Disclaimers: Sherlock
appartiene ad Arthur Conan Doyle, alla BBC e a
Moffat/Gatiss.
Dell'angst che ha generato, invece, mi assumo io la
maternità.
Avvertenze:
(sì, come i bugiardini delle medicine). Sono giunta alla
conclusione che “The Reichenbach Fall” fa male,
tanto male: ogni volta che la
guardo, ci trovo nuovi spunti di angst. Il risultato è
questo concentrato di
saudade e depressione, con (forse) appena un accenno di bromance,
linguaggio a
tratti scurrile, ma nulla che sconfini dal giallo.
IT’S
TOO LATE TO
APOLOGIZE
Porte
sbattute, piatti infranti ed un’irata sequela di
quelli che han tutta l’aria di essere pesanti improperi in
arabo costituiscono
la sveglia odierna di John.
Con un gemito di disappunto l’uomo nasconde la testa sotto
il cuscino, pregando che Morfeo lo riaccolga subito tra le sue braccia,
senza
dare tempo alla sua coscienza di riemergere dalle nebbie del
dormiveglia,
desideroso solo di sprofondare nuovamente in un nero oblio privo di
sogni.
Ma i vicini pakistani del piano di sopra non sembrano
essere dell'avviso di farlo dormire in pace: il patriarca esce di casa
stando
bene attento a sbattere la porta il più forte
possibile e a pestare con
altrettanta violenza ogni singolo gradino delle scale, inseguito dalle
urla di
quella virago della moglie e dal pianto isterico del loro terzogenito
aggrappato alla gonna della madre.
John calcia via le coperte con una imprecazione stizzita e
si tira a sedere sul letto. Si stropiccia la faccia, apre gli occhi, li
chiude
infastidito e poi li riapre di nuovo.
E’ un triste rituale che ripete ogni giorno, un meccanismo
folle nel quale la sua mente pare essersi inceppata.
Perché è folle pensare di chiudere gli occhi e
riaprirli
nel suo
nel loro
appartamento
di Baker Street.
Ma il panorama attorno lui non è mutato, non muta mai.
E’
sempre nel piccolo monolocale a Brixton, quaranta iarde quadrate
compreso il
bagno [1]. L’unica finestra della stanza non chiude bene, il
vetro ha
un’incrinatura che lo attraversa per intero, rappezzata alla
meno peggio con
del nastro adesivo da imballaggio, il linoleum ha un colore indefinito,
tanto è
vecchio e stinto, il lavello di ghisa è sbreccato in
più punti ed è colmo fino
all’orlo di stoviglie sporche.
Da quanti giorni non le lava?
Che giorno è oggi?
E' domenica.
John odia la domenica, più degli altri giorni, se
possibile. Perché di domenica l'ambulatorio dove lavora
è chiuso e non c'è
nulla che gli occupi la mente.
Non c'è nulla che gli riempia la giornata.
Non c'è più nulla che riempia la sua vita e quel
monolocale non è casa, è solo un posto dove
dormire al riparo delle intemperie
e, semplicemente, è meglio del sedile posteriore di
un’auto o di un rifugio per
senzatetto.
Ma comunque John si alza, si lava, si rade e poi si occupa
dei piatti abbandonati nel lavandino.
“John,
potresti
sgomberare il lavandino? Mi serve per un esperimento.”
“Sherlock, vorrei
farti notare che io ieri ho pulito il bagno, dei piatti potresti
occuparti tu.”
“No, non posso, sono
impegnato in un esperimento.”
“Ogni tanto ho il
terribile sospetto che tu mi prenda in giro.”
E’
sempre un ricordo o un pensiero di Sherlock che
permette a John di alzarsi, di tirare avanti in qualche modo ed
arrivare a
sera.
I
believe in Sherlock Holmes.
Your
presence still lingers here and it won't leave me alone
I bambini del
piano di sopra non smettono di piangere e il
vecchio dell’appartamento di fianco ha alzato al massimo il
volume del
televisore. E’ insopportabile, e prima che sia vinto
dall’impulso di prendere a
calci la porta dei vicini ed urlare loro di fare silenzio, afferra la
giacca ed
esce.
Jasmine, a piano terra, sta pulendo con cura il
pianerottolo e lo saluta con un sorriso. Jasmine è sempre
cordiale e fa di
tutto per mantenere pulita e vivibile quella squallida palazzina.
Jasmine è un transessuale colombiano cinquantenne e una
sera, dopo che un cliente ubriaco l’aveva picchiata e lei non
voleva andare né
alla polizia né al pronto soccorso, John l’ha
medicata. Da quel momento Jasmine, ogni volta che lo incrocia,
gli propone un caffè, un tè, una torta
fatta in casa, tutte offerte che
John puntualmente rifiuta.
“Solo un caffè, John, tranquillo, non voglio
saltarti
addosso.” dice sempre Jasmine con il suo vocione allegro.
Ma non è per quello che John si tiene a distanza da lei.
John forse non sarà gay, ma di certo non è
omofobo.
E’ che Jasmine, con la sua gentilezza innata, gli ricorda
troppo Mrs. Hudson. E Mrs. Hudson, come in una reazione a catena,
significa
Baker Street, significa casa, significa Sherlock, significa un periodo
in cui
lui era felice e significa un sacco di altre cose a cui John non riesce
a
pensare, perché il dolore è troppo vivo e fa
troppo male.
These
wounds won't seem to heal, this pain is just too real
John cammina
per le strade, scansando persone, cammina
veloce senza una meta, senza mai soffermarsi a guardare una vetrina,
fermandosi
ai semafori rossi solo per istinto di sopravvivenza, o per abitudine.
Cammina
finché non sente male alle gambe. Cammina e si concentra
solo su quello, sui
suoi passi che avanzano uno dopo l’altro e intanto il tempo
passa e la fine
della giornata si avvicina.
Alcune volte arriva così lontano da casa da dover prendere
un taxi per tornare indietro.
Una coppia di ragazzi gli passa accanto ridendo: stanno
correndo per prendere l’autobus. Lei resta un po’
indietro, lui si volta appena,
le afferra la mano e la trascina con sé sull'automezzo
rosso, sempre ridendo.
‹‹ Va tutto bene. ›› sembra
voler dire il suo sorriso.
“Sherlock,
rallenta
un attimo!” urlò John mentre fuggiva nella notte,
ammanettato al detective.
Proprio non ce la faceva a star dietro alla sua falcata chilometrica.
Sherlock
aveva ruotato il polso in un gesto pieno di eleganza “Afferra
la mia mano.”
disse e, senza alcuna esitazione, gliel’aveva stretta nella
sua. Forte.
‹‹ Andrà tutto bene.
›› si era ritrovato a pensare John a quel
contatto ‹‹ E’ una situazione di
merda, ma Sherlock ne uscirà, lui troverà il modo
di smantellare tutte queste
ridicole accuse e alla fine ci faremo una bella risata.
›› Aveva anche perso la
pistola, ma sarebbe andato tutto bene, perché la mano di
Sherlock stringeva la
sua.
In quel momento ci
credeva davvero.
Sarebbe andato tutto
bene, non poteva essere altrimenti, perchè Sherlock gli
aveva stretto la mano.
Invece non
era andato affatto bene.
Non era andato un cazzo bene.
John inspira forte dal naso e deglutisce per respingere le
lacrime, immobile in mezzo alla folla,
alla vita,
indifferente,
che continua a scorrere senza sosta attorno
a lui.
Gli gira la testa e si accascia sulla panchina della
fermata del bus, reclinando indietro la testa ed appoggiandola al vetro
della
pensilina.
Ogni tanto tutta quella vitalità che lo circonda
è troppa.
E’ semplicemente troppa da sopportare, quando lui si sente
morto dentro,
precipitato anch'egli da quel tetto assieme al suo migliore amico.
Il senso di colpa in lui ha la forma di un mostro nascosto
sotto il letto, che attende nell'ombra per poi piombargli addosso
all'improvviso, assieme a quelle scene che continua a rivedere nella
sua mente
ancora ed ancora, come in un orrifico Giorno della Marmotta. [2]
Sherlock era
stranamente calmo nel laboratorio del Barts e il suo contrasto con
John, che
invece non riusciva a smettere di camminare nervosamente per la stanza,
era più
forte che mai.
E più John spremeva
le meningi per trovare una via d'uscita, più Sherlock
appariva calmo, quasi
apatico, tanto che il dottore aveva voglia di urlargli di darsi una
scrollata
e, santo Iddio, fare qualcosa.
Era colpa di quella
situazione assurda e delle parole di Mycroft... si era accumulata
così tanta
tensione in John, che aspettava solo un pretesto, un pretesto qualsiasi
per
esplodere e, per mettere a tacere quei propositi, cercò di dormire.
Lo squillo del
cellulare lo fece sussultare. La comunicazione che ascoltò
lo gettò nel panico
più completo. Che altro doveva succedere ancora? Che altro
cazzo doveva andare
storto?
“Mio dio, Sherlock,
hanno sparato alla signora Hudson, è grave. Coraggio,
andiamo.”
E lui nemmeno si
voltò a guardarlo, continuando a giocherellare con quella
stramaledetta pallina
“Vai tu, io non vengo. Ho da fare.”
mormorò in tono piatto, come se stesse
dicendo “Il taxi è in ritardo.”
Ed eccolo lì il
pretesto che John attendeva
per
scaricare la frustrazione. Col senno di poi avrebbe dovuto capire che
c’era
qualcosa di strano, di anomalo nel comportamento di Sherlock.
Aveva ripetutamente
scaraventato un agente della CIA dalla finestra che aveva alzato le
mani sulla
loro padrona di casa.
E, a posteriori, se
ne era reso conto, ma ormai era troppo tardi.
dio... dio... era
troppo tardi, non c’era più nulla da fare.
Ma in quel momento,
quasi fosse vittima di uno strano incantesimo, non aveva realizzato
niente,
aveva solo aggredito ed insultato il suo migliore amico “Sei
una macchina! Vai
al diavolo, resta pure qui da solo!”
Sei orribile, non
hai un briciolo di sentimenti.
Lo aveva trattato
esattamente come tutti gli altri, non c'era alcuna differenza tra lui e
Donovan, che lo apostrofava "scherzo della natura". [3]
E dire che si
professava suo amico.
John si piega
in avanti sulla panchina e si copre il volto
con le mani, il senso di colpa che banchetta sorridente con i resti del
suo
cuore e il rimorso che minaccia di fargli rimettere l'anima
lì sul marciapiede.
“La
solitudine mi
protegge.”
“No, gli amici ti
proteggono.”
Gli amici dovrebbero
proteggerti, sempre, dovrebbero appoggiarti nei momenti di
difficoltà, non
dovrebbero mai dirti che sei una macchina, non dovrebbero mai lasciarti
solo.
E invece era ciò che
John aveva fatto. Gli aveva sputato addosso il suo fiele, con
soddisfazione, e
poi se ne era andato.
“Sei una macchina.
Vai al diavolo.” le ultime parole rivolte a Sherlock,
l’ultima volta che aveva
visto il suo viso, i suoi occhi da vivo.
Gli amici ti
proteggono.
Gli amici non ti
lasciano mai solo.
"Resta pure qui
da solo."
Crepa da solo. Resta
qui da solo a meditare su come suicidarti.
dio... dio... ti ho
abbandonato... ti ho lasciato solo... dio... dio... cosa ho fatto.
Perdonami,
Sherlock.
Ma ora è tardi...
dio... dio... è troppo tardi.
Se a John
fosse data la possibilità di esaurire un
desiderio, non avrebbe alcun dubbio: vorrebbe chiedere scusa a
Sherlock,
vorrebbe solo dirgli “Mi dispiace, perdonami. Quelle cose che
ti ho detto non
le pensavo, non le ho mai pensate ed ora mi pesano come un macigno sul
cuore.
Pesano, pesano così tanto che a volte mi sembra impossibile
respirare.”
Non è riuscito a dirle queste parole, John, mentre era al
telefono con lui e lo guardava stare in bilico su quel cornicione e la
sua
mente si rifiutava con terrore di prendere atto di ciò che
stava per succedere
e
Sherlock no,
dio, ti
prego, non farlo, non buttarti. Devo chiederti scusa, fammi chiedere
scusa.
Non farlo, andrà tutto bene, perchè tu mi hai stretto la
mano. Io credo in te, Sherlock,
ti credo, ti crederò sempre, lo sai, vero? Dimmi che lo sai.
Non farlo, dio...
dio... non farlo... devo chiederti scusa.
E’ troppo tardi per
chiederti scusa.
Ogni
tanto John riesce a trattenere le lacrime, altre
volte no e si ritrova, come ora, con gli occhi arrossati ed i palmi
delle mani
umidi.
There's
just too much that time cannot erase
Allora John
si alza e riprende a camminare per la città,
come in trance, e finisce sempre per arrivare lì.
Davanti alla tomba di Sherlock, la stessa che ha
accarezzato con tenerezza il giorno del suo funerale, la tomba davanti
alla
quale l’ha implorato
“Un
ultimo miracolo,
Sherlock, solo per me.
Non essere morto.
Ti prego, smettila,
smettila.”
E’
una richiesta assurda e John lo sa, lo sa perché non
è
uno stupido, è un dottore e sa bene cosa sia la morte, ma
lì, solo lì, davanti
a quella lapide, quella preghiera gli appare un po’ meno
insensata.
I
believe in Sherlock Holmes.
Torna da me,
Sherlock, torna, affinché possa smettere di essere troppo
tardi, affinché io
possa smetterla di parlare ad una lapide, affinché io possa
chiederti scusa,
affinché tu possa perdonarmi.
Perdonami, Sherlock.
I believe in Sherlock Holmes.
E si aggrappa
alla speranza che Sherlock, con la sua
smisurata intelligenza, sapesse quanto profonda era la fiducia in lui,
sapesse
quanto contava per lui. Ma è una magia che funziona solo
lì, in quell’angolo di
cimitero, in quel fazzoletto di terra dove John smette per qualche
istante di
essere solo.
Al di fuori di quella placenta emotiva, però,
c’è la vita
che scorre, ci sono giorni interminabili da superare e
c’è l’eterea presenza di
un amico scomparso al quale è troppo tardi per chiedere
scusa.
I've
tried so hard to tell myself that you're gone
But
though you're still with me, I've been alone all along
“Hai fame,
John?”
“Mangiamo
cinese stasera, John?”
John ha perso l’appetito, mangia perché deve,
dorme perché
sa che altrimenti impazzirà ed è sempre la voce
di Sherlock, nella sua testa, a
persuaderlo.
I
believe in Sherlock Holmes.
Mangia
spesso in un ristorante cinese, ma non fa caso alla
forma della maniglia della porta, non guarda mai la maniglia, spinge
sempre con
le dita sul vetro.
E’
quasi sera ed è proprio il caso di rientrare.
Brixton non è Westminster. [4]
Dalla cassetta delle lettere spunta un volantino che riporta
in minacciosi caratteri cubitali rossi “CREDI IN
GESU’?”
“No, credo in Sherlock Holmes, fa lo stesso? E se
Gesù ha
qualcosa da obiettare ricevo in ambulatorio dal lunedì al
sabato su
appuntamento.” borbotta astioso.
Sherlock ne riderebbe di gusto, ne riderebbero insieme.
Ma ormai è tardi, è troppo tardi, e tutto questo
perché
lui l'ha lasciato solo.
Appallottola il foglio con rabbia e fa per gettarlo a
terra, poi invece lo deposita diligentemente nel cestino della carta
straccia.
Perché Jasmine ce la mette tutta per tener pulito
l’androne. E non sarà Mrs.
Hudson, ma merita lo stesso rispetto.
Entra in casa e si butta sul letto sfatto dalla mattina
senza nemmeno accendere la luce.
Il led rosso sul telefono gli indica che ci sono dei
messaggi. Allunga una mano e schiaccia il pulsante.
“Ci
sono tre nuovi messaggi.” annuncia la
professionale voce
metallica.
- BIP -
“Ehi, ciao John, sono Sarah... ti avevo chiesto di
chiamarmi settimana scorsa. Senti, quando sei libero, se ti va, ci
vediamo da
qualche parte per un drink, o un brunch. Quello che vuoi. Chiamami
quando te la
senti.”
- BIP -
E’
una cara ragazza Sarah, ma più che la dottoressa
dovrebbe fare la crocerossina, vorrebbe riavvicinarsi a lui
perché lo vede
triste, questo l’ha capito pur senza possedere le
capacità deduttive di
Sherlock. Ci ha anche riprovato con lei una volta, a dire il vero,
complice una
cena a casa della ragazza e a qualche lattina di birra di troppo, ma
non gli era
nemmeno venuto duro. Sarah era stata molto comprensiva, lo aveva
abbracciato e
gli aveva suggerito che forse era troppo presto e la ferita lasciata
dalla
morte di Sherlock ancora fresca.
Beh, in effetti era un po’ difficile concentrarsi sul
sesso, quando l’unico pensiero che ti ronza in testa
è
l’ho
lasciato
solo... dio... dio... non avrei mai dovuto farlo,
e ora è troppo tardi
e non posso più chiedergli scusa.
- BIP -
“John, sono Ella. Ascolta, hai disdetto gli ultimi
tre appuntamenti e io sono preoccupata per te, credo che dovremmo
continuare le
nostre sedute ancora per un po’. Pensaci bene, ti
raccomando.”
- BIP -
John
ci ha pensato, ci ha pensato molto bene, in effetti.
E non ha alcuna intenzione di tornare da quella psichiatra. Non ha
assolutamente voglia di sentire frasi del cazzo che sembrano prese da
romanzi
Harlequin [5], come "Il tempo sistemerà tutto e
cancellerà le tue
ferite."
Il tempo non guarisce niente, il suo dolore è ancora
lì,
vivo e pulsante come il primo, fottuto giorno. Il tempo è
solo uno stronzo che
se ne è andato, senza dargli la possibilità di
chiedere scusa al suo migliore amico e di essere
perdonato.
- BIP -
"Oh, ciao John. Come va?"
- BIP -
Attraverso
la segreteria telefonica la voce di Harry non
sembra nemmeno alterata dall'alcool. Forse è sobria per
davvero e se arriva a
preoccuparsi per lui, significa che, tra loro due, adesso è
lui quello messo
peggio.
Va, Harry. Va e basta. Sto sopravvivendo.
Con tutti i miei demoni e la mia unica certezza.
I
believe in Sherlock Holmes.
I'm
used to it by now.
Another
day, just believe.
Credo
in
lui.
Mangio, bevo,
dormo, respiro, lavoro. E credo in Sherlock.
Crederò sempre in lui, contro il mondo intero.
Just
breathe.
Lying
in my bed,
Another
day, staring at the ceiling.
E' arrivata
la sera.
John è sopravvissuto ad un altro giorno.
Continua ad essere troppo tardi per chiedere scusa.
=< > = < > =
Oh my god! Avete davvero tenuto botta fin qui? Meritate un
bacione (e forse anche delle scuse per avervi propinato questo
supplizio).
Il titolo è impunemente sgraffignato alla canzone degli
OneRepublic, ma ha un significato diametralmente opposto a quello della
canzone.
Le strofe delle canzoni presenti nel corpo della
fanfiction, invece, sono prese, in ordine, da “My
Immortal” degli Evanescece e
“Breathe” dei Telepopmusik.
NOTE
[1] Circa 35
mq, credo... (almeno stando ad un ambiguo e
non so quanto affidabile convertitore online)
[2] Frase
ispirata dal meraviglioso film "Ricomincio
da capo" con Bill Murray. Per chi fosse interessato, the Groundhog Day
esiste davvero e viene celebrato negli Stati Uniti e in Canada e si
festeggia
il 2 febbraio: osservando il comportamento di una marmotta si intuisce
se
l'inverno è agli sgoccioli o durerà ancora.
[3] "Freak"
in inglese. Odio questo termine con
tutto il cuore e non so mai come renderlo: nella versione italiana
l'hanno
tradotto come "geniaccio" (WTF? RLY? SRY?), i subs dicono
"strambo", che forse ci si avvicina di più, ma dato che
questo
termine in inglese indica anche i fenomeni da baraccone che si trovano
nel
circo, mi è sembrata la traduzione più calzante.
[4] Brixton
ha fama di essere un quartiere pericoloso.
[5] Gli
Harmony in italiano.