Honeymoon in Paris

di Koa__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 3: *** Terza parte ***
Capitolo 4: *** Quarta parte ***
Capitolo 5: *** Quinta parte ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


I diritti di Sherlock non mi appartengo, io utilizzo i personaggi non a scopo di lucro.
Fa parte della serie “di Mystrade, d’amore e d’altre sciocchezze”.
Per leggere questa storia è necessario aver letto le precedenti...
Ok, prima che chiudiate e mi mandiate al diavolo, 
non lo dico per andare alla ricerca di commenti, 
questa storia è leggibilissima da sé, ma ci sono delle cose
che, lo so già, non capirete se non avete letto le altre shot.

Qui sotto trovate i link alle varie parti:
Prima parte, Seconda parte, Terza parte, Quarta parte

Koa



 
Honeymoon in Paris
 


 

Prima parte
 

Londra era particolarmente soleggiata in quel caldo pomeriggio di maggio, una leggera brezza spirava muovendo le fronte degli alberi, là, nei giardini di Notting Hill. Un vento leggero che agitava i petali di rosa appena sbocciati che ornavano le aiuole. Gregory Lestrade si sfilò gli occhiali da sole, guardandosi attorno con fare confuso. Aveva appuntamento con John Watson, ma non era certo che il luogo fosse quello esatto. Sapeva che i giardini di Notting Hill erano preclusi ai visitatori, perché ad uso esclusivo degli abitanti della zona. E anche se lui era in grado di ottenere ciò che desiderava, grazie a Mycroft, si sentiva ugualmente a disagio.

«Greg.» Una voce bassa lo richiamò da lontano; lo yarder si voltò ritrovandosi in quel modo faccia a faccia con la figura del suo vecchio amico dottore, il quale camminava nella sua direzione con un andamento a di poco claudicante.
Lestrade rimase interdetto appena si rese conto di quanto fosse cambiato John. Era sempre la medesima persona, ma aveva un’aria stanca, quasi spossata, che si portava addosso e che non gli s'addiceva affatto. Dopotutto, erano trascorsi tre anni dalla finta morte di Sherlock, da dopo il funerale non si erano nemmeno più visti. Non che Greg avesse avuto qualche problema con Watson, ma dopo che aveva scoperto la verità riguardo il finto suicidio di Sherlock, aveva preso la decisione di trasferirsi altrove e di lasciare Londra. Aveva chiesto a Mycroft il favore di mettere una buona parola perché potesse essere trasferito e il suo fidanzato aveva fatto pressione, senza nemmeno fare un eccessivo sforzo, a che venisse mandato nell’Eastbourne. Greg aveva quindi vissuto a Pendleton House per quasi tre anni, ma appena due mesi addietro aveva ricevuto una telefonata dell’ispettore capo White che gli chiedeva il favore, personale, di rientrare a Scotland Yard.

Lestrade, oltre ad esserne rimasto sorpreso, aveva indugiato a lungo riguardo la decisione da prendere. Alla fine aveva semplicemente pensato che non ci sarebbe stato nulla di male nel tornare a vivere nella capitale. Dopo qualche giorno dal suo ritorno, aveva infatti appena disfatto le valige nell’appartamento di Whitehall di Mycroft nel quale avrebbe vissuto, quando aveva ricevuto un messaggio di John. Gli era sembrato strano che lo contattasse dopo tutto quel tempo, non si erano mai sentiti dopo che gli aveva comunicato d’aver preso la decisione di sparire da Londra. E il fatto che si fosse fatto vivo appena aveva fatto ritorno, gli era sembrato strano fin da principio.

Quel giorno, quindi, lo rivedeva per la prima volta dopo tanto tempo; tempo che sembrava esser stato terribilmente tiranno con John Watson. Zoppicava vistosamente e si aiutava a camminare con un bastone da passeggio, era più magro e scavato di quanto non ricordasse, ma erano i suoi occhi a sconvolgerlo. Sapeva quanto difficile fosse stato il vivere a fianco di Sherlock, ma quello che lo aveva sempre convinto a credere che John fosse innamorato di lui, e quindi felice, era la luce che aveva negli occhi. A quel tempo brillavano di gioia, ma adesso erano vuoti e spenti.
«John Watson e con i baffi» si sforzò di dire, sorridendo di un bonario divertimento che in quel momento non gli apparteneva di certo. L’immagine che aveva davanti era quella di un uomo distrutto e che, ancora, dopo tutto quel tempo, soffriva per la morte della persona amata. Diavolo, quanto avrebbe desiderato il dirgli la verità… Che Sherlock era vivo e in salute e che si era finto morto soltanto per lui.
«Greg, come stai?» gli domandò John, stringendogli una mano con vigore.
«Tutto bene, grazie; come mai mi hai fatto venire qui? Che adesso vivi a Notting Hill?» [1]
«Abito in Cavendish Place, ma lavoro in un ambulatorio che è proprio qui dietro e posso usare questo giardino perché è annesso al mio studio.» [2]
«Sono contento per te, questo è davvero un posto magnifico! Ma non stare lì in piedi, vieni, sediamoci su quella panchina» disse, indicandone una poco lontano.
«Eh, non sono in più in forma come lo ero una volta» mormorò John poco dopo, lasciandosi cadere pesantemente sulle doghe in legno dipinte di verde.
«Cosa ti è successo alla gamba? Non penso d’averti mai visto col bastone, forse una volta, ma è passato così tanto tempo che nemmeno me lo ricordo.»
«Si è riacutizzato un vecchio dolore» spiegò, «Londra è umida e fredda, Greg e le mie ossa non sono più giovani come lo erano una volta. Ma tu come stai, piuttosto? Mi sembri proprio in gran forma, so che tu e Mycroft vi siete sposati.»
«Come fai a saperlo?» chiese, sinceramente stupito.
«La signora Hudson, ovviamente. Quella povera donna è sola e so che nel vecchio appartamento non ci vive nessuno, quindi di tanto in tanto vado a trovarla; ci sono stato appena qualche settimana fa e mi ha detto di voi due e anche che saresti tornato. Quando è successo? Quando vi siete sposati?»
«L’anno scorso» annuì. «Avrei voluto invitarti, ma sapevo che tra te e Mycroft non correva buon sangue dopo che… Beh, lo sai. E poi, a dirla tutta, credevo che tu fossi un po’ arrabbiato anche con me. Sai, mi sono pentito ogni fottuto giorno di non aver creduto a Sherlock, di aver dubitato di lui, credendolo un criminale.»
«Non ha più importanza, Greg, è passato tanto tempo… Nessuno di voi dovrebbe colpevolizzarsi per quanto è accaduto, nemmeno Mycroft. Perché la verità è che, se Sherlock è morto, è solo a causa mia.» Nel sentire quelle parole, Lestrade avrebbe voluto ribattere. Non riusciva a sopportare lo sguardo triste e perso nel vuoto di John. Le dita che tamburellavano sulla superficie liscia del bastone, gli fecero anche capire che era nervoso e forse non a proprio agio nel rivangare vecchi ricordi. Forse sarebbe stato meglio troncare subito quel discorso sul nascere. Per questo fu stupito appena John lo precedette; Greg quindi si ritrovò quindi nuovamente ammutolito.
«Sai, mi sono sempre sentito orgoglioso del fatto che fossi la sola persona a riuscire a vivere con lui. Sappiamo tutti che non era semplice sopportarlo e, soprattutto, era impossibile venire tollerati dalla sua eccentricità, dalla sua sociopatia, dal suo autismo… Una parte di me è sempre stata segretamente felice del fatto che riuscisse a sopportarmi, ma la realtà è che non l’ho mai capito. E l’ho compreso bene quel giorno sul tetto. Sherlock è sempre stata una persona fragile, prima di conoscere me era un drogato, non sai quanta fatica ho fatto per farlo anche solo smettere di fumare. Io non gli sono mai stato vicino come credevo di star facendo, e proprio nel momento in cui lui aveva maggiore bisogno di me, ho dubitato. Perché l’ho fatto, Greg: c’è stato un momento in cui anch’io ho dato ragione a Moriarty e in cui ho creduto che…»
«Non dire così, John» lo fermò il poliziotto, tornato padrone di sé «è vero era un drogato e forse hai dubitato di lui, ma tu non l’hai conosciuto prima. Quando tu non c’eri era un’altra persona, tu lo hai cambiato, John, lo hai reso migliore. La colpa è solo di Moriarty, non è né mia, né tua e neanche di Mycroft, anche se non ha mai fatto altro che sentirsi responsabile. Credimi, per favore.» Greg vide John sorridere, ma farlo in un modo timido, quasi impacciato e che non credeva davvero potesse appartenergli. Probabilmente il parlare di nuovo di certe cose, riapriva vecchie ferite che gli erano costate tanto sanare.

Lestrade non aveva mai riflettuto sul fatto se conoscere o meno la verità, fosse un aspetto positivo. Sapeva che Sherlock non si era suicidato e che non era un pazzo assassino, quello sì, ma era da quel giorno a Pendleton House che non lo vedeva, che non aveva la minima idea di dove si trovasse. Riceveva di tanto in tanto qualche informazione da Mycroft, ma il più delle volte aveva l’impressione che lo stesso maggiore degli Holmes non avesse la minima idea di che cosa Sherlock stesse facendo. Sicuramente però, il non saperne nulla di nulla, essere all’oscuro di tutto senza conoscere la verità, proprio come lo era John, doveva essere terribile. Se solo Waston avesse saputo… Se solo si fosse immaginato cosa aveva fatto per lui il sociopatico Sherlock Holmes, probabilmente si sarebbe sentito meglio.

Lo yarder spiò nuovamente le sue espressioni: ora non sorrideva più, ma lo guardava con curiosità, forse se ne stava zitto da troppo tempo. Infatti, fu proprio la sua voce a fermare il corso dei suoi pensieri.
«Basta parlare del passato, Greg, sono trascorsi quasi tre anni e la vita va avanti, senza di lui, ma va avanti. Ho un bel lavoro e mi vedo con una ragazza.»
«Hai una ragazza?» chiese, stupito.
«Si chiama Mary e l’ho conosciuta un paio di anni fa, è carina e simpatica e…»
«State insieme?» lo incalzò.
«Sì, da un po’ di tempo; volevo anche chiederle di sposarmi.»
«Beh, se la ami, è una bella notizia!» esclamò Greg, forzando un sorriso.
«Certo che la amo, lei è carina ed è davvero una brava persona, mi ha aiutato parecchio, sai da dopo la morte di Sherlock mi sono lasciato un po’ andare.»

Lestrade rimase per un istante a pensare a quelle parole, John che si vedeva con un’altra persona, con una donna e che si dichiarava innamorato di lei, dicendo di volerla sposare. Che doveva fare? Cosa dire ad un uomo che cercava disperatamente di ricostruirsi una vita senza sapere che la persona che amava, e che credeva morta, in realtà era viva e vegeta? Quanta voglia aveva di dirgli la verità, Greg Lestrade, quanta di dirgli di lasciare quella donna e aspettare che Sherlock tornasse, tanta da mordersi la lingua pur di non parlare. Tutto ciò che fece quindi, fu annuire e sorridere ovvero mettere in atto ciò che Mycroft gli aveva consigliato di fare, se mai avesse rivisto il buon dottore prima del ritorno di Sherlock. Mentire, nonostante lui si detestasse il dover dire delle bugie.
«Sono contento per te, John, questa è una buona cosa e tu meriti di essere felice.»
«Grazie, Greg, conta molto per me la tua opinione. Sai avevi ragione, quella volta a Baskerville: io amavo Sherlock, ma non gliel’ho mai detto. Avrei dovuto farlo, ma temevo di farlo scappare o spaventarlo. Lui non è mai stato tanto incline a certe cose come i sentimenti; più di una volta ho addirittura creduto di non essere nemmeno un amico per lui. Un uomo così che si innamora e di me, l’ho sempre ritenuta un’ipotesi improbabile.»
«Già» disse, ora accalorato «ma prova a pensare: se Sherlock fosse qui adesso, in questo momento e ti dicesse che ti ama, tu che faresti?»
«Beh, dovrei controllare i miei esami tossicologici, perché sarei di certo drogato» disse in un pallido tentativo di fare ironia.
«Che faresti, John?» insistette.
«Gli direi che vederlo gettarsi da quel tetto è stata la cosa peggiore che io abbia mai visto in vita mia, che per tutti questi anni ho rivissuto quel giorno nella mia mente, cercando il più piccolo dettaglio che mi facesse capire che mi sono sbagliato, anzi, che tutti ci siamo sbagliati e che in realtà lui non è morto. Lo odio, Greg, lo odio con tutto me stesso, perché si è buttato da un palazzo e ha preferito morire piuttosto che stare con me. Non ha lottato per salvare la sua reputazione. Io gli sarei stato sempre accanto, anche se avesse dovuto smettere di lavorare. E invece, le ultime parole che mi ha detto, sono state che Moriarty aveva ragione e che era un impostore. Quel maledetto bastardo è morto dicendomi una bugia e se lo avessi sotto mano lo ucciderei, Greg, lo farei per davvero.»

In quel momento il cellulare di Lestrade squillò, vibrando nella tasca della giacca leggera che portava. Il poliziotto sussultò, nonostante fossero in un parco in pieno giorno, era come se lui e John si trovassero in un altro mondo. Si era come risvegliato all’improvviso e sapeva anche chi era stato a destarlo. Quella era la suoneria di Mycroft.
«Scusami» mormorò prima di prendere il telefono e leggere il messaggio.



 
Controllo, Gregory, controllo.



«Te ne vai di già?» chiese John dopo che Lestrade fu scattato all’impiedi e che ebbe gettato il telefono nella tasca della giacca.
«Mi dispiace, ma io e Mycroft partiamo per la luna di miele la prossima settimana e devo sbrigare certe faccende in ufficio prima d’andar via.»
«Luna di miele? Ma non vi siete sposati un anno fa?»
«Sì, ma non l’abbiamo mai fatta. Sai, con il suo lavoro e poi Sherlock, beh…»
«E dove andate di bello?»
«Parigi» annuì, «non so altro: ha voluto organizzare tutto da solo. E con “organizzare” intendo non alzare un dito e far fare tutto ad Anthea.» Entrambi ne risero, ma la risata di Greg si smorzò immediatamente e le sue espressioni del viso si fecero subito serie. «Mi dispiace dover scappare tanto in fretta, ma appena torno ci vediamo. D’ora in poi sarò qui a Londra, nel mio vecchio ufficio a New Scotland Yard e poi hai il mio numero di cellulare, per qualunque cosa, non so una birra o una pizza o anche solo per parlare, basta chiamare. Mycroft sarà felice di aiutarti per qualunque cosa tu abbia bisogno, e dico qualunque.»
«Grazie, lo apprezzo davvero.»
Lestrade fece per incamminarsi, ma ritornò subito sui propri passi, voltandosi di nuovo verso di lui.
«So che lo amavi, John e so che non potrai mai smettere di farlo. Ma tu non colpevolizzarti troppo per quello che è successo, cerca di essere felice o quantomeno più sereno.»
«Lo sono, con Mary sto bene e la mia vita adesso è tranquilla. Niente più violini nel bel mezzo della notte o corse disperate per Londra o discussioni infinite sul disordine o sulle parti del corpo che mi metteva in frigorifero; Mary è una brava ragazza e io sto bene con lei.»
«Capisco» annuì Greg, gli suonava tanto di auto convincimento quel discorso. Non poteva certo leggergli nei pensieri, o nel cuore, ma non gli servivano parole per comprendere che John non era affatto felice come voleva fargli credere. Ma, ancora una volta, si sforzò d’essere quello che non era: ovvero contento per la sua nuova vita. E sorrise, di nuovo falsamente, di nuovo con finta gioia e, di nuovo, il suo stomaco si rivoltò e un senso di nausea gli rivoltò le membra.
«Voglio conoscere questa ragazza, appena torno ci organizziamo» disse, accelerando il passo come se fosse inseguito.
«Arrivederci, Lestrade.»


 
oOo



Greg affrettò il passo, percorse i viali del parco quasi di corsa e dopo che ne fu uscito si lasciò andare contro il muro di cinta, sospirando pesantemente. Si sentiva un bastardo! Un maledetto stronzo e lui detestava lo stare così; se n’era andato da Londra proprio per non vedere più John, lui gli voleva sinceramente bene e poteva sul serio considerarlo come suo amico, e il non potergli dire la verità lo faceva star male.

Quando una berlina nera si fermò davanti a lui ed una portiera si aprì dall’interno, Greg si risvegliò. Aprì gli occhi, spiò nell’auto ed intravide le scarpe in pelle marrone di Mycroft e l’ombrello blu, perfettamente piegato, premuto contro i tappetini color tortora.
«E dovrei entrare?» chiese, alzando la voce di modo da farsi sentire.
«A meno che tu non voglia percorrere l’intero tragitto da qui a Whitehall a piedi, Gregory, suppongo che tu debba farlo, sì.»

Lestrade fece una smorfia, lui e i suoi maledetti discorsi sensati, pensò. Si ritrovò suo malgrado ad obbedire, chiudendosi la portiera alle spalle con mala grazia e si mise a sedere di fronte lui. Si lasciò quindi andare contro i morbidi sedili, sopraffatto da tutte quelle emozioni che ancora gli facevano sussultare il cuore ed esplodere il cervello.
«L’incontro con il dottore ti ha agiato più di quanto pensassi, Gregory.»
«Sono uno stronzo!»
«Oh, non essere tanto severo con te stesso» lo ammonì Holmes.
«Mycroft, quell’uomo è distrutto e s’incolpa per la morte di Sherlock e io cos’ho fatto? L’ho consolato come si fa con le vedove, gli ho detto che non era colpa sua e che doveva cercare di essere più felice: ho mentito.»
«Hai detto il vero, non è colpa del dottor Watson se Sherlock ha fatto ciò che ha fatto.»
«A quanto pare si vede con una donna, una certa Mary. Io l’ho addirittura spinto a farsi una vita con quella donna, pur sapendo che la persona che ama, e che crede morta, in realtà è viva e sta benissimo. Tu sai qualcosa di questa ragazza?» domandò poi, senza celare d’essere morso da una qual certa curiosità.
«Mary Morstan» esordì suo marito, lasciando trasparire un lungo sospiro, che faceva capire quanto quel discorso lo irritasse. Le ragioni per cui quella signorina Morstan non piaceva a lui, dovevano essere le medesime per le quali nemmeno a Mycroft piaceva. O perlomeno, quella era l’impressione che aveva osservando il suo viso contrariato e presa sul suo ombrello, ora più salda.
«Trentasei anni, insegnante privata, ha sempre lavorato per famiglie dell’alta società che preferiscono non mandare i rispettivi rampolli in una scuola pubblica. Attualmente ha un impiego presso la famiglia di Lord George Stanford, due gemelli di otto anni, maschio e femmina, lei ha problemi di timidezza e lui di iperattività. Il suo stipendio medio è di tremila sterline al mese, ma al momento è di quattromila e duecento. Lady Stanford ritiene che il suo impegno sia doppio a causa dei suoi problematici figlioli e la gratifica spesso, anche con costosi regali.»
«Accidenti» sbottò Lestrade, rizzandosi sul sedile.
«Si frequentano da più o meno nove mesi, si sono incontrati al cimitero dov’è sepolto Sherlock, lei andava a pregare sulla tomba del suo primo marito, morto una quindicina di anni fa in un incidente d’auto in cui guidava lei; lo fa una volta l’anno. Si sono frequentati per qualche mese e ora si vedono regolarmente; il dottore ha intenzioni serie.»
«E tu da quanto tempo sai queste cose?»
«Ricevo un rapporto sul dottor Watson ogni due settimane. Proprio come Sherlock voleva, John è costantemente sorvegliato e l’identità di chi lo avvicina, controllata. Fino a che l’organizzazione di Moriarty non sarà sgominata, queste misure sono necessarie.»
«Mary Morstan…» ripeté Greg, meditabondo, guardando fuori dal finestrino mentre prendeva a tamburellare contro i sedili chiari. «Lui lo sa?» chiese poi.
«Non parlo con mio fratello da sei mesi, so solo che è vivo perché la scorsa settimana mi ha fatto avere un messaggio, ma non ho idea di dove si trovi o di che cosa stia facendo e la cosa, se devo essere brutalmente sincero, inizia a seccarmi. Ma vorrei invitarti a non angustiarti ancora con questioni del genere, Gregory, abbiamo una luna di miele alla quale pensare» concluse il maggiore degli Holmes, sorridente.

Lestrade sorrise a sua volta, si protese verso di lui e ne baciò delicatamente le labbra. Una luna di miele, una vacanza nella città dell’amore: Parigi. Era passato davvero troppo tempo da che lui e Mycroft non si prendevano delle ferie e non vedeva l’ora di partire e lasciarsi alle spalle tutto e tutti. La capitale francese era quel che ci voleva: loro due soli, nella luna di miele che non avevano mai fatto, per tutte quelle ragioni che Lestrade faticava a ricordare. Il lavoro e la finta morte di Sherlock, e poi la crisi coreana e il problema in Iran e chissà che altro ancora.
«Dimmi un po’» esordì poco più tardi, folgorato da una questione che gli premeva sulla punta della lingua. «Non è che staremo da tua madre, eh? No, perché non mi va di passare una settimana a discutere di caviale, politica estera e lucido per candelabri d’argento.» Kathleen Holmes infatti, aveva un appartamento a Parigi nel quale abitava da tutta una vita.
L’ultima volta che avevano fatto una vacanza insieme, era accaduto due anni prima, avevano trascorso due settimane con la signora Holmes e, Lestrade, aveva rischiato letteralmente di dare di matto. Per carità, era una brava donna, generosa ed estremamente cordiale, ma vivere sotto il suo stesso tetto, quello davvero Greg non lo avrebbe sopportato. Non una seconda volta.

«Alloggeremo all’One by the Five, ovvero l’albergo più esclusivo di Parigi.» [3]
«L’One by the Five?» ripeté, incredulo. «Quello con una camera sola? Mycroft costerà un occhio della testa quel posto.»
«Io voglio solo il meglio, Gregory, dovresti saperlo.»

Lestrade si ritrovò a sorridere, dopo tanti anni riusciva a leggere dentro di lui e capire i messaggi nascosti tra le righe. Non era più il Mycroft freddo di quando si erano conosciuti, era probabilmente più umano, ma manteneva sempre una qual certa compostezza che lo contraddistingueva, specie quando erano in pubblico. Non aveva idea di cosa avesse organizzato di tanto speciale, ma era certo che sarebbe stato bene, perché ciò che aveva appena detto corrispondeva  a verità: lui voleva solo il meglio.

 
Continua…

 
[1] “Che adesso vivi a…” è un espressione tipicamente colloquiale (forse addirittura dialettale) e mi rendo perfettamente conto che non è italiano corretto, ma in un discorso diretto mi prendo delle libertà.
[2] Notting Hill è uno dei quartieri di Londra, è residenziale ed è conosciuto per i suoi famosi giardini che per la maggior parte sono privati e ad uso esclusivo dei residenti. Tipo giardini di ville o palazzine…
[3] L’One by the Five (ho mantenuto il nome originale senza tradurlo), è l’albergo più esclusivo al mondo e si trova a Parigi. È un hotel composto da una sola stanza, ovviamente una suite, ed offre una vista unica sulla Torre Eiffel. Inutile dire che è costosissimo.

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Capitolo 2
*** Seconda parte ***



Seconda parte

 
Greg Lestrade non aveva mai visto Parigi, era uno di quei luoghi nel mondo in cui avrebbe tanto voluto andare, ma che non aveva mai avuto modo di visitare. Le poche vacanze che aveva fatto in vita sua, non avevano mai previsto nulla di diverso da una spiaggia sul mare di Brighton assieme a colei che, all’epoca, era sua moglie. Conosceva ovviamente le più importanti attrattive come la Tour Eiffel, Notre Dame, i viali lungo la Senna… Ma avere la possibilità di visitare quelle meraviglie, era tutt’altra faccenda che guardarle da una fotografia. Ad esempio, non avrebbe mai creduto che la luna, che si specchiava nel grande fiume che divideva la città, fosse tanto splendida da ammirare. Eppure, non era poi tanto diversa da come la vedeva a Londra tutte le notti. Parigi però, era dotata di un’aura magica che gli faceva credere per davvero d’essere completamente impazzito. I vicoli acciottolati e ben poco illuminati, il profumo di pane fresco che gli arrivava alle narici la mattina presto, i ristoranti tipici, i mimi che regalavano fiori alle belle ragazze e poi la torre di ferro, che sovrastava l’area urbana e di notte s’illuminava di migliaia di luci bianche. Era tutto così splendido, quella luna di miele era stata davvero una mano santa per il suo pessimo umore. Nelle ultime settimane non aveva fatto altro che pensare a Sherlock e a John, e la cosa non lo rendeva affatto felice. Anche in quel momento mentre, in piedi di fronte alla grande finestra della camera da letto, guardava Parigi e rifletteva su quanto fosse fortunato, la sua mente volò al suo amico dottore. Mycroft era insopportabile certe volte, era vero, ma se si fosse trovato al posto di John, se avesse creduto morto l'uomo che amava, non sarebbe stato altrettanto contento. Era un discorso pieno di ovvietà e pensieri banali, il suo, se l’avesse sentito Mycroft lo avrebbe di certo rimproverato. Ma Greg non poteva non rimuginare su John Watson e su quanto lo avesse trovato cambiato. Non avrebbe dovuto perdersi via così e permettere a quei turbamenti di rovinare il suo buon umore, tuttavia non riusciva a fare altro se non domandarsi cosa sarebbe accaduto se, o per meglio dire quando, Sherlock fosse tornato. Come avrebbe reagito il dottore alla notizia che il detective era vivo? Come si sarebbe comportato? Si sarebbe sentito ingannato e imbrogliato oppure avrebbe messo da parte tutto quello e lo avrebbe semplicemente abbracciato? Chissà se poi lui e il giovane Holmes, avessero mai trovato il coraggio di dichiarare il reciproco amore. E cos’era diventato Sherlock Holmes dopo tre anni distante da Londra e da tutti, lontano da John Watson?

Greg scrollò il capo, stava ammattendo! E sì che quella doveva essere la settimana più bella della sua vita: era a Parigi con suo marito, non avrebbe dovuto esserci momento migliore. Eppure non riusciva a sentirsi del tutto sereno e tranquillo, era preoccupato, preoccupato per Sherlock, per John… Addirittura lo era per Mycroft, anche se non aveva realmente motivo di temere alcunché. Deciso a svuotarsi la mente, guardò l’orologio da polso che portava: erano da poco passate le sei di sera ed il sole già tramontava dietro l’orizzonte, colorando il cielo di un bell’arancione acceso. Si portò una mano allo stomaco dopo che questi ebbe gorgogliato, aveva una gran fame. In tutta la giornata non aveva mangiato poi così tanto, un panino a mezzogiorno e nient’altro. Il resto della giornata lui e Mycroft lo avevano trascorso in giro per le vie della città. Quella sera invece si sarebbero rilassati, cenando in un ristorantino tipico situato lì vicino. Mycroft aveva addirittura promesso che non avrebbe fatto troppe storie sulla scelta del locale in cui mangiare, lasciandogli piena libertà decisionale. Perché, era ovviamente tutto splendido, ma a Greg piaceva l’idea di poter decidere lui per una volta tanto. Non che il maggiore degli Holmes lo estromettesse dalle questioni importanti, ma aveva rinunciato da tempo a poter mettere bocca sulle cose di poco conto, come gli spettacoli da vedere o i ristoranti nei quali cenare. Ogni volta che sceglieva lui un locale, a suo marito non andava mai bene e finivano con il litigare. Per questo aveva rinunciato a mettere bocca, non valeva la pena di discutere per delle cose che, alla fine, gli andavano bene lo stesso. [1]

Quando Mycroft entrò in camera, poco più tardi, Lestrade si voltò verso di lui. Appena si rese conto di come si era vestito, roteò gli occhi, trattenendo uno sbuffo divertito: per fortuna che gli aveva chiesto d’essere sciolto.
«In che modo saresti informale, di grazia?» chiese, adducendo al completo chiaro che portava e alla cravatta blu che si stava annodando.
«La cravatta e la camicia non sono di seta e non indosso i gemelli d’oro, ma questi più comuni di platino. Inoltre, come ben saprai, i completi chiari si indossano di giorno e non la sera.»
«E secondo te, informale, significa questo?»
«Cos’altro?» gli chiese in risposta, mentre il nodo della cravatta prendeva forma.
«Quando dico informale» esordì il poliziotto, avvicinandosi ed afferrando la sottile striscia di stoffa, per poi sfilargliela da sopra la testa. «Intendo senza giacca, senza cravatta e soprattutto senza gemelli, che siano d’oro o di platino o di plastica.»
«Le scarpe le posso tenere o devo andare in giro in pantofole? E, comunque, non possiedo gemelli in plastica.»
«Adesso mi diventi pure ironico» ghignò. «Tirati su quelle maniche, non essere così… inglese» lo rimproverò.
«Ma io sono inglese e lo sei anche tu, Gregory.»

Lestrade ignorò la precisazione, dandogli un’ultima rapida occhiata senza nascondere d’essere soddisfatto del lavoro svolto. Avere davanti a sé un Mycroft con le maniche tirate su fino al gomito ed un pullover rosa salmone a coprirgli le spalle, era un qualcosa che non si vedeva tutti i giorni. Quella sua versione meno rigida, era del tutto atipica per un uomo che riusciva ad essere più sofisticato di lui, anche solo indossando un pigiama. Non che Greg desiderasse cambiarlo a tutti i costi, ma doveva convincerlo più spesso a vestirsi così, lo faceva apparire più giovane e alla mano. Ovvero l’esatto contrario di ciò che era, un vecchio noioso a cui piaceva avere il controllo su tutto.
«Spero che il locale non sia trasandato quanto me, Gregory o il mio stomaco ne risentirà e temo che non potrò godermi ciò che resta della nostra splendida luna di miele.»
«Non dire stupidaggini» borbottò Greg in risposta, mentre si avviava verso la porta. «Il posto è bellissimo, piccolo, raccolto e molto caratteristico.»
«Chi te ne ha parlato?» domandò Holmes all’improvviso. Lestrade si ritrovò a pensarci per un momento, ma non seppe fornirgli una risposta precisa. «So che non è stato il portiere dell’albergo,» continuò Mycroft. «Perché siamo sempre entrati e usciti insieme, quindi dev’essere stato un passante o qualcuno che distribuisce volantini per strada; in questo caso deve averti molto colpito per avergli dato retta. Era per caso una bella ragazza? O qualcuno mascherato, forse un mimo, anzi no, ti ha attirato per qualche motivo, ma non sai ben dire quale sia» gli disse Mycroft, raggiungendolo.

Lestrade non si prese nemmeno la briga di domandargli come avesse fatto a capirlo. Se c’era una cosa che non era scemata, come la sua glaciale personalità che si era sciolta, erano le abilità deduttive. Se possibile, quelle erano migliorate.
«Un tizio mi ha dato questo» rispose, estraendo di tasca un piccolo foglietto giallognolo, spiegazzato.
«Ah, ora è tutto più chiaro» borbottò, enigmatico, mentre premeva il pulsante dell’ascensore.
«Più chiaro, in che senso?»
«Andremo a piedi: Montparnasse non è poi così lontano e in questo modo ne approfitterò per mostrarti talune cose che, di Parigi, devono essere viste» disse, mentre le porte si chiudevano davanti a loro. [2]

Lo yarder si soffermò un istante a guardare il foglio che teneva ancora in mano. In apparenza non ci vedeva niente di atipico, era un semplice volantino con il nome del locale, un abbozzo di menù e un’immagine che doveva esserne il logo. Qualcosa che gli sfuggiva in quello strano discorso e da che erano in ascensore, Mycroft si era irrigidito. A quel punto, Greg sperava per davvero che il ristorante non fosse una bettola di pessima fama come Holmes aveva ipotizzato.


 
oOo


 
Camminarono per una decina di minuti, passeggiarono per i vicoli poco illuminati del quartiere di Montparnasse, tenendosi per mano. Di tanto in tanto si soffermavano su di un qualcosa che Mycroft voleva vedesse. Come uno scorcio della Tour Eiffel che compariva magicamente tra un edificio e l’altro, oppure un luogo nel quale lui e Sherlock erano stati quando erano piccoli. I fratelli Holmes avevano infatti trascorso molto tempo in quella città. I loro genitori ci si erano trasferiti che Sherlock aveva solo tre anni e, di tanto in tanto, i piccoli raggiungevano i genitori per le vacanze estive. Perciò, suo marito la conosceva come le proprie tasche, dimostrando addirittura di parlare un francese piuttosto fluente.

Quando entrarono alla tavola calda, Greg notò subito un cambiamento piuttosto repentino in suo marito. Il luogo era molto accogliente, anche se modesto, ma non poteva credere che fosse contrariato per un qualcosa di così stupido, doveva esserci dell’altro. Non era il solito Mycroft, l’uomo che aveva di fronte, ma qualcuno di radicalmente differente. Era distratto, poco incline alla discussione e, fatto più atipico di tutti: da quando erano entrati non aveva fatto che guardarsi attorno. Lo aveva notato immediatamente, il modo con il quale aveva allungato lo sguardo verso i tavoli; era davvero un atteggiamento insolito. Lestrade si era addirittura guardato attorno in rimando, ma non aveva riconosciuto nessuno tra i presenti. C’era qualche coppietta seduta ai tavoli, un vecchio violinista e un cameriere, che era corso loro incontro con un sorriso cordiale ben stampato in viso. Greg non aveva capito molto del breve dialogo che era seguito al loro ingresso, aveva intuito che Mycroft gli stesse domandando un tavolo, ma null’altro. Suo marito doveva però essere riuscito in qualcosa, perché erano stati fatti accomodare ed il giovane cameriere, molto gentilmente, aveva acceso la candela posta al centro, prima di sparire in cucina.

«Mi sono permesso di ordinare anche per te, Gregory» lo informò Holmes, una volta che furono seduti. Lestrade spiò il suo viso da dietro il menù che aveva da poco aperto, sospirò e subito dopo lo richiuse, riponendolo sul tavolo.
«Beh, penso vada bene, almeno ho scelto il ristorante» mormorò, un poco affranto.
«Non che io sia particolarmente incline ad assaggiare cibo francese» precisò Mycroft subito dopo. «Ma tu non puoi lasciare questa città, senza aver prima mangiato piatti tipici come la ratatouille e il cassoulet ma, soprattutto, il paté.» [3]
«Beh, se lo dici tu» mormorò, confuso. Non aveva la minima idea di cosa avesse detto, ma per quelle questioni si affidava sempre al suo buon gusto, specialmente perché fino ad allora non aveva mai sbagliato.

La cena scivolò via piuttosto tranquillamente. I piatti erano ottimi e la cucina veloce e precisa. A fine pasto, Gregory Lestrade non poteva dire di non essere soddisfatto della scelta fatta. Nonostante per tutto il tempo, Mycroft fosse stato piuttosto distante e decisamente silenzioso, l’atmosfera romantica colmava di molto le lacune di suo marito, facendolo sentire a suo agio. Se era poco collaborativo doveva esserci un motivo specifico, non faceva mai nulla per caso e, soprattutto, non si comportava mai così. Gli toccava solo aspettare che si decidesse a dirgli qualcosa e sapeva che prima o poi lo avrebbe fatto.

Lo yarder ripose il tovagliolo e mise da un lato il piatto del dolce, ormai vuoto. Mycroft non dava ancora segni di vita, pertanto si guardò attorno con fare annoiato. Trattene uno sbadiglio mentre osservava distrattamente la sala: non era particolarmente affollata e, forse complice la musica suonata da quel violinista, l’atmosfera era ancora più suggestiva. C’era però una cosa strana: perché con tutte le coppie eterosessuali che affollavano il locale, quel vecchio suonatore ronzava loro intorno da più di mezz’ora? Greg portò lo sguardo proprio su di lui, la capigliatura folta e spettinata, gli ricordava un po’ quelle immagini di pianisti ottocenteschi che aveva visto tempo addietro sui sussidiari di scuola. Ma non era quello a rendere quel tizio decisamente particolare, quanto piuttosto la strana espressione che aveva in viso: sembrava divertito. Nonostante fosse rimasto a guadarlo per qualche istante, decise di non perderci troppo tempo, specie perché la voce di suo marito Mycroft interruppe la sua osservazione.
«Hai intenzione di andare avanti per molto?» domandò, alzando di poco il tono di voce, mentre ripiegava il tovagliolo e lo riponeva sulla tovaglia bianca.
«Con chi accidenti stai parlando?» chiese lui, ora confuso. Aveva infatti notato che Holmes non lo stava guardando negli occhi, ma fissava, con più o meno intensità, qualcuno alle sue spalle. Fece per voltarsi, ma una voce profonda lo fermò prima che potesse anche solo pensare di muoversi.
«Tu guardi, ma non osservi, Lestrade.» Greg si voltò di scatto, qualcuno aveva sussurrato al suo orecchio. Si girò, ma alla sua destra con c’era nessuno e, solo quando portò lo sguardo alla sua sinistra, lo vide. Quell’uomo vestito da viandante e con quella folta chioma di capelli grigi, sedeva al loro tavolo con un violino che teneva appoggiato sulle ginocchia.
«Che diavolo vuole?» chiese, ma il suo tono che voleva essere autoritario, non risultò altro che confuso e stupefatto. Non poteva credere che uno sconosciuto si fosse seduto al loro tavolo; che razza di persone erano quei francesi? Ma, più che altro, non poteva pensare che un uomo riservato come lo era suo marito Mycroft, non battesse ciglio all’idea che un nomade suonatore di violino, fosse seduto al suo stesso tavolo.
«Tu guardi, ma non osservi, Lestrade» ripeté quel tizio.
«Come fa a…» Le parole gli morirono sulle labbra, non appena quel tizio rise di puro divertimento. Conosceva quell’espressione strafottente, stava sul volto sbagliato, ma era la sua, era quella di…

Fu allora che se ne accorse, quando gli si avvicinò maggiormente, spiandone gli occhi azzurri. Occhi vivi di uno sfacciato divertimento, che il poliziotto di Scotland Yard aveva già visto in passato. Quello sguardo, quella voce roca e profonda, erano impressi nella sua memoria in maniera indelebile e potevano appartenere ad una sola persona.

«Sherlock» mormorò a mezza voce, mentre un inevitabile sorriso gli deformava le espressioni del viso.

Ed era davvero lui: il vecchio violinista vestito di stracci che aveva davanti, era sul serio il sociopatico, atipico, geniale ed insopportabile Sherlock Holmes.

E Gregory Lestrade non seppe davvero più che pensare.

 

 
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Ciò che gli fu subito chiaro, era il fatto che non sarebbero potuti rimanere lì a discutere, specie perché Lestrade aveva un paio di cose da ridire circa la situazione nella quale si trovavano. Appena pronunciato il nome di Sherlock, infatti, Mycroft era balzato all’impiedi e lo aveva invitato ad uscire da lì. Non si erano parlati, i due fratelli, ma lui aveva comunque avuto la sensazione che si fossero guardati per un istante. Ma d’altronde non poteva affermarlo con certezza, perché erano usciti così precipitosamente, che a malapena si era resto conto del fatto che avessero lasciato una banconota da cento euro, tra le mani di uno stupefatto cameriere. Una volta fuori, il maggiore degli Holmes lo aveva spintonato in una via laterale piuttosto stretta e lì avevano atteso in silenzio.

«Cosa stiamo aspettando?» aveva sbottato Greg ad un certo punto, innervosito da quel non voler spiegare. Mycroft non gli aveva risposto, tuttavia aveva intravisto perfettamente un suo sopracciglio arcuarsi e conferire a quel viso allampanato, illuminato dalla luce fioca in un lampione, un’aria decisamente accigliata.
«Ma allora bisogna dirti proprio tutto?» L’ironia nel tono di voce, la sfrontatezza delle parole utilizzate, era stato Sherlock a rispondergli con un marcato accento francese, evidentemente finto. E Lestrade avrebbe tanto voluto dirgli che, sì, non ci stava capendo un accidente; tuttavia la sola cosa che fece, fu starsene zitto a guardarlo. Era rimasto interdetto dalla trasformazione che Sherlock aveva attuato su sé stesso, era tanto sorprendente infatti, che Greg si era soffermato ad osservarlo per una manciata di secondi. Giusto il tempo che il consulente investigativo aveva impiegato per raggiungerli. Portava una parrucca bionda e riccia, i capelli gli ricadevano morbidi sulle spalle, sul suo viso invece, erano spuntati un paio di nei ed il suo naso si era decisamente ingrossato. [4] Ora era più lungo e appuntito. Ma era l’abbigliamento che più di tutto il resto lo aveva lasciato allibito: era vestito con una camicia bianca aperta sul davanti che gli permetteva d’intravedere il petto, ed un paio di pantaloni chiari che lo fasciavano perfettamente. Il collo era stato ornato da una croce argentata e sui lobi delle orecchie vi erano dei brillantini. Di sicuro così acconciato non sarebbe passato di certo inosservato. A Lestrade non piacevano gli uomini, al di fuori di suo marito, ma doveva ammettere che vedere Sherlock così vestito gli faceva un certo effetto; attraente lo era di sicuro.
«Prima regola, Lestrade, mi chiamo Jean Luc. Secondo: niente domande stupide.»
«Domande stupide?» ripeté.
«Tipo questa. E ora, vogliamo andare?» chiese, quindi.
«Presumo che Jean Luc intenda nella nostra camera in albergo, Gregory caro» intervenne Mycroft, probabilmente intenzionato a placare la confusione che aveva notato sul suo viso e che lo aveva ammutolito. Lestrade confuso lo era di certo, ma c’era un cosa che voleva assolutamente sapere prima che si muovessero da lì.
«Tu lo sapevi, non è vero? Che lui era qui; è per questo che siamo venuti in luna di miele a Parigi, per lui?»
«Ciò che ti ho detto la scorsa settimana corrispondeva al vero: non avevo idea di dove si trovasse. Avevo la speranza di poterlo incontrare qui, sapevo che se io e te ci fossimo fatti vedere per le vie della città, lui lo avrebbe saputo e ci avrebbe trovato. Ma solo quando mi hai fatto vedere quel volantino, ho capito.»

Lestrade sollevò lo sguardo su di lui, confuso, si portò la mano in tasca cercando quel foglietto stropicciato che aveva conservato. Lo aprì, indirizzandolo verso la luce del lampione poco distante e prendendosi qualche istante per poterlo guardare con attenzione. Vi diede una rapida occhiata, ma nemmeno sapendo che c’era qualcosa di insolito, notò nulla.
«Non vedo niente, da cosa lo hai capito?»
«C’è una chiave di violino disegnata sul retro. Me ne sono accorto quando lo hai estratto di tasca e lo hai spiegato davanti a me.»
«Sì, ma come facevi a sapere che era un messaggio per te?» insistette Greg.
«Hai detto che ti è stato dato da un tizio che distribuiva volantini, ma quando ti ho domandato chi fosse, non sei stato in grado di rispondermi. Ragion per cui, la persona che hai incontrato, ti aveva colpito per qualche particolare, nonostante fosse vestita in modo anonimo. Se fosse stata una donna in bikini o un clown, te ne saresti ricordato, no, non era l’abbigliamento il dettaglio importante. Ciò che ti ha colpito è che, inconsciamente, ti ha ricordato qualcuno. Era lui» disse indicando Sherlock.
«Ca-capisco…» balbettò, incredulo. Era abituato alla loro intelligenza, al loro incredibile genio, ma tutte le volte rimaneva allibito e non poteva farci proprio niente. «Perché Parigi?» domandò poi, morso da quella prima curiosità.
«Mi pare ovvio: qui c’è mamma. Suppongo sia stata un valido aiuto per Jean Luc, non è vero?» chiese il maggiore degli Holmes, ammiccando ad un annoiato fratellino. «Ma non discutiamone in questo vicolo, andiamo in albergo, saremo più comodi.»

Lestrade sorrise quando suo marito gli posò una mano sulla spalla, invitandolo ad incamminarsi verso l’hotel nel quale alloggiavano. Pareva avesse colto perfettamente il suo desiderio di sedersi e cercare di capirci qualcosa. Gli sorrise in rimando, facendolo sinceramente, prima di incamminarsi tra i vicoli bui di Montparnasse.


 
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C’era qualcosa che non andava in quella situazione. Prima di tutto nello sguardo del portiere notturno, che ammiccava al biondo Jean Luc in un modo sfrontatamente esplicito. Ma soprattutto, nella maniera con cui, quell’uomo in divisa, aveva più volte picchiettato sulla spalla di Lestrade, complimentandosi per l’ottima scelta. Non solo, ma Greg lo aveva visto perfettamente pizzicare il sedere di Sherlock, non appena avevano oltrepassato le porte dell’ascensore.
«Facciamo da soli» lo aveva fermato Mycroft, premendo il pulsante a lato della porta e bloccandolo sulla soglia. Il portiere aveva annuito, prima di fare l’occhiolino a Jean Luc, dopodiché aveva fatto dietro front proprio mentre le porte si stavano chiudendo.
«Non avrà pensato che…» mormorò Lestrade, guardando i due Holmes con uno stupore misto ad orrore.
«Che lo abbiamo portato in camera per un triangolo amoroso? Sì, lo ha pensato» aveva risposto Mycroft, senza scomporsi. «In effetti, ammetterai che la situazione è piuttosto equivoca» concluse poi il maggiore degli Holmes.
«Idioti, tutti» commentò Sherlock, laconico.
«A te non dà fastidio che la gente pensi che tu e tuo fratello…»
«La gente crede solo a quello che vuole, e vede soltanto ciò che vuole vedere. Quell’uomo riteneva che la sola cosa che una coppia evidentemente sposata potesse fare, fosse portarsi in camera d’albergo un gigolò. La sua mente idiota non ha vagliato altre ipotesi molto più plausibili di questa. Il che mi porta a pensare che l’astinenza sessuale alla quale non si è volontariamente sottoposto, e che è data dall’aspetto orribile e dal fisico grassoccio che tiene alla larga ogni essere vivente che incontra, sia diventata frustrazione e quindi lui non veda altro che sesso in ogni cosa che respira. Pertanto, no, non mi interessa minimamente se uno sconosciuto crede che io sia un gigolò o che faccia i triangoli amorosi. La sola cosa di cui mi importa per davvero non è né qui a Parigi, né tantomeno ha a che vedere con il sesso. Pertanto, smetterla con questi discorsi vuoti, sarebbe piuttosto proficuo.»

In quel momento, l’ascensore si fermò al piano attico e le porte si aprirono in fruscio. Lestrade sospirò pesantemente mentre osservava gli Holmes, incamminarsi verso il soggiorno. Avrebbe dovuto immaginarsi che, quella luna di miele, non sarebbe rimasta tanto a lungo un sereno e perfetto idillio d’amore. La sua vita con Holmes era sempre stata così: movimentata. Non che se ne lamentasse, ma si sentiva stupido ad aver anche solo pensato che, per una volta, le cose sarebbero andate in modo diverso. Ed ora si trovava lì, nell’hotel più costoso al mondo, con i due fratelli Holmes finalmente riuniti e una morbosa curiosità di sapere cos’avesse fatto Sherlock per tutto quel tempo. Tuttavia, non fu solo a quello a cui pensò in quegli istanti in cui li raggiunse e li vide seduti sul piccolo divanetto l’uno a fianco dell’altro. Il suo sguardo si fermò su Mycroft e non ne volle sapere di proseguire oltre. Era diverso, da che avevano incontrato Sherlock, pareva più rilassato. Sapeva quanto amasse suo fratello, quanto avesse patito la sua lontananza e il non poter fare niente per proteggerlo durante quei tre anni. Di tanto in tanto si sentivano, o vedevano, ma doveva esser trascorso molto tempo dall’ultima volta in cui si erano trovati tranquilli nella stessa stanza. C’era una strana luce dello sguardo di Mycroft, e nel modo in cui posava i suoi occhi sul giovane Holmes. Quelle iridi lo scrutavano, lo guardavano, spiavano e cercavano di comprendere se stesse bene o cosa avesse fatto per tutto quel tempo. In quegli attimi, suo marito cercò di comprendere tutto ciò che gli era successo, e quando poco dopo gli parlò, sembrò già sapere quello di cui aveva bisogno.

Ora era solo lui ad ignorare tutto quanto.
 


Continua…



[1] Io ho una filosofia in merito: “non questionare con tuo marito per la più piccola cazzata e vivrete felici”. Mycroft è un uomo esigente e, perché no, viziato. Greg invece non gliene sbatte proprio niente di certe cose, come la scelta delle tendine della cucina o di dove mangiare la sera. Per tanto, ha deciso (per amore della pace) di non star lì a far “troppo rumore per nulla” (tanto per perdermi in citazioni colte).
[2] Montparnasse: quartiere parigino situato non molto distante dall’One by the Five. (fonte: google map)
[3] Piatti tipici della cucina francese. La ratatouille (diventata famosa grazie al film della Disney) è un piatto di verdure. Mentre il cassoulet è uno stufato di cosce d’oca, cotte a bassa temperatura con salsicce e fagioli bianchi. Infine piccola nota sul paté: mia nonna è nata in Francia (voi direte: e chissene, no?) sì, però essendo nata là, la sua cucina era molto francesizzata e faceva molte cose tipiche, specie a base di carne, come il paté. La cosa che so con certezza, perché mi è stata tramandata direttamente da lei, è che il paté è differente dal nostro, e viene preparato in un modo speciale, di cui, accidenti, accidentaccio, ho perso la ricetta!!! Ma comunque, questo per dire che il paté in Francia è un'altra cosa. Un po’ come la pasta da noi… XD
[4] L’immagine di Sherlock biondo, non è ispirata a Fifth Estate. Non chiedetemi il perché, ma ho creduto che uno biondo desse più l’idea di un gigolò. Sono miei schemi mentali idioti, non ci badate…
 

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Capitolo 3
*** Terza parte ***



Terza parte


«In quale punto?» La voce seria di Mycroft ruppe il silenzio della suite dell’One by the five hotel. Lestrade posò gli occhi su suo marito, notando immediatamente le espressioni del viso lievemente tirate. Segno che non era più rilassato dalla presenza di suo fratello, come pochi istanti prima: ora fremeva, desiderava sapere ed ottenere risposte. Esattamente come lui. Probabilmente, mai come in quel momento, pensavano la medesima cosa ovvero sapere cos’aveva fatto per tutti quegli anni Sherlock.

Furono poco dopo le parole di un ancora sorprendentemente biondo detective, ad interrompere la sua silenziosa opera di contemplazione.
«Appena sopra il gomito. Quei due muffin che hai mangiato questa mattina sono un’abitudine o un’eccezione?»
«Un’eccezione, ovviamente. Calibro?»
«Trentadue. Noto che l’uomo che ti fa la barba è malato, Parkinson? Non pensi sia pericoloso farsi servire da un barbiere con i tremori, Mycroft?» Lestrade vide quest’ultimo arcuare un sopracciglio ed un leggero moto di confusione, dipingergli il viso. Era come se, con quel semplice gesto, gli stesse domandando perché era stato tanto stupido da farsi sparare. «Appena finii di disarmarlo, lei mi sparò con la pistola che teneva nel reggicalze. Non aveva una buona mira.»
«Ti sei ricucito da solo e senza anestesia, ovviamente.»
Sherlock fece per ribattere prontamente, ma fu allora che Lestrade sbottò: non ne poteva più di quei giochetti. Lo avevano rivisto dopo anni e ancora i due fratelli si divertivano ad un gioco, che solo loro capivano e che stava irritando Greg come non mai.
«Dovete andare avanti per molto o vi decidete a dirmi cosa diavolo sta succedendo?» intervenne, spazientito. «Cosa ci fai a Parigi, Sherlock? Dove sei stato per questi tre anni? E non vuoi sapere di John?»
Aveva gridato, Lestrade e lo aveva fatto per colpa della frustrazione che, da mesi, aveva accumulato dentro di sé. Pensò al suo amico John e a quanto avesse sofferto per la morte di colui che amava. Gli tornò alla mente anche tutta la rabbia che aveva sentito dopo che lo aveva rivisto, la settimana prima di partire per la luna di miele, a Notting Hill. Rimuginò addirittura su quanto avesse desiderato raccontargli la verità, e a quanto si fosse sentito uno schifo nel non averlo fatto.

Nonostante volesse delle risposte però, non si accorse affatto del lampo di tristezza che era passato nelle iridi di Sherlock, appena aveva nominato il dottor Watson. Era stato troppo impegnato a gridargli contro e ad inveire, per poterlo notare. Tuttavia, riuscì a scorgere comunque quella maschera d’impassibilità che aveva dipinto il suo viso fino a quel momento, incrinarsi, seppur in modo impercettibile.

Il più giovane degli Holmes si decise a parlargli soltanto poco più tardi. Dopo che si era alzato dal divano ed aveva preso a camminare a passo lento, con le mani incrociate dietro la schiena, guardandosi attorno con apparente indifferenza quasi si trovasse ad Hide Park di domenica mattina.
«L’organizzazione di James Moriarty» esordì in un basso mormorio di poco percettibile. «Era un qualcosa di gigantesco, tanto che io stesso me ne sono stupito vivamente, nel momento in cui ne ho compreso la reale grandezza. Quello di cui, lo sapevo, avevo bisogno era conoscere l’identità di colui il quale avrebbe assunto il comando, una volta deceduto Moriarty. Confesso che mi ci volle del tempo prima di ottenere quel nome e che dovetti passarne di ogni, per riuscire ad averlo.»
«E chi era?» domandò Greg, accalorato.
«Sebastian Moran. Ex colonnello delle forze armate britanniche, congedato con disonore quasi dieci anni fa. Appena dopo aver lasciato l’esercito, ha iniziato a lavorare come killer freelance per svariate organizzazioni criminali, fino a che non ha conosciuto il nostro consulente criminale. Moran è un abile soldato e un mercenario senza scrupoli: non si fa troppi problemi nell’uccidere qualcuno, esattamente come il suo capo. Dopo che ho finto la mia morte mi sono nascosto a Malta, ne ho fatto la mia base o la mia casa, se vogliamo definirla in questo modo.»
«Moran è morto, non è vero?»
«Ora sì» annuì il detective.
«Come sei riuscito a stanarlo?»
«Vedi, Lestrade, l’essere umano è debole e Sebastian Moran ne è l’esempio perfetto. Si può avere tutto: potere, soldi, governi, mafia, servizi segreti… Si può possedere il mondo, ma prima o poi si commette uno sbaglio che segna per sempre la nostra esistenza. È la condizione umana, quella d’esser deboli.» Sherlock si fermò per un istante: un sorriso furbo dipinse il suo viso. «Stanarlo. Hai utilizzato uno strano verbo, Lestrade che descrive alla perfezione ciò che ho fatto. È stato un gioco, il nostro, un gioco d’ombre: abbiamo giocato al gatto col topo io e Moran. [1] Come ho fatto, mi chiedi? Semplice: per quanto una persona possa apparire perfetta, un punto debole lo ha sempre. Il suo era il poker, ma non parlo di una partita fra amici, come quella che fai tu il venerdì sera con Anderson e Ford del quinto piano, qui si trattava di cifre elevate. L’ho avvicinato, mi sono fatto invitare in una bisca clandestina nei sobborghi di Hong Kong, che lui frequentava spesso. Il come io ci sia riuscito, è meglio che nessuno di voi lo sappia. Ho fatto cose in questi due anni che se te le raccontassi, Lestrade, ti ritroveresti nella posizione di dovermi mettere le manette ai polsi, ma di doverlo fare sapendo che sono realmente colpevole di qualcosa.»
«N-non lo farei mai!» balbettò, imbarazzato. «In questo momento non è al poliziotto di Scotland Yard che stai parlando.»

Greg soppesò le proprie parole, gli erano uscite in modo automatico, tanto che non se n’era reso propriamente conto. Credeva a ciò che aveva appena detto, non avrebbe mai arrestato Sherlock e soprattutto non per un motivo del genere. Per quanto la sua posizione all’interno di Scotland Yard lo obbligasse a trattare con una certa severità chi commetteva un reato, era sicuro che non avrebbe mai potuto imprigionare uno come Sherlock Holmes. Probabilmente, anni addietro, non si sarebbe fatto scrupoli nel farlo e, a dirla tutta, più di una volta ci aveva addirittura provato. Ma adesso era tutto diverso, lui era cambiato e cambiata ere la sua visione del mondo. Esattamente come si era detto quella volta, quando si erano rivisti dopo il funerale, a Pendleton House, il suicidio di Sherlock aveva cambiato tutto. Greg compreso.

«Grazie.»

Quella parola l’aveva solo sussurrata, ma Lestrade l’aveva sentita ugualmente. Forse era la prima volta che lo ringraziava per qualcosa, tuttavia non fu quello a sorprenderlo, ma la tristezza che vedeva nei suoi occhi. Sherlock era molto più magro e scavato di un tempo; portava in viso il peso della solitudine e di anni trascorsi a nascondersi, a cercare prove e indizi sperando, un giorno, di poterla fare finita. Ma erano i suoi occhi ad essere drammaticamente infelici. Adesso la vedeva nettamente, non sapeva se era perché lui glielo stesse permettendo o perché Lestrade fosse più attento, ma la percepiva: la voglia di quel sociopatico giovane uomo, di tornare a casa. Da John. Già e proprio il dottore gli venne in mente, mentre provava a scrutare il suo viso. Non ne avevano ancora parlato e Sherlock nemmeno gli aveva chiesto come stesse. Chissà come avrebbe preso la notizia del fidanzamento con quella Mary?
«Adesso che anche Moran è morto, cosa farai?» domandò dopo aver deciso di sorvolare, almeno per il momento, sull’argomento fidanzata.
«Sto mettendo insieme le prove che ho raccolto in questi anni, mamma mi sta dando un aiuto notevole in questo senso; è un lavoro complesso, un puzzle composto da migliaia di piccoli pezzi. Perciò sono qui a Parigi: voglio scagionare me stesso dalle accuse di Moriarty, per poter tornare a Londra, da… da John» aveva concluso, in un sussurro.
«Già, è c’è una cosa che dovresti sapere a questo proposito.» Lestrade s’interruppe, per un attimo aveva avuto la sensazione che Sherlock stesse per chiedergli qualcosa. Anche se sapeva perfettamente che non era mai stato uomo da sprecare parole, esattamente come Mycroft, poneva esclusivamente delle domande strettamente necessarie. Pertanto, dopo una breve pausa, continuò mentre si dava dello stupido per aver anche solo creduto che Sherlock Holmes si mettesse a domandare l’ovvio.
«Si tratta di John» proseguì «io e lui ci siamo incontrarti la scorsa settimana. Adesso ha uno studio a Notting Hill. Mi ha detto d’essersi fidanzato con una ragazza, una certa Mary. Vuole chiederle di sposarlo e temo che lo farà presto.»
«Prevedibile» mormorò Sherlock, laconico, senza distogliere lo sguardo dal panorama che brillava al di fuori di quella finestra.
«No, non credo che avessi preventivato una cosa del genere, tu non hai idea di come stia. I suoi occhi sono stanchi, tristi e poi se ne va in giro con un bastone: zoppica vistosamente.»
«Avevo immaginato anche questo» annuì.
«E poi è furente perché ti sei suicidato, dice che ti odia e che hai preferito ucciderti e smettere di lottare, piuttosto che stare con lui. Ti sarebbe stato accanto nonostante tutto. Ciò che l’ha ferito di più però, è che gli hai detto una bugia, che hai dato ragione a Moriarty prima di gettarti dal tetto.»
«Ho dovuto agire in quel modo, per allontanarlo da me. Per farlo smettere di amarmi.» La confusione si dipinse sul viso di Greg nel sentire quelle parole, ciò che diceva non aveva affatto senso.
«Se sapevi che ti amava, perché non hai mai fatto niente per cambiare le cose?»
«E che avrei dovuto fare?» urlò Sherlock in risposta, voltandosi e guardandolo finalmente negli occhi.
«Dirgli che anche per te era la stessa cosa, stupido idiota.»

Per istanti che parvero interminabili, nella stanza calò il silenzio. Mentre le parole pronunciate da Lestrade ancora riecheggiavano, il detective Sherlock Holmes disse ciò che, per davvero, dimorava nel suo cuore.
«Amore, è un termine così riduttivo. Non capisco come voi idioti facciate a rapportarvi con le persone, avendo delle definizioni alle quali sottostare. Amicizia, amore, fratellanza, odio, gay, etero, bianco, nero… Non ho idea di che significato abbiano per voi, e non so che termine utilizzare per definire la mia relazione con John. La sola cosa che so, è che lui stava con me. Ho fatto tutto questo per proteggerlo, per far sì che non gli accadesse nulla di male e non mi pento affatto di come ho agito.»
«Ognuno ha il sacrosanto diritto di vivere e pensare ciò che gli pare, Sherlock: hai ragione. Ma ti devi rendere conto che adesso, il dottore s sta costruendo una vita con un’altra persona. So che non ragioni come noi comuni mortali, ma nel prossimo futuro ti ritroverai costretto a ridurre il tuo rapporto con lui ad un termine. Amicizia o amore. Se avessi chiarito tutto prima, ora…»
«Se glielo avessi detto anni fa» proruppe il detective, interrompendolo «noi avremmo instaurato una relazione sentimentale e lui avrebbe sofferto ancora di più, il giorno in cui io lo avessi lasciato. Sapevo che avrei dovuto concludere la faccenda con Moriarty, ma non avevo idea di che cosa avrei dovuto sacrificare. Pertanto, ho deciso di non legarmi a nessuno e di sacrificare me stesso.»
«L’hai tenuto lontano da te, perché altrimenti avrebbe sofferto se mai avessi finto la tua morte? È questo il motivo? Lo hai amato in silenzio per tutto quel tempo, guardandolo mentre si prendeva e lasciava con altre persone, solo per lui?»
«Non ripetere le mie parole per rimarcare il concetto, Lestrade: è ciò che ho detto e se lo dici anche tu, non vale di più.»
«Oh, Sherlock, quello che hai fatto è…»
«Sbagliato» intervenne il maggiore degli Holmes.

Greg portò lo sguardo su di lui, se ne stava ancora seduto composto sul divano, nella stessa identica posizione di pochi istanti prima. E per tutto quel tempo lo sguardo di suo marito non si era mosso. Aveva fissato suo fratello, ma solo in quel momento si era deciso ad intervenire. Di sicuro, non credeva che Mycroft avesse mai intenzione di mettersi in mezzo a quella discussione. Ogni qual volta, in passato, avevano parlato del rapporto che c’era tra Watson e Sherlock, lui non si era mai sbilanciato, anzi, aveva sempre smorzato la situazione. Ora però, non pareva tanto desideroso di ascoltare in disparte.
«No, My, non penso che…» intervenne Greg, provando a smorzare la tensione che percepiva. Sherlock non si era voltato, tuttavia aveva notato distintamente una qual certa rigidità nella postura. Inoltre, lo sguardo di Mycroft era mutato, ma non era freddo, probabilmente era… ecco: deciso e determinato ad avere ciò che desiderava. E, di nuovo, Lestrade non aveva la minima idea di che cosa fosse.
«Ti conosco, Sherlock» esordì il maggiore degli Holmes, poco più tardi. «Non la pensi affatto così, è vero che hai cercato di allontanarlo dall’idea che aveva di te, quando gli hai mentito. Ma non ridurre tutto soltanto a questo. Il motivo per il quale non ti sei mai deciso a dichiarare il tuo amore per il dottore, non ha a che vedere con Moriarty.»
«Sbagli!» esclamò il detective, a voce un po’ più alta.
«E invece sono nel giusto e tu lo sai» gridò Mycroft in risposta. «Hai vissuto nell’incertezza per tutto questo tempo. Ti sei crogiolato nei dubbi e non sei mai riuscito a prendere una decisione che fosse una. Amavi il dottore e la cosa ti sconvolgeva! Perché John è stata la prima e unica persona a cui hai tenuto per davvero in tutta la tua vita. E non capivi, non riuscivi a comprendere che cosa avesse quell’uomo di tanto speciale da attirarti o, piuttosto, non annoiarti. Come avesse fatto a tenerti lontano dalla droga e persino dalle sigarette, è un qualcosa che domandi tuttora e che ti ha scioccato, sempre. Sapevi di volerlo accanto a te, non riuscivi a rinunciare alla sua presenza, ma allo stesso tempo eri conscio del fatto che se lo avessi lasciato andare, John sarebbe stato lontano dalle insidie che il vivere con te comportava. Solo quando lo hai saputo in reale ed immediato pericolo, hai deciso di attuare questo piano. Ma adesso sei alla resa dei conti, Sherlock: il dottore ha trovato una donna da sposare ed è brava, bella, comprensiva, spiritosa, intelligente e addirittura dotata di una discreta cultura. Sarebbe la moglie perfetta e potrebbe seriamente renderlo felice. Ma quello che adesso ti stai domandando è: sarebbe entusiasta di quella vita, così come lo sarebbe se stesse con te? Se ti mettessi in mezzo saresti egoista o altruista? Gli regaleresti la vita che vorrebbe? Ed ecco che si ripresenta l’indecisione: hai la possibilità di lasciarlo andare; ma è la cosa giusta da fare? Dovrai decidere, Sherlock e farlo una volta per tutte.»

Il silenzio calò in quella grande suite dell’One by the five. Gli occhi azzurri del presunto morto Sherlock Holmes, vestito in abiti che lo rendevano irriconoscibile, scrutavano i tetti di Parigi. Se l’avesse potuto guardare direttamente negli occhi, Lestrade avrebbe senz’altro visto che erano fissi sulla Tour Eiffel. Di una cosa però Greg era più che sicuro, del fatto che non stesse ammirando la bellezza della città, non in quel momento. Le parole di Mycroft avevano colpito lui per primo, gli erano arrivate in pieno petto, mettendogli in subbuglio il cuore. Non aveva idea in quale delle due versioni che i fratelli Holmes gli avevano fornito, e che riguardavano l’amore di Sherlock per John, esprimesse in maniera più chiara la portata del sentimento che li legava, perché entrambe erano valide motivazioni. Comunque la pensasse Sherlock, il suo amore per Watson era più che evidente. Già, proprio John… Era ridicolo il fatto che la sola persona che avrebbe dovuto ascoltare quei discorsi, fosse l’unica assente. Da un lato, Lestrade si sentiva decisamente di troppo. Quei pensieri facevano parte quel lato di Sherlock Holmes che era tanto intimo, da esserlo stato a tutto e a tutti fino ad allora. Era però anche vero che era ben felice di sapere, finalmente, quali fossero i reali sentimenti del detective. Che avesse sempre provato dell’affetto per Watson, era cosa risaputa e ne avevano anche discusso una volta, a Pendleton House. Ma solo in quel momento ne aveva capito la portata.

E ora, che doveva fare? Cosa avrebbe potuto dire all’uomo più intelligente d’Inghilterra e al suo sociopatico fratello, per sedare quella che, lui, stava interpretando come una lite.

Lestrade riportò lo sguardo su Sherlock, proprio mentre si voltava. Il suo viso adesso era una maschera di indifferenza, ma era abituato ad interpretare. A scorgere i sentimenti, le paure, i timori e l’amore attraverso spessi strati di ghiaccio. La sua bocca era serrata, le mani incrociate dietro la schiena, il corpo era più disteso e le spalle non più tirate come lo erano state poco prima. Anche gli occhi sembravano gelidi, ma lui qualcosa la vedeva nettamente. Lo sapeva, era lì, ben nascosta per fare in modo che i distratti, gli idioti come li chiamava Sherlock, non la notassero. Era tristezza. Ma soprattutto, era la prova di quanto Mycroft avesse colto nel segno.
«E dovei accettare le tue prediche, fratellino caro?» domandò poco dopo. «Tu, che ti sposi con Lestrade dopo avermi detto e ripetuto che preoccuparsi non è un vantaggio? Che ad amare qualcuno non si ha alcun ricavo se non la certezza di soffrire; non mi hai sempre detto questo, Mycroft?» tuonò, con disprezzo. «Tu eri proprio l’ultima persona al mondo che immaginavo spostata, che pensavo si sarebbe preoccupata per qualcuno che non fosse lui stesso.»
«Io mi sono sempre preoccupato per qualcuno, Sherlock, da che i nostri genitori ci hanno lasciati soli, per l’esattezza. È da quando sono bambino che mi preoccupo per te e lo farò sempre, che ti piaccia o meno. Il fatto è che preoccuparsi non è un vantaggio, ma è necessario il doverlo fare. Ad amare qualcuno molto spesso non si ha nulla in cambio, nemmeno un pallido affetto, ma non vi si può rinunciare semplicemente volendolo. Spesso è inevitabile e per quanto tu ti sia sempre opposto ai sentimenti, non potrai farlo per il resto della tua esistenza. Gregory sa che non amo intervenire nelle tue faccende private, infatti non ho mai dato la mia opinione in merito ai sentimenti legano te e il dottore, nonostante mio marito mi abbia esortato molte volte a dirgli come la pensavo. Ritenevo infatti, e così ora, che il tuo rapporto con John fosse una tua faccenda. Ma adesso non posso starmene in disparte a guardare, mentre commetti gli stessi sbagli che hai fatto anni fa. Mi sento responsabile per questo, del fatto che tu sia cresciuto con l’idea che non si deve amare nessuno. Ma devi capire che le cose cambiano, le idee cambiano quando le persone maturano e che è altamente illogico che un individuo si imponga di rimanere sempre uguale a sé stesso. Non so cosa significhi essere nella tua situazione, Sherlock e dover avere sulle proprie spalle il peso di una simile decisione, ma ti esorto a farlo. Infine, mi sembra inutile il ricordarti che io e Gregory saremo sempre qui, qualora tu avessi bisogno di consigliarti. Ovviamente, entrambi confidiamo a che tu faccia ritorno presto a Londra e al tuo appartamento di Baker Street, che ho tenuto libero per te.»

Le parole di Mycroft avevano riecheggiato nella stanza per qualche breve istante, dopodiché il silenzio era calato, di nuovo. Lestrade aveva lasciato che il proprio sguardo vagasse tra suo marito e suo cognato. Sapeva che entrambi non avrebbero aggiunto nient’altro, ma non avrebbe mai creduto che Sherlock se ne andasse. Per qualche momento aveva sperato di poter stare con lui ancora un poco…

Il detective sorrise impercettibilmente dopo aver mormorato un flebile grazie, aveva fatto dietro front. Le porte dell’ascensore si erano aperte rapidamente e poco prima che si richiudessero le avevano sentite, quelle parole che avevano scaldato i loro cuori.
«Dite alla signora Hudson di dare una ripulita.»

E così com’era venuto, Sherlock Holmes, se n’era andato. Di nuovo scomparso, correva per i vicoli di Montparnasse, mascherato da chissà cosa.

Greg e Mycroft si guardarono e non poterono che sorridersi. Non ebbero bisogno di aggiungere altre parole. Era stato detto tutto quanto. Entrambi sapevano già tutto: emozioni, pensieri, sentimenti, preoccupazioni… Non era necessario parlarsi a voce, lo avevano già fatto con lo sguardo. Quel lungo ed interminabile sguardo, che si erano scambiati dopo che le porte dell’ascensore si erano richiuse e Sherlock era sparito.

Presto il detective sarebbe tornato, la sola cosa che speravano era che né lui, né il dottore soffrissero troppo.

Perché non c’era scelta sbagliata e non si trattava di errori. Che John Watson sposasse Mary Morstan non era poi così terribile. Se le cose fossero andate in questa maniera, Sherlock avrebbe semplicemente messo la sua relazione con John, su un piano differente. Qualunque cosa avesse deciso per le loro vite, i sentimenti di entrambi non sarebbero cambiati. Anche se, forse, Greg Lestrade non era la persona più adatta per fare simili discorsi. Lui che era sposato e felice, innamorato e ricambiato, non poteva permettersi di affermare che l’amore è amore a prescindere, anche se non vivi in una relazione romantica. Probabilmente era autorizzato ad affermarlo perché sapeva che, anche da amici ‒ definendoli con uno di quei termini che suo cognato odiava ‒ Sherlock e John si sarebbero amati ugualmente. Perché la cosa più sorprendente di tutte, non era il fatto che Sherlock Holmes amasse John Waston in quanto tale, ma che fosse in grado di dubitare, sacrificarsi e soprattutto, di mettere quell’uomo al primo posto.

Di amare.

Decisamente notevole, per un sociopatico.

 
Continua…

 

[1] “È stato un gioco, il nostro, un gioco d’ombre: abbiamo giocato al gatto col topo io e Moran.” Frase che richiama “Game of Shadow” di Guy Ritchie.

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Capitolo 4
*** Quarta parte ***



Quarta parte


Alla fine di quel mese di giugno, Gregory Lestrade aveva incontrato Mary Morstan. La bella insegnante privata, fidanzata del dottor Watson, aveva infatti tanto insistito per conoscere gli amici di John. Si erano dati appuntamento dopo il lavoro in un pub del centro e, appena l’aveva vista, Greg si era soffermato ad osservarla, perdendosi nei propri pensieri per lunghi e interminabili secondi. Aveva già incontrato altre ragazze di Watson, quando ancora abitava a Baker Street. Una, forse due o addirittura tre e le ricordava come carine, alla mano e simpatiche, ma Mary Morstan era differente. La parvenza che dava era quella di una donna, una donna vera. Bella, elegante, sofisticata, dotata di uno charme che Lestrade non seppe classificare, ma che lo attraeva in una maniera del tutto inusuale. Era stato strano vedere John avvinghiato a lei, non toglierle gli occhi di dosso e soprattutto così tanto sereno. Ed era rimasto talmente spiazzato dalla pacatezza del dottore, che aveva tralasciato per un momento gli spaghetti di soia, soffermandosi a riflettere sul fatto che, forse, si era sbagliato riguardo l’affetto che nutriva per quella donna.

Ma per fortuna non era rimasto troppo a lungo a pensarci, il locale ottimo e la cena gustosa lo avevano distratto da certi pensieri. Anche Mary aveva mangiato con gusto e in abbondanza. Fatto che Mycroft aveva commentato, più tardi, affermando che era assai inusuale che una donna con una silhouette tanto sottile, mangiasse così tanti involtini primavera. Tuttavia, Greg conosceva sufficientemente bene suo marito, da sapere che dietro quell’arcigna espressione, non si celava altro che invidia. Dopotutto, lui era a dieta da tutta una vita!

Era stata però la discussione che avevano intavolato con la signorina Morstan, a sorprenderlo più di tutto il resto. Già, perché per tutta la durata della cena, non avevano fatto altro che discutere di Parigi. John aveva voluto sapere com’era andata la luna di miele e, tralasciando il fattore Sherlock, Greg gli aveva raccontato praticamente tutto. Da lì in avanti la discussione era degenerata, si erano così ritrovati a parlare dei lampioni di Montparnasse, piuttosto che della bellezza dei dipinti del Louvre. Mary si era dimostrata una persona dotata di una cultura generale decisamente sopra la media, di tanto in tanto gli era parso di stare con Mycroft. Forse per via del tono sicuro e deciso con il quale gli si rivolgeva. Solo negli Holmes, Greg aveva riscontrato altrettanta sicurezza. Gli si rapportava infatti con un cipiglio sicuro, lo sguardo era sempre alto e fiero, le iridi furbe che scrutavano l’interlocutore e non ne lasciavano mai il contatto visivo.

Conoscendola, aveva capito perfettamente come mai John si fosse innamorato di lei. Nonostante suo marito avesse a lungo dubitato che quella facciata perfetta, non fosse per nulla come sembrava.
“Ostentare sicurezza, è sempre un sintomo di debolezza.” Con questa logica aveva commentato, senza preoccuparsi di celare il tono acido.  

Ah, ovviamente, non avevano quasi mai discusso di Mycroft, né della famiglia Holmes; Greg l’aveva ritenuto un argomento prematuro per il primo incontro. Spiegare chi fosse suo marito non era cosa facile da raccontare agli estranei e, per sua fortuna, in questo John era stato un silenzioso complice. Per questo, quando Mary gli aveva domandato come stesse suo marito, a Watson era quasi andata di traverso la cena. Sapeva che John e Mycroft non si erano ancora mai incontrati da dopo la scomparsa di Sherlock, e che suo marito per primo glissava sempre sull’argomento dottore, rimandando a data da destinarsi ogni possibile incontro. Sapeva anche che John stesso non era desideroso d’incontrarlo, tra di loro d’altronde, non era mai corso buon sangue. Ai tempi di Baker Street perché non approvava le numerose intromissioni di Mycroft, i suoi misteri e, naturalmente, il brutto vizio di spiare ogni passo facessero. E poi c’era il fattore Moriarty… Probabilmente, anzi di sicuro, per un certo periodo da dopo la caduta, John era stato furente con lui. L’averlo venduto a quel criminale per qualche informazione, aveva messo fine ai loro già scarsi rapporti. Greg sapeva d’essere il solo possibile mediatore tra i due.

E stava pensando al fatto che non credeva che quei due si sarebbero rivisti tanto presto, proprio mentre camminava nei parcheggi sotterranei della loro casa a Whitehall. Erano le otto di una soleggiata mattina di luglio e Greg stava andando al lavoro, nonostante non ne avesse davvero voglia. Più volte infatti, aveva affermato di preferire il letto e Mycroft ad una pila di scartoffie. Non che questo fosse inusuale o poco comune, ma se possibile, il caldo peggiorava la sua già scarsa voglia di fare. Oltretutto, gli si prospettava una giornata piuttosto carica di cose da fare. Un colloquio con il capo White e, naturalmente, c’era l’omicidio di Park Lane, assassinio per il quale avrebbe tanto voluto avere l’aiuto di un Holmes. Ecco, sì, di certo avrebbe preferito fare altro piuttosto che tutto quello.

Poi però era accaduta una cosa. Poco prima che salisse in auto, la sua quotidianità si era rotta e lì, in quel buio parcheggio sotterraneo, lo aveva rivisto. E non faticava nemmeno ad ammettere che l’incontro lo aveva lasciato molto più che stupito. Sconvolto, era forse la parola che meglio poteva descrivere la sua reazione quando, nel buio, si era visto comparire Sherlock d’innanzi a sé. Era stato costretto ad assottigliare lo sguardo per poterlo scorgere nella penombra, ma poi gli si era fatto vicino e gli aveva parlato. Non poteva essere altri che lui: alto, magro, con quei capelli ricci e neri che gli ricadevano sulla fronte e quegli occhi piccoli, sottili, chiusi in una fessura e che lo avevano scrutato per un lungo interminabile istante. Le parole che Greg gli aveva rivolto qualche attimo dopo erano state, probabilmente, le più banali e stupide che mente umana avesse mai potuto concepire. Poche frasi di circostanza del tipo: sei davvero tu e ti trovo bene. Poi Greg gli aveva chiesto di John, e allora qualcosa nello sguardo del suo interlocutore era mutato.

In quel momento, quando un lampo di tristezza aveva tinto di toni ancor più scuri il viso del risorto Sherlock Holmes, Lestrade si era domandato se, alla fine, avesse preso quella sua decisione. Come comportarsi con John, cosa fare con lui e cosa più importante di tutte: rivelargli o meno i propri sentimenti.  
«John non vuole più vedermi» aveva detto Sherlock con voce bassa «la maniera con la quale mi ha accolto era prevedibile, ma nonostante fossi preparato ai suoi pugni, non ero pronto a subire quello sguardo ferito. È vero che è cambiato, ma non solo per i baffi o la zoppia. La mia finta morte deve averlo sconvolto molto di più di quanto ritenessi possibile. E ora è arrabbiato, proprio come avevi detto e…»
«Sei qui per farmi sapere che sei tornato o per domandarmi il favore di fare da mediatore?» domandò, con fare spiccio.

Il consulente investigativo non gli disse nulla, tuttavia poté facilmente notare un leggero annuire ed un sorriso appena accennato.
«Non ti prometto niente» aveva mormorato Lestrade, prima di aprire la portiera dell’auto. «A proposito, lui lo sa?» chiese, voltandosi.
«Sì!»
«Quindi immagino che avrà già…»
«Puntato tutti i satelliti su di me?» lo interruppe Sherlock, ironico. «Sì, presumo di sì» concluse poco dopo, con un ghigno che gli tirava le labbra.
«Chi lo sa, magari è cambiato anche sotto questo punto di vista» sospirò «ti farò avere notizie.»  
«Ah, Lestrade… Fossi in te indagherei sul postino.» A quel punto, un espressione di confusione e smarrimento si dipinse sul viso di Greg.
«Parlo dell’omicidio di Park Lane.»
«E tu che ne sai?»
«Sono un consulente investigativo, Lestrade, senza di me Scotland Yard è stata perduta. La criminalità di Londra è aumentata da quando ho finto la mia morte e, ora più che mai, voi yarder brancolate nel buio su quello che è il caso di omicidio più banale, che si sia mai visto in Gran Bretagna.»
«Non esagerare, Sherlock» lo ammonì.
«Non lo faccio; c’è qualcosa di più noioso di un delitto passionale? Indaga sul postino e prepara il tuo amico White, sono tornato!»
«Ma davvero?»
«Ah, e Lestrade? Di’ a Mycroft che aveva ragione su me e su John.»

Un sorriso di consapevolezza di dipinse sul viso dell’ispettore di Scotland Yard. Eccola, la famigerata decisione, infine aveva avuto il coraggio di prenderla. E avrebbe voluto congratularsi, ma così come era apparso, tra le ombre di quel sotterraneo di Whitehall, il consulente investigativo Sherlock Holmes, sparì.


 
oOo


 
Sapeva che sarebbe stato un incontro difficile, che John non sarebbe stato accondiscendente e che, di sicuro, il fatto che il dottore gli avesse inviato messaggi non proprio amichevoli negli ultimi giorni, mettesse in mezzo lui per primo. Aveva pensato che vedersi a casa sua e di Mycroft fosse una bella idea, specialmente perché il maggiore degli Holmes non era a Londra e che, il 221b di Baker Street, era di nuovo popolato. Il tutto aggiunto al fatto che tutta la città non parlava d’altro che del resuscitato Sherlock Holmes, e che fotografi e giornalisti se ne stavano appostati ovunque pur di scovarlo.

Appena il dottor Watson fu entrato in casa, forse istintivamente, il suo sguardo vagò a sondare l’ambiente. Greg s’affrettò a rassicurarlo, precisando che non avrebbe dovuto affrontare due Holmes alla volta.
«Sono solo.»

John fece qualche passo, guardandosi attorno. Doveva essere sconvolto dalla fastosità dell’arredamento, perché pareva davvero spaesato. Greg sapeva benissimo come si stava sentendo: era lo stesso identico sbigottimento che aveva provato lui quando aveva messo piede in quella casa. L’arredamento di classe, elegante, tanto che lui stesso ancora si sentiva fuori posto dopo tutto quel tempo.
«Lo so quello a cui stai pensando» disse, alludendo ai soprammobili di cristallo, al divano in radica e, ovviamente, ai quadri d’autore appesi alle pareti.
«No, Greg, non credo che tu ne abbia idea» gli rispose John, senza smettere di guardarsi attorno.
«Vieni, sediamoci, abbiamo un po’ di tempo prima che Sherlock arrivi.»

Il ticchettio del pendolo s’intromise fra loro, rompendo il silenzio dell’appartamento. Il tè che aveva preparato fumava ancora nella tazza che il dottor Watson teneva in mano e che fissava, quasi fosse indeciso sul volerla spaccare in mille pezzi o berne il liquido in essa contenuto. Greg vedeva un velo di rabbia negli occhi del suo amico, ma più di tutto vi leggeva confusione. Sapeva che non era davvero furente con Sherlock, quella era stata solo la reazione. Ora c’era solo da sapere in quale direzione andassero i suoi sentimenti. Aveva iniziato con una tazza di tè, di quello pregiato e cinese, che Mycroft si faceva importare, solo per metterlo a proprio agio e tranquillizzarlo. Dopo pochi minuti, quando lo vide sorseggiare, pensò d’essere riuscito in qualcosa, perché John pareva meno nervoso.
«E così l’hai picchiato…» esordì, rompendo il silenzio.
«Già» mormorò Watson in risposta, senza riuscire a trattenersi dal ridere, seppur in un modo appena accennato.
«Sai, lui non ti biasima per averlo fatto, anzi ti comprende perfettamente.»
«Figurarsi» rispose, con tono carico di sarcasmo «c’è qualcosa che il grande Sherlock Holmes non capisce? È addirittura tornato dal mondo dei morti, dopo questa diventerà ancora più insopportabile.» Risero, lo fecero entrambi e con gusto; dopo che questa scemò però, lo sguardo del dottore divenne ancor più serio. «Tu lo sapevi, non è vero? Che era vivo» s’affrettò a precisare.
«Sì» annuì Greg. «Lo seppi qualche settimana dopo il funerale: Mycroft mi portò in una tenuta che gli Holmes hanno nell’Eastbourne, dove Sherlock si stava nascondendo. Mi spiegarono tutto quello che ora lui dovrà raccontare a te; perché tu devi sapere.» Dopo aver pronunciato quelle ultime parole, Lestrade ebbe la sensazione che le espressioni di John si fossero tirate appena. Come se gli fosse ritornato alla mente, che ancora non aveva idea del perché Sherlock avesse fatto tutto quello. Comunque, lo yarder continuò: «In ogni caso, da allora non lo vidi più. Ci siamo incontrati a Parigi perché, a quanto pareva, la scelta per la luna di miele non era poi tanto causale. Ma c’è una cosa che tengo tu sappia, vedi io me ne sono andato perché vedevo la tua sofferenza e il non poterti dire nulla… Sapere, ma non poter parlare… Io non ce la facevo, John, non riuscivo a guardarti negli occhi e a mentirti in un modo tanto spudorato. Non sai quanto sono stato male dopo il nostro incontro a Notting Hill.»
«Tu sai come lui ha fatto a…»
«Questo non devo essere io a dirtelo» lo interruppe immediatamente Greg. «E non è per parlarti di come lui è sopravvissuto, che ti ho fatto venire qui.»
«E allora perché?»
«A Notting Hill tu mi dicesti che, se mai l’avessi rivisto, gli avresti urlato contro tutta la tua rabbia. Beh, adesso hai l’occasione di poterlo fare e tu lo devi fare, John. Appena lo vedrai, gridagli contro tutto quello che senti e che provi: che ti ha abbandonato, che ti ha mentito e lasciato solo. Che ti ha ferito. Entrambi sappiamo che lo ha fatto per un motivo più che valido, ma questo non cambia le cose, non cambia la tua sofferenza. Di sicuro, Mycroft non sarebbe d’accordo con quanto ti sto per dire di fare, ma se lo vuoi picchiare allora picchialo. Se gli vuoi dire che lo odi, fallo!»
«Pe-perché mi chiedi questo?» balbettò, confuso «io ero convinto che avresti cercato di convincermi a fare l’esatto opposto.»
«Se non gli dici tutto adesso, John, se non gli gridi contro tutto il tuo odio e la tua rabbia, allora non potrete mai superarlo. Non tornerete amici come lo eravate un tempo.»
«Noi non torneremo mai a ciò che eravamo, Greg» disse Watson, alzando il tono di voce prima di posare la tazza di porcellana, ormai vuota, sul tavolino di cristallo che aveva di fronte. Poco dopo, il suo sguardo, parve rabbuiarsi e ad un tentativo da parte di Greg di scrutare in quelle iridi chiare, il dottore si ritrasse, alzandosi in piedi.
«Tra me e Sherlock c’era questa specie di detto e non detto che… Non gli ho mai nemmeno confessato d’amarlo, nonostante non avessi mai desiderato altro. Non voglio che le cose siano come lo erano un tempo. E poi, sono fidanzato adesso: sto con Mary e la amo davvero.»
«Non lo metto in dubbio, John, ma qui non si tratta solo di questo. Non ci sono in ballo semplici sentimenti, si tratta di decidere che vita vuoi avere. Tu lo sai che se ti sposi con Mary, tra te e Sherlock non potrà mai esserci più niente. Un tempo volevi stare con lui, in un modo molto più che amichevole e adesso hai davvero la possibilità di farlo, d’imporre le cose secondo il tuo di volere. Di tornare a Baker Street secondo quelli che sono i tuoi criteri. Sherlock non ti direbbe di no, non avrebbe motivo per rifiutare un rapporto di quel genere, non l’ha mai avuto e non l’ha ora.»
«Sai quello che mi stai chiedendo, Greg? O Mary o Sherlock.»
«Non sono io a chiedertelo. Ti sto solo dicendo che lo devi fare, è come hai detto: non puoi permettere che la situazione tra te e Sherlock sia di nuovo equivoca, ma non puoi nemmeno lasciare Mary senza avere una motivazione valida. Sono sicuro che tu e lei avreste una vita meravigliosa e magari anche dei figli. Il punto però non è lei o lui, ma tu. Che vita vuoi, John?»

Dopo che Lestrade gli aveva fatto quella domanda, il silenzio era calato. Greg aveva posato la sua tazzina sul tavolino, dopodiché si era lasciato andare tra i cuscini del divano, passandosi le mani sul viso. Non sapeva se stava agendo per il meglio e, in un certo senso, ora credeva di capire di più Mycroft e la sua reticenza in proposito. Lui infatti, quasi si sentiva in imbarazzo per esseri intromesso nella vita privata altrui, tipico riserbo inglese ovviamente. A Greg stesso, quella situazione iniziava a pesare: quella era l’ultima volta che faceva una cosa del genere, su questo non aveva dubbi.

Portò gli occhi su John, se ne stava in piedi e guardava Londra dalla finestra del soggiorno. Lo raggiunse, affiancandolo. La città era brulicante, illuminata in quella che, per lei, era una sera come tante altre. La ruota panoramica girava, il traffico scorreva, con le sue auto, i suoi semafori, i suoi passanti irritati… Londra viveva, incurante di quanto stesse accadendo loro.
«La vista da qui è spettacolare, Greg» aveva esordito John, poco più tardi.
«Lo so e...»
«Hai ragione, io devo scegliere» lo interruppe. «Se mi sposo con Mary avrò la vita che ho sempre desiderato, quando ero in Afganistan e mi immaginavo di tornare a casa da una moglie, a lavorare nel mio studio medico, in una casa. Quando ero un soldato non pensavo ad altro e anche dopo che sono tornato. Poi però ho conosciuto Sherlock e mi ha sconvolto la vita.»
«E pensi che solo per te sia stato così, John? Credi che tu non sia riuscito nell’impossibile impresa di cambiare Sherlock Holmes?»
«Non è solo questo… vedi, il suicidio di Sherlock ha cambiato tutto quanto.»

Ed era vero, era terribilmente e drammaticamente vero. Quante volte lo aveva pensato o detto? Erano cambiati, tutti loro. Perché tutto cambia, ogni cosa muta e matura nel tempo. Il mondo era diverso, lo era Lestrade e lo era il suo rapporto con Mycroft, lo era il suo lavoro; tutto lo era, tranne il fatto che John avrebbe dovuto decidere. Quella era la sola cosa che era rimasta immutata, come un punto fisso nello spazio. Perché, anche se ai tempi di Baskerville la situazione era differente, la decisione da prendere era sempre la medesima: Sherlock o non Sherlock?
«Tra poco lui entrerà da quella porta, allora che farai? Lo sai, vero? Che se torni con lui ci saranno ancora tutte quelle cose che detestavi e per le quali non facevate altro che discutere.»
«Hai ragione di nuovo, però… non sai quanto mi sono mancate tutte quelle cose. Sai che mi sveglio ogni notte alle tre esatte? Lui era solito suonare il violino a quell’ora» spiegò. «Improvvisazione o qualcosa di simile. Ti confesso che il più delle volte sembrava un gatto in amore, erano stridii senza senso, come se picchiasse la bacchetta sulle corde, facendolo a caso. Ma poi la melodia prendeva corpo, diventava dolce e io mi riaddormentavo; allora non c’erano più sogni o incubi sulla guerra. Ritengo lo facesse apposta, anche se non l’ha mai ammesso. E poi, quella storia delle sigarette… Sherlock era diventato insopportabile, pensa che mi pregava per averle e io quindi mi arrabbiavo, lo ammonivo però sapevo di mentire. In verità ero divertito, da tutto. La prima volta che ho trovato una testa nel frigorifero vivevo con lui da qualche settimana, e me la sono fatta sotto. Cristo, Greg, avresti dovuto vedere: faceva ribrezzo e considera che sono abituato a tutto! Ma sai a che cosa pensavo? Che mi piaceva e allora ridevo. Perché quel tizio era strano e fottutamente pazzo: “mai conosciuta persona più sballata di quell’Holmes.” E che io sia dannato, amavo vivere con lui; anche se era insopportabile e impossibile stargli accanto, a me piaceva.»

Per qualche momento il silenzio cadde, Lestrade fu quasi tentato di intervenire, ma desistette dalla tentazione di dire la sua. John si stava confessando, stava liberando i più profondi pensieri che dimoravano nel suo cuore e Greg sapeva che aveva ancora dell’altro da dire.
«E se dovesse lasciarmi di nuovo? Se rischiassi tutto per lui, per avere da Sherlock quell’amore che ho sempre desiderato, e poi lui se ne andasse ancora? Questa volta, lo so, non sopravvivrei.»

E Lestrade lo capiva, lo capiva davvero. Anche lui si era ritrovato in una condizione simile, il dover decidere se rischiare e stare con Mycroft, valesse la pena o meno. La situazione era simile, anche se differente in molti punti, ma l’indecisione, quella Lestrade la conosceva bene e sapeva che era un sentimento che Watson doveva affrontare da solo.

«Ti capisco» annuì. John gli sorrise, sinceramente. Dopo, Greg gli offrì solo uno sguardo d’intesa, per dirgli che aveva il suo sostegno e che qualunque decisione avrebbe preso, ci sarebbe sempre stato. Aveva detto le stesse cose a Sherlock, qualche settimana addietro, e ora faceva la stessa cosa con John. Perché era importante che entrambi capissero che per lui e suo marito, non sarebbe mai cambiato mai niente.

Il campanello suonò in quell’appartamento di Whitehall e il tempo parve fermarsi, dilatarsi all’infinito trasformando attimi in eternità. Era lui.

John Watson e Sherlock Holmes erano quindi giunti alla resa dei conti.

«Vado io» mormorò il dottore, fermando Greg con un cenno della mano. Ora nei suoi occhi brillava una sicurezza che non seppe interpretare, pertanto annuì semplicemente, rimanendo fermo dove si trovava.

Volse lo sguardo, osservando il mutare dei colori di Londra che, via via, si tingevano di scuro. Mentre la porta si apriva con un cigolio appena percettibile ed un fruscio di abiti gli fece capire che si stavano abbracciando, e che lo stavano facendo ancora sulla soglia.

Senza essersi parlati, senza niente altro che non fossero i loro sguardi.

 
Continua...

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Capitolo 5
*** Quinta parte ***


 

Quinta parte
 

 
Se due persone si amano, ma capiscono che non possono stare insieme,
quand’è che arrivano al punto di dire basta?
Mai.
(The Mexican)

 
 

Inaspettatamente, e con un tempismo da fare invidia, Mycroft Holmes era rientrato quel venerdì sera ed era rimasto a dir poco sorpreso nel trovare suo fratello ed il dottore, abbracciati sulla soglia dell’appartamento. Greg lo aveva intravisto mentre si guardava attorno con fare vagamente spaesato, anche se non l’avrebbe mai ammesso, e dalla cucina gli aveva fatto cenno di raggiungerlo. A segno da parte dello yarder di fare silenzio per non disturbarli, l’altro aveva risposto con uno sbuffo stizzito mentre posava l’ombrello nell’apposito vano accanto alla porta.

«Stanno così da quasi un quarto d’ora» aveva spiegato Lestrade poco dopo, ripiegando lo strofinaccio prima d’appoggiarlo allo schienale della sedia.
«Hai dato da bere al dottore il mio Dong Bai? [1] domandò. Lestrade sorrise, delle volte Mycroft pareva un cane da tartufo! Di sicuro non era umano… Quell’olfatto era incredibilmente sensibile e ora ne aveva l’ennesima conferma. Aveva già lavato le tazze e gettato i filtri, addirittura aveva pulito e riposto la teiera. Eppure aveva intercettato ugualmente l’aroma particolare di quel suo tè verde.
«Era necessario che si rilassasse» spiegò, giustificandosi. Sapeva che non si sarebbe mai arrabbiato, Mycroft era semplicemente geloso di tutte quelle che erano le sue cose. Una caratteristica di famiglia, a quanto aveva capito conoscendo meglio suo cognato Sherlock. Ovviamente tra quelle che considerava come “le sue cose” c’era anche Lestrade, la sua possessività pareva velata ed appena accennata, ma esisteva ed era anche piuttosto profonda. Anche se quello non era il momento più adatto per pensarci, si ritrovò a sorridere.
«Potevi ottenere lo stesso effetto con una birra; perché dargli il più raro e pregiato tè cinese che esista al mondo?»
«Andiamo, My, smettila di questionare per delle sciocchezze.»
«Non definirei il mio Dong Bai, una sciocchezza» lo rimproverò Holmes.
«Vuoi davvero metterti a litigare per un mucchietto di foglie secche, quando di là ci sono tuo fratello e il suo dottore avvinghiati?»
«Mh» mormorò lui, sfilandosi la giacca e gettandola sul tavolo in malo modo. Lestrade lo guardò, quel suo gesto lo aveva sorpreso non poco. Da che vivevano insieme non era mai stato tanto disordinato, la sola idea che l’ombrello non si trovasse al suo posto e che impermeabile e giacca non fossero perfettamente ripiegati, così come tutti i suoi abiti, lo faceva innervosire. Anche in questo era tremendamente inglese, il che era ridicolo perché spesso Lestrade si sentiva come se provenisse da un altro pianeta. In che Inghilterra era cresciuto Greg? Forse non la stessa di suo marito.
«Che hai?» chiese quindi, preoccupato.
«Sono stanco; ti confesso che avrei desiderato trascorrere la serata in intimità con te, ma dato l’imprevisto temo che non potremo mettere in atto il piano che avevo ideato. A meno che tu non ti decida a buttarli fuori, ma so che sei curioso di sapere cosa si diranno una volta che la smetteranno di palpeggiarsi a vicenda.»
«Sì, è vero! Sono curioso…» ammise «sempre che non restino lì per tutta la sera. In quel caso sarei il primo a prenderli a calci. Dai, vieni andiamo di là, così ti rilassi.»

Sul divano si sedettero l’uno a fianco dell’altro, con le mani unite e le dita intrecciate. Il capo di Greg rivolto all’indietro, appoggiato ai cuscini morbidi, e gli occhi chiusi a bearsi della presenza reciproca senza nemmeno guardarsi in faccia: non era necessario vedersi, a loro bastava il sentirsi. Lestrade sussultò impercettibilmente dopo che il naso di Mycroft aveva preso ad accarezzargli il collo, annusandone l’odore, inalandone i profumi speziati. Si guardarono per qualche istante, prima di baciarsi. Un tocco leggero e fugace, un bacio dolce e delicato, come se fosse lo sfociare di un bisogno fisico, ormai diventato impellente e che la distanza di quei giorni non aveva fatto altro che accentuare. Poi però, delle voci provenienti dall’atrio li interruppero. Si allontanarono, acutizzando l’udito e prendendo a spiare.

Già perché per un momento si erano scordati che nell’altra stanza, Sherlock e John stavano decidendo delle rispettive vite.


 
oOo



«Sai che questo abbraccio non cambia niente, vero Sherlock?» Era stata la voce di Watson a rompere il silenzio di quell’atrio che, seppur spazioso, era pur sempre l’uscio di un appartamento. Ma ad entrambi parve non importare di dove si trovassero, probabilmente avrebbero avuto la medesima conversazione anche in strada, senza tralasciare nulla, abbracci ed eventuali baci compresi.
«Lo so» rispose la voce di un mesto Sherlock Holmes. Di certo era strano sentirlo così, ma la rabbia e delusione di John dovevano averlo scosso più di quanto fosse mai accaduto in passato.
«E allora saprai anche che non smetterò mai di amar…»
«Aspetta» lo interruppe il consulente investigativo. «Prima che tu mi dica qualunque cosa, devi sapere che ho pensato a lungo a te in questi tre anni. So che potrei cercare di rabbonirti e dirti che ho sofferto la solitudine, che mi sei mancato e che ho vissuto in luoghi angusti, ma non lo farò. Ti dico solo che ho riflettuto a lungo. Se c’è una cosa che non mi è mancata è stato proprio il tempo; ho pensato tanto a me e a te, insieme. Non facevo che rimuginarci; mi rintanavo nel mio palazzo mentale e rivivevo i singoli momenti passati insieme, come in un film. Di tanto in tanto mi domandavo perché stessi facendo tutto quello, io volevo solo tornare a casa, da te. Ma era soltanto per un attimo, poi riprendevo il controllo perché sapevo d’avere un motivo più che valido per agire così. Sai, il mio raziocinio ha vacillato più di una volta in questi tre anni, anche se mi vergogno ad ammetterlo. Lo so che sei pieno di domande e che sei arrabbiato con me. Sono ben conscio del fatto che il tuo perdono non è scontato come speravo, ma prima che tu mi dica tutto, voglio che tu lo sappia.»

«Sapere, cosa?» domandò Watson.

«Che sei la sola persona per la quale io abbia mai provato qualcosa, degli altri me ne sono sempre fregato, ma tu... Io non so quale accezione vorrai dare al sentimento che ci lega, che parola utilizzerai e se vorrai definirmi come un amico o, beh, lo sai. E forse dovrei dirti  mi andrà bene qualunque decisione prenderai e che, se anche sposerai quella Mary, per me non cambierà nulla. Dovrei dirtelo, ma la realtà è che ti voglio con me. Sono egoista e possessivo. Solo quando sono stato lontano, ho capito che sono sempre stato geloso di te. E adesso insultami e dimmi che sono un bambino viziato e capriccioso, di’ ciò che ti pare: hai ragione. Ma ti voglio al mio fianco d’ora in avanti perché si tratta di noi due contro il resto del mondo. Questo è ciò che voglio, John.» [2]

«Come hai fatto ad imbrogliarmi?» domandò il dottore immediatamente, quasi senza dargli il tempo di finire di parlare. Come se quella domanda gli fosse rimasta sulla punta della lingua a lungo e solo in quel momento trovava la possibilità d’uscir fuori.
«Il cadavere che hai trovato a terra non era il mio, ovviamente.»
«Certo che eri tu, Sherlock.»
«No, non lo ero. Conosco i tuoi difetti, John: tu guardi, ma non osservi.»
«Già, ma tu ti sei buttato, Sherlock: io ti ho visto» precisò John.
«Era un trucco ed era tutto organizzato, Mycroft mi ha aiutato a farlo. Prima di andare su quel tetto sono andato da lui e gli ho rivelato il mio piano; sapevo che avrei dovuto farlo. Il pullman ha fatto da paravento, infatti il tutto è accaduto in pochi istanti. Dopo hanno sistemato il cadavere e tu hai creduto fossi io. Una volta via da Londra sono andato da mia madre e poi a Malta dove ho vissuto.»
«Perché, perché hai voluto inscenare tutto questo?»
«Per te» rispose Sherlock di getto «sempre e solo per te. Perché anche se Moriarty era morto, la sua organizzazione era tutt’altro che distrutta. E un suo uomo aveva il fucile puntato su di te, quel giorno, ed era pronto a fare fuoco, so che l’avrebbe fatto. Tu saresti morto e sarebbe stata solo colpa mia. Sebastian Moran era il suo nome, un ex colonnello dell’esercito, un tiratore scelto, un killer. Se io non mi fossi gettato, lui ti avrebbe ucciso. Ho vagliato tutte le ipotesi e, credimi, non c’era altra soluzione. Ero addirittura stato accusato d’essere un impostore, non ne sarei uscito pulito e tu saresti stato coinvolto nello scandalo del detective che uccide le sue vittime e poi indaga, incolpando poveri disgraziati innocenti. Così facendo, tu eri in salvo e pulito. Mycroft ha fatto in modo che la stampa non ti stesse addosso e Lestrade che la polizia non indagasse su di te. Ne eri fuori.»
«Già, capisco perché tu abbia finto la tua morte in quel momento, ma dopo perché non me l’hai detto dopo? Io sono stato al tuo funerale, ho pianto sulla tua tomba e ti ho seppellito. Sono stato dallo psicologo per superare la tua morte, ho preso un cane, ho una fidanzata…»
«Lo so, John. Mi dispiace che tu abbia sofferto tanto, ma non avevo altra scelta.»
«No, tu hai deciso per me ed è questo che non accetto!» gridò John. «Non riesco a perdonarti perché mi hai lasciato, brutto stronzo egoista che non sei altro. Eravamo compagni e i compagni si aiutano a vicenda, non voglio la tua protezione voglio il tuo rispetto. Voglio starti accanto sempre e comunque.»
«Quindi è questa la tua decisione?» chiese Sherlock. «Starmi accanto?»
«Sì, voglio dire no! Insomma, non lo so. Sono incazzato da morire in questo momento.»
«Questo l’ho capito.»
«Dovrai essere paziente, non potrai pretendere che io torni da te a un tuo schiocco di dita, non puoi pensare che ti segua come facevo una volta o che torni subito a Baker Street. Il perdono richiede tempo, così come il ricostruire un rapporto.»
«Lascerai tua fidanzata?»

Per lunghi minuti, Greg non aveva udito altre parole. La domanda di Sherlock era riecheggiata nell’atrio; Greg aveva sentito John camminare ed il suo bastone picchiettare ripetutamente a terra, probabilmente per il nervosismo.

«Io ti odio.» Così il dottore aveva rotto il silenzio, Lestrade non poteva averlo visto, ma Sherlock era sussultato dopo esser stato pervaso da un tremito leggero. «Ti odio talmente profondamente, che non ho dubbi sul fatto che il tutto nasca dall’amore che nutro per te. Lo so, non ha alcun senso, ma da qualche parte ho letto che si odia veramente solo chi si è amati in maniera totale, e Dio solo sa quanto questo sia vero. E io ti ho amato, Sherlock, non sai nemmeno quanto. Quando andammo a Baskerville stavo per dirtelo, ma poi litigammo e mi sentii poco meno che un tuo amico; non avrei potuto sperare in qualcosa di più. Perché tu eri tu, non potevo cambiarti e una parte di me non lo voleva nemmeno. Poco prima che scoppiasse il casino con Moriarty mi ero quasi convinto a dirtelo, poi però… Non hai nemmeno idea di quanto abbia sofferto, almeno fino a che non ho incontrato Mary. Lei è stata davvero importante e la amo, qualsiasi cosa potrà mai capitarmi in futuro, questo non potrò mai cambiarlo.»

«Capisco.»

«No, non è vero che capisci» disse, serio. «Sherlock, la vita con te è sempre stata impossibile, quel giorno in cui ci incontrammo tu mi dicesti che l’abitare sotto il tuo stesso tetto non sarebbe stato semplice, ma non credevo che potessi raggiungere certi livelli di follia. Sei insopportabile e questa tua dannata sociopatia che ti spinge a manipolare il prossimo sempre e comunque, è la cosa che detesto di più del tuo modo di fare. Alle volte mi dicevo che non avevo idea di come io facessi a sopportarti! C’erano giorni in cui ti detestavo talmente, che ti avrei strangolato con le mie stesse mani. Tuttavia, Sherlock, io non mi sono mai sentito tanto felice in vita mia. La vita con te è quanto di più bello mi sia capitato da che sono nato. [3] Pertanto se mi chiedi se ho intenzione di lasciare Mary, la mia risposta è sì. E se mi domandi se voglio stare con te, la risposta è sì. Ti odio, Sherlock, mi hai ferito e fatto del male… Ma proprio perché ho sofferto così intensamente, adesso che ti ho qui, vivo davanti a me non posso rinunciare ad averti indietro. Voglio però una cosa, anzi, penso di poterla pretendere. Chiarezza. Se è solo la mia amicizia ciò che vuoi, dillo immediatamente e da me avrai soltanto questo.»

Inaspettatamente a quanto Greg avesse pensato, la risposta di suo cognato non si fece attendere. Se pensava a quanto ne avevano parlato, per quanto tempo avevano discusso riguardo Sherlock Holmes e la sua capacità di amare, ora non poteva credere che erano giunti al capolinea. Diede una rapida occhiata a Mycroft, lui se ne stava ancora avvinghiato al suo braccio, con il viso affossato nel suo collo. Respirava lentamente e di tanto in tanto gli regalava qualche bacio, ma sapeva che quel che stava facendo realmente era ascoltare.

«Amicizia, amore… Mycroft tempo fa mi disse che avrei dovuto iniziare a pensare in questi termini, anche se ritengo assurdo il dover dare una definizione ad un sentimento. Non sai quanto mi scoccia ammetterlo, ma ritengo avesse ragione. Trovo che sia la cosa più assurda e idiota di questo mondo, però non mi resta che sottostarvi perché mi rendo conto che è necessario. Se amore significa che tornerai a vivere con me, che mi sopporterai, che ti lascerai abbracciare o fare tutte quelle altre cose che sembrano essere necessarie in una coppia, allora sì, John, è questo che voglio. Se per te amore significa che non c’è altra persona con cui io vorrei stare, allora sì.»

«Questo vuol dire che mi ami?»
«Non fare domande ovvie, John, ti prego.»
«Sì o no?» ribadì Watson, deciso a non desistere.
«Sì.»



 
oOo


 
Ciò che successe dopo, per il detective Lestrade, non fu poi tanto arduo da capire. Nonostante avesse voglia di guardare, attraverso la porta spalancata, tutto ciò che fece fu voltarsi verso Mycroft.
«Mio fratello dice cose illogiche, non poteva dirgli subito che lo amava? E ora si devono pure baciare in casa mia!» borbottò.
«E allora?» domandò Greg, senza capire.
«Si stanno baciando» ripeté.
«Non lo so, My, tutti gli Holmes che ho baciato fino ad ora sembrano esserci piuttosto portati. Lascia che anche il dottore se ne renda conto… Di contro c’è che, se Sherlock ti somiglia anche in questo, allora temo ci vorrà ben altro per staccarlo da John.»
«Hanno un casa, che tra l’altro io ho pagato per anni. Potrebbero andarci e lasciarci finalmente soli.»
«Disse l’uomo che fa seguire i suoi parenti da quelli dell’MI5.»
«Non mi diventare sarcastico, Gregory, non ti si addice.»

Fu lo squillo del cellulare di Lestrade ad interrompere quella surreale situazione. Greg si lasciò andare sul divano, scuotendo il capo. Sullo schermo del telefono campeggiava un solo messaggio, da parte dell’agente Donovan che recava un indirizzo e una scritta: omicidio.

«Mi dispiace» mormorò, baciandolo velocemente sulle labbra. «Domani sei a casa?»
«Starò al Diogene’s club tutto il giorno, gradirei che per pranzo tu mi raggiungessi. Per passare un po’ di tempo insieme» precisò infine.
«Farò il possibile!»

Quando Lestrade oltrepassò la porta che dava sull’atrio, John e Sherlock erano ancora avvinghiati l’uno all’altro. Quasi gli dispiaceva interromperli, ma come si era alzato dal divano un’idea, anche se non molto felice, gli era balenata in mente.

«Ho un omicidio» aveva detto ad alta voce, richiamando in quel modo l’attenzione del consulente investigativo. Sherlock si scostò immediatamente, portando lo sguardo su di lui.
«Come? Dove?»
«Ne so quanto te, ma ci sto andando proprio ora. Nel cuore della City, allora: ti va di scoprirlo?»

Non furono necessarie risposte, Sherlock corse fuori dall’appartamento non prima d’aver preso la mano di John ed esserselo trascinato dietro con tanto di bastone al seguito. Greg sorrise quando udì la sua voce gridare, dalle scale: «muoviti, Lestrade.»
 
Di sicuro quei due avevano ancora molta strada da fare, ma si poteva affermare con assoluta certezza che le cose si stavano aggiustando per il meglio. Forse ci sarebbe voluto del tempo, e niente sarebbe stato più come prima. Perché nessuno di loro era rimasto uguale a sé stesso in quegli ultimi anni; Greg era cambiato, Mycroft era cambiato e lo erano anche John e Sherlock. No, le cose non sarebbero state mai più come prima, ma non era da ritenersi necessariamente un male. Perché, probabilmente, sarebbero state migliori.



Fine

 

[1] Dong Yang Dong Bai: è un tè verde cinese particolarmente prezioso per il suo aroma. Non è facile trovarlo sul mercato europeo e viene prodotto esclusivamente sulle montagne dello Zhejiang (Cina). I sottili aghi di questo tè donano un infuso asciutto e memorabile dalle sfumature leggermente speziate. Viene considerata una rarità dagli intenditori.
[2] “Just the two of us against the rest of the world”: potevo non metterla? Naaah! 
[3] Questo concetto è ispirato alla puntata 5x04 di Dottor House. Dove Wilson (che ha allontanato House) gli dice che decide di rivolerlo nella sua vita perché il viaggio che hanno fatto in auto per andare al funerale del padre di House, è stata la cosa più bella che gli sia capitata da dopo la morte di Amber (la fidanzata di Wilson morta qualche episodio prima). Ovviamente significa che, anche se non lo sopporta, anche se lo ha allontanato perché è impossibile starci vicino, alla fine torna ad essere suo amico perché con lui è felice. 

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