Con il senno di poi,
Arthur avrebbe fatto meglio a non aprire la porta della propria casa.
Almeno non senza prima aver dato un’occhiata dallo spioncino.
Anzi, non avrebbe proprio dovuto nemmeno pensare di avvicinarsi
all’ingresso per scoprire chi fosse il misterioso visitatore
di quel mattino. Al suono del campanello avrebbe dovuto invece scattare
come una molla dalla poltrona del salotto, lanciando per aria la sua
tazzina di tè e fregandosene altamente di sporcare il
raffinato tappeto regalatogli da India, e filare a rifugiarsi sotto il
letto, barricandosi fino alla sera stessa; mangiando la polvere, se
fosse stato necessario.
Avrebbe dovuto capirlo da solo quale terribile sorte lo attendeva:
quante sono le persone che hanno l’abitudine di improvvisare
un allegro motivetto al campanello? O meglio, quante, con questa
deprecabile abitudine, sono riuscite a sopravvivere alla sua furia dopo
aver osato suonare a tal modo alla sua dimora?
Eppure quel giorno era iniziato tanto normalmente, con la promessa
implicita che niente e nessuno avrebbe rotto la sua pacifica routine di
misantropo inglese. Era troppo chiedere una giornata tranquilla, tanto
da essere mortalmente noiosa, senza che nessun continentale, nessun
parente, nessun essere umano o simile venisse a disturbare la sua sacra
quiete? Non chiedeva di certo la Luna.
No, a quanto pare no. Dio o chi per lui aveva deciso che quel povero
inglese un po’ di santa pace non se la meritasse. Come se
avesse fatto chissà quale torto nella sua vita passata!
E adesso eccolo lì, impalato come un deficiente sulla soglia
della propria camera da letto, ad osservare allibito e completamente
impotente lo scempio che stava avvenendo ai danni del suo armadio,
senza avere nemmeno il coraggio -
il
coraggio! - di fermare quella belva satanica dallo
sventrare l’ormai compianto mobile con sistematica e lucida
malvagità.
“Questo no, quest’altro no, questo
neppure… Mamma mia! Questo è bruttissimo,
veh! Assolutamente
da buttare via! Questo non si abbina con niente! Quest’altro
no. No, no, no e NO! E ancora NO!”
E a ogni secco, crudele,“
no”,
un preziosissimo capo della collezione di Arthur Kirkland faceva un
volo per la stanza, piroettando e svolazzando con ridicole movenze, per
infine atterrare, nei migliori dei casi, sul letto.
L’inglese sospirò affranto, lasciando che lo
sguardo scivolasse sul campo di battaglia che stava diventando la
propria camera. Le sue camicie, i suoi maglioni a rombi, i suoi
completi… Tutti orrendamente spiegazzati: ci avrebbe
impiegato giorni a stirare di nuovo il tutto.
No, decisamente non doveva permettere a quell’italiano di
varcare la soglia della sua abitazione e intrufolarsi furbescamente
nella sua tranquillissima vita. Come se non avesse già
abbastanza a che fare con i latini.
Italia. Italia del Nord. Al secolo Feliciano Vargas.
Un essere così frivolo, così piagnucolone,
così debole, così…
“Feliciano” da avergli sempre fatto saltare i nervi
per aria al primo sguardo. Un monumento
all’inaffidabilità, una scheggia impazzita
assolutamente imprevedibile che sfuggiva a ogni comune logica.
Un essere così… spontaneo, libero,
bello, e ancora,
imprevedibile, da tenere lui, inglese inflessibile e disgustato dalle
sciocchezze, in scacco con una facilità da farlo
rabbrividire.
Capace di tessere un dolce ricatto ai suoi danni, dal quale Arthur non
riusciva a liberarsi. Un ricatto dei più subdoli, di quelli
che legano il cuore e la mente, rafforzati da ogni sorriso leggero e
luminoso, impossibile da eludere se non gettando al diavolo orgoglio e
dignità. Salvo che l’inglese fosse ancora in
possesso di queste qualità.
Fatto sta che alla fine Arthur non era riuscito a sbattere la porta in
faccia al suo sgradito - va precisato – ospite, ritrovandosi
in quel momento con la prospettiva di passare il resto della mattinata
a sistemare il caos creato dall’italiano.
Lo sbuffo, che voleva essere in parte adirato, in parte deluso, di
Feliciano riportò Arthur a prestare attenzione alla
realtà che lo stava circondando, strappandolo dai suoi
lugubri pensieri.
Mr Macaroni si voltò, il viso corrucciato di chi si ritrova,
suo malgrado, nella parte del maestro cattivo costretto a rimproverare
un alunno particolarmente discolo, fissandolo senza dire un solo
“veh”
per quella che parve un’eternità. Arthur, per il
quale era la prima volta che aveva l’onore di vederlo senza
quella faccia da ebete perennemente felice, per un attimo
vacillò sul posto, quasi sentendosi in colpa per un motivo
che nemmeno conosceva.
“No, non ci siamo. Non ci siamo per niente.”
Scandì bene Feliciano, con un tono serio che non poteva
essere il suo.
Ci mise un po’ per capire che stava subendo un rimprovero.
Badare bene: Arthur Kirkland che viene rimproverato da Feliciano
Vargas. Forse i Maya avevano ragione riguardo la fine del mondo.
“Cosa c’è che non va?”
Sbottò di rimando, mettendosi istintivamente sulla difensiva.
“Il tuo armadio!”
Esclamò l’italiano, indicando con veemenza la pila
disordinata di abiti che giacevano sul letto, come se fosse il
più immondo degli orrori sulla faccia della Terra.
“Non c’è niente che vada bene per il
nostro appuntamento! Lo sapevo…”
piagnucolò, lasciandosi andare per un attimo a un triste
sconforto.
La parola ‘appuntamento’ preceduta addirittura da
un ‘nostro’ ebbe lo stesso effetto di una doccia
gelata su Arthur. Non che si fosse dimenticato dell’impegno
estrapolatogli con subdolo inganno – perché di
questo si trattava, alla fine dei conti; semplicemente, meno ci
pensava, meno si sentiva un imbecille in trappola; e meglio riusciva a
tenere a bada quell’aspettativa che ogni tanto si sorprendeva
a coltivare.
“Non ci resta che uscire” sentenziò a un
tratto Feliciano, del tutto incurante delle pare mentali che
attanagliavano l’animo di colui che gli stava piantato di
fronte, incrociando con decisione le braccia al petto, in un gesto che
più o meno voleva dire:
'È
assolutamente necessario uscire, e sarò irremovibile su
questa decisione qualunque cosa tu proverai a dire. Quindi,
è inutile che sprechi fiato'.
“No! Te lo puoi anche scordare, Vargas!”
gracchiò Arthur, cominciando a scocciarsi di quella
situazione che non stava né in cielo né in terra;
va bene, si era già impegnato per un appuntamento con Mr
Macaroni, ma questo non significava che sarebbe rimasto un secondo di
più al suo stupido gioco. Non aveva tempo da perdere lui
dietro a simili scempiaggini!
“Non starò nemmeno un altro secondo di
più ad ascoltare le tue sciocchezze, capito?! Io faccio
quello che mi pare!”
Tempo cinque minuti, e si stava già infilando il cappotto,
con Feliciano che lo guardava con quell’espressione lieta
mentre lo aspettava gaudente nell’ingresso di casa, la mano
già posata sulla maniglia.
***
Perché? Perché era in quel camerino? Come aveva
fatto a finire lì? Chi lo aveva costretto? Come aveva potuto
farsi trascinare fin lì? Soprattutto, perché si
stava provando una costosissima camicia firmata Armani?
Altrove, altrove,
altrove.
In qualsiasi altro posto al mondo, ma non lì. Non rinchiuso
in quel camerino asfissiante, a provare l’ennesima camicia
firmata (Armani, che solo a guardarla ti costava il sangue delle
vene!), con l’angoscia di dover poi uscire da quel, tutto
sommato, improvvisato rifugio per sottoporsi al giudizio implacabile di
quell’italianotto e di quel fighetto del commesso, in
fibrillante attesa come iene.
Oh, il commesso! Come gli stava sulle palle il commesso! Mai avrebbe
detto di poter odiare un suo connazionale a quel modo; peggio sarebbe
stato solo un ipotetico suo alter ego francese; con
quell’occhiata di sufficienza attraverso i suoi occhialetti
(firmatissimi anche’essi, ci mancherebbe) che gli aveva
riservato appena entrati nel negozio (atelier, prego), nemmeno fosse
stato l’ultimo dei pezzenti.
Sbuffando come una vecchia locomotiva, chiuse gli ultimi bottoni sotto
al colletto, lanciandosi un’occhiata decisamente scocciata
allo specchio. La sua immagine riflessa gli urlava impietosa quanto
fosse fuori posto in quel luogo, almeno tanto quanto il buon
senso nella testa di Alfred.
Che idiota. Che idiota totale, a farsi portare a spasso come un
cagnolino da un altro idiota, per giunta. Eppure, quando Feliciano lo
trascinava per il braccio a destra e a sinistra del marciapiede,
saltellando da un negozio all’altro, proprio non gli riusciva
di dire di no – cosa che in generale gli riusciva
più che bene con il resto del mondo.
“Allora, hai finito?” chiocciò
l’allegra voce dell’italiano, il quale subito fece
sbucare la testa da oltre la tendina che li separava.
Arthur sussultò per quella scandalosa violazione della sua
privacy.
“M-ma che stai facendo?! Non riesci ad aspettare
fuori?” bofonchiò agitandosi tutto, nemmeno lo
avesse scoperto a rubare.
Dal canto suo, Feliciano gli restituì un’occhiata
perplessa, del tutto incapace nella sua semplicità di vedere
le cose di anche solo supporre i complessi che tanto facilmente
l’inglese si creava.
“Mmh, non pensi di esagerare? Non ti ricordi che io ti ho
visto completamente nudo?” controbatté, con una
disinvoltura disarmante.
Il tono del viso di Arthur divenne pericolosamente rosso, con una tale
velocità da ricordare la capacità di
accelerazione di una Ferrari.
“Non c’è bisogno di farlo sapere al
mondo!” soffiò, cercando di non mettersi a
strillare per tutto il negozio come un pazzo isterico.
Feliciano sorrise, cordiale, per nulla intimorito dal violento rossore
che aveva attaccato il viso del suo compagno di shopping. Gli
sistemò la camicia.
“Su, forza, esci. Devo vedere come ti sta.”
Soffocando un
‘ma
non lo vedi ora come mi sta?’ molto poco
cordiale, recalcitrante, Arthur uscì fuori dal suo covo
d’emergenza, facendo mostra di sé
all’interno del negozio.
Ad Arthur Kirkland non piaceva essere al centro
dell’attenzione. Da tempo ci era giunto a patti, non
pretendendo da sé l’impossibile. Al contrario di
Francis, non si trovava a suo agio sotto lo sguardo attento altrui; a
differenza di Alfred, non riusciva semplicemente a ignorare gli occhi
puntati sulle sue azioni; non era in grado nemmeno di diventare
all’occasione invisibile come Matthew, o a cavarsela con
qualche atteggiamento standardizzato come Ludwig. In sintesi, non era
in grado di stare sotto i riflettori senza apparire un pezzo di
baccalà.
Da tempo l’aveva capito, da tempo evitava ogni situazione che
lo potesse mettere in tale imbarazzo. Almeno fino a quando uno sciocco
italiano aveva deciso di rivoluzionargli la sua vita quotidiana
– e Dio solo sa quanto Arthur odiasse le rivoluzioni.
Feliciano trotterellò ad almeno tre passi lontano, per fare
poi una mezza piroetta addobbata di un inutile
“veh!”
festante e osservarlo con attenzione, non riuscendo a trattenersi dal
battere le mani entusiasta.
Nel frattempo, anche il commesso li aveva raggiunti – per
l’immensa felicità di Arthur, osservandolo pure
lui attraverso i suoi occhialetti da fighetto.
“Ti sta proprio bene!” chiocciò allegro,
dondolandosi appena sul posto colto da eccessiva, sciocca, esaltazione.
“Questa è perfetta! Non pensa anche
lei?” chiese poi rivolgendosi al quattrocchi; palese era che
Arthur non aveva alcuna voce in capitolo riguardo al vestiario che lui
stesso avrebbe dovuto indossare.
“Oh, ma certo! Il malva si addice proprio alla sua
carnagione. Ottima scelta, sir.”
“
Veh!
Grazie! Allora prendiamo questa, insieme al completo che abbiamo
provato! E anche quella cravatta e il gilet che ho visto
prima!”
Il commesso occhialuto si produsse in ultimo mellifluo sorrisino.
“Sì prepara per un’occasione speciale, a
quanto vedo.” Disse, con quel tono complice che fece subito
saltare la mosca al naso ad Arthur.
“No, non è nul-“
“Già! E’ per l’appuntamento
che ha con me!”
E mentre il commesso si congratulava con loro, Arthur
desiderò ardentemente sparire inghiottito dal pavimento, per
ritrovarsi in un qualsiasi altro luogo lontano anni luce da
lì.
***
Altrove, in qualunque altro luogo sulla faccia della Terra, anche sulla
Luna o peggio, all’Inferno, bastava che non fosse
lì, a girare per il centro di Londra con il chiacchiericcio
di Feliciano nell’orecchie, reggendo una borsa enorme con
stampato a chiare lettere “Armani”.
In condizioni normali si sarebbe anche ribellato al fatto che Feliciano
lo stesse portando allegramente a braccetto, come una felice coppietta
di innamorati; ma, a mezz’ora dall’atroce fatto,
risentiva ancora dello shock causatogli dalla vista del conto.
“Stai bene, Arthur?”
Ci mise un po’ per capire che in mezzo a quel fiume di parole
che instancabile scorreva dalle labbra dell’italiano, gli era
stata rivolta una domanda; aveva cominciato a non seguire
più il discorso dell’altro quando era stato
introdotto un aneddoto su gattini carini e sulle (a quanto pare)
posticce patate tedesche, preferendo disperarsi calcolando a quanti
anni sarebbe stato condannato a mangiare solo fagioli in scatola per
appianare la spesa del giorno.
Grugnì, non avendo nemmeno la forza di provare ad
arrabbiarsi.
“Vargas, ti rendi conto di quanto tu mi abbia fatto
spendere?” asserì con tono drammaticamente serio;
che almeno si sentisse in colpa, accidenti!
“Non ti piacciono i vestiti?” fu invece
l’accorata reazione dell’italiano, spaventato
più dalla questione ‘gusto’ che da
quella ‘denaro gettato al vento’.
Arthur sospirò, rassegnato, prima di riprendere ancora
più grave. “Non sto dicendo questo.”
“Allora ti piacciono!”
“No!” Sbuffò ancora.
“Cioè, sì! Mi piacciono! Ma non
è questo il punto!”
“E allora qual è il punto?”
“È che abbiamo, anzi
ho, speso una barca
di soldi!”
“Ed è un problema?”
Arthur arrestò il loro cammino, d’improvviso,
quasi facendo cadere l’altro per il gesto brusco, il quale
rimase su due piedi solo perché saldamente ancorato al
braccio dell’inglese.
Questa volta lo fissò dritto negli occhi, prima di proferire
la sua sentenza definitiva.
“Certo che lo è!”
“Vorresti dire che dai così poca importanza al
nostro appuntamento da preferire presentarti in maniera
mediocre?”
Quasi gli mancò il fiato di fronte a quell’accusa
infamante. Deglutì a vuoto, e non seppe quale forza gli
permise di non sfuggire allo sguardo dell’altro, che nel giro
di pochi secondi si era fatto insostenibile.
“N-no!” gracchiò, il tono la voce
stridula per la fretta di dimostrare un no convito.
“E allora non c’è nessun
problema!”
“… pensala come vuoi, Vargas.”
Raddrizzò allora lo sguardo verso il loro percorso, con
tutta l’intenzione di chiudere lì la discussione.
Del resto, non avrebbe avuto senso continuare visto che, a quanto
pareva, ogni possibile argomentazione di buon senso rimbalzava sul suo
‘acuto’ interlocutore.
Mosse un primo passo per riavviare il cammino, ma Feliciano, rapido,
sgusciando dal suo braccio, gli si parò davanti,
acchiappandogli entrambe le mani nemmeno temesse che da un momento
all’altro si sarebbe dato alla fuga.
“Dillo.”
Arthur sbuffò, per l'ennesima volta dall'inizio di quella
mattinata, alzando gli occhi al cielo per chiedere un po’ di
pazienza – ché lui, notoriamente, ne aveva molto
poca.
“Cosa?”
“Che ti piacciono.” scandì Feliciano,
sfoggiando un allegro sorriso senza un palese motivo. “I
vestiti che ho scelto per te.” puntualizzò poi,
stringendo appena la presa.
“Perché dovrei darti questa
soddisfazione?”
“Perché far sentire bene le persone è
una cosa bella.”
Arthur si irrigidì all’istante, serrando la
mascella e strabuzzando gli occhi in un modo che l’italiano
dovette giudicare comico, da come si lasciò scappare una
piccola risata. Quel…
essere.
Non aveva proprio pietà.
Si sottrasse di nuovo a quello sguardo trepidante di attesa, puntando
gli occhi su qualsiasi altro campo visivo che non includesse anche solo
la presenza del ciuffo del suo aguzzino.
La speranza che, magari sbucando da un cestino dei rifiuti o da un
cespuglio o da dietro una cassetta delle lettere, qualcuno spuntasse
pronto a suggergli la mossa giusta per conservare l’ultimo
briciolo di dignità rimastagli, era del tutto vana. Oltre
che palesemente ridicola.
Sospirò, prese coraggio; e si costrinse a capitolare.
“… mi piacciono.”
Solo allora Feliciano lo liberò, non prima di illuminarsi
con un sorriso vittorioso.
“Ne sono contento. E adesso andiamo a comprare le
scarpe!”