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Autore: Enrychan    16/03/2012    5 recensioni
Suo padre sospirò. Sollevò la mano destra di Sef e l’appoggiò sul proprio petto. «Sai cosa c’è qui, Sef?»
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Altro personaggio, Malik Al-Sayf
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sef aveva solo cinque anni, ma non era stupido. Sapeva riconoscere quella piccola puntura interiore che avvertiva quando sapeva di avere combinato qualche guaio e di essersi meritato un rimprovero. La mamma una volta gli aveva spiegato che si chiamava “voce della coscienza” e che seguirla in genere poteva rivelarsi una buona idea.
Ma in questo caso la voce della sua coscienza taceva, e Sef interpretava quel silenzio come una rassicurazione. Questa volta non aveva fatto proprio niente di male – se escludeva il fatto di essere poi corso a nascondersi nella legnaia, azione sulla quale la sua coscienza sembrava in effetti avere qualcosa da ridire; specialmente dopo non esserne uscito per tanto tempo (Sef era ancora troppo piccolo per quantificarlo con esattezza). Ma il bambino rimetteva immediatamente a tacere ogni piccolo accenno di rimorso con quell’unico pensiero: no, questa volta non aveva fatto niente di male, si sentiva offeso e non voleva più rivedere il suo papà, mai più.
Mentre riformulava quest’ultimo pensiero per l’ennesima volta, gli sorsero due grossi lacrimoni negli occhi e dovette scacciarli con un’energica strofinata del braccio sporco di terra. Sef tirò sonoramente su col naso e per distrarsi si mise a dare la caccia ad una cavalletta che saltellava da una pila di ciocchi all’altra. Era agile e svelta, ma anche Sef lo era e in breve riuscì a rinchiuderla in un angolo e a catturarla tra le piccole mani nervose. Si sentiva adirato e vendicativo, quindi le torse una delle lunghe zampe posteriori e gliela staccò. Poi la lasciò libera e la osservò mentre cercava inutilmente di saltare con una sola zampa, riuscendo soltanto a trascinarsi in cerchio.
Sef si chiese se il suo papà si fosse almeno accorto della sua assenza fino a quel momento. Ma in fondo non importava davvero che l’avesse notata o meno, perché il papà aveva sempre preferito Darim a lui, quindi forse non si era nemmeno dato pena di venire a cercarlo. Lo avrebbe fatto sicuramente per Darim, ma non per Sef.
Darim era migliore di lui in tutto. Superava tutti gli altri ragazzini sia nell’uso della spada che della lama corta; e anche gran parte degli adulti quando si trattava di tirare con l’arco o di scagliare i pugnali da lancio. Come se non bastasse era praticamente il capo indiscusso tra quelli della sua età, nonostante non fosse affatto il più forte fisicamente. Aveva un modo di imporsi che quasi ti costringeva a starlo a sentire e a fare quello che voleva lui, anche quando significava superare una qualche pericolosa prova di coraggio o causare un guaio e attirarsi le punizioni.
Sef era ancora troppo piccolo per cimentarsi nelle prove di coraggio, e in ogni caso non si sentiva affatto spavaldo e sicuro come il fratello maggiore. Gli piaceva di più guardare le figure dei libri. Zio Malik aveva cominciato a insegnargli a leggere più di un anno prima e adesso Sef riusciva a capire quasi tutto quello che trovava scritto, a parte le parole veramente difficili. Ma era sicurissimo che al papà non interessassero i suoi progressi in fatto di libri. Gli sembrava di gran lunga più orgoglioso quando Darim centrava perfettamente il bersaglio o riusciva ad atterrare un avversario nel cerchio d’addestramento.
Non che fosse facile capire quando il papà era contento di qualcosa. Era invece facilissimo capire quando era arrabbiato: la sua voce e i suoi occhi diventavano freddi come il ghiaccio e sembravano volerti fulminare lì dove stavi. E questo era proprio ciò che era avvenuto quel pomeriggio, per motivi che Sef non riusciva ancora a comprendere.
Ripensando all’accaduto, il bambino avvertì un’altra ondata d’ira montargli alla testa. Stanco di guardare la cavalletta zoppicare, l’afferrò di nuovo, la voltò sottosopra e le incise il piccolo corpo con una scheggia di legno affilata. Prima di morire, per qualche secondo l’animaletto agonizzante agitò spasmodicamente le zampe e le antenne. Infine si rilassò e rimase immobile tra le dita di Sef.
Il bimbo continuava a sentirsi confuso. Abbas gli aveva parlato pochissime volte fino ad allora, ma era sempre stato gentile con lui e non gli aveva mai fatto niente di male. Perché papà si fosse arrabbiato tanto con entrambi, quel pomeriggio, rimaneva un mistero. È vero che Sef era stato avvertito molte volte di non dare confidenza ad Abbas. Quindi, a voler essere precisi, aveva disobbedito alle raccomandazioni. Ma per prima cosa Abbas aveva voluto soltanto aiutarlo a completare la sua collezione di tesori, il che non sembrava affatto un’azione malvagia; e per seconda cosa era stato lui a rivolgergli la parola per primo, e non Sef ad andarlo a cercare.
Era accaduto sulla terrazza superiore dei giardini pensili, vicino alla balaustra. Sef stava raccogliendo i sassi coi colori più belli e le forme più interessanti che riuscisse a trovare, quando improvvisamente qualcosa gli aveva schermato la luce del sole e aveva gettato una grande ombra sul terreno dove Sef si trovava accovacciato. Il bambino aveva alzato lo sguardo e si era trovato davanti Abbas. L’uomo non era più alto di suo padre, però aveva una corporatura più massiccia, due spalle che a Sef sembravano quelle di un gigante e una barba nera un po’ inquietante.
«Salām, piccola aquila», lo aveva salutato lui, in tono cortese.
«Non sono piccolo», aveva risposto Sef, indispettito. Non era la prima volta che veniva chiamato così, e come nomignolo non gli piaceva affatto. «Baba mi ha detto di non parlare con te».
Abbas aveva ridacchiato, come se la cosa lo divertisse molto. «Guarda quanti bei sassi», aveva subito cambiato argomento, riferendosi alla piccola pila di ciottoli che Sef aveva già trovato e messo da parte.
«Sono miei», aveva dichiarato Sef, ancora sulla difensiva. «Li ho trovati io».
«Tranquillo. Non voglio rubarteli».
«Allora va bene».
«Ma scommetto che nessuno dei tuoi è bello quanto il mio». Abbas aveva estratto da una tasca del cinturone una piccola pietra a striature bianche e dorate, la cui grana aveva scintillato non appena era stata colpita dai raggi solari. Sef era rimasto a bocca aperta. Che invidia! A lui non era mai capitato di trovare una pietra così bella. Si era alzato in piedi ed aveva allungato la mano per raggiungerla. Abbas prima aveva finto di volerla togliere dalla sua portata, poi aveva riso della sua delusione e aveva abbassato la mano per permettergli di prenderla.
In quel momento però era accaduto qualcosa di inaspettato. All’improvviso Sef aveva udito la voce dello zio Malik gridare «Altaïr!». Nello stesso istante il padre di Sef si era già frapposto tra lui e Abbas e aveva allontanato violentemente quest’ultimo con una spinta. La pietra dorata era volata via ed era caduta lontano, tra l’erba. La figura di suo padre troneggiava su Sef e sembrava perfino più grande e alta del solito, come se fosse stata una delle possenti torri di Masyaf.
«Che cosa vuoi, Abbas?», aveva ringhiato. «Mi sembrava di averti ordinato di stare lontano dai miei figli».
Abbas si era già riavuto dalla sorpresa e dall’urto. Il suo sguardo, che prima a Sef era parso così amichevole, ora scintillava di derisione e faceva paura. «Chiedo scusa, Maestro», aveva detto con un tono sprezzante. «Non avevo cattive intenzioni. Non è vero, Sef?»
Altaïr aveva serrato i pugni. «Forse una trentina di frustate sulla pubblica piazza ti aiuterebbero a rispettare la disciplina».
«Altaïr, calmati», si era intromesso lo zio Malik.
Sef aveva deciso che era ora di intervenire. «Baba», aveva detto con aria perplessa, tirando una delle falde della tunica nera del padre. «Non trattarlo male. Non ha fatto niente».
Ma lui non si era nemmeno voltato a guardarlo. Aveva continuato a fissare Abbas con la benevolenza che si riserva ad una serpe velenosa. Abbas invece aveva rivolto un sorriso al bambino. Poi era tornato a guardare Altaïr, aspettando la sua decisione.
«Levati dai piedi, Abbas», aveva scandito infine quest’ultimo. «Stai lontano dai miei figli. Dimenticati della loro esistenza. Ti avverto. La prossima volta non sarò altrettanto tollerante».
L’altro si era inchinato. «Ai tuoi ordini, Maestro», aveva detto. Poi aveva voltato i tacchi e si era allontanato senza aggiungere altro.
Solo quando fu scomparso dalla loro vista Altaïr si era finalmente rivolto al figlio. «Cosa ti avevo detto riguardo ad Abbas?», aveva sbottato aspramente. Aveva ancora tanto odio negli occhi, che Sef se ne sentì gelato. Nonostante questo, si sentiva offeso ingiustamente e quindi si era sforzato di non abbassare lo sguardo.
«voleva solo regalarmi una cosa», aveva replicato, imbronciato. «Non è cattivo».
«Cosa ti avevo detto riguardo ad Abbas?», aveva insistito il padre, severo. «Ripetimelo, Sef».
Il bambino aveva pestato un piede a terra per la collera. «Abbas non è cattivo», aveva gridato. «Tu lo sei!»
Malik aveva appoggiato una mano sulla spalla di Altaïr. «Basta», aveva detto con fermezza. «Ha cinque anni. Non puoi pretendere che riconosca il pericolo rappresentato da Abbas».
Altaïr si era scrollato di dosso la mano di Malik. «Non pretendo che lo riconosca. Pretendo che faccia ciò che gli viene detto», aveva replicato. Poi si era rivolto di nuovo a Sef. «Ti proibisco di parlare con Abbas. Non devi nemmeno avvicinarti a lui. Hai capito?»
«Io non ho fatto niente», aveva balbettato Sef, sulla soglia delle lacrime. «Tu mi sgridi, ma io non ho fatto niente».
«Sto parlando sul serio, Sef», aveva detto suo padre, addolcendo il tono. «Abbas non è tuo amico».
«Sei sempre arrabbiato con me», aveva gridato Sef, scoppiando in lacrime. «Non ti arrabbi mai con Darim. Sempre e solo con me! Anche quando non ho fatto niente!»
«Non sono arrabbiato», aveva risposto suo padre. «Cerca di capire…», aveva aggiunto allungando una mano per accarezzargli i capelli, ma Sef gli si era sottratto violentemente. Con uno scatto rabbioso aveva dato un calcio alla pila dei sassolini colorati, che erano schizzati in ogni direzione. Poi era fuggito via a gambe levate, un po’ perché si sentiva infuriato, un po’ per evitare la punizione che probabilmente gli sarebbe toccata per il suo comportamento indisciplinato. Era uscito dal castello e per un po’ aveva girovagato tra la gente e le case del villaggio. Ma Sef sapeva che anche lì qualcuno lo avrebbe presto riconosciuto e riconsegnato a suo padre, quindi aveva deciso di trovare un nascondiglio più adeguato e aveva finito per scegliere il magazzino dove veniva conservata la legna per l’inverno.
Era stato divertente soltanto all’inizio. Nella legnaia non c’era niente a parte le pile di ciocchi, e presto Sef aveva iniziato ad annoiarsi a morte. Con il calare del buio cominciava a fare anche piuttosto freddo.
Ormai il bambino quasi desiderava che suo padre lo trovasse. Probabilmente sarebbe stato punito, ma almeno dopo avrebbero fatto pace. Ma forse a suo padre non interessava fare pace con lui. Forse non aveva nemmeno provato a cercarlo. Anzi, magari era contento che Sef si fosse finalmente tolto dai piedi.
La vista del piccolo si rifece tutta sfocata e tremolante per qualche istante, finché un paio di grosse lacrime rotonde non caddero giù dalle sue palpebre e bagnarono il pavimento di terra battuta. Il bambino tirò di nuovo su col naso e, non avendo niente di meglio da fare, si diede a sezionare la cavalletta. All’improvviso però Sef ebbe un sussulto: la porta della legnaia aveva cigolato. Per un attimo il bimbo pensò di correre a nascondersi in un angolo; invece rimase immobile non fece altro che alzare gli occhi, in un misto di timore e di speranza.
«Ah, ti ho trovato», disse Malik, entrando nella legnaia e rivolgendogli un sorriso. «Non è un po’ tardi per giocare a nascondino?»
Deluso, Sef abbassò lo sguardo. «Non sto giocando a nascondino», rispose con aria offesa.
Lo zio Malik gli si avvicinò e si accovacciò di fronte a lui. «Che stai facendo?», chiese, riferito all’insetto morto.
«Sto guardando com’è fatta dentro», rispose Sef. Fece per compiere un’altra incisione sull’addome della cavalletta, ma Malik lo fermò e gli tolse il frammento di legno dalle dita. La mano di Sef sembrava minuscola in confronto alla sua.
«Puoi farti male con questa», gli spiegò Malik, gettando via la scheggia lignea. «Se ti interessa vedere come gli organismi sono fatti dentro, possiamo studiarli insieme. Però taglio io. Ti va?»
Sef assunse un’espressione corrucciata. «Baba non fa mai niente con me. È cattivo».
Malik gli arruffò i capelli. «è solo molto impegnato, Sef».
«No. Non mi vuole bene e basta. Vuole bene solo a Darim, perché è più bravo».
«Il papà può seguire solo raramente le nostre lezioni. Ma pensaci bene. È forse lui che segue gli allenamenti di Darim?»
Sef ci pensò su un attimo. «No», rispose poi onestamente. «è Rauf».
«Credi per questo che non voglia bene a Darim?»
Sef scosse la testa con decisione. Poi si rimise a piagnucolare, perché aveva capito cosa lo zio intendesse dire.
«Torniamo a casa?», chiese Malik, e Sef fece cenno di sì con la testa. Nonostante lo zio Malik avesse un braccio solo lo sollevò con estrema facilità, come se fosse stato un fuscello. Uscirono dalla legnaia e si avviarono verso il castello. Fuori il rosso del tramonto stava gradualmente trascolorando verso il blu della notte e il villaggio era meno animato di prima. Alcune luci brillavano dentro le casette di fango e paglia e da qualche parte un cane abbaiava alla luna.
«Perché il papà non è venuto a prendermi?», chiese Sef, la testa appoggiata nell’incavo della spalla dello zio. Iniziava a sentirsi estremamente stanco.
«Non ha fatto altro che cercarti, Sef», rispose Malik. «Hai fatto preoccupare sia il papà che la mamma».
«Però mi hai trovato tu».
«Mi sono fatto dire tutti i tuoi nascondigli preferiti da Darim».
«Darim è un traditore!»
Malik scoppiò a ridere. «L’ho dovuto minacciare di una settimana di reclusione».
Sef sembrò ripensarci. Dopotutto una settimana di reclusione era una punizione piuttosto severa. «Allora ne troverò degli altri più difficili», concluse infine, e sbadigliò.
Era già mezzo addormentato quando giunsero all’ingresso principale del castello. Si risvegliò in parte quando avvertì che lo zio l’aveva passato nelle braccia di qualcun altro. Non dovette nemmeno aprire gli occhi per sapere che si trattava di suo padre, perché riconobbe all’istante l’odore della sua pelle, e subito dopo sentì la sua voce bassa accanto al proprio orecchio. «Grazie, Malik».
«Dovere, fratello».
«Anch’io ti ringrazio», disse la voce un po’ tremante della mamma. «Ancora poco e avrei potuto uscire di testa. Guarda com’è ridotto. Dovrebbe fare un bagno prima di dormire».
«Sta già dormendo», replicò Altaïr. «Vuoi svegliarlo?»
«E tu? Vuoi metterlo a letto in queste condizioni?», rispose la mamma. Dal suo tono aggressivo Sef capì che avevano litigato, e si sentì in colpa.
«Me ne occupo io» tagliò corto suo padre, conducendolo all’interno.
«Scusami, baba», mormorò ad un certo punto Sef, dispiaciuto. «Sei arrabbiato?»
«No, najmee», rispose dolcemente Altaïr. «Ma non scomparire mai più».
Rassicurato, Sef si riaddormentò sulla sua spalla e si risvegliò solo per metà quando avvertì qualcosa di umido scorrere sulle sue mani. Aprendo gli occhi si accorse che era un  panno bagnato. Suo padre gli stava pulendo le braccia dalla terra e dalla polvere raccolti prima nei giardini pensili e poi nella legnaia. Adesso Sef era disteso a letto, e girando la testa intravide la sagoma di Darim, già profondamente addormentato.
«Papà, senti» mormorò. «Sono solo un fastidio per te?»
Suo padre si bloccò per un attimo. «Come ti è venuta in mente un’idea simile?»
«Qualche volta mi sgridi, ma non capisco perché».
«Ascolta, Sef», disse Altaïr dopo una breve pausa. «Una volta io e Abbas eravamo molto amici. Ma un giorno abbiamo litigato».
«Anche io e Darim litighiamo», intervenne il bambino, orgoglioso di poter avvicinare la propria esperienza a quella del padre.
«Il nostro litigio è stato diverso dai vostri. Un po’ più serio. Abbas mi odia ancora per questo. Potrebbe decidere di fare del male a te o a Darim per colpire me indirettamente. Capisci quello che voglio dire?»
Sef ripensò allo sguardo pieno di feroce derisione che Abbas aveva lanciato a suo padre, quel pomeriggio. «Sì, ho capito», rispose, anche se non era affatto sicuro di comprendere come un semplice litigio potesse avere conseguenze così importanti. Lui e suo fratello non facevano altro che litigare, ma poi non finivano per odiarsi davvero.
«Per questo non voglio che lui si avvicini a te, o tu a lui», concluse Altaïr. «D’ora in poi togliti dalla testa l’idea che tu sia un fastidio per me, o qualunque altro pensiero di questo tipo».
«Però vuoi più bene a Darim che a me?», chiese il bambino. Anche se la spiegazione dello zio Malik lo aveva convinto, voleva esserne sicuro.
«Perché pensi questo, Sef?»
«Perché Darim è più bravo di me».
«è solo più grande. Lo raggiungerai presto. E poi lui non riusciva a leggere i libri difficili a cinque anni».
«No?»
«No».
«Tu sei contento se io ci riesco?»
«Lo sono», rispose Altaïr. «Ma non devi imparare le cose per guadagnarti il mio affetto, najmee. È già tuo».
«E non ne hai di più per Darim?»
Suo padre sospirò. Sollevò la mano destra di Sef e l’appoggiò sul proprio petto. «Sai cosa c’è qui, Sef?»
«Il cuore», rispose prontamente il bambino. «Si ferma solo quando la persona muore, e ci sono dentro i sentimenti. Me l’ha detto lo zio». Gli faceva un’impressione strana ma piacevole sentire il battito del cuore del suo papà sotto il proprio palmo.
Altaïr annuì. «Credi che potresti tagliare in pezzi il mio cuore senza uccidermi?»
Per un attimo Sef si bloccò, insicuro sulla risposta da dare. Zio Malik non aveva mai parlato delle conseguenze di tagliare un cuore in pezzi. «Penso di no», rispose infine.
«Esatto. Non puoi separare la parte del mio cuore che contiene il mio amore per te, o quello per Darim, o quello per la mamma. Ognuno di voi lo possiede tutto quanto».
Sef ne rimase sbalordito. «Tutto quanto?»
«Tutto quanto», confermò suo padre. «Pensaci bene la prossima volta che ti verrà in mente di scomparire, o magari di provare a fare qualcosa di ancora più stupido. Pensa che possiedi il mio cuore e quello della mamma, e che sono entrambi sotto la tua responsabilità».
Sef annuì. Non capiva bene il meccanismo, ma gli sembrava un compito molto importante. «Ci starò attento», promise seriamente.
Suo padre gli posò un bacio sul dorso della mano e un altro sulla fronte. «Adesso dormi», gli disse. «Tesbah ala kheer, habibi».
Ciò che suo padre gli aveva detto quella sera lo cullò nel sonno e lo accompagnò per qualche settimana o forse per qualche mese, prima che il dubbio ricominciasse ad annidarsi tra le pieghe della sua coscienza. Sef aveva solo cinque anni e non poteva immaginare quale baratro incolmabile quel singolo dubbio avrebbe finito per scavare tra lui e suo padre, lento e inesorabile come l’Oronte incide il suo letto nella dura roccia delle montagne. Non poteva sapere con quale rancore e quale invidia segreta avrebbe salutato suo padre, quand’egli sarebbe partito con sua madre e con Darim ma non con lui, nell’ultimo giorno in cui si sarebbero scambiati uno sguardo in questa vita.
Eppure ciò che suo padre gli aveva detto quella lontana sera di tanti anni prima gli sarebbe tornato all’improvviso alla mente, nel momento stesso in cui la lama di Swami gli avrebbe trapassato il petto e spaccato il cuore. «Ringrazia tuo padre per questo», gli avrebbe sussurrato l’infame all’orecchio. «è stato lui a volere la tua morte». E per un breve, infinito istante Sef avrebbe avuto la tentazione di crederci.
Poi come nello spazio di un lampo avrebbe ricordato la propria piccola mano premuta sul cuore pulsante di suo padre. Sai cosa c’è qui, Sef? gli avrebbe chiesto di nuovo una voce vecchia di decenni.
Sef avrebbe alzato lo sguardo a incontrare quello gelido di Abbas. E avrebbe riso.
 


















Note
Per prima cosa voglio scusarmi per la lentezza con cui (non) sto aggiornando la fanfic precedente a questa. Il motivo è molto semplice: il lavoro mi porta via quasi tutto il mio tempo, e quando finalmente ho finito è sempre sera tardi, sto dormendo in piedi e non riesco a concentrarmi sul foglio da scrivere. Cercherò di aggiungere il nuovo capitolo prima possibile! :)
Per questa breve fic ho cercato di eliminare quanto più possibile i termini "difficili" o troppo "adulti", poiché il punto di vista è quello del piccolo Sef. Gestire un personaggio bambino è veramente molto difficile. Per il suo comportamento mi sono basata sulle impressioni e i (rari) ricordi che mi sono rimasti di me stessa a quell'età, ma non pretendo di avere fatto un lavoro accuratissimo dal punto di vista della psicologia infantile. Spero risulti comunque accettabile.
Baba in arabo significa ovviamente "papà".
Salām è la classica forma di saluto.
Najmee significa "mia stella".
Tesbah ala kheer significa "buona notte".
Habibi è la parola più diffusa con cui ci si rivolge all'oggetto del proprio affetto. Detto da una donna ad un uomo (perché se è il contrario, la parola è habibti o habeebti) può significare amore romantico, ma viene impiegata anche tra genitori e figli.
Ed ultima nota ma non ultima per importanza: può una persona sopravvivere per qualche secondo e addirittura ridere, con il cuore trapassato? Risposta: no. Ma mi serviva per l'effetto drammatico, quindi chiamiamola pure licenza poetica!
   
 
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