting detective con conati di sola bile. E per la prima volta, “vomitare
bile” non era una figura retorica.
John,
che aveva passato tutto il tempo a tenergli i capelli lontano dal viso
bollente, cominciava seriamente a pregare che arrivasse l’ora d’apertura delle
farmacie; combattere una sindrome influenzale senza medicinali era come spegnere
un incendio soffiandoci sopra.
Nel
frattempo, lo sforzo dei conati aveva steso Sherlock peggio di un chilo a
tocchi di cocaina. Seduto sulle piastrelle del bagno respirava solo con il naso
– se lo faceva con la bocca fomentava la nausea, diceva – e gli occhi lucidi
erano ormai cerchiati da due sottili occhiaie nere appena visibili.
Ed
erano solo le cinque e mezza del mattino. Praticamente ancora notte.
Sospirando,
John prese un asciugamano pulito dal mobiletto, bagnandone una parte sotto
l’acqua per poi premerla piano sul volto e sulla fronte dell’altro, chinandosi
sulle ginocchia. « Va un po’ meglio?
» chiese,
rinfrescandolo.
Sherlock
sembrò gradire il contatto con l’asciugamano freddo e annuì appena.
Una
volta sinceratosi che gli attacchi di nausea sembravano passati, John lo aiutò
a risollevarsi da terra e lo portò nuovamente a letto.
Non
appena toccato il cuscino con la testa, Sherlock si addormentò. Doveva essere
sfinito, oltre che debilitato dall’influenza, che aveva tirato fuori le unghie
già dalle prime ore.
Obiettivamente,
per un virus attaccare l’organismo di Sherlock non doveva essere difficile. Con
tutti i modi in cui non si curava di se stesso, probabilmente aveva trovato
vita facile nelle abitudini poco sane dell’ospite.
Tuttavia,
rifletté John, nonostante gli vedesse fare cose al limite del possibile quella
era la prima volta che lo vedeva malato. Doveva avere davvero una salute di
ferro.
Di
conseguenza, quello doveva essere un super-virus.
Decise
seduta stante di battezzare l’agente infettivo col nome di “Jim” (chiamarlo “Moriarty” gli sembrava morboso), credendo così di scatenare
una reazione del sistema immunitario di Sherlock, che avrebbe fatto di tutto
per non essere da meno, risvegliandosi dall’inattività e combattendolo fino a
completa guarigione.
E
lui cominciava seriamente a soffrire di deprivazione di sonno.
Si
strofinò gli occhi con la rassegnazione di chi si crede sull’orlo della
psicosi, poi si avviò a passo leggero verso l’esterno della stanza. Non spense
l’abat-jour, nel caso che Sherlock avesse bisogno.
Tornato
in cucina si preparò una violenta dose di caffeina liquida, riempiendone una
bella tazza, e quasi allo scoccare delle sei accese la televisione e si sistemò
sulla sedia del tavolo, di fianco al proprio notebook spento. Se si fosse messo
in poltrona probabilmente avrebbe ceduto al sonno, e con Sherlock nei panni di
un untore non ne aveva la minima intenzione.
Tenendo
il volume al minimo, fece zapping finché non incrociò il telegiornale mattutino
della BBC.
Bastò
il primo fotogramma per fargli andare di traverso il caffè.
Neve.
Stava passando una carrellata di immagini di una Londra ricoperta da una fitta
coltre bianca, con in sovrimpressione la scritta “nevicata record su Londra”.
Con
uno scatto degno di un atleta olimpico piantò la tazza sul tavolo, tuffandosi
verso le finestre che davano su Baker Street; la strada era completamente
bianca, tanto che si faticava a capire dove finisse il marciapiede e
cominciasse la carreggiata. Gli spazzaneve erano già passati, ma era evidente
che avessero avuto poco effetto.
Impervie
Condizioni Atmosferiche 1, Servizio Pubblico Britannico 0. Palla al centro.
John
fissò a bocca aperta i fiocchi cadere copiosi dal cielo, scuotendo la testa in
segno di diniego, scioccato.
Non poteva esserne caduta
così tanta e tutta nel giro quella notte. Qualcuno doveva averla portata lì con
dei camion-rimorchio per scaricargliela. C’erano sicuramente dei cannoni spara-neve a Regent’s Park.
Centinaia. Con gittate di chilometri. Non c’era alternativa.
« Non posso
crederci... » borbottò a se
stesso, passandosi disperato le mani nei capelli. Neve voleva dire possibilità
di movimento limitate, ovvero freddo e ghiaccio. I mezzi di Londra erano
abituati alla neve invernale, ma era anche vero che causava ritardi degli autobus
e problemi di circolazione dei taxi, che puntualmente venivano presi d’assalto
dai cittadini che non si fidavano ad usare la macchina.
Ciò
significava, quindi, che per ottimizzare il suo tempo avrebbe dovuto
raggiungere farmacia e supermercato a piedi,
e quindi ad impiegare il doppio (se non il triplo) del tempo che aveva
programmato di spendere per quel sopralluogo fuori casa.
Anche
se mentalmente, John Watson imprecò di nuovo.
E
allora maledizione.
Si
sedette nuovamente sulla sedia, riprendendo in mano il caffè e bevendolo tutto
d’un sorso per pura disperazione.
Prima
l’influenza di Sherlock, una di quelle infide e cattive, poi la neve a bloccare
qualsiasi possibilità di movimento. L’unica cosa peggiore di tutto quel marasma
sarebbe stata una telefonata di Lestrade per un caso,
cioè l’unica cosa che gli avrebbe impedito del tutto di tenere Sherlock sotto
controllo e fermo a letto.
Si
pentì di averlo anche solo pensato quando, spezzando in due il silenzio del
221B, il cellulare di Sherlock prese a squillare.
John
rimase fermo al tavolo per due secondi poi, sgranando gli occhi terrorizzato
dallo svolgersi degli eventi, impalò di nuovo la tazza sul tavolo e scattò in
direzione della porta della camera, dove Sherlock aveva già preso fra le mani
il telefonino.
Gli
si tuffò addosso come un giocatore di rugby in cerca della palla ovale,
riuscendo a strapparglielo di mano prima che rispondesse.
Ma
Sherlock era... beh, era Sherlock Holmes. Aveva già letto il nome sul display. Sapeva già tutto.
« È Lestrade! » gracchiò il moro, perdendo la voce nel tentativo di
alzarla.
« No, non è vero,
hanno sbagliato numero! » mentì
spudoratamente John, inginocchiato sul materasso, alzando il cellulare ancora
squillante sopra la sua testa per tenerlo in tutti i modi possibili lontano da
Sherlock.
Sherlock
che, spudoratamente e con una rinnovata energia, si arrampicava sul suo corpo
per raggiungere il piccolo aggeggio squillante. « No, è Lestrade!
È un caso! DAMMI IL TELEFONO! » si intestardì il detective, cominciando a sfruttare i
centimetri d’altezza in più per sovrastare Watson, che si trovò a doversi
inarcare all’indietro per impedire all’altro di prendere possesso del
cellulare.
« Dovrai calpestare
il mio cadavere prima che io molli la presa! » si impuntò il medico, sempre più
inarcato.
« John Hamish Watson, dammi
quel telefono! »
« Sherlock Holmes, torna a letto! »
« No! » ribatté
prontamente il detective, trapassandolo con quegli occhi disarmanti: « dammi il
telefono, John! » ripeté.
Ma
il soldato non si fece incantare. Solo che non era fatto di gomma, e di certo
non aveva tutta l’elasticità di quando era ragazzo e assumere posizioni come
quella in cui si trovava al momento non era proprio consigliabile.
Arrivò
il momento in cui i muscoli delle cosce cominciarono a tirare troppo, dunque a
far male, e il fatto di avere il compagno praticamente steso addosso non lo
aiutò a mantenersi in equilibrio; i suoi quadricipiti mollarono e, cadendo
all’indietro, il dottore atterrò con la parte bassa della schiena sulla pediera per poi scivolare e andare a stendersi a terra ai
piedi del letto, le gambe ancorate sopra al materasso.
Furono
momenti di puro dolore in cui persino Sherlock smise di lamentarsi,
osservandolo dal letto senza più la forza di dimenarsi. Lui rimase fermo
immobile per qualche istante, pregando di non essersi schiacciato o fratturato
qualcosa di importante dalle parti della spina dorsale.
Ci
mancava solo quella.
Ma
muoveva tutto, dita dei piedi soprattutto, quindi approfittò di quel momento di
sfinimento di Sherlock per porre fine all’insistente suoneria. « Pronto? » rispose, notando
subito Sherlock prendere a sporgersi verso di lui, allungando la mano in
direzione del suo orecchio.
« Pronto... John? » la voce di Lestrade era stanca ma lievemente sorpresa.
« Già, ciao Greg » lo salutò il
medico, piantando un piede sulla spalla di Holmes per impedirgli di raggiungere
il cellulare.
« John, dammelo, ne
ho bisogno! »
« Dacci un taglio o
giuro che ti strangolo! »
« ...ho interrotto qualcosa, per caso? » domandò Lestrade e se John non avesse avuto l’unica mano libera
fasciata e pulsante, se la sarebbe schiaffata sugli occhi.
« No, ispettore. Mi
dica » disse il medico,
faticando un poco per tenere Sherlock lontano dal proprio cellulare. Malato
quanto vuoi ma era testardo come un mulo, maledizione!
« Avrei bisogno di Sherlock, in realtà... se
non è troppo impegnato » ironizzò Lestrade, e Watson
ebbe per un istante la voglia intrinseca di dirgliele quattro e anche otto.
« No ispettore, non
è troppo impegnato, è troppo malato » gli rispose,
sottolineando l’ultima parola.
Dato
che Sherlock aveva finalmente dato fondo alla sua energia residua, messo a
tacere dalla minaccia di un principio incipiente di nausea, John ebbe modo di
spiegare la situazione a Lestrade, che decise
saggiamente – probabilmente si era immaginato la situazione del medico e, nel
profondo di sé, pregava per lui – di non chiedere nulla a Sherlock e tentare di
fare qualcosa da solo, per quella volta. Tanto non era un caso importante,
assicurò, stava solo “ubbidendo” alle direttive del consulting detective di
procurargli qualcosa che scacciasse la noia.
Dopo
i saluti di rito, John sospirò nel chiudere finalmente la chiamata, mettendo a
tacere telefono e relativo proprietario. « Lestrade ti
augura una pronta guarigione » soffiò a voce bassa, osservando la testa dell’altro
che spuntava dal letto sfatto.
Sherlock
mugugnò contrariato, un po’ per il caso perso e un po’ per la nausea tornata a
tormentarlo. « Così mi uccidi,
John... impedisci al mio cervello di lavorare, di pensare, di dedurre! » si lamentò.
« Se non ti metti
dell’idea che da quel letto non ti muoverai per un po’, ti assicuro che
proverai presto un’esperienza genuina di morte » asserì il medico.
Ore
sei e dieci. Dieci come i minuti che gli servirono per ritrovare una postura
eretta che non implicasse terribili fitte alla schiena.
4. Se
si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andar male,
e si
prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto.
La
zona lombare della sua schiena era viola. Ma non di un viola tenue da piccola
botta disinteressata, era di un viola bluastro che urlava “questa volta ti sei
fatto veramente male e sei un coglione”.
Tenendo
sollevati i lembi della camicia a quadretti con i denti, girato con il busto
all’indietro per poter vedere allo specchio sopra il lavandino il risultato
della manovra da acrobata di poco prima, appoggiò delicatamente due dita sulla
superficie livida.
Male.
Alla minima pressione.
Aggiunse
mentalmente una pomata per traumi nella lista ormai oblunga di farmaci che
doveva comprare, insaccandosi la camicia nei pantaloni ed uscendo dal bagno.
Nel
tempo che lo aveva separato dalle otto del mattino, e che Sherlock aveva
passato facendo avanti e indietro dal letto al bagno a causa della nausea, John
era riuscito ad elaborare una lista di quattro possibili problemi che, oltre a
varie catastrofi naturali e alla caduta di un asteroide, avrebbero potuto
colpire il 221B di Baker Street in sua assenza.
Primo:
Lestrade che si trovava in seria difficoltà con
qualcosa e decideva di piombare lì nonostante fosse stato avvertito delle
condizioni in cui versava Sherlock.
Aveva
risolto ricordando all’ispettore che lui poteva anche rappresentare Scotland
Yard, ma il fratello di Sherlock era il Governo Britannico. Il Governo Britannico
in questione, inoltre, soffriva di slanci protettivi “a distanza” nei confronti
del fratello minore e ci metteva poco a cancellare da tutti i registri
l’esistenza di qualcuno. Parole di Mycroft.
Secondo:
Mycroft stesso. Se decideva di non farsi bastare i
messaggi di John era capace di andare direttamente a Baker Street, cosa che
John non temeva particolarmente ma che non si augurava.
Aveva
risolto nel mandargli un sms (“Vado in farmacia, Sherlock è tenuto d’occhio da mrs. Hudson. Farò il prima possibile.”) a cui aveva
ricevuto relativa risposta (- Dovrebbe
lasciare a mrs. Hudson la sua Browning, dottore. Ne
avrà bisogno. MH ).
Terzo:
un cliente.
In
realtà quella era stata la cosa più facile da risolvere; aveva semplicemente attaccato
un cartello di fianco al campanello che decantava la loro impossibilità di
ricevere clienti per qualche giorno.
Quarto:
il sito on-line. A volte Sherlock riceveva delle richieste lì e, se erano
abbastanza interessanti, si metteva a risolvere i casi che gli venivano presentati.
Per
ovviare al problema consegnò il cellulare di Sherlock alla padrona di casa e
portò i loro computer nella sua camera al piano di sopra, chiudendo la porta e
mettendosi la relativa chiave in tasca. Non era convinto che lo avrebbe
comunque fermato, ma contava sull’effetto distruttivo dell’influenza per
impedirgli di fare effrazione nella sua ormai ex camera da letto.
Convinto
di se stesso, una volta che ebbe fatto le ultime raccomandazioni alla padrona
di casa, e dopo che lei ne ebbe fatte il doppio a lui, uscì dal portone avvolto
in una sciarpa di lana grossa e si incamminò a piedi in direzione della
farmacia e del supermercato più vicini.
Ci
mise, come aveva previsto, quasi il doppio del tempo. Il farmacista lo guardò stranito
quando snocciolò uno per uno i medicinali che gli servivano, ma in compenso la
cassa automatica del supermercato quel giorno decise di graziarlo.
Quando
uscì aveva cominciato a nevicare molto più forte e dal cielo scendevano veri e
propri stracci bianchi grandi come noci. Si strinse di più nella sciarpa e,
facendosi forza, ricominciò la camminata verso casa.
Non
fece in tempo ad attraversare la strada che il cellulare prese a squillare.
Districandosi
fra le varie buste della spesa riuscì ad estrarre il telefono dalla tasca e
rispose senza nemmeno vedere chi fosse.
« John, buongiorno » suonò melodica la
voce di Mycroft dall’altra parte dell’apparecchio.
Fu
il panico.
Mycroft Holmes non chiamava mai se non era
qualcosa di importante. Di solito, quando voleva parlare con qualcuno, mandava
una macchina scura e metteva in atto un silenziosissimo sequestro di persona.
Fu per quello che John capì subito la gravità della situazione, e non poteva
esserci niente di più impellente se non...
« Cos’ha combinato?
» chiese subito,
preparandosi alternativamente o a correre o a imprecare – bensì per la terza
volta in un giorno – o a fare entrambi.
Ebbe
quasi l’impressione di vedere il sorrisetto compiaciuto dipinto sul volto del
Governo. « Una passeggiata, a quanto pare. Deve essere
riuscito a distrarre mrs. Hudson. I miei uomini lo
hanno facilmente bloccato mentre arrancava alla fine di Baker Street » commentò, e solo
quando parlò della sua personale squadra incursioni anti-Sherlock
John capì il perché fosse così rilassato. Aveva sentito altre volte il tono
agitato di Mycroft – per esempio dopo che avevano
rischiato di saltare in aria dentro ad una piscina – e l’unica cosa che
cambiava era che faceva molta, molta
più impressione.
Se
avesse avuto le mani libere, probabilmente Watson si sarebbe massaggiato
l’inizio del naso per trovare un po’ di sanità mentale residua da qualche parte
nel suo cervello. « Va bene, grazie » riuscì solamente
a dirgli: « torno subito a
casa » aggiunse, già
pronto a correre.
« Stia attento al ghiaccio, dottore » disse semplicemente
il maggiore degli Holmes, interrompendo la chiamata.
“C’è sempre qualcosa” pensò fra sé e sé,
citando liberamente la stessa persona che lo stava facendo correre come un
pazzo sotto una neve insana.
Quinto:
l’immane testardaggine dell’individuo di nome Sherlock Holmes.
E
a quella non c’era rimedio.
5. Lasciate
a se stesse, le cose tendono ad andare di male in peggio.
Davanti
alla porta un’automobile nera era posteggiata vicino al marciapiede, e due
uomini in cappotto elegante ed occhiali da sole gli fecero un cenno con il
capo, per poi andarsene lentamente.
Gli
uomini di Mycroft, collegò subito John.
Rientrò
al 221B con i capelli bagnati fradici, con sciarpa e pantaloni pieni di neve e
le estremità corporee in preda ad un principio di congelamento.
Non
si sentiva più il naso e le guance andarono a fuoco quando entrò in contatto
con l’aria bollente dell’ingresso. Si tolse cappotto e sciarpa, agganciandoli
alla bene e meglio all’attaccapanni dell’ingresso, e salì di corsa le scale a
due a due, arrivando sul pianerottolo preparandosi ad assistere a qualche
catastrofe.
La
prima cosa che vide, tuttavia, fu la testa di mrs.
Hudson, che gli si era precipitata addosso in
preda ad una qualche crisi esistenziale abbastanza impellente.
« Mi dispiace, John
caro, mi dispiace! » stava esclamando:
« sono andata in
cucina a preparare qualcosa di caldo e lui è riuscito a sgattaiolare via! Non
credevo che sarebbe stato in grado di alzarsi, quello sconsiderato! Mi dispiace
caro, John caro... » ripeté in preda
all’agitazione.
« Mrs. Hudson, si
calmi » intervenne subito
lui; doveva darle qualcosa da fare, e la prima cosa che gli venne in mente fu
la spesa. « Ora, che ne dice
di darmi una mano? Lei vada in cucina a sistemare la spesa, io mi occupo
dell’idiota in oggetto » le disse,
passandole le buste che ancora pendevano dai suoi avambracci, dove praticamente
avevano scavato un solco rosso sulla pelle sotto il maglione.
Lei
annuì brevemente, prendendo in consegna il cibo e lasciando a John solamente la
busta della farmacia. « È sul divano... » sussurrò lei,
sparendo poi in cucina.
John
si diresse a passi veloci verso il salotto, fermandosi però sulla porta. Sul
divano, seduto a gambe incrociate e completamente avvolto in una coperta pesante
di panno, Sherlock teneva gli occhi chiusi e il mento appoggiato al petto.
John
era furioso. Avrebbe tanto voluto urlargli contro che era un deficiente, un
cretino e un idiota, e che lì centrava poco l’intelligenza spropositata che si
ritrovava, semplicemente non si poteva
uscire sotto la neve con una febbre che dire “da cavallo” sarebbe stato un
gentile eufemismo. Aveva veramente voglia di urlargli contro di farsi un esame
di coscienza, se la trovava da qualche parte, ma quando fu sul punto di
prendere fiato si accorse che Sherlock non era per nulla rilassato e anzi,
stava tremando. Probabilmente di freddo.
La
preoccupazione vinse sulla rabbia, che sparì in un soffio. Ancora una volta il
suo maledetto animo da buon samaritano aveva deciso di evitare ai suoi nervi
già molto provati di scaricarsi verso il coinquilino.
« Santo Cielo
Sherlock... » soffiò teso,
avvicinandosi all’altro a grandi passi: « si può sapere cosa ti è saltato in mente?
Uscire nelle tue condizioni è praticamente un suicidio... » aggrottò le
sopracciglia, chinandosi davanti a lui e mettendogli le mani sulle spalle.
L’altro,
sentendo la sua voce così vicina, socchiuse gli occhi lucidi e stanchi: « Lestrade... il caso era... » borbottò, dovendo interrompersi
perché i tremori che aveva gli fecero battere persino i denti.
John
ringhiò la sua frustrazione, preferendo non dire nulla a parole. Ci avrebbe
pensato quando Sherlock si fosse ripreso, a dargli un pugno nel caro vecchio
stile militare su quel muso ingrato.
Appoggiò
la mano non fasciata sulla fronte del moro e quasi dovette ritirarla per il
calore. Ammetteva che le sue dita erano congelate, dunque sentiva molto più
calore di quello che effettivamente era, ma a giudicare dalle condizioni in cui
versava Sherlock probabilmente buona parte di ciò che aveva sentito era
veramente febbre e non un inganno termico delle proprie mani gelide.
« Sei un’idiota » si lasciò
sfuggire, allungandosi verso la propria poltrona a prendere l’altra coperta,
quella di pile, mentre urlava alla padrona di casa uno scomposto ed irruento: « mrs. Hudson, prepari qualcosa di commestibile per cortesia!
Devo dargli le medicine! ».
Per
una volta la donna non rispose con la frase di rito (“non sono la vostra
governante!”), probabilmente ancora preda dei sensi di colpa per non accogliere
la “proposta” – che somigliava più ad un ordine – del medico.
Dal
canto suo, John si limitò a mettere anche quella seconda coperta addosso a
Sherlock, coprendolo bene per poi sedersi al suo fianco e tirarselo addosso,
facendolo accomodare fra le sue gambe e appoggiato al suo petto.
Holmes
vi si appoggiò senza rimostranze, facendosi anche spazio in quel petto caldo, e
John prese a strofinargli la mano sana sulle braccia e sulle spalle, nel
tentativo di riscaldarlo.
« Sherlock, ti
prego, smetti di fare cose simili. Ti supplico. Per me. Prima che mi esploda
una coronaria » sussurrò al
compagno, continuando a scaldarlo.
Holmes,
forse finalmente conscio che le sue condizioni di salute erano quello che erano
(ovvero poco e niente), annuì contro il suo petto, aggiungendo un gracchiante: « se me lo chiedi
così mi metti con le spalle al muro... » che fece sorridere appena John.
Se
fosse riuscito a sopravvivere alla giornata, pensò con rassegnazione subito
dopo, Dio o chi per lui avrebbe dovuto seriamente provvedere alla sua
beatificazione.
6. Non
ci si può mettere a far qualcosa senza che qualcos’altro non vada fatto prima.
Mrs.
Hudson aveva preparato un passato di verdure molto liquido, per permettere allo
stomaco sottosopra di Sherlock di digerirlo meglio. Lo aveva anche accompagnato
con una fetta di pane tostato che però il detective non aveva mangiato,
nauseato al solo pensiero di dover masticare qualcosa di più duro dei
pezzettini minuscoli di carota bollita che la donna non era riuscita a
frullare.
Dopo
essersi accertato che quelle sei cucchiaiate di zuppa rimanessero all’interno
del sistema digerente di Sherlock, John aveva potuto finalmente somministrargli
i medicinali, cominciando con suo enorme piacere dall’antipiretico che sarebbe
finalmente riuscito ad abbassargli quella febbre spropositata – aveva raggiunto
i 39,5°C grazie alla “salutare passeggiata” che l’altro aveva avuto la
brillante idea di fare.
Una
volta averlo convinto a tornare a letto, impresa decisamente ardua nonostante
tutto, aveva potuto dedicarsi a se stesso. Seduto su di una sedia in cucina
disfò la precedente fasciatura alle dita scottate, spalmandoci sopra la pomata
anti-scottature con un discreto sollievo. Riformò la fasciatura con garze e
rete elastica, trovandola decisamente più resistente di quella approntata
quella stessa notte.
Poi
passò alla schiena e quella fu la parte più difficile. Tentò di fare tutto alla
cieca – di chiedere una mano a Sherlock non ci pensava nemmeno, non ora che si
era finalmente arreso all’evidenza e si era messo tranquillo – ma cercare di
definire i contorni dell’ematoma solo tramite il tatto gli provocava un dolore
continuo ogni volta che si toccava la schiena che era difficilmente
sopportabile, per una mente come la sua che aveva perso buona parte della sua
meritata nottata di sonno.
« Sarebbe più
facile se chiedessi aiuto » la voce di Sherlock gli arrivò come una frustata dato
che era immerso nei suoi pensieri, e sobbalzò appena quando la sentì.
Alzò
lo sguardo, vedendolo in piedi accanto alla porta. « Pensavo di averti
detto di riposarti... » lasciò cadere il
medico, osservandolo rassegnatamente.
« Lo hai fatto » confermò il
detective, ovviamente ignorando il significato sottointeso che sicuramente
aveva colto ed avvicinandosi a lui a passo lento. « Girati e solleva
la camicia » disse poi,
afferrando il tubetto della crema.
John
sospirò, facendo come gli era stato detto. Se Sherlock stava in piedi da solo
era una buona cosa, in effetti, perché significava che il medicinale aveva
effetto e la febbre si stava abbassando.
Sobbalzò
appena quando sentì le dita fredde di Sherlock sulla pelle, rilassandosi mentre
spalmava con delicatezza la pomata sull’ematoma.
« È stupido farsi
male per un telefono » commentò il moro
alle sue spalle, continuando il suo lavoro con tutta la delicatezza di cui era
capace.
« Andare a
camminare in mezzo alla neve con la febbre a 39 è ancora più stupido, mi dicono
» rispose John,
piccato.
« Chi te lo dice? ».
« Il buon senso ».
« Non è una persona
» rispose subito
Sherlock, staccando le dita dalla sua pelle solo per prendere un altro po’ di
crema. Lo fece anche poco dopo: « Però ora mi sento meglio, e... » tentò.
« Non se ne parla » lo interruppe
però John.
Sherlock
sbuffò esattamente come un bambino a cui è stato proibito di andare fuori a
giocare a causa della pioggia – neve, in quel caso. « Andiamo, John!
Non è un caso difficile, ci metterò mezz’ora! » si lamentò.
John
lasciò perdere la medicazione della sua schiena livida, girandosi per poterlo
guardare negli occhi: erano ancora lucidi, le gote arrossate e la fronte
leggermente sudata; si vedeva a prima vista che la febbre c’era ancora, seppure
di un grado più bassa.
Il
medico sospirò pesantemente, preparandosi a suicidare qualche nervo per
riuscire a trattenere il compagno dal correre di nuovo a fare la maratona Baker
Street - New Scotland Yard.
« Anche se ci
mettessi due minuti compresi i saluti a Lestrade, non
ho intenzione di farti uscire di qui » gli disse, appoggiandogli le mani sulle
guance e guardandolo negli occhi – in quegli occhi azzurri praticamente debilitanti,
for God’s sake, era un reato averli così.
« Me l’hai
promesso, Sherlock » aggiunse poi,
sperando di fare leva sul lievissimo senso di responsabilità che Sherlock
sembrava avere quando si trattava di lui.
Si
sentiva quasi in colpa a sfruttarlo in quel modo, ma se questo permetteva
all’altro di non peggiorare la situazione in cui versava tanto valeva usarlo.
Vide
Holmes prendere aria per ribattere, ma probabilmente lo sguardo di John gli
recapitò il messaggio subliminale che stava cercando di comunicargli proprio
con gli occhi. Alla fine Sherlock cedette, annuendo: « va bene » disse
brontolando, ma almeno questa volta si era convinto del tutto.
John
gli sorrise, approfittando della posizione per posare le labbra sulle sue in un
veloce bacio. Tutte le volte che lo faceva, a causa della piccola ma essenziale
differenza d’altezza, doveva sempre alzarsi un poco in punta di piedi... e
anche se si sentiva una ragazzina, continuava comunque a pensare che i benefici
fossero maggiori delle perdite.
Sherlock
lo guardò sconfitto, tornando in camera. Nel tragitto però, che John osservò
dalla cucina mentre si rassettava la camicia, il detective posò gli occhi sul
tavolinetto vicino alla poltrona. « John? » chiamò poi.
« Cosa? » rispose l’altro,
voltandosi.
Ciò
che vide ebbe la capacità di iniettargli in vena un puro concentrato di terrore
e panico.
Le
bollette. Le maledette bollette della luce e del gas, che Sherlock teneva in
mano, mostrandogliele.
Era
l’ultimo avviso. Era l’ultimo giorno per pagarle.
Lo
sguardo di John volò all’orologio a muro.
Era
l’ultimo avviso, l’ultimo giorno e anche l’ultima ora in cui poteva sperare di
trovare l’ufficio postale aperto.
Nei
piani della mattinata, nei piani originari
della mattinata, il pagamento delle bollette doveva avvenire esattamente prima
di passare al supermercato.
Ma
quelli erano i progetti di quando Sherlock non aveva la febbre, ovvero di
quando il suo cervello non aveva ancora riformulato le proprie priorità
dimenticandosi completamente delle bollette.
Ok,
probabilmente non gli avrebbero staccato subito luce e gas ma... non era abbastanza
coraggioso per testare la propria teoria.
« Va bene: vado » decise subito,
afferrando cappotto, sciarpa, portafogli e bollette mentre si metteva le
scarpe. Era già con la mano sulla maniglia della porta quando si fermò di
scatto, andando a rivolgere a Sherlock un’occhiata torva.
« Tranquillo, non
mi muovo » assicurò il
detective, decisamente annoiato e seccato.
John
decise di fidarsi della sua parola, precipitandosi giù dalle scale.
Povero,
povero John Watson. La vita non gli aveva mai dato una mano e lui, d’altro
canto, non aveva nemmeno mai cercato di spronarla a farlo. Riteneva già una
“fortuna” (fra virgolette) l’aver incrociato il cammino di Sherlock Holmes,
nonostante fosse un cammino tutt’altro che diritto e luminoso, e lui era uno
che si accontentava, dunque non si sentiva in dovere di chiedere altro.
Nemmeno
un po’ di fortuna. Che gli sarebbe servita quando, arrivato di corsa a qualche
metro dall’ufficio postale, a causa della neve depositata non vide la fine del
marciapiede.
Cadde,
sbilanciato, appoggiando il peso sulla caviglia in fallo.
E
quando sentì il “crack” era già troppo tardi.
7. Ogni
soluzione genera nuovi problemi.
-
Cosa hanno detto i dottori? SH
John
sospirò leggendo l’sms sul cellulare, cercando con tutto se stesso di non
alzare lo sguardo sul pronto soccorso affollato del St. Mary’s
Hospital.
Non
che ci fosse poi così tanto da vedere. La maggior parte delle persone era lì
per il suo stesso motivo: erano scivolati su una dannata lastra di ghiaccio o
non avevano visto uno stramaledetto scalino.
Seduto
sul lettino da quasi due ore, John era appena tornato da Radiologia, dove
un’infermiera gentile quanto robusta lo aveva aiutato a posizionare il piede da
radiografare in modi impensabili. Aveva anche cercato di fargli il meno male
possibile, ma non possedeva il dono delle mani delicate e John aveva quasi
artigliato il tavolo di metallo su cui era stato steso, quando la donna aveva
fatto il gravissimo errore di girargli la caviglia troppo in fretta.
Aveva
ucciso per molto meno.
Tuttavia
era riuscito a fare quei benedetti rx ed era poi
stato messo su di un altro lettino, nel bel mezzo del pronto soccorso, in
attesa dei referti. Non credeva che ci fosse qualcosa di rotto, ma in vita sua
non aveva mai visto un piede diventare così blu e contemporaneamente gonfiarsi così tanto nel giro di un quarto d’ora.
Osservando
proprio il piede in oggetto, sepolto sotto un sacchetto di ghiaccio secco,
rispose al messaggio.
“Ancora
niente, aspetto le lastre. Sei ancora a casa?
J”.
Lungi
da lui non fidarsi di Sherlock, ma aveva perfettamente idea di cosa fosse in
grado di fare quando diventava cocciuto.
Il
cellulare vibrò in pochissimo tempo, segnalandogli la risposta. Cosa buona, voleva
dire che non era in giro a disobbedire ai suoi ordini tassativi.
-
Ovvio. Quanto ci vorrà ancora? SH
John
sollevò l’angolo sinistro della bocca in un mezzo sorriso. Aveva molte idee
riguardo a come rispondergli, idee che normalmente avrebbero portato ad una
conversazione romantica con un pizzico di sensualità palpabile nel mezzo,
dunque ad un modo del tutto piacevole di passare il tempo in quell’ospedale.
Ma,
per l’appunto, avrebbe funzionato se avesse avuto come compagno qualcuno che
non faceva di nome “Sherlock Holmes”.
Non
che non capisse la sensualità, solo la dimostrava in un modo più... fisico,
ecco.
John
scosse la testa, togliendosi dalla testa quei pensieri. Questo succedeva quando
ad annoiarsi era lui, oppure quando si faceva mangiare il cervello da talmente
tanta ansia che esso cercava disperatamente una via di fuga in pensieri di
tutt’altro tipo.
In
quel momento le sue meningi stavano disperatamente fuggendo dalla
considerazione “Oh God
ho lasciato Sherlock a casa da solo con l’influenza dopo reiterati tentativi di
ribellione”.
Si
massaggiò con la mano l’attaccatura del naso, limitandosi a rispondere all’sms
in maniera normale.
“Spero
poco, comincio ad annoiarmi. J”.
Come
prima, la risposta fu quasi istantanea.
-
Benvenuto nel mio mondo. SH
John
sorrise, tuttavia scosse un poco il capo.
Era
impensabile, per uno come lui, capire completamente il “mondo” di Sherlock. Non
si era nemmeno avvicinato a comprendere la persona, figuriamoci ciò in cui
viveva, ciò che pensava, ciò che provava. Non poteva vantarsi di conoscere così
bene nemmeno se stesso, dubitava di riuscire a farlo con chiunque altro. E
Sherlock non era e non era mai stato “chiunque altro”.
Glielo
disse. Con un sms. Si sentiva in dovere di farlo.
“Temo
di stare solo sfiorando il tuo mondo. Temo che non sarò mai in grado di
comprenderlo davvero. J”.
Si
pentì di cosa aveva scritto nel momento stesso in cui diede l’invio,
probabilmente preda di dubbi e sensi di colpa che non avevano vero motivo di
esistere, o forse perché con quelle semplici parole si era scoperto troppo.
La
sua analista aveva avuto ragione, nel diagnosticargli dei problemi a riporre
negli altri la propria fiducia. Con Sherlock era stato subito facile,
subitaneamente piacevole, fidarsi, ma una delle controindicazioni nel non
credere negli altri è che si è molto restii a parlare di se stessi.
Ed
era diverso da quando Sherlock semplicemente deduceva le cose. Quello
significava raccontare qualcosa di sé di propria spontanea volontà.
La
risposta arrivò alcuni istanti dopo.
-
Ne sei parte. SH
Fissò
quelle pochissime parole come se fossero la più bella delle frasi. Come quelle
citazioni anonime che trovi sulle carte dei cioccolatini e ti sorprendi che
siano lì, stampate su di un involucro, quando invece dovrebbero far parte di un
libro, o di qualsiasi altro scritto che potrebbe dare loro onore.
Tre
semplici parole che non stavano bene sullo schermo di un cellulare. Che
meritavano di essere scritte sulla vecchia carta da lettere ottocentesca con
pennino d’oca ed inchiostro di ferro e galla, in quella bella grafia d’una
volta.
Almeno,
lui avrebbe davvero voluto che fosse così. Una visione romantica di qualcosa di
piccolo e, forse, insignificante agli occhi d’altri.
« Dottor Watson? » chiamò una voce
in avvicinamento, distraendolo dai suoi pensieri e riportandolo alla realtà. Un
medico con pochi capelli e molto stomaco gli si avvicinò, il camice bianco
svolazzante dietro ai suoi passi svelti.
« Sono il dottor Miles, ortopedico. L’infermiera di radiologia mi ha detto
che parlo con un collega » gli disse
l’ometto.
John
appoggiò il cellulare sul letto accanto a sé, allungando la mano destra per
poter stringere quella del medico: « John Watson, piacere » si presentò, nel
rigido comportamento militare che non lo aveva mai abbandonato – e non ne aveva
intenzione.
« Beh, dottore, ho
i referti degli rx e non ha niente che non va » cominciò subito,
tirando fuori le lastre da una busta gialla e passandogliele: « è solo una
distorsione. Direi ghiaccio, una fasciatura durante il giorno e riposo per
almeno 15 giorni. Se preferisce posso darle qualcosa per il dolore » gli disse,
mettendo per riflesso la mano sulla penna nella tasca anteriore del camice.
« No, andrò benone.
Sono felice di sapere di non essermi rotto nulla » disse semplicemente, alzando
controluce le proprie radiografie e constatando che davvero non c’era niente di
rotto, fratturato o anche solo lievemente incrinato.
E
dire che aveva fatto un rumore inquietante, quando era caduto. E faceva anche
un dolore pulsante quasi terribile.
Dopo
qualche ultimo scambio si congedò dal medico, che continuò il suo giro di
pazienti, e lui venne gentilmente accompagnato da un’infermiera all’uscita del
Pronto Soccorso.
Una
volta sulla soglia, però, si trovò in un piccolo impasse. Già che si era in tema di cose piccole ma fondamentali.
La
caviglia gli faceva un male dannato anche se solo appoggiava in terra le dita,
motivo per cui doveva rimanere con il piede sollevato. Era riuscito a mettersi
la scarpa solo perché la fasciatura era ben stretta, ma senza allacciarla, e la
stessa sorte non era toccata al calzino, che ora giaceva ripiegato nella tasca
sinistra della giacca.
Faceva
sempre freddo, c’era sempre neve, continuava sempre a scenderne. Non vedeva
taxi e, anche se fosse stato, probabilmente avrebbe aspettato ore prima di
riuscire a trovarne uno libero. Prendere la metropolitana era fuori questione
con una caviglia così.
Ed
era così che, da una soluzione, si creava un nuovo problema: come ci tornava, a
casa?
La
risposta gli arrivò prima per via visiva, poi tramite sms.
Un
paio di uomini in completo nero e cappotto – urlavano “Microft
Holmes” e “dipendenti al servizio di pezzi grossi del Governo” a chilometri di
distanza – si avvicinarono a lui con passo spedito, subito dopo i quali arrivò
anche la consueta macchina scura.
Una
volta salito e aver salutato l’immancabile Anthea (e
il suo Blackberry), prese il cellulare e guardò il
messaggio, sorridendo sotto i baffi.
-
Ho pensato che ti servisse un
passaggio. SH
Se
era disposto a chiedere un favore a Mycroft, per lui,
allora aveva tutto il diritto di sentirsi davvero parte di almeno un piccolo
anfratto della vita dell’unico consulting detective del mondo.
8. I
cretini sono sempre più ingegnosi delle precauzioni
che
si prendono per impedirgli di nuocere.
Rientrato
al 221B, dopo una rampa di scale che nemmeno quando aveva il bastone era stata
così faticosa da salire, si abbandonò ansante contro il muro subito al di là
della soglia al primo piano.
Nonostante
al pronto soccorso avessero provveduto a dargli un antidolorifico, il dolore
alla caviglia era qualcosa di estremamente debilitante e pungente: se teneva il
piede staccato da terra andava tutto bene, gli bastava semplicemente non muovere
nulla (oltre alle dita); se invece appoggiava anche solo l’alluce sul
pavimento, subito partivano delle scosse di dolore sordo lungo tutto il piede
fino all’astragalo(1). Prima che lo bendassero, inoltre, aveva
potuto vedere con orrore che l’effettivo ematoma prendeva tutta la parte
esterna del piede e della caviglia stessa.
Si
stupiva seriamente di non essersela rotta.
Con
attenzione si tolse entrambe le scarpe, zoppicando in silenzio verso la camera
da letto. Non c’era nessuno né in salotto né in cucina, e questo gli diede la
sollevata impressione che finalmente Sherlock avesse capito quanto fosse utile
rimanere a riposo e fare sì che gli antipiretici facessero il loro mestiere in
santa pace.
Entrò
dalla porta facendo il più piano possibile – per quanto poteva essergli
concesso dalle sue condizioni – e notò subito Sherlock disteso fra le coperte.
Una tazza mezza piena di tè ormai freddo era posata sul comodino accanto alle
varie scatole di medicinali e da quella capì che mrs.
Hudson aveva avuto la gentilezza – e il buon senso – di passare saltuariamente
a dargli un’occhiata.
Appoggiandosi
al comodino per essere il più delicato possibile si avvicinò a Sherlock,
appoggiandogli il dorso della mano sulla fronte, scostando appena i ricci scuri.
Era ancora caldo, ma gli sembrava lo fosse meno di quando era uscito. Il
respiro era regolare e lo sguardo rilassato, segno che stava davvero dormendo.
Rasserenato
da quella vista, sorrise.
A
dire il vero, il suo ego abitualmente minuto e riservato si era figurato che
Sherlock lo aspettasse in piedi, magari preoccupato anche solo la metà di
quanto si preoccupava lui di solito, sarebbe stato più che sufficiente; poi la
sua parte medica, ovvero quella che andava decisamente per la maggiore, aveva
preso il proprio ego a bacchettate sulle mani e quella sorta di discussione
interiore aveva avuto termine con il senso di sollievo che ancora lo invadeva
nel vedere Sherlock finalmente dormiente.
Preso
da un insolito attacco di dolcezza, John si abbassò a baciargli la fronte, per
poi prendere pigiama e vestaglia ed uscire dalla stanza in penombra.
O
almeno, l’intenzione era quella. Una voce lo fermò quando aveva già la mano
sullo stipite.
« Zoppicare ti
viene bene » ironizzò la voce
profonda di Sherlock. John sorrise automaticamente.
« Mi sono allenato » rispose alla
battuta, osservando poi l’altro dalla porta: « come stai? » domandò subito.
« Come prima » fu la breve
risposta di Sherlock: « tu piuttosto. Non
mi hai aggiornato. Cos’hanno detto al pronto soccorso? » gli chiese, gli
occhi chiari che sembravano assorbire e riflettere tutta quella poca luce
presente nella stanza grazie agli scuri socchiusi.
John
fece spallucce. « Una distorsione,
niente di che. Ghiaccio per oggi e quindici giorni di riposo » sminuì.
In
realtà faceva un male fottuto, ma questo a Sherlock preferiva non dirlo, né
darlo a vedere. In questo era bravo, dopotutto era riuscito a mantenere la
calma persino quando si era accorto che gli avevano sparato.
Sherlock
lo guardò attentamente dal letto, respirando dalla bocca socchiusa e parlando
con una voce leggermente nasale: « riposati, John. Stai per collassare » affermò con
sicurezza.
John
scosse il capo. « Non preoccuparti,
sto bene. Mi metterò in poltrona a guardare un po’ di televisione » disse.
Holmes
non sembrò per nulla convinto di quelle parole, ma lasciò correre in onore
della propria situazione di grave influenzato.
Vide
John sorridergli dalla porta, l’espressione davvero stanca sia a causa della
nottata che del dolore nei vari punti del corpo in cui si era fatto male. Gli
avrebbe chiesto di stendersi accanto a lui se solo non si fosse chiamato
Sherlock Holmes, motivo per cui non gli passò nemmeno per la mente di invitare John
ad occupare, tra l’altro, quella che era effettivamente la propria parte del
letto già da qualche settimana.
E
non riuscì a trattenersi oltre: « ho invitato Lestrade
a cena » disse.
John,
dal canto suo, si bloccò nell’intento di fare un passo oltre la soglia.
Per
un attimo l’immagine di Sherlock e Lestrade a cena da
Angelo a lume di candela – quella
candela, la candela di Angelo, la candela che Angelo metteva sempre sul loro
tavolo, Angelo e la sua candela(2) – gli attraversò il cervello, ma
fu subito smembrata e decomposta per essere sostituita da un improperio contro
se stesso – ma cosa ti metti a pensare,
John Watson?! – e da una domanda.
« Perché? » domandò,
sembrando subito sospettoso.
Sherlock
sorrise a quell’accenno di dubbio nella voce. Il suo John faceva progressi.
« Perché ha
telefonato per informarsi sulle mie condizioni e ho pensato che non fosse una
cattiva idea » gli disse, anche
abbastanza approssimativamente. Stranamente
approssimativo.
John
lo osservò con la fronte aggrottata.
Se
c’era una cosa che Watson poteva dire di Sherlock, era tutta chiusa nella frase
fatta “genio è sregolatezza”. Ma Sherlock Holmes, passato da coinquilino ad
amico a compagno in relativamente poco tempo, non faceva mai le cose “perché mi
sembrava una buona idea” e questo lo sapeva fin troppo bene.
Inoltre
Lestrade gli aveva giurato su New Scotland Yard che
non avrebbe telefonato prima della settimana successiva. E sapevano tutti che
da quando la moglie lo aveva definitivamente lasciato Scotland Yard era la cosa
più vicina ad una famiglia che quell’uomo avesse.
Unire
i pezzi del puzzle non fu difficile.
« Sherlock! » esclamò il
medico, inorridito davanti al sorrisetto trionfante di Holmes a filo della
coperta: « ti sei fatto
mandare il caso a casa?! » esclamò sdegnato.
Il
detective annuì piano. « Se dormo tutto il
pomeriggio e prendo tutti i medicinali agli orari che mi hai detto tu, entro
questa sera la febbre si sarà abbassata abbastanza da permettermi di stare sul
divano e di risolvere il caso. Ci metterò mezz’ora, te l’ho già detto, non
farmi ripetere l’ovvio, John! » disse, per poi continuare subito: « così io non mi
annoio e tu puoi fare pace con te stesso e con il tuo karma interiore, che
molto evidentemente ti sta giocando tiri mancini da tutto il giorno ».
« Io non credo nel
karma, Sherlock » rispose duro il
dottore, ma tutto ciò che ottenne fu un’alzata di spalle appena riconoscibile
da sotto le lenzuola.
Il
medico prese fiato per rispondere, o urlare, ma la sua mente non aveva voglia
di collaborare così evitò semplicemente di dire qualsiasi cosa. Uscì dalla
stanza per andare in bagno e godersi una bella e rilassante doccia, al termine
della quale si sarebbe messo sulla poltrona con una tazza di tè ed un sacchetto
di ghiaccio sul piede. Si sarebbe rilassato, finalmente. Sì.
« Comunque Lestrade viene veramente a cena! » sentì il suo
coinquilino esclamare dalla camera, ma lo ignorò. Per il suo bene. E per quello
del muro di mrs. Hudson. Aveva ancora la sua Browning
nel comodino e quelli erano i momenti in cui avrebbe volentieri aperto un buco
in fronte allo smile giallo dipinto sulla parete, colpendo con precisione
millimetrica lo stesso punto di muro fino a che non si fosse aperto un varco
con l’appartamento di fianco.
« Gli ho detto di
portare cinese, John! » sentì di nuovo. « John?! » un’altra volta.
Lo
ignorò. E anzi, pianificò la sua vendetta.
Raggiunse
il cellulare sul tavolino accanto alla sua poltrona e digitò velocemente un
messaggio. Destinatario: Mycroft Holmes. Oggetto:
invito a cena.
Tempo
un minuto, e proprio mentre stava per abbassare la maniglia della porta del
bagno il cellulare di Sherlock squillò un messaggio.
« JOHN! » sbottò il moro
dalla stanza, probabilmente venuto a conoscenza del nuovo invitato a cena.
Ridacchiando
trionfante, John Watson entrò nel bagno e si chiuse la porta alle spalle.
9. Per
quanto nascosta sia una pecca, la Natura riuscirà sempre a scovarla.
Sentì
una mano scuotergli la spalla.
« John? » lo chiamò una
voce famigliare, a cui però non rispose.
Stava
facendo un bel sogno, anche se non se lo ricordava. Aveva appena smesso di fare
un bel sogno e quella sensazione di serenità che si ha quando si è consapevoli
di avere appena terminato un tour mentale in mezzo a cose piacevoli lo stava
appagando, come se fosse una concessione amichevole di Madre Natura per
scusarsi della giornataccia che gli aveva fatto passare.
« John, se continui
così ti prenderai l’influenza anche tu » continuò quella voce: « cosa che, ahimè,
preferirei evitare, visto l’individuo che mi trovo ad avere come consanguineo » disse ancora,
dolce e melodica nella sua intrinseca e onnipresente cordialità.
« Ed ecco riassunto
anche il pensiero dell’implicita controparte, che trova ironico il fatto che il
cosiddetto “fratello maggiore” sia affetto da una spudorata pigrizia e da una
facilità fisiologica nel trasformare carboidrati in grassi e, ovviamente, a
stiparli in parti del corpo mai abbastanza nascoste dai completi eleganti » ribatté una
seconda voce, questa volta più bassa e brusca, parlando a raffica in un solo
respiro.
Voce
che avrebbe riconosciuto ovunque.
« Gesù! Siete nella
stessa stanza da un minuto e già state battibeccando? » si aggiunse una
terza voce, più roca e dozzinale, unita ad una sferzata d’odore di cibo cinese.
Quando
il cervello di John decise finalmente di abbandonare il dormiveglia, e aprì gli
occhi, ricollegò le voci appena sentite a quelle di Mycroft,
Sherlock e Lestrade.
Com’era
prevedibile, una volta lavatosi e sedutosi sulla poltrona si era addormentato
prima ancora di poter accendere la televisione. E lo aveva fatto in una
posizione discutibile dato che era sistemato di traverso, con le gambe a
cavallo del bracciolo.
La
sua idea era di svegliarsi prima che
arrivassero Greg e Mycroft. Anche perché era in
pigiama. Ma evitò di dare peso alla cosa, dato che uno già si considerava suo
cognato – nonostante gli avesse più volte ripetuto che non lo era (non ancora)
– e all’altro sicuramente non importava poi più di tanto, vederlo in vestaglia
e pigiama.
« Ringrazia che non
si sono ancora azzannati, Greg » ironizzò John, aprendo gli occhi e ritornando del
tutto nella realtà.
« Non siamo
animali, John » appuntò il suo
coinquilino, biologicamente seccato ogni qualvolta Mycroft
era nella stessa stanza e respirava la sua stessa aria.
« Ironia, Sherlock » disse
semplicemente lui.
« Ah. Ok » rispose l’altro,
colto in fallo come ogni volta che si parlava di sensazioni ed affini.
John
si rimise composto sulla poltrona, facendo attenzione a non sbattere la caviglia
offesa da qualche parte e sfregandosi per un minuto le mani sul viso con
l’intendo di togliersi dalla pelle gli ultimi residui di sonno.
« John, sono
piselli quelli? » domandò Lestrade, appoggiando le tre buste del cinese sul tavolinetto
e sedendosi nella parte del divano lasciata libera da Sherlock.
Evidentemente
si riferiva al sacchetto di plastica trasparente pieno di piselli ormai
scongelati che ancora albergava a cavallo del suo piede.
Il
dottore annuì, osservando Mycroft accomodarsi nella
poltrona di fronte alla sua, solitamente occupata da Sherlock, e accavallare le
gambe con portamento elegante. « Non avevamo ghiaccio » borbottò come spiegazione, la
bocca ancora un po’ impastata.
L’ispettore
aggrottò un po’ le sopracciglia. « Va bene... ma perché i piselli? » domandò ancora.
« O questi o un
sacchetto di alluci » rispose lui. Lestrade non chiese più nulla, probabilmente per evitare di
arrestarli.
« Sarebbe
interessante osservare il perché di
quel sacchetto di piselli, piuttosto » intervenne Mycroft,
allungandosi per primo verso le buste e pescando dal mucchio un contenitore a
caso ed un paio di bacchette di legno usa e getta: « distorsione alla
caviglia, vero? E poi lieve ustione sulle dita della mano sinistra e trauma
alla schiena, probabilmente nella zona lombare » disse.
Tutto
corretto, ma ormai John nemmeno si stupiva. « Non voglio nemmeno sapere come l’hai
intuito » sentenziò,
afferrando a sua volta un paio di bacchette e prendendo il contenitore a lui
più vicino, non senza uno sforzo un po’ doloroso della schiena.
Fu
Sherlock a fugare subito ogni dubbio: « a parte l’ovvietà delle dita fasciate si
capisce che è una scottatura dal fatto che le dita non sono l’unica parte della
mano interessata: infatti c’è un alone rosso sulla pelle del dorso, scottato a
sua volta ma non coperto da alcun bendaggio, probabilmente per scomodità o
perché non fa poi così male; per quanto riguarda la schiena John è un libro
aperto: ha avuto una smorfia di dolore nel muoversi quando si è seduto composto
sulla poltrona ed ha fatto particolarmente attenzione a sistemarsi in un modo
che gli permettesse di tenere staccata la zona lombare dal resto della
spalliera della poltrona, segno che fa ancora più male quando quella zona entra
in contatto con qualcosa, segno a sua volta di un trauma muscolare da botta.
Per la caviglia non è tutta farina del tuo sacco, dato che sono stato io a
dirti che John si era fatto male questo pomeriggio, ma è comunque facilmente
intuibile dal fatto che la fasciatura non interessa le dita dei piedi o il
polpaccio e soprattutto non è gesso ma fascia elastica e garza. Dai voce
all’ovvio, fratello? » snocciolò a
velocità supersonica, attaccando le parole una all’altra come se fossero
incollate.
Mycroft gli lanciò un’occhiata a metà fra il
divertito e la superiorità: « potrebbe non essere ovvio per tutti... » lasciò cadere,
riservando una piccola occhiata divertita a Lestrade,
che per il bene dei suoi neuroni gli ignorò e prese la sua razione con le sue
bacchette.
« Ora capisco come
ti senti a stare intorno a Sherlock ventiquattro ore su ventiquattro, dottore,
e sappi che ti ammiro per il coraggio che hai avuto a cominciare persino una relazione con lui » disse poi a John,
afferrando l’unico contenitore in alluminio del mucchio e passandolo a
Sherlock: « tieni, il rancio
speciale degli ammalati ».
Il
detective lo aprì. « Riso in bianco? » domandò retorico:
« una botta
d’originalità senza pari, ispettore » ironizzò poi, cominciando tuttavia a
mangiare.
Solo
in quel momento John realizzò che Sherlock si era messo addosso il maglione che
aveva indossato lui quella mattina, e a quella vista sorrise appena.
« Un pettegolezzo
che è ancora sulla bocca di tutti » intervenne Mycroft
distrattamente, osservando il contenuto del proprio contenitore: « ...temo di non
apprezzare i gamberi al limone » aggiunse poi.
« Se può andar bene
il riso alla cantonese, quelli posso mangiarli io ».
« Volentieri,
ispettore ».
Lestrade e Mycroft si
scambiarono le pietanze mentre John, cercando di non far notare il leggero
rossore alle orecchie, affondava le bacchette in mezzo ai pezzetti di pollo in
cerca di una mandorla.
Tutte
le persone a loro più vicine erano a conoscenza della loro relazione. Mycroft lo aveva intuito subito (anche prima di loro), così
come aveva fatto lo spiccato sesto senso di mrs.
Hudson. A Molly lo aveva detto Sherlock, usando una noncuranza incredibile
mentre era distratto dall’analisi di un cadavere, così come lo aveva comunicato
distrattamente anche nell’ufficio di Lestrade con
Donovan e Anderson presenti, l’ultimo dei quali si era quasi strozzato con il
caffè.
John
si era limitato a dirlo ad Harry, che oltre ad una battutina sul fatto di
averla raggiunta sull’altra sponda non aveva né infierito particolarmente né
esultato eccessivamente.
Come
ci si aspetterebbe da una sorella che senti saltuariamente e vedi esclusivamente
a Natale, dopotutto.
Aspetta
un attimo, cosa aveva detto?
« Quale
pettegolezzo? » se ne uscì allora
Watson, alzando gli occhi su Mycroft.
Quello,
dal canto suo, sorrise lievemente e fece spallucce. « Nel mio staff lo
sanno quasi tutti, e a Scotland Yard ormai è argomento di conversazione nella
pausa caffè » disse.
John
voltò scandalizzato il viso verso Lestrade, che
annuì. « Ultimamente le
pause sono abbastanza monotematiche » ammise con semplicità.
John
trattenne il fiato, cercando con tutto se stesso di non assumere una tonalità
troppo spinta di rosso.
Erano
cose che detestava, le chiacchiere da ufficio ed i pettegolezzi. E non perché stava
con un altro uomo, no, aveva detto chiaramente che non gli interessava e così
era; quel disturbo patologico nei confronti del gossip era radicato in lui da
tanto tempo, fin dall’inizio.
Odiava
sentirle, odiava sentirne parlare, odiava prenderne parte e soprattutto esserne parte.
Probabilmente
era ancora uno dei pochi uomini all’antica che se dicevano di separare lavoro e
vita privata lo facevano seriamente, così come poteva considerarsi una delle
ultime persone sulla terra che preferiva veramente
che la propria vita privata
rimanesse tale.
« Ah, a proposito » aggiunse Mycroft dopo aver deglutito: « anche mamma ne è lieta, anche se
le sono serviti un paio di giorni per abituarsi all’idea » disse, così
tranquillo e rilassato che sembrava parlasse del tempo e non della relazione
amorosa omosessuale del fratello minore.
John
fu a pochi passi dallo strozzarsi con un pezzo di pollo.
Ma
gli altri lo ignorarono. « Abituarsi al
fatto di Sherlock insieme ad un altro uomo? » domandò Lestrade,
suonando interessato: « comprensibile ».
« No, ad abituarsi
all’idea di Sherlock insieme a qualcuno
» precisò il
maggiore degli Holmes: « nostra madre è
sempre in pena, per colpa di Sherlock; sempre preoccupata per lui, perché “non
fa mai amicizia non nessuno, Mycroft, non voglio che
passi la vita da solo!” » citò l’uomo
testualmente, facendo sbuffare il diretto interessato.
« Beh, adesso il
problema è risolto, ho John » ribatté piccato il minore degli Holmes,
mangiucchiando qualche chicco di riso senza molta voglia di farlo realmente.
« Sì, e mamma vuole
conoscerlo » disse Mycroft.
A
John scivolarono di mano le bacchette. « Cosa? » domandò scioccato, la bocca aperta.
Sherlock
evitò, per una volta, qualsiasi commento mentre Mycroft
gli sorrise gentilmente. Ma non con la gentilezza standard del tipo “va tutto
bene, non preoccuparti”, piuttosto con il tipo finto che usa il dentista quando
sta per aprirti la gengiva con un bisturi per strapparti via il cocciuto dente
del giudizio che non vuole uscire e fa un male del porco. Quella gentilezza
tipica del “non preoccuparti, il proiettile ti ha aperto in due l’aorta per il
lungo, ma ti salverai!”.
« Oh, non agitarti
troppo » aggiunse il
maggiore degli Holmes con un movimento leggero della mano, come a scacciare
lontano da sé la preoccupazione dilagante di John: « è una signora a
modo, non ha mai mangiato nessuno ».
« Finora... » aggiunse però,
borbottando, Sherlock, e finalmente il dottore sentì tutto il residuo
d’appetito entrare in relazione di proporzionalità inversa con il suo mal di
testa nuovo di zecca.
I
due esponenti del gene Holmes cominciarono un nuovo battibecco, ma per una
volta Watson ignorò le lunghezze d’onda delle loro voci e si concentrò sul
movimento circolare delle proprie dita sulla tempia destra. Dall’altra parte
della stanza, Lestrade mimò in sua direzione un “mi
spiace”, ridacchiando divertito.
Se
solo non fosse stato acciaccato peggio di un incidentato e avesse avuto la
forza mentale di alzare il sedere dalla poltrona, probabilmente avrebbe dato
sfogo alla sua frustrazione prendendo a pedate un detective inspector di Scotland Yard e
due fratelli fin troppo rumorosi.
Circondato
da “non puoi permetterti di parlare così di lei”, da “è mia madre, ne parlo
come voglio” e da “è anche mia madre, perciò portale rispetto!”, John considerò
seriamente che Madre Natura doveva essere adirata con lui in quel periodo,
oppure era il maledetto Karma che si prendeva la rivincita per chissà cosa.
Forse
gli conveniva fare testamento.
Il
suo istinto di autoconservazione, che gli aveva salvato il culo più volte ai
tempi della guerra, diede l’ordine al suo cervello di sviare il discorso, nella
speranza che Mycroft si dimenticasse della faccenda e
non organizzasse un rapimento per il giorno successivo (o non appena la neve
avesse smesso di cadere copiosa dal cielo londinese).
« Greg, non avevi
portato il caso a Sherlock? » domandò, sovrastando con la voce quella concitata dei
due consanguinei, che alla domanda tacquero contemporaneamente.
Lestrade lo guardò stranito, ma John annuì. Era
consapevole di darsi la famigerata zappa sui piedi, di stare calpestando i suoi
ideali di medico vecchio stampo “riposo ed antibiotici”, ma almeno la
risoluzione di un caso avrebbe tenuto impegnato Sherlock e, senza un
interlocutore della casta Holmes a fomentare le sue risposte, anche Mycroft avrebbe ceduto al piacere di una conversazione dai
toni normali con persone normali.
Toglieva
la legna dal fuoco, in poche parole.
Già
si aspettava un rumore di scartoffie estratte dalla borsa e la spiegazione –
assolutamente superflua con Sherlock in ascolto – di Lestrade...
ma quel momento non arrivò mai.
« Oh, no. L’ho
risolto da solo » disse Gregory Lestrade.
Nell’intero
appartamento calò il più completo silenzio.
E
mentre sul viso di Mycroft prendeva spazio
un’espressione alla “mi hai stupito, ispettore”, e sulla faccia di Sherlock si
faceva avanti lo shock interiore di una persona già destinata al tedio
esistenziale, John si era semplicemente dipinto sul viso un sorriso spento e
tirato, tipico dell’individuo che vede arrivare l’asteroide e sa che è tardi
per rimediare in qualsiasi modo.
Fra
tutte le cose che potevano andare male, solo una poteva andare peggio: Sherlock
che rimaneva senza il caso promessogli.
L’unica,
vera, pecca.
10. Madre
Natura è una puttana.
Quando
aprì gli occhi, la mattina successiva, era steso supino sul letto ed il bianco
del soffitto gli faceva pizzicare gli occhi.
Li
chiuse, poi li riaprì. Li chiuse e li riaprì di nuovo. Niente. Bruciavano alla vista
del bianco illuminato dalla pallida luce proveniente dagli scuri dimenticati
aperti la notte prima, quando aveva accompagnato a letto Sherlock con un’altra
pastiglia di antipiretico e un principio di shock interiore dovuto al fatto di
essere stato privato del caso tanto atteso.
Mugugnò
contrariato ad un lieve mal di testa, allungando ad occhi chiusi la mano al suo
fianco. Il letto era vuoto.
Probabilmente
stava meglio, si disse quando prese coscienza di essere solo – come tutte le
mattine in cui si svegliava, perché Sherlock a volte non dormiva, ma quando lo
faceva era comunque molto mattiniero.
Avrebbe
dovuto dirgli qualcosina sulla deprivazione di sonno,
prima o poi.
Sospirò,
cercando di nuovo di aprire gli occhi e questa volta ebbe più successo... con
il soffitto. Già spostare gli occhi sulla finestra fu ugualmente fastidioso e,
mentre si sollevava per mettersi seduto sul materasso, se li sfregò con la mano
sinistra.
La
coperta gli scivolò dalla maglia a maniche lunghe, scoprendogli il torso, ma
quando fu completamente seduto si rese finalmente conto che qualcosa non
andava. Si sentiva stanco, fiacco, aveva male ai muscoli – oltre che agli altri
punti in cui si era fatto male il giorno prima, ma quelli erano “dettagli” – si
sentiva la testa pesante e, se solo provava a guardarsi intorno, cominciava a
girargli. Inoltre, e lo notò storcendo il naso, aveva i sudori freddi.
Era
un medico, non ci mise molto a fare due più due con i sintomi.
« Non è vero... » soffiò in un
lamento, lasciando perdere l’intenzione di alzarsi dal letto e buttandosi all’indietro
con la testa sul cuscino.
Sensibilità
alla luce, mal di testa, malessere diffuso, dolori articolari, sudore freddo...
era lampante. Trascinando se stesso arrivò al comodino di Sherlock, afferrando
con le dita il termometro e provandosi la temperatura. Quando fece il classico “bip” di avvertimento, se lo portò davanti agli occhi.
38,7
°C.
Davvero,
davvero, divertente. Cazzo.
« Ma non è
possibile... » borbottò contrariato,
lasciando perdere il termometro da qualche parte nel letto e coprendosi fino al
collo, girato su di un fianco e con le ginocchia al petto.
Cominciava
a sentire freddo, aveva i brividi e, rendendosi conto di essere ammalato, la
fiacchezza tipica dell’influenza gli era caduta addosso tutta in una volta.
Forse aveva ragione Sherlock quando diceva che il cervello – o forse era meglio
dire la volontà – guidava il corpo.
Beh,
il suo aveva appena abbassato anche le ultime difese che gli rimanevano.
Chiuse
gli occhi, deciso a dormire un altro po’ prima di affrontare effettivamente la
sua condizione di influenzato, quando la porta della camera si aprì e Sherlock
fece il suo ingresso.
Attraverso
le ciglia, John lo osservò. Portava ancora il suo maglione, sopra il pigiama e
sotto la vestaglia, notò. Probabilmente non se lo era nemmeno tolto per
dormire, considerò poi, ritenendola una situazione più probabile.
Sherlock
rimase in piedi a guardarlo, assottigliando poi gli occhi quando quelli azzurro
ghiaccio del detective incontrarono i suoi socchiusi. « John? » chiamò, forse
credendolo ancora mezzo addormentato.
« Sono sveglio » si limitò a
biascicare lui, stretto nelle coperte.
« Questo lo so » rispose l’altro: « ti senti male? » aggiunse,
probabilmente la traduzione di quel “John” che aveva pronunciato prima.
Non
avrebbe mai capito come funzionava la mente di Holmes. Mai.
Dovette
trovare dentro di sé molto coraggio, per dire quelle parole. « Ho la febbre » sibilò con il
naso arricciato in un moto di rigetto interiore nei confronti di quell’ammissione
di colpa.
Holmes,
dall’alto del suo infinito metro e ottantacinque, piegò in un ghigno l’angolo
destro delle labbra.
Questo,
nel dizionario della comunicazione non verbale di Sherlock Holmes, equivaleva
ad una risatina divertita.
« Ti prego, sta
zitto » lo anticipò John,
Sherlock si strinse nelle spalle senza però abbandonare il sorrisetto.
« Non ho detto
niente » disse.
« Ma lo stavi per
fare » argomentò John: « me lo sento nelle
ossa, che lo stavi per fare. Dunque no, stai zitto » aggiunse seccato,
sentendosi arrabbiato con tutti e con nessuno per la maledetta situazione in
cui versava.
Non
bastavano le dita scottate, un livido sulla schiena, una caviglia slogata, la
neve, il ghiaccio e il freddo tutto condito con Sherlock che si prende l’influenza.
No. Non bastavano.
Adesso
anche lui aveva dovuto prendersi il virus influenzale.
E
si era anche vaccinato, per la miseria!
Sherlock
continuò a sghignazzare, salendo sul materasso e sedendosi a gambe incrociate
accanto a lui, in silenzio.
John
aveva improvvisamente cominciato da solo una battaglia contro i mulini a vento,
forse in rimostranza metaforica contro una qualsiasi entità superiore che si
divertiva a vederlo soffrire, e si rendeva conto che si stava comportando come
un moccioso ma non gliene importava nulla. Tuttavia non gli ci volle molto per
capire che, anche se non rivolgeva parola a Sherlock – a cui tra l’altro non
riusciva a dare la colpa nemmeno della giornataccia passata ieri, perché lo
aveva “accudito” veramente col cuore, e non per obbligo - non risolveva niente.
« Tu come ti senti?
» gli chiese
infatti, uscendo sconfitto dalla guerra che aveva appena cominciato contro se
stesso.
« Meglio » gli rispose
Sherlock: « la febbre è a
trentasette e due, praticamente nulla, e mrs. Hudson
sta preparando la colazione per entrambi... anche se dovrò dirle di non fare la
tua parte » disse, cogliendo
la smorfia disgustata che John aveva fatto non appena aveva sentito nominare un’ipotetica
colazione.
Il
detective allungò poi la mano sulla sua fronte, passando in una carezza un po’
impacciata il dorso fresco della sua mano anche sulla guancia di John, che si
beò di quel contatto.
« Te la sei
provata? » gli domandò poi,
ritirando la mano con dispiacere del medico.
« Trentotto e sette
» disse quello,
riaprendo gli occhi o guardando l’altro.
« Ma non avevi
fatto il vaccino? » chiese allora l’altro,
ancora piacevolmente divertito dalla situazione.
John
sospirò, tornando a chiudere gli occhi per il fastidio alla luce. « Probabilmente è
un altro ceppo » considerò. La
maggior parte delle volte era proprio quella, la causa dell’inefficacia del
vaccino anti-influenzale.
« Madre Natura che
l’ha con te ».
« Madre Natura è
una puttana ».
Questa
volta, alla battuta di Watson, Holmes rise. Una risata breve, bassa e vibrante,
che però fece stirare anche le labbra di John in un lieve sorriso.
« Sherlock,
stenditi » disse poi il
medico, all’improvviso.
Il
detective lo guardò per un istante, per poi stendersi al suo fianco, girato
verso di lui. John, dal canto suo, tirò fuori il braccio sinistro dalle coperte
e, avvicinandosi a Sherlock, glielo passò attorno alla vita appoggiandosi con
la testa sulla sua spalla.
Sherlock,
osservandolo durante tutta la manovra, fece poi la stessa cosa, circondandolo
un po’ goffamente con entrambe le braccia.
Non
ci era ancora abituato, a quel tipo di slanci affettivi.
« Non ti facevo così, John » gli disse poi, il
mento appoggiato ai corti capelli chiari del medico placidamente sistemato fra
le sue braccia.
« “Così” come? » domandò John, la
testa nell’incavo fra collo e spalla di Holmes, incastrato come se quello fosse
stato sempre il suo posto, creato apposta per lui.
« Così... dolce » ironizzò il moro,
prendendolo lievemente in giro senza però cattiveria.
Scherzi
da amante, pensò John. Sta migliorando.
« È la febbre... » rispose allora il
dottore: « ...non rispondo
delle mie azioni, quando ho la febbre » ironizzò.
E
si sarebbe potuta aprire una parentesi infinita sui molteplici significati
della frase che aveva appena pronunciato, ma sapeva che Sherlock non ci avrebbe
mai pensato e lui non si sforzò nemmeno più di tanto a mettere in atto quella
serie di pensieri poco casti che gli avevano attraversato la mente.
Voleva
solo stare così: stretto alla persona più improbabile e strana della Terra che,
in un modo a dir poco confuso e complicato, era diventato per lui la persona, quella per eccellenza, l’insostituibile.
Le
dita pulsavano ancora, la schiena era un fastidio perenne, la caviglia faceva
male continuamente. Aveva freddo, era debole e l’influenza. Tuttavia, nonostante
tutto, stretto in quell’abbraccio impacciato poteva tranquillamente dire di
sentirsi in pace con gli altri e, soprattutto, con se stesso.
Semplicemente,
bene.
Il
resto poco importava.
« ...oggi posso
andare a Scotland Yard, vero? ».
Sospirando
pesantemente, John Watson pensò che lo avrebbe volentieri strangolato.
Corollario di John H. Watson alla Legge di
Murphy:
Evidentemente,
anche Murphy ha conosciuto Sherlock Holmes.
~The END.
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In realtà sì, non vedevo l’ora di mettere quei
quattro a mangiare cinese insieme. Era un mio sogno proibito.
Comunque, passando alle note:
1 – l’Astragalo è (se ho letto bene l’atlante)
un osso della caviglia, di cui la punta dovrebbe essere visibile e percepibile
al tatto nella parte esterna di entrambe le caviglie.
2 – Chi ha riconosciuto “Le Follie
dell’Imperatore” alzi la mano! XD Per chi non ha ancora provveduto a vedersi
quello splendido film Disney, ecco la frase che ha ispirato la citazione: “Ah, certo! Il veleno. Il veleno per Kuzco. Il veleno scelto appositamente per uccidere Kuzco. Kuzco e il suo veleno...
Quel veleno?”