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Autore: Emma Wright    23/03/2012    7 recensioni
Questa storia comincia così, in un'Irlanda splendida, verde come i suoi occhi, quelli di Joey.
Una ragazza che corre, che sembra felice. Nessuno si aspetterebbe niente di meno da lei, se non la volontà di una persona allegra e per natura gioiosa.
Ma a lei non sono rimasti che i segreti, le lacrime, le parole vuote. Altri silenzi, altri mondi.
Già, ha smesso di sperare anche lei, alla fine. Desiderando solamente volare via. Ha amato la vita, Joey. Non avrebbe mai pensato di poter arrivare anche a rinnegarla.
Nessuno potrà mai sapere quello che è successo, per quali motivi è arrivata al suo gesto estremo. Restano solamente i ricordi. Fanno male anche quelli.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nickname: Emma Wright
Titolo storia: Her name was butterfly
Profumo: vento
Citazione: Saperlo è facile. Dirlo ad alta voce è difficile (L'uomo che sussurrava ai cavalli - Film)
Rating: giallo
Genere: malinconico, drammatico
Avvertimenti: oneshot
Note: la storia comincia e si svolge nel giro di pochi giorni, in un ventoso settembre, nella verde Irlanda. La parte iniziale non è molto chiara, lo so bene, funge come da introduzione per il resto della storia.
Joey, la protagonista, ha sempre vissuto la realtà descritta nell’oneshot, che invece da’ un senso al suo gesto finale, il più estremo. La mancanza di una madre, il gelo venutosi a creare tra lei e il resto della famiglia, il colossale distacco che c’è tra lei, il padre e le due sorelle, più quella sua voglia di vivere che la porta alla follia: sono tutte cause diverse, ogni cosa ha una spiegazione. Joey non ha un modo di fare semplice, al contrario, si dimostra emotivamente molto fragile, pur volendo apparire forte.
St. Louis è il paese di Joey Wilson, e la sua famiglia è composta da James, il padre, e le due sorelle maggiori, Louise e Wendy. La madre era la fu Anastasia.
La storia è soprattutto composta dai ricordi di Jo, quello che vive, la rimembranza del passato.
Inoltre, la parte finale avviene durante “il primo giorno d’autunno”, ovvero 23 settembre, Equinozio, sebbene ci siano diversi altri riferimenti per via della stagione in arrivo.
Letteralmente, il titolo significa “Il suo nome era farfalla”, un po’ criptico, ma non ho trovato di meglio.
Spero di essere stata chiara in merito, buona lettura.

 
 

Her name was butterfly

 
Dicono che le storie migliori sono quelle tragiche. Complicate, difficili.
Tutto deve andare sempre male, per essere interessante.
Eppure, quello di cui voglio parlare oggi è il racconto di una persona come tante altre. Una ragazza semplice, dall’esistenza felice, anonima. Non così diversa da migliaia di altre.
Una ragazza che sognava di volare, però. Amava la vita, ma credeva che sarebbe stato bello librarsi nell’aria, come una farfalla.
L’avrebbe portata alla follia, quella passione. Non poteva saperlo, però
Guardava il cielo nuvoloso e rideva.
Rideva della vita e della morte.
Questa storia, comincia così, con il vento sulle spalle, mentre ancora aleggia l’essenza di lei, trasportata per leghe e leghe, come una favola che non si può dimenticare.
 
 

***

 
 
Stava correndo, Joey. Veloce, per il sentiero che conduceva al bosco dalla squallida periferia in cui abitava. La villetta dove viveva la sua famiglia era situata al limitare della cittadina, una località nei pressi di Dublino relativamente piccola.
Dell’Irlanda, Joey aveva i capelli rossi e selvaggi, che in quel momento vibravano nell’aria di settembre, seguendo la forza dell’attrito e la corsa a perdifiato della proprietaria. Da lontano, dovevano sembrare una massa infuocata e informe, ma a lei non importava. Sapeva che poteva essere vista da quella distanza e la capigliatura non certo l’aiutava a passare inosservata.
L’obiettivo era raggiungere il boschetto di noci che si stagliava all’orizzonte. Diventava sempre più vicino, pensò soddisfatta la ragazza, prendendo un ultimo slancio finale e raggiungendo i primi alberi, piccoli e ancora giovani.
Camminando piano, si chiese ancora una volta come fosse possibile che quel luogo incantevole fosse stato risparmiato all’urbanizzazione del territorio circostante. Se si fosse voltata, avrebbe potuto benissimo scorgere i palazzi a tratti colorati di St. Louis, una comune cittadina degli inizi del ventunesimo secolo, eppure quel piccolo mondo era scampato al lavoro dell’uomo. Avrebbe potuto benissimo essere l’ultimo angolo intaccato della zona.
Questo pensava Joey, passo dopo passo. Il vero cuore dell’antica e verde foresta era celato nel fitto, dove la luce del sole non riusciva a penetrare tra le chiome delle grandi piante. Ma era autunno e le foglie stavano cominciando a cadere, amalgamandosi in un tappeto colorato sul terreno incolto.
Era lì, il luogo che cercava. Joey alzò lo sguardo, intravedendo l’albero più grande, il più vecchio.
Lo osservò con attenzione, prima di avvicinarsi e accarezzare la dura corteccia, piena di incisioni. Ricordi di giorni dolorosi e d’amore. Quando si sentiva particolarmente sola, amava andare proprio in quel luogo e scrivere qualcosa, sperando che almeno quell’albero fosse in grado di ascoltarla. Estrasse un coltellino dalla borsa. Era un rito che faceva ogni volta.
Cominciò a incidere in un inglese dalla calligrafia sghemba, difficoltosa da leggere, ma che lei comprendeva benissimo. Il vento frattanto aveva cominciato a soffiare, portando con sé una scia di odori, sempre diversi. Poteva annusare il profumo delle foglie secche, quel giorno. Ripose il piccolo attrezzo, guardando l’opera portata a termine.
I can fly.
 
 
Stava attraversando il giardino di casa sua, Joey. Era appena rientrata. Sapeva che il padre non aveva la più pallida idea di dove fosse stata, o meglio, nemmeno era a conoscenza dell’uscita.
Si avvicinò in punta di piedi al porticato, attenta a evitare i gradini di pietra polverosi e un po’ smossi. Spiò dalla finestra. Non c’era nessuno. Solo allora girò la chiave nella toppa e spalancò la porta dell’anticamera, per poi salire di gran corsa i gradini rivestiti di legno, attenta a non scivolare sul lucido parquet. Quando era piccola, amava utilizzare il corrimano come un vero e proprio scivolo.
Sua sorella Wendy l’aspettava sempre alla fine del rapido percorso, pronta a prenderla al volo. Solitamente, giocavano insieme ancora un po’, prima di cominciare un’altra volta con il giro. Era divertente. Di quei tempi, a Joey restavano solo ricordi felice.
Entrò nella sua camera, sdraiandosi sul letto, per poi inginocchiarsi davanti alla finestra, situata proprio lì accanto. Guardò fuori.
Non vedeva altro che il ritratto di un’esistenza terribilmente compromessa, turbata. Sorrise amareggiata, occhieggiando gli alberi spogli di quel settembre piovoso, l’erba del giardino incolta, la vecchia altalena con le corde sfilacciate.
Un tempo, lì c’erano state orchidee, ortensie, camelie, persino un pesco in fiore. I petali, di un tenue rosa, cadevano alla fine della primavera, adagiandosi sul laghetto di ninfee lì accanto, come le foglie delle piante in autunno.
Era stato un periodo pieno di colore vivaci e tinte leggere, quello, il sole splendeva sulle tre sorelle Wilson. Poi, niente, era successo quello che era successo.
La ragazza si voltò, osservando la foto posata sul comodino da quando aveva nove anni. Le sorrideva una se stessa ancora bambina, con i capelli lunghi fino alla vita, gli occhi ridenti e un vestito verde smeraldo. E, intorno, tutta la famiglia.
Nessuno si sarebbe mai aspettato ciò che invece accaduto appena due mesi dopo.
A Joey sarebbe piaciuto tornare ai tempi in cui la mamma era ancora viva.
 
 
«Josephine!».
Alzò la testa, per ascoltare meglio la voce che urlava il suo nome. Quando lo facevano per intero, non era mai un buon presagio.
«Josephine Anne Wilson!».
Ancora peggio. Si affrettò ad affacciarsi dalla cima delle scale. La sua stanza era in fondo al corridoio, ma aveva una camminata veloce.
Era Louise. Louise, la più grande delle tre. Louise, quella che non avevano mai visto sorridere dal giorno stesso in cui la mamma era morta.
«Jo, io esco. Dì a Wendy che torno verso le otto, quando termina il suo corso pomeridiano».
Joey si limitò ad annuire meccanicamente, mentre l’altra dava una sistemata ai capelli, corti e ramati, che le scendevano in morbide ciocche ondulate sul cappotto. Impugnava anche il manico dell’ombrello, per ogni evenienza. La giovane donna si chiuse la porta alle spalle, facendo frusciare la gonna nera di seta, lunga fino alle ginocchia. Louise era bella e femminile, ma nei suoi occhi tristi non si leggeva altro che un morboso desiderio di riscatto, una rabbia repressa che non aveva mai avuto modo di venir fuori.
Perché, tu eri qui? E Wendy, non c’è?
Questo si sorprese a pensare Joey. Le teneva in considerazione poco più dello stretto necessario, ma d’altronde, chi mai aveva cercato di riempire quel vuoto?
Papà.
Silenziosa, la ragazza si sfilò le scarpe, consapevole di non poter fare rumore. Avanzò fino alla stanza che si trovava proprio lì vicino, nel lato opposto alla sua camera. Lo studio. Il padre ci trascorreva tutta la giornata, quotidianamente.
C’era stato un tempo in cui loro tre, le sue “piccole pesti”, andavano a trovarlo in quel luogo in cui svolgeva la parte teorica della professione di avvocato. Lui riusciva a prenderle in braccio insieme, tutte quante, facendole divertire da morire. Ora, più niente, se non l’ennesimo silenzio. Joey si legò i capelli in una pratica treccia, per poi avvicinarsi al buco della serratura e spiare. Poteva benissimo vederlo come suo solito, gobbo su libri e fogli svolazzanti, a consumarsi lentamente come la fiamma di una candela mentre si spegne.
Non seppe resistere al’impulso e spalancò la pesante porta di legno, sorprendendolo. Rimase a guardarla intontito per un istante, prima di considerare seriamente quell’inaspettata apparizione.
«Josephine» esordì James Wilson con pacatezza, riponendo l’elegante stilografica per posare i gomiti sulla scrivania, in posa riflessiva, continuando a osservare i movimenti della ragazza.
«Joey e basta» rispose lei, con forza, lanciandosi di peso su una delle poltroncine a braccia incrociate. Infastidita dal sentirsi sprofondare da quel brusco movimento, si risollevò, per poi tornare alla posizione originale. Non c’era modo di tenerla ferma.
«A cosa devo questa visita?» disse James, ignorandola, preferendo invece togliersi gli occhiali, massaggiandosi poi le tempie.
«Niente, mi chiedevo quando…».
Joey si interruppe, pensando a ciò che era sua intenzione dire. L’unica cosa che voleva sapere davvero era la verità. Era per natura diretta, irrazionale, molto schietta. Doveva andare dritta al sodo. Cancellò mentalmente il pensiero precedente, qualcosa in proposito di Louise e Wendy, per riformulare la domanda.
Lui fu più veloce.
«Mi sto chiedendo io una cosa, sai? Vorrei conoscere la ragione per la quale continui a covare qualcosa, ti si legge negli occhi che nascondi chissà che segreto. Avanti, qua siamo rimasti in piedi solo noi due, dopo tutto quello che è successo.»
«Saperlo è facile, dirlo ad alta voce è difficile» dichiarò serafica, per poi aggiungere: «Sai, papà… come mai la casa è sempre così silenziosa? Perché sono rimasti a farci compagnia solo i fantasmi? Che cosa è successo, il giorno in cui la mamma, be’… sembra che ce ne siamo andati via anche noi, tutti insieme… »
«Cosa vorresti insinuare?» chiese in tono cupo il padre, facendo tremare la scrivania con un colpo di mano.
«L’allegria, la gioia, tutta la famiglia: niente è rimasto. Guarda me, Wendy, Lou. Guardati».
«Non mi farò dire cosa devo e non devo fare da una sedicenne» ribatté irato l’uomo, alzandosi. Sapeva che incuteva timore, a volte. Era molto alto, ben piazzato, i capelli scuri striati d’argento. Vestiva elegantemente, come un vero professionista che si rispetti, giacca, cravatta, completo grigio.
«Ma…» mormorò Joey in un soffio.
«Basta, ragazza, hai già detto fin troppe… stupidaggini.» James rimarcò appositamente l’ultima parole. Sapeva che l’avrebbe ferita più del resto.
«Dovresti vergognarti!» strillò Joey, prima di voltarsi, colma di rabbia.
James la guardò uscire, sbattendo con forza la porta, in tutta la sua furia. Non gliel’aveva mai detto, ma delle tre Joey era quella che somigliava di più alla madre. Tornando indietro nel tempo e mettendo a confronto i sedici anni con la ragazza che anche la genitrice era stata, le differenza sarebbero state ben poche.
Fingendo indifferenza, l’uomo tornò a chinarsi sulle sue carte. Ancora un ultimo sguardo.
Lei gli sorrideva dalla cornice del ritratto di fronte, in tutta la sua bellezza.
Un altro lieve sospiro.
Non credeva più in niente.
Niente, dal giorno in cui era morta Anastasia.
 
 
Il silenzio regnava sovrano in tutta la casa, adesso.
Joey, dopo la lite, era rientrata nella propria camera, chiudendosi dentro a chiave.
Aveva cercato un foglio e si era messa a disegnare, furiosamente, come se ne andasse di tutta sé stessa. Era il suo personalissimo sfogo, quello. Aveva immortalato animali, fiori, scorci di vita quotidiana, quando ripose la penna, sfinita. A volte, le faceva male. Era il suo modo per sentirsi più… normale, una ragazza qualunque.
Lanciò una rapida occhiata alla finestra. La sua vita se ne stava andando così, piano, con le gocce di pioggia che continuavano a cadere.
Le tornò in mente qualcosa, solo allora si avvicinò alla cassettiera, cominciando a rovistare. Trovò quello che cercava.
Una foto di sua madre. Doveva essere bellissima. Sorrideva, mentre i suoi occhi grigio cenere irradiavano luce pura. Joey riuscì anche a leggere la scritta in grafia minuta e pesante, senza ghirigori, a lato.
Anastasia, 10 agosto 1980”.
Era stato suo padre a scrivere, ne era consapevole. In uno di quei giorni di sole, quando ancora sorrideva e il vento non era ancora arrivato a portare via l’adorata moglie.
Prima che potesse ripensarci, Joey scaraventò la fotografia sul parquet. Vide la cornice spezzarsi con un lieve rumore e il vetro frantumarsi in mille piccole schegge. Avrebbe pensato a pulire un’altra volta.
Perché era anche colpa sua, se adesso la situazione era arrivata a quel punto, di non ritorno.
Si stese sul letto, a piangere, per poi addormentarsi, cullata dal suono del vento, là fuori, che scuoteva violentemente le fronde degli alberi.
 
Si risvegliò di colpo poco dopo. La finestra era spalancata, raffiche gelide la fecero rabbrividire. Si affrettò a richiuderla, per poi tornare a immergersi nei suoi pensieri. Annusò l’aria, che sapeva di buono.
Forse, era un segno.
Spostò lo sguardo sui cocci di vetro, sparsi sul pavimento.
No.
 
 
«Joey, dove diavolo stai andando?».
La domanda di Louise le giunse chiara, indisponente. Si intuiva facilmente che era scocciata, il suo pretendere una risposta esauriente era ormai tipico del suo carattere.
«Fuori» si limitò a rispondere l’interpellata, felice che la sorella non riuscisse a vedere la sua espressione contratta. Le voltò le spalle, mentre indossava svogliatamente una pesante giacca di lana scura e la sciarpa.
«Non mi sembra un motivo valido… credi che non abbia notato il tuo uscire tutte le sere alla stessa ora? Non sono stupida, lo sai meglio di me… ora, o mi spieghi tu, o dovrò pensarci io» continuò Louise autoritaria, senza preoccuparsi minimamente delle reazioni altrui.
Joey, semplicemente, la ignorò, per poi farsi strada tra le erbacce, sulla via di quello che un tempo era stato un sentiero sgombro.
Senza tener conto di tutto quello che Louise le stava urlando dietro, si avventurò in direzione del bosco, come aveva fatto qualche giorno prima. Stesso percorso, stesso posto, stesso albero.
Ripercorse con un dito l’incisione, per poi affondare il volto nella sciarpa.
Aveva voglia di piangere, di nuovo. Dov’erano le sue, di ali?
 
 
 
Sembra stia volando davvero, Joey.
Raggiunge un altro mondo, lieve come il battito d’ali di una farfalla. Senza una parola.
Cadere nell’oblio era più semplice di quel che sembrasse. Si era stancata, alla fine, di tutto.
Era il primo vero e proprio giorno d’autunno, quello. C’era un bellissimo tramonto, aveva piovuto per tutto il resto della giornata.
Joey aveva guardato il sole morente come si osservano gli amanti. Lo voleva vedere meglio.
Era salita sulla terrazza entusiasta, con l’aria di chi sta per assistere a uno splendido spettacolo. Avvicinatasi al balcone, aveva voltato la testa, aveva guardato per un solo istante le tegole del tetto a spiovente, una ad una, incantata.
Sarebbe stato ancora più bello.
Non ci aveva pensato due volte, prima di saltarci sopra e raggiungere, in equilibrio precario, il confine tra la casa e il vuoto, la realtà e il sogno.
Il vento stava soffiando terribilmente. Inspirò la fresca aria di settembre. Profumo di… non l’aveva mai sentito. Non sarebbe sopravvissuta per capire che era l’odore della morte, incombente su di lei. La figura dai capelli rossi rimase un po’ così, le gambe penzoloni, che tremavano dal freddo. Indossava solamente un paio di jeans troppo larghi e una felpa celeste chiaro.
Le raffiche si fecero più frequenti, dotate di potenza inaudita. Joey strinse la presa sulla grondaia, per non cadere.
Sentì l’aria gelida pizzicarle le guance. Non poteva farcela.
Una mano salì, con suo sommo terrore, di riflesso, a scostarle le ciocche ramate dal volto, che le impedivano persino di aprire gli occhi. Le iridi verde smeraldo si assottigliarono mentre Joey sussurrava qualcosa, rivolta al vento stesso, implorandolo di smetterla.
Ancora uno, due minuti.
Joey era là, immobile, ben piantata. Non riusciva ad spostarsi, a muovere un ulteriore muscolo. In preda ad uno spasmo, lasciò la presa, consentendo alla spinta di trascinarla giù.
Stava volando, ora.
Chiuse gli occhi.
Il suo nome apparteneva ad un’altra farfalla, adesso.
Era finita, era finita davvero.





Questa storia è stata scritta per il contest "Profumo - storia di... un'originale!", indetto da Perla_Nera92 sul forum di EFP. Tuttavia, la giudicia originaria è misteriosamente scomparsa e le valutazioni sono passate in mano a Ria-chan, che ringrazio di nuovo per la disponibilità.
I risultati arriveranno probabilmente domenica sera, e li posterò qui :)
Detto questo, vorrei fare un paio di chiarimenti sulla storia. E' difficile da capire, lo so bene. Ho cercato di vedere la mia idea di partenza, ovevro il suicidio di Joey, che sarebbe stata anche la conclusione, in chiave diversa, analizzando ogni lato della vicenda. La ragione più profonda del gesto della ragazza era ben altro, non solo la rabbia nei confronti dei suoi genitori, tutto quello che non ha fatto suo padre per impedire che andasse in frantumi. Joey voleva essere libera, libera come il vento, e collegava a questo il volare. Come una farfalla, da qui il titolo.
Grazie se l'avete anche solo letta, e se magari mi lascierete anche un commento ;)
La dedico a Mari, Ginny, Bes e Black, per tutti quei cuoricini sulla parte finale, e alla prima perché... be', se lo merita, è una gran socia ♥
Un bacio e alla prossima, Emma.


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