Storie originali > Fantascienza
Ricorda la storia  |      
Autore: Talesteller    10/03/2012    1 recensioni
I Sintetici, esseri non del tutto biologici creati per mantenere il controllo Siriano sulla Galassia, hanno annientato la vita organica su quasi tutti i pianeti su cui avrebbero dovuto mantenere l'ordine.
Pochi grappoli di umanoidi sopravvivono ai margini della Galassia.
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il ronzio sommesso delle resistenze che tenevano in temperatura i primi propulsori era l’unico rumore all’interno della cabina, tutto ciò che veniva dall’esterno era bloccato dai doppi vetri e dalla fusoliera del caccia.
Alzò la leva che azionava il circuito primario e lo spazio interno s’illuminò di una miriade di spie, indicatori e pulsanti luminosi.
Quella cosa non era nemmeno un caccia.
Era una chimera realizzata con i pezzi di caccia abbattuti che aveva raccattato insieme agli altri della Resistenza.
Non pezzi di caccia, a pensarci bene.
Pezzi di tutto.
Elettrodomestici principalmente, poi anche veicoli, terminal personali a volontà. Alcuni dei cavi dei circuiti li avevano presi dall’interno delle pareti di alcuni edifici.
Ed il risultato era il minuscolo abitacolo a punta di freccia in cui era seduto, e il centinaio di metri di motori che c’era sotto.
Quando aveva terminato il progetto, era stato il primo a ritenere una pazzia cercare di realizzarlo.
Si trattava di reperire quasi due miglia di cavi, tonnellate di titanio e di carbonio ed infine due blocchi di darmstadtio grandi quanto un pugno.
Il tutto operando solo con il favore delle tenebre e con la costante minaccia di essere scoperti dai Sintetici.
Ci avevano messo molto, un’eternità, ma non ricordava esattamente quanto, quindi alzò lo sguardo sul foglio appeso alla carlinga con un chiodo, un collage di tutte le pagine del suo diario e del progetto che contenevano riferimenti allo shuttle.
Cercò a lungo fra le miriadi di righe finché non trovò ciò che cercava.
Duecentottantaquattro giorni locali. Il numero era scritto sull’ultimo foglio, su cui aveva scritto un riassunto di tutto ciò che era occorso per quel progetto.
Rilesse tutto.
Dopo i numeri c’erano i nomi.
I nomi della gente la cui morte aveva contribuito a dare vita allo shuttle, i Siriani, Kolbat e Doraniani, e in generale tutti gli esseri senzienti che avevano dato la vita perché lui potesse essere seduto lì, a leggere i loro nomi.
Gente che aveva dato la vita per il proprio pianeta.
Se a Sirio ci fosse stata più gente così, tutto questo non sarebbe mai successo pensò, con desolazione.
Recuperò la matita improvvisata da sotto il sedile e aggiunse il proprio nome in fondo alla lista.
Thyl Ketrld.
Restò per un po’ a guardare il foglio, come a considerare come quel nome si inserisse nel resto della lista.
Inserì le resistenze nei circuiti dei secondi motori perché anch’essi iniziassero a scaldarsi.
Il radar era ancora muto, intorno all’edificio cavo che era diventato la rampa di lancio dello shuttle non c’era ancora nulla eccetto i sopravvissuti della Resistenza.
La situazione sarebbe cambiata presto.
Nessuno sapeva come, ma i Sintetici erano in grado di percepire le cariche elettriche ed i dispositivi elettronici funzionanti.
In quell’istante, lo shuttle era diventato un’enorme faro.
Controllò i termostati dei motori, ancora ben lontani dalla temperatura necessaria per avviarli senza il rischio che saltasse tutto per aria.
Si abbandonò sul morbido sedile e si accertò che le cinghie fossero a posto, voleva evitare di finire catapultato fuori da… qualsiasi cosa. Lo erano. Guardò il cielo.
No, non il cielo.
Non c’era più il cielo.
C’erano piccole fessure di blu tra i Collettori, e poi c’era il suo obiettivo, l’enorme ammasso di materia biologica pronto a distruggere il pianeta non appena esso non avrebbe più prodotto l’energia che era stato mandato a raccogliere.
Ripensò al momento in cui erano arrivati.
Prima erano scese sotto l’atmosfera le navi da guerra, da subito in piccoli stormi, poi a flotte. L’Aeroporto era stata la prima struttura ed essere attaccata e l’ultima a cadere.
Thyl e i suoi l’avevano difesa finché non erano rimasti soli, poi erano stati costretti ad andarsene. Avevano visto i Tricraft ed i loro laser, fasci d’energia termica pura, falciare qualsiasi cosa si alzasse sopra i duecento metri dalla superficie.
Poi, per pochi giorni sulle macerie del pianeta era scesa la quiete. Tre giorni, per la precisione, in cui il sole ed il suo fratellino binario avevano splenduto sulla superficie.
Tutti si erano dati ai festeggiamenti, radunandosi per le strade devastate pensando di aver sconfitto gli invasori, tutti tranne Thyl e pochi realisti che quel tempo lo avevano speso a prepararsi al Loro ritorno.
Che era avvenuto tre giorni dopo.
I soli su un emisfero si erano oscurati quasi interamente, ed i Collettori erano scesi sotto l’atmosfera ed avevano iniziato il loro lavoro.
In pochi giorni la temperatura era crollata e il gas rilasciato come scarto aveva reso l’aria tanto leggera che respirare era diventato una fatica senza una scorta d’azoto.
Poi avevano iniziato a scendere a terra.
Ed aveva avuto inizio la Resistenza.
Non appena i primi Sintetici avevano messo piede a terra, tutti i supersiti dell’invasione si erano riuniti attorno a Thyl, e con lui avevano combattuto.
No, forse sarebbe stato meglio dire per lui.
La verità era che era vecchio.
Non era più il giovane pilota che teneva il conto dei velivoli abbattuti con l’unità di misura delle formazioni anziché dei singoli caccia, ne’ il soldato in grado di infiltrarsi ovunque ed uscirne senza un graffio.
Quando i Sintetici iniziarono ad edificare strutture al suolo, mentre i suoi combattevano, tutto ciò che faceva era fare piani e costruire esplosivi, ad ogni spedizione restava con il respiro spezzato sul tetto di Houston ad aspettare un’esplosione dall’edificio bersaglio, esplosione che il più delle volte avveniva, ma qualche volta attendeva fino all’alba, a vuoto.
E all’alba scendeva nel suo ufficio, un rimasuglio di spazio quadrato tra quattro muri crollati, ed aggiungeva i nomi dei ragazzi che erano partiti alla lista di coloro che avevano perso la vita per il loro pianeta.
Più andava avanti nel progetto, più gli sembrava che quella lista stesse diventando troppo lunga, che il pianeta non meritasse tutti quei morti.
Ma il pianeta era tutto ciò che gli era rimasto, il desiderio di libertà l’unica cosa che i Sintetici non avrebbero mai potuto distruggere.
E poi fu come se d’improvviso, nell’arco di pochi giorni, lo shuttle fosse passato da quattro colonne vuote a un’astronave quasi pronta per il decollo.
Ed ora era pronto.
Quella lista non si era allungata in vano.
Una breve serie di “bip” acuti scaturì dal radar.
Sintetici rilevati. Tre, di medie dimensioni, in avvicinamento lento da nord-est.
-Su, forza, scaldati- Sussurrò, inserendo una seconda batteria di resistenze in entrambi i circuiti. La temperatura iniziò ad aumentare poco più velocemente.
Udì i primi tuoni dei laser dei Sintetici ed il rombo grave delle fiamme dei suoi.
Le fiamme, l’unica cosa che potesse uccidere i Sintetici.
O almeno, l’unica cosa che un uomo potesse brandire.
Per ucciderne uno bisognava ucciderlo tutto, investirlo completamente o la maggior parte. Il modo più sicuro, era via fiamme, vista anche la facilità con cui prendono fuoco, ragion per cui si erano tutti muniti di razzi, lanciafiamme, granate incendiarie e qualsiasi altra cosa generasse fiamme.
La temperatura dei quattro motori primi era poco sotto i tre quarti di quella necessaria al decollo quando il primo Sintetico scomparve dal radar, seguito poco dopo dagli altri due.
Lo schermo rimase libero per sei secondi, quindi ne comparvero altri cinque, da nord.
Cinque era un bel numero, visto anche che si stavano dirigendo contro una posizione difesa da due dei suoi, e a velocità consistente.
Accese l’impianto di altoparlanti interni e premette un pulsante sulla consôle.
Una rapida successione di note riempì l’abitacolo.
Era qualcosa di terrestre.
Quello l’aveva trovato per caso durante una delle sue ricognizioni, e l’aveva inserito nei circuiti dello shuttle ad insaputa degli altri, senza sapere nemmeno il perché.
Aveva sempre amato la musica, specialmente quella antica terrestre.
Gli sarebbe piaciuto che fosse presente anche nel suo ultimo volo.
Le prime parole della canzone ignota furono accompagnate da una serie di “bip” provenienti dal radar.
Sette contatti in arrivo da ovest.
Houston era compromessa.
-Su, muoviti chimera- Disse, fissando le barre della temperatura dei motori secondari, che salivano troppo lentamente verso i tre quarti della temperatura di lancio.
Il tuono di un laser superò la musica che riempiva la cabina.
Era tempo di alzare le natiche da lì.
I primi motori erano in temperatura, e sarebbero stati sufficienti a decollare, ma sarebbe stato un azzardo, avrebbe rischiato di trovarsi in quota con i motori secondari troppo freddi per entrare in funzione.
Una nuova serie di “bip” gli tolse ogni dubbio su come agire.
Altri sei contatti in arrivo rapido da sud.
Il primo dei Sintetici era comparso all’interno della rampa di lancio.
Tirò indietro senza troppa delicatezza la leva dell’accelerazione dei primi motori non appena iniziò un crescendo nella canzone.
Il rombo dei reattori a fusione coprì tutto per diversi istanti.
L’indicatore della velocità rimase per qualche istante ostinatamente bloccato sullo zero, poi finalmente iniziò a salire.
La vampata generata dai reattori ridusse in polvere tre Sintetici che avevano raggiunto l’interno.
Quando sarebbe stato più in alto, aveva calcolato, i suoi scarichi avrebbero distrutto tutta Houston, e con essa il resto della Resistenza di quell’emisfero.
Lo shuttle si era sollevato di pochi metri quando un urto percorse la carlinga e la sirena dell’allerta danni lanciò tre rauchi segnali.
Sullo schermo su cui campeggiavano le sezioni verticali e orizzontali della nave, uno dei secondi motori iniziò a lampeggiare di rosso.
Colpito e distrutto, lo shuttle era senza scudi elettromagnetici. Imprecò. Avrebbe dovuto tenersi per un po’ più di tempo il peso allucinante dei primi motori.
La velocità continuò a crescere sempre più rapidamente ed in pochi istanti la parte bassa dell’ammasso di rottami lasciò Houston, che rimase avvolta nella vampata generata dai motori.
La luce blu pallido degli scarichi illuminò la distesa di macerie in un raggio di un paio di miglia.
Non c’erano occhi a beneficiarne, nessuno a chiedersi quale forma di elettricità fosse sopravvissuta per produrre quella luce.
Nessun occhio umano.
Lo shuttle attirò invece su di se’ l’attenzione di sessanta-settanta Sintetici, aventi l’unico scopo di eliminare qualsiasi forma di tecnologia non-biologica.
Le fiammate dei propulsori si accesero ovunque intorno allo Shuttle che saliva rapido.
 
Imprecò. Il numero dei contatti Sintetici crebbe da sedici a quarantadue in pochi secondi, in altrettanti salì a settantacinque.
E tutti scattarono a grande velocità verso il centro dello schermo.
Lo shuttle non aveva nessuna forma di difesa, e paragonato ai caccia Sintetici era rapido e sfuggente quanto un pachiderma.
Sostanzialmente, se tutti quei contatti l’avessero raggiunto, sarebbe stato fottuto.
Si concentrò sulla sua destinazione, il centro dei Collettori, la nave Sintetica che nessuno aveva un’idea precisa di cosa fosse o come chiamarla, l’unica cosa certa era che il suo scopo era di fare a pezzi i pianeti.
Ma non quello.
Non il suo pianeta, non l’ultimo pianeta libero.
Spread our codes to the stars, you must rescue us all.
Ci avevano girato intorno a terra più volte, per capire da dove fosse più sensato attaccare, e avevano trovato un anello di varchi nella struttura centrale, vagamente somiglianti agli accessi degli hangar delle vecchie navi da guerra.
Il grappolo di testate nucleari che trasportava non aveva propulsione, quindi sarebbe dovuto entrare per sganciarlo e causare dei danni.
E uccidersi.
Era tempo di prendere il timone.
Il sistema di pilotaggio era molto essenziale: un joystick connesso ai timoni di tutti e otto i motori, sulla cui punta c’era un singolo bottone, realizzato con un indefinito pezzo di plastica, per lo sgancio delle testate.
Impugnò il joystick e lo spinse lentamente in avanti.
Non avevano mai fatto test, non aveva idea dell’esattezza dei suoi calcoli e non poteva sapere come avrebbe influito sul comportamento dello shuttle la perdita di uno dei motori.
Inaspettatamente, il muso si abbassò lento finché non si ritrovò a puntare verso il suo obiettivo, un po’ spostato verso destra. Aggiustò la rotta inclinando il joystick, ancora una volta il velivolo si comportò bene.
Era quasi sul punto di rilassarsi, quando si rese conto di stare perdendo quota.
I primi motori erano troppo pesanti perché lo shuttle potesse reggerli, come aveva previsto.
Li spinse al massimo della potenza e alzò l’angolo d’attacco, vedendo un fascio di elettroni passare a pochi metri dalla carlinga. Un altro dei secondi motori prese a lampeggiare di giallo, era stato sfiorato. Contemporaneamente, per qualche motivo a lui ignoto, riprese a gracchiare anche l’allarme danni al primo motore. Il tutto si fuse con le note dell’ignota canzone.
Attese che il carburante dei primi motori rasentasse lo zero, quindi premette il tasto di espulsione.
I ganci che vincolavano i quasi ottanta metri di motori al corpo centrale si ritrassero come dovevano e tutti e quattro gli scarichi precipitarono al suolo.
Lo shuttle cessò di perdere quota e la velocità aumentò bruscamente.
Quando un nuovo raggio gli passò a poca distanza, decise che era il momento di darsi al volo attivo, se voleva arrivare vivo alla sua meta.
Un tempo era stato il più grande pilota della Galassia.
Ma ora aveva centosessant’anni ed era al comando di un ammasso di ferraglia danneggiato.
-Meglio della tecnologia Kolbat- Si disse, iniziando a cimentarsi in una serie di manovre evasive, sempre senza perdere di vista il suo obiettivo.
Le vecchie abitudini sono dure a morire, pensò, constatando che ora vedeva chiaramente cosa ci fosse dentro l’apertura e non era stato ancora colpito.
Il suo ottimismo svanì quando l’esplosione del motore colpito fece ribaltare lo shuttle e spinse il muso verso il basso, verso il margine inferiore della struttura sospesa.
Non sarebbe riuscito a distruggerla se si fosse schiantato lì.
Fottuto ammasso di rottami pirofilo.
Tre o quattro allarmi presero a suonare contemporaneamente, tra cui l’allarme incendio.
Perfetto, se si fosse espanso tutto il velivolo sarebbe esploso ed il pianeta sarebbe stato condannato.
Doveva liberarsi del motore danneggiato, e ciò poteva essere un problema visto che non aveva progettato nessuno dei secondi motori per essere espulso.
Prima ancora che iniziasse ad elaborare soluzioni, realizzò che la più pratica ce l’aveva davanti.
Sarebbe bastato grattare via il motore, farlo urtare contro il margine della struttura.
Sarebbe anche potuto esplodere tutto lo shuttle, ma almeno avrebbe provato a risolvere il problema.
Inoltre la manovra avrebbe dovuto essere perfetta, non avrebbe dovuto impattare ne’ troppo, schiantandosi, ne’ troppo poco, scalfendo appena il motore, e poi avrebbe dovuto lanciarsi in una cabrata ai limiti del possibile.
Che si fotta tutto questo, io sono Thyl Ketrld.
Puntò poco sotto il margine e si preparò all’impatto
In mezzo agli allarmi, percepì vagamente le parole della canzone che proseguiva.
Tell us, tell us your final wish, now we know you can never return.
Non sarebbe tornato. Non aveva un ultimo desiderio se non quello per cui stava lottando in quell’istante, la libertà di quell’ammasso di roccia fluttuante in un angolo sperduto della Galassia.
Aggiustò leggermente la rotta ed il motore in fiamme si schiantò contro il margine dell’aeronave organica.
Pensò che l’impatto l’avrebbe strappato al sedile, invece le cinture resistettero. Il motore fu strappato al modulo di pilotaggio ed esplose poco dopo, prima di schiantarsi a terra.
La collisione tirò il muso dello shuttle in alto, verso il centro della nave.
Il suo obiettivo.
La cosa sferica non meglio precisata che produceva il raggio che faceva i pianeti a brandelli.
Quella sarebbe stata la prima ad essere fermata prima di poter fare il suo lavoro.
Nel mezzo degli allarmi, aumentati di numero ed intensità dopo la collisione e le note appena udibili, portò al massimo la potenza dei motori residui e portò il muso in verticale.
Ed in quell’istante rimase abbagliato dalla luce che proveniva dall’obiettivo.
Quella cosa stava per attivarsi.
Probabilmente, grazie a qualche ignota forma di radar, aveva rilevato il carico dello shuttle.
Se si fosse attivata, sarebbe stato inevitabilmente ridotto in briciole.
Sfortunatamente, non poteva fare altro che sperare che i motori reggessero alla cabrata verticale, che procedette con velocità esasperante.
Il velivolo si fermò a qualche metro dalla sfera.
Abbandonò i comandi e si lasciò cadere sulla sedia, coprendosi gli occhi per evitare di rimanere accecato dal generatore di qualcosa.
Spostò la leva che innescava le testate.
-Neanche i Siriani riusciranno mai a creare qualcosa di perfetto- Valutò, sapendo che da lì a poco l’arma che avrebbe dovuto fargli vincere la guerra sarebbe andata in pezzi.
E lui con essa.
 
Il ronzio acuto del raggio fu accompagnato da sei rapidi scoppi.
Intaccò la superficie per due secondi.
Dopodiché s’interruppe, e la compressione dell’aria mandò in frantumi il cannone.
Subito dopo, la nave fu avvolta dalla vampata, una nube di fiamme rosse alla temperatura di qualche migliaio di gradi, che si estese ai collettori circostanti nel raggio di duecento-trecento miglia.
I collettori più distanti dall’esplosione ruppero i collegamenti con quelli contigui, disorientati dall’onda d’urto, per non precipitare, e lasciarono l’atmosfera, seguiti subito dopo dai caccia, ritrovatisi privi della loro fonte di energia.
I Sintetici privi di assetto aereo rimasero sulla superficie, e quelli che non morirono riducendosi ad una pozza blu maleodorante furono eliminati dagli ultimi grappoli di resistenza dell’emisfero sud.
 
Restò fermo nell’armatura di sensori che comandava l’ATF, a fissare attraverso l’immagine scolorita e traballante trasmessagli dalle telecamere sulla testa del robot i Collettori lasciare l’atmosfera e scomparire nel cielo violaceo.
Quando attraverso i microfoni logori gli arrivò nelle orecchie un tonfo alle sue spalle, disattivò l’armatura ed il robot si inginocchiò. Una volta che ebbe assunto una posizione stabile, sgusciò fuori dal modulo di controllo ed entrò nel condotto di accesso, e da lì uscì all’esterno, sulla testa di Wanebringer.
L’aria era ancora troppo sottile e aveva uno sgradevole sapore amaro, ma il cielo era sgombro.
Si voltò verso l’origine del rumore, e vide un altro ATF inginocchiarsi a poca distanza dal suo. Poco dopo, da un portellone sul lato della testa uscì lei.
-Ce l’ha fatta…- Disse, urlando, per farsi sentire dalla distanza che li separava.
-Mio padre è Thyl Ketrld, non c’è niente che non possa riuscire a fare-
-Cosa facciamo ora?-
-Ora sappiamo come abbatterli. La Resistenza non può essere circoscritta a questo pianeta, le forme di vita biologiche non possono essere state distrutte in tutta la Galassia. Dobbiamo solo trovarle-
-E come conti di farlo?- Thyl batté una mano sulla placca di metallo che copriva la testa di Wanebringer.
-Questo, mio padre non l’ha costruito per avere un diversivo mentre faceva il suo ultimo volo di gloria. E neanche quello- Urlò, indicando l’ATF rosso su cui sedeva lei.
-Non possiamo vincere questa battaglia, Thyl- Rispose, dopo una lunga pausa di silenzio passata a contemplare l’alba che si stava levando.
-Forse hai ragione-
-Quei cosi sono dappertutto, in ogni angolo della Galassia, e possono riprodursi all’infinito. Possono costruire pianeti artificiali-
-Hai ragione, queste cose le ho viste. Ma se devo soccombere agli strani-ibridi-tra-macchine-e-umanoidi, voglio farlo da umanoide libero. La mia vita se la prenderanno prima o poi, ma non la mia libertà-
-Sono con te- Entrambi rimasero a lungo il silenzio, contemplando l’astro maggiore che si alzava dall’orizzonte. Una leggera brezza prese a spirare, scompigliandole i capelli fradici.
-Verso le stelle?- Chiese, infilandosi nel portellone.
-Verso le stelle. Quelle non organiche, però- Urlò lei di rimando, entrando nella testa del robot e chiudendosi la paratia alle spalle.
 
Poco dopo, i due esoscheletri lasciarono l’atmosfera, lasciandosi dietro una scia di residui di combustione che in breve tempo si disperse.
 

Spread, our codes to the stars, you must rescue us all
Spread, our codes to the stars, you must rescue us all

Tell us, tell us your final wish!
Now we know, you can never return

Tell us, tell us your final wish!
We will tell It to the world

 
Exogenesis- Symphony Pt. 2, Muse, The Resistance (2009)
 
Si tratta della prima storia che scrivo basandomi su una canzone (anche se tutto sommato il testo non è così presente ne’ così determinante). L’ho scritta sostanzialmente perché questo testo è completamente diverso da qualsiasi altro io conosca, e ritengo che meritasse queste sei pagine.
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: Talesteller