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Autore: Blackrose_96    08/03/2012    1 recensioni
"Corri" l'unica parola rivolta alla protagonista da parte della madre, prima di iniziare una folle fuga verso l'Inferno. Una storia particolare, introspettiva, enigmatica. Sinceramente non saprei descriverla molto bene. Diciamo solo che è un testo buttato giù sul momento. :) è la mia prima one-shot, quindi mi farebbe molto piacere sapere un vostro parere, sia positivo che negativo. Quindi...buona lettura! E commentate in tanti!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Cruel fate

 

 “Corri”. Era questa l’unica parola che mi aveva detto mia madre prima che mi addentrassi nel folto boscoso, che delimitava la proprietà della mia famiglia per tutto il perimetro del giardino. Niente raccomandazioni, niente lacrime. Solo “corri”. Sarebbero dovuti venire a prendermi proprio quel giorno. Quella mattina ombrosa e fredda avrebbe segnato la fine della mia esistenza. Prima di andarmene avevo dato due baci sulle guance a mia madre e avevo abbracciato forte mio padre: tutti e tre sapevamo che non sarebbe stato un allontanamento provvisorio. Non ci saremmo visti mai più.

Mentre le mie gambe correvano più veloci del vento gelido, che mi sferzava il viso, e il mio petto andava su e giù, su e giù, in un ritmo che ricordava vagamente la cadenza veloce e irregolare dei tamburi, mi accorsi di aver superato la grande pianta di belladonna che demarcava i confini oscuri dell’Ade. La foresta tetra e spinosa mi scorreva attorno in un miscuglio confuso di verdi, neri e grigi, simili al colore cupo del cielo, che tale non sembrava, tanto era orribilmente privo di luce. Gli odori pungenti dell’elleboro e dello stramonio non facevano altro che avvelenarmi, avvelenarmi l’anima con il loro puzzo rivoltante. Tossii. Tossii di nuovo. Ma non mi fermai. Non potevo. No, non potevo morire. Nonostante le spine conficcate nei miei piedi nudi e pieni di piaghe e le esalazioni mortifere che mi stavano asfissiando, avevo raggiunto quasi la mia meta. Ma a un tratto la terra tremò sotto i miei piedi sanguinanti. Mi fermai di scatto e mi voltai terrorizzata da dove in teoria sarebbe dovuta provenire quella scossa. Destra, sinistra, di nuovo destra. Nulla.

“Corri, corri” – la voce di mia madre mi rimbombava nella testa come un eco lontano e impreciso. Poi altre mille voci, spietate e brutali, seguirono la prima. Mi presi il capo fra le mani. “Smettetela, smettetela, ora basta, basta!” urlai più volte in preda a un dolore allucinante. Era come se ogni avvenimento successo nelle ultime quarantotto ore fosse rimasto in incubazione in qualche buio anfratto della mia mente, per poi violentarmi con la sua forza inaudita.

“E' colpa mia! È colpa mia che l’ho amato! Non dovevo, non dovevo!” gridai con tutte le mie forze verso un punto indistinto della nuda boscaglia, come per giustificarmi con qualche entità immaginaria dello scempio da me compiuto. Urlai. Urlai più forte. Un’altra volta. Un’altra ancora. Caddi in ginocchio sulla terra, infestata da cardi e da vermi necrofagi, scorticandomi la pelle delle gambe, mentre i luridi lombrichi si nutrivano dei brandelli di carne infetta. Ormai le lacrime scendevano, scendevano copiose dai miei occhi spiritati, come dei ruscelletti, che si fanno strada in una radura rigogliosa. Piangevo lacrime di dolore, di orrore, di terrore. Piangevo per lui, per ciò che gli era successo; per ciò che avevo fatto per salvarlo. Piangevo per la dolce morte che mi avevano riservato. Piangevo per me stessa, per i miei genitori, per gli esseri umani, per le splendide ali bianche che mi avevano tagliato. Avevo salvato un umano. Per questo mi avevano tolto l’immortalità. E mi avevano tagliato le ali con i loro artigli orribili e lancinanti. Soltanto due cicatrici rimanevano al loro posto. Ancora le voci mi stavano tormentando, danzando nella mia testa come le streghe di Saba attorno a un fuoco maledetto. Non avevo ripreso a correre. Il ritmo tambureggiante del petto si era placato. Gli unici rumori che intridevano l’aria avvelenata erano le grida dei dannati e il vento nefasto, che smuoveva le spoglie fronde degli alberi.

Mi sedetti ai piedi di un albero, le ginocchia scorticate abbracciate al petto, le narici infestate dalla tossica puzza. Non c’era modo di scappare. Anche se fossi arrivata nell’Inferno, non sarei mai potuto uscirne. Lì gli angeli non potevano entrare, neanche gli angeli della morte. Come lo ero io un tempo. Come non lo ero più. Ciò che rimaneva di me era solo un’anima già morta, imprigionata in un corpo ancora vivo.

Non aveva alcun senso rifugiarsi nell’Ade, non per me, non in quella situazione. Sarebbe stata la mia prigione fino alla morte. Non volevo morire. Ma volevo ancor meno vivere. Sarebbe stata solo una lunga agonia, fino a che la mia neomortalità non avesse vinto. Solo una lunga e insopportabile agonia.

Sarei stata come una farfalla che suona come un’arpa i fili della ragnatela che la avvolgono, per allietare così l’ultimo tempo prima della morte. Così mi misi a cantare. Cantai col cuore, con la mente, con l’anima. Cantai per dissipare il buio. Cantai per non sentire il dolore. Cantai per assopire i pensieri, che mi stavano divorando. Cantai per attirare la morte. E ci riuscii.

Dal luogo dove gli alberi erano più radi, apparve una figura luminosa, ma allo stesso tempo minacciosa; si avvicinò con una lentezza studiata al mio corpo, raggomitolato accanto a una pianta di digitale purpurea. Mi accorsi che non toccava terra: come anima buona e proba, non avrebbe mai potuto contaminarsi con la corrotta ed empia terra dell’antinferno. Mi alzai di fronte al suo cospetto , in segno di riverenza.

Avevo impedito al ciclo della vita di scorrere: un atto gravissimo. Pena: la morte. Il “Giustiziere” avvicinò il suo volto, bello solo come solo il volto degli angeli potrebbe essere, al mio. Io chiusi gli occhi. Ero a conoscenza di ciò che avrebbe fatto. Lui pose le sue mani fredde, simbolo di non vita, sulle mie guance pallide e già morte e, come in un bacio, avvicinò le sue labbra, dischiuse, alle mie, senza però sfiorarle.

In qualche attimo l’angoscia che mi affliggeva svanì. I pensieri persero la loro consistenza e divennero semplici soffi di vento. Le ginocchia mi cedettero e sarei caduta a terra, se quelle mani di morte non mi avessero ancora tenuto il viso, per potermi risucchiare l’anima fino all’ultima spira. Ormai poco mi era rimasto dentro.

Un lieve e piacevole torpore mi avvolse. Vidi il volto splendido dell’umano, una riga di sangue che gli scendeva copiosa dal labbro, un revolver in mano, un vetro rotto e tanti frammenti per terra. Sarebbe finito all’Inferno. Non ebbi il coraggio di rubargli l’anima. Non ebbi la forza. E non l’avrei mai avuta. Non mi pentii mai veramente della mia scelta, né mai negai il mio errore. Per questo non continuai a correre. Non volevo sfuggire alla giustizia ingiusta di questo mondo; un tribunale che premia il malvagio e condanna a morte chi si pente. In questo mondo, finché sarà così, non si potrà sfuggire al bacio della morte.

Il corpo divenne freddo. Gli occhi si svuotarono completamente della loro autentica luce. Il “Giustiziere” lasciò la carcassa senza vita cadere a terra, mentre uno sciame di luridi insetti assetati di sangue si avventava su di essa, cominciando a divorarne ogni centimetro. L’angelo della morte osservò per un attimo lo spettacolo raccapricciante con sguardo vacuo; poi si girò e ritornò in posti più adatti alla sua purezza.

Né una preghiera né una lacrima sarebbero state versate su ciò che rimaneva delle spoglie. Perché è questa la dolce dipartita, riservata a chi si pente giustamente di uno sconsiderato atto d’amore: un corpo freddo, morto, svuotato dall’anima, divorato da orribili lombrichi in mezzo a piante puzzolenti e velenose.

   
 
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