Dopo
appena una settimana e mezzo, il dottor Torres l’aveva dimesso complimentandosi
per la rapida cicatrizzazione delle ferite. «Lei deve essere una specie di
supereroe», aveva scherzato il medico, stringendogli la mano. Will – che
cercava di non digrignare i denti e di ignorare il braccio fasciato – aveva
riso, ricambiando la stretta vigorosamente.
Tornato
a casa, non aveva fatto altro che domandarsi se il dottore non avesse sbagliato
con la diagnosi, dato il continuo pulsare. Quando Maddy
andava a prendere le garze pulite, lasciandolo solo nella stanza da letto, Will
si ritrovava a ispezionare il braccio, strizzando e tastando il muscolo alla
ricerca di qualche dente, qualche strumento chirurgico, magari lasciato lì
durante l’operazione, qualcosa,
insomma, che potesse spiegare la sensazione di essere divorato.
Ne
aveva parlato con Torres, lo aveva ripetuto a Maddy,
e la soluzione concordata era stata mandarlo da un altro dottore, un certo
Bean, psicanalista dai capelli afro e un cognome ridicolo. Questi sosteneva che
la sua mente continuava a risalire al giorno dell’aggressione, creando un
dolore fantasma. Prenderne consapevolezza l’avrebbe liberato, lo aveva rassicurato
Bean; e, da allora, Will aveva continuato a ripetersi che il braccio stava
bene, ma non era migliorato per niente.
Quando
lo accennava a Maddy, lei gli lanciava un’occhiata
perplessa e diffidente, richiudendosi dietro un’armatura di fredda fermezza che
lo irritava, fino all’eruzione.
Durante
l’ultima lite, risalente a qualche settimana prima, aveva ritentato a farle
capire che non poteva sbagliarsi lui.
Era il suo corpo, ci aveva convissuto
per trentatré anni, nella gioia e nel dolore, collezionando una serie notevole
di slogature, rotture, cicatrici. Ne conosceva i limiti, testati nelle
arrampicate e sulla mountain bike, e in quel momento, più che mai, lo sentiva
reagire, i muscoli che crescevano, i peli che si allungavano, ogni dannata unghia
che a fatica riusciva a tagliare con le forbici, quasi fossero zanne…
Will
aveva paura, ora, del suo corpo.
«I
dottori non possono essersi sbagliati, Will, devi solo metterci forza di
volontà», aveva detto Maddy, inconsapevole del
terrore che, insieme al dolore, non lo faceva dormire di notte.
«Mi
fa male, Mads, non so scherzando».
«È solo una sindrome, un po’
come quella del Vietnam… passerà. Devi solo
impegnarti di più».
«Ma
se mi fa male, che cazzo dovrei fare secondo te?! Non
me lo sto mica immaginando!»
E
giù pugni sul letto, imprecazioni, insulti ai medici. Maddalena, invece, si era
limitata a voltargli le spalle e chiudere dietro di sé la porta della stanza da
letto con un secco:
«Mi
stai facendo impazzire, William».
Fine
del discorso. Maddy non ne aveva voluto parlare più.
Era diventata più fredda durante i primi tempi di convalescenza e, man mano
passavano i giorni, William si accorgeva di averla allontanata con le sue
stupide ossessioni. Aveva dovuto accantonare se stesso, ignorare il proprio
corpo, aveva cercato di rimediare al meglio.
Una
sera, per contrattare la pace, si era alzato dal letto con l’agilità di un
ragazzino, aveva scelto un CD dei Coldplay,
lo aveva messo nello stereo, aveva ordinato due pizze e due lattine di coca.
L’aveva accolta così, sorridendo e chiedendole com’era andata la giornata. Maddy aveva pianto un po’, commossa, e lo aveva baciato con
il trasporto dei primi mesi d’innamoramento; avevano fatto l’amore tanto
irruentemente da spaccare una doga del letto. Avevano riso per dieci minuti
buoni, ancora eccitati, innamorati, finalmente riconciliati dalla cara, vecchia
routine.
Situazione
sentimentale risolta; peccato che il braccio gli facesse ancora male.
«Andremo
ancora dal dottor Torres», lo aveva rassicurato Maddy,
sdraiata sopra di lui, facendo attenzione a non pesargli troppo sul petto. «O
consulteremo qualche specialista».
Per
il suo bene, Will aveva cominciato a tacere. C’erano altre cose che erano
cambiate da quell’incidente; ma di quelle, Will non ne fece mai parola con
nessuno. Cercava di zittire anche i propri pensieri, perché erano completamente
folli, irrazionali. Come si può pensare di essere una bestia?
Eppure…
Negli ultimi giorni di ospedale aveva dato
di stomaco ben quattro volte a causa dell’odore nauseabondo di malattia, feci e
medicinali, fattosi incredibilmente intenso. All’inizio credeva fosse colpa del
suo vicino, un vecchio a cui avevano dovuto tagliare un piede
a causa del diabete. Poi, tornato a casa, gli odori avevano continuato a essere
persistenti e incredibilmente distinguibili l’uno dall’altro, persino quelli
più delicati come la saponetta del bagno. E ciò che lo angosciava era che
riusciva a sentirla anche fuori di
casa.
Poi,
veniva il suo desiderio sessuale, quasi quadruplicato dalla serata pizza.
Piuttosto normale dopo un periodo di astinenza; peccato che non riuscisse bene
a contenere la sua forza, anche quella inspiegabilmente accresciuta: Maddy non glielo aveva rinfacciato, ma sapeva di averle
lasciato dei lividi sulle braccia la scorsa notte.
Il
fatto era che, quando cominciava a baciarla, non riusciva a fermarsi: le sue
dita di muovevano quasi slegate dal corpo, avviluppando la carne tenera e
pallida di Maddalena, e le sue gambe la imprigionavano; la penetrava quasi
inconsapevolmente, riprendendo coscienza solo raggiunto l’orgasmo. Si
vergognava di trattarla così rudemente; s’indispettiva all’idea di non
ricordare nulla, al di fuori del piacere dilagante. Ma
non riusciva a controllarsi: il suo corpo reagiva d’impulso, soffocandolo
dentro la sua stessa carne. Guardando la pelle pallida della sua giovane
compagna, coperto soltanto dalla vestaglia rossa, non provava che la voglia di
morderla. Pareva una ciliegia, una succulenta ciliegia.
Si
sentiva prigioniero di un’altra creatura che, piano piano,
stava germogliando dal suo braccio, facendosi spazio nel suo corpo come edera.
La
sentiva nelle unghie, nei denti, nei muscoli, nelle ossa; ma soprattutto,
sentiva il suo cuore pulsante sull’avambraccio.
«Ehi, gioia, dove sei? Ah,
sei a letto, come sempre!»
La
testa bruna e riccia di Maddy sbucò dalla porta. Quasi
rideva mentre apriva l’uscio, mostrando con entusiasmo ben visibile il loro
zaino da trekking.
«Indovina
chi ci ha invitato per il week-end?», esclamò, saltellandogli incontro e
buttandosi fra le sue braccia. Will si trovò, suo malgrado, a sorridere.
«La
cara, adorabile nonna Giuditta?»
Dopo lunghi, affannosi mesi di esami, sono riuscita a completare la seconda parte. La terza sarà l’ultima, e posso anticipare che si tratterà del capitolo sul cacciatore. Direi che non manca nulla, no? (:
Grazie milla a Mao chan, che ritrovo sempre volentieri sul mio cammino. Un grazie anche a chi legge, sempre.
Ci rivedremo all’epilogo!
Kaho