Storie dal nido degli avvoltoi

di Dragana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** La buona moglie [Sulpicia] ***
Capitolo 3: *** L' incrocio [Renata] ***
Capitolo 4: *** Mostri [Jane] ***
Capitolo 5: *** Pettegolezzi [Chelsea, Felix, Renata] ***
Capitolo 6: *** Il giorno che ho quasi convinto Afton [Chelsea] ***
Capitolo 7: *** Un semplice colloquio di lavoro [Felix] ***
Capitolo 8: *** La caccia [Demetri, Heidi] ***
Capitolo 9: *** Una storia per Sulpicia - Prima parte [Aro] ***
Capitolo 10: *** Una storia per Sulpicia - Seconda parte [Aro] ***
Capitolo 11: *** Seven - Accidia [Marcus] ***
Capitolo 12: *** Seven - Avarizia [Afton] ***
Capitolo 13: *** Seven - Gola [Corin] ***
Capitolo 14: *** Seven - Invidia [Heidi] ***
Capitolo 15: *** Seven - Ira [Renata] ***
Capitolo 16: *** Seven - Lussuria [Aro] ***
Capitolo 17: *** Seven - Superbia [Alec] ***
Capitolo 18: *** Giardini - Api e fiori [Felix, Renata] ***
Capitolo 19: *** Giardini - Eden [Aro, Sulpicia] ***
Capitolo 20: *** Giardini - Rondini [Marcus, Didyme] ***
Capitolo 21: *** Giardini - Il gelso [Chelsea, Afton] ***
Capitolo 22: *** Spagna-Olanda 2010 [Felix] ***
Capitolo 23: *** Gioco di ruolo [Aro] ***
Capitolo 24: *** Il regalo [Afton/Chelsea] ***
Capitolo 25: *** Fragole e champagne [Corin] ***
Capitolo 26: *** Rosso di seta [Demetri, Heidi] ***
Capitolo 27: *** La generosità secondo Jane [Jane] ***
Capitolo 28: *** Garbino, gatti e nuraghe [Renata] ***
Capitolo 29: *** La sfida [Demetri] ***
Capitolo 30: *** Di un sorriso perfetto [Aro] ***
Capitolo 31: *** Tatuaggi [Felix] ***
Capitolo 32: *** ...Castello ululà - Scherzo [Alec] ***
Capitolo 33: *** ...Castello ululà - La sposa cadavere [Chelsea] ***
Capitolo 34: *** ...Castello ululà - Etoile [Jane] ***
Capitolo 35: *** ...Castello ululà - Potere [Aro] ***
Capitolo 36: *** Come Santiago ebbe a che fare con gli Italiani [Santiago] ***
Capitolo 37: *** Se la gente usasse il cuore [Aro] ***
Capitolo 38: *** L'amante francese (non quello di Parigi, l'altro) [Corin] ***
Capitolo 39: *** Una missione facile facile - prima parte ***
Capitolo 40: *** Una missione facile facile - seconda parte ***
Capitolo 41: *** Spagna-Olanda 2014 [Felix] ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Disclaimer: I Volturi non appartengono a me, anche perchè in questo caso dominerei il mondo, ma a Stephenie Meyer e agli aventi diritto. E di conseguenza non ci guadagno niente, neppure un caffè.
I personaggi sono tutti maggiorenni, anche Jane e Alec, che hanno trecento anni ma li portano bene.






INTRODUZIONE

La città di Volterra sorge su un altura.
Come un nido, appollaiato su montagne dalle viscere d’alabastro.
Ci prova l’alabastro ad essere trasparente, senza mai riuscirci. Le avete mai viste, le finestre d’alabastro? Lasciano passare una luce lattiginosa che illumina l’ambiente, ma non permettono di guardare fuori. Non rivelano altro che spazio circoscritto, celando il mondo vero, quello al di là del loro latteo spessore. Come Volterra.
La tranquilla Volterra. Così ben protetta. Persino San Marco venne a proteggerla dai vampiri, eh, sì, San Marco dalla veste rossa e dalla pelle d’alabastro.
Non se n’è mai andato San Marco, né lui né i suoi fratelli, solo che sono fuori dalla finestra e non si riescono a vedere. Sono fra tutte quelle cose che ci sono in cielo e in terra e neppure si sognano nella nostra filosofia. Si ricordano di Volterra da quando si chiamava ancora Velathri, perché loro c’erano. Se la ripresero dopo la caduta dell’Impero Romano che tanto avevano amato, per non lasciarla più.
Marcus, Caius ed Aro. Così si chiamano, ma non chiedete di loro, nessuno saprà rispondervi. Non sono che ombre dietro l’alabastro, e sono ombre molto veloci a fuggire dagli sguardi. Hanno designato Volterra come loro dimora, vi si sono stabiliti con le loro mogli, hanno istituito il loro corpo di guardia e dalla cima del loro monte vigilano sul mondo che c’è al di fuori di quelle finestre, un mondo in cui il tempo ha un diverso significato ed il sangue è vita molto più di quanto non lo sia per noi.
Si fanno chiamare “Volturi”, in onore della loro città.
Ed è divertente che in latino “vultur” significhi avvoltoio, una parola etimologicamente lontana ma dal suono così simile. O almeno, Aro lo trova davvero divertente, anche se non sempre ciò che diverte Aro diverte anche gli altri.
E così gli avvoltoi hanno fatto il nido sul monte d’alabastro, proteggendolo come tutti gli uccelli proteggono ferocemente il loro nido.
Gli avvoltoi e le loro guardie rapaci. Fuori dalle finestre d’alabastro, si narrano le loro storie.
Storie dal nido degli avvoltoi.










Note:
Non sono mai stata a Volterra. Sono stata a Firenze, Lucca, Siena, Arezzo, Pisa, ma mai a Volterra, purtroppo. Le informazioni sulla città le ho prese da Wikipedia, quindi se ho sbagliato chiedo scusa umilmente.
Ho deciso di mettere qui tutte le storie che scriverò e che avranno come protagonisti i Volturi e le loro guardie; non è una raccolta coerente e organizzata, è solo uno spazio in cui affastellare le one-shot su di loro. Disordinato come la mia camera. E la mia camera è molto disordinata, sappiatelo.

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Capitolo 2
*** La buona moglie [Sulpicia] ***


LA BUONA MOGLIE

Da quanto tempo sono al fianco di Aro? Non riesco a quantificarlo, il modo di contare il tempo è cambiato tante volte ed io non mi ci raccapezzo più. Tre volte mille anni, e forse altro ancora.
Tre millenni al suo fianco, senza segreti. Nuda di fronte al suo sguardo, spogliata spietatamente dal solo tocco delle sue mani, letta fin nelle viscere come facevano gli aruspici ai tempi della mia giovinezza.
Ho imparato a leggere anch’io il suo volto impassibile, l’ho dovuto fare per sopravvivenza; lui non mi metteva spesso a parte dei suoi pensieri, abituato all’immediatezza di un semplice tocco si annoiava a spiegare ciò che pensava e comunque della dissimulazione ha sempre fatto un’arte, ed io mi sforzavo disperatamente nella speranza di capirlo.
Ora ci riesco spesso. Sono l’unica, oltre a lui, a sapere di Didyme. No, non mi aveva parlato delle sue intenzioni. Sapeva quanto affetto nutrivamo per lei Athenodora ed io, quanto affetto per lei nutrissero tutti, lei era sangue del suo sangue e nonostante la blasfemia dell’atto che si apprestava a compiere non l’avrei tradito; ma Aro è prudente, non ha voluto correre neppure il minimo rischio e come sempre non ha sbagliato, come sempre ha vinto. Però io ho capito. Ho messo insieme tutto ciò che sapevo di lui, tutto ciò che avevo imparato scrutandolo avidamente per secoli, e sono giunta alla verità. Come sempre a lui è bastato sfiorarmi per capire che avevo capito e per sapere che nuovamente avrei custodito i suoi segreti.
-Sei una buona moglie-, mi disse in quell’occasione, e non una parola di più.
Non custodisco i suoi segreti perché temo una sua punizione, e lui lo sa. Li custodisco perché sono una buona moglie e le buone mogli stanno al fianco dei propri mariti sostenendo ogni loro scelta.
Lo sostengo da tre millenni, e l’unica certezza che mi è data è che l’amore che Aro nutre nei miei confronti non lo fermerà dal prendersi la mia vita se in un qualunque momento essa gli dovesse essere d’ostacolo. Ed è così perché la vita di una buona moglie appartiene al marito, che ne dispone come è meglio per entrambi.
Lui guarda lontano, sempre oltre l’orizzonte, al di là delle colonne d’Ercole. Aro non è Alexandròs che dopo aver conquistato tutte le terre dovette fermarsi di fronte al mare e alla luna, no, sono il mare e la luna che vuole e di questa brama si sta nutrendo, con essa lega a sé Caius e Marcus e costruisce il suo impero sulla polvere dei secoli passati, vittoria dopo vittoria.
Ed io sto a guardare lui. Sto a guardare mio marito collezionare meravigliosi ragazzini per formare la nostra guardia, sto a guardarlo mentre tiene accanto a se’ Renata e saluta Jane con i baci della sua bocca, sto a guardarlo impassibile ma divorata dalla gelosia, so che lui lo sa e solo io colgo il sottile e sadico divertimento che prova nel farlo davanti a me, nel guardare il mio volto di statua sapendo cosa si agita nelle mie viscere.
Ne sono gelosa e non è il tono leggero che usa Aro per rassicurarmi a placarmi. Lo usa di proposito, quel tono di scherno nel giurarmi che sono l’unica che ama davvero, perché io non capisca mai se le sue parole sono veritiere. Eppure sono certa che sia così, ne sono certa perché sono l’unica a capirlo più di quanto lui capisca se stesso. Quelle sciocche, patetiche ragazzine pensano di avere un posto particolare nel suo cuore: l’inconsistente Renata che crede di essere la persona più vicina ad Aro solo in virtù del fatto che lui se la tiene vicina come una cagna da guardia; Heidi che forte della sua bellezza ed età ha l’ardire di credersi quasi sua pari; Jane, la perfida bambolina, che come tutte le ragazzine e le sguattere crede che il semplice fatto che un uomo se la porti a letto significa che la ama e che lascerà la moglie, senza considerare che un uomo come Aro non lascerebbe mai una buona moglie per una donna che lo sollazza nei momenti di noia. Loro non capiranno mai che è la mia gelosia a divertirlo ed eccitarlo e se non ci fosse smetterebbe di tradirmi, e che anche loro, anch’io, anche lui stesso facciamo parte del gioco che Aro sta giocando col mondo.
E so altresì che mi è proibito anche solo fare indugiare il mio sguardo sul volto di un altro uomo; scatenerei la sua ira, non oso neppure pensare alle conseguenze. Sarebbero mille volte peggio di quanto m’immagino, mi ha detto la prima volta che distrattamente ho formulato questa riflessione. Non mentiva. Nonostante sappia che non amerò mai nessun altro è il solo gesto che non ammette. Nel suo infinito egoismo io devo essere sua, incondizionatamente sua, nemmeno una pagliuzza di pensiero deve appartenere ad un altro. E questo io sono.
Lo eccitano le donne di adesso, libere, intraprendenti, vestite come prostitute. Le vuole e se le è prese, quasi tutte, e si prenderà anche le altre prima o poi. Ma non sua moglie. Non io. A me, mi vuole dignitosa, sottomessa, silenziosa alle sue spalle, e solo in privato, solo con lui posso essere l’amante libera, giocosa e sorridente che tanto gli piace. Non riuscirebbe a concepire diversamente il ruolo di moglie, ed io neanche. Quando ho provato per qualche istante a pensare di poter essere diversa anche al di fuori delle nostre stanze e della nostra intimità, che gli dèi mi aiutino, non voglio neppure più ricordare come ha reagito. Il timore di averlo deluso è stato tale che a tutt’oggi mi sento colpevole, Aro lo sa e difficilmente mi permette di dimenticarlo.
Non c’è che lui nella mia vita. Non posso tediare Caius con la mia voce di donna, e Marcus è morto tanto tempo fa, con Didyme. Provo affetto per Athenodora, ma più i secoli si accavallano e maggiori sono i pericoli di parlarle, di lasciarmi anche involontariamente sfuggire qualche cosa che possa servire a Caius per nuocere ad Aro… ormai troppi segreti si sono accumulati, troppe sono le barriere che abbiamo eretto tra noi da quando non c’è più Didyme a tenerci unite. Non è del tutto esatto dire che c’è solo Aro nella mia vita: Aro è diventato tutta la mia vita.
So che ne è felice. So che è questo che vuole, la sottomissione completa e totale di tutti coloro che gli stanno intorno, e tanto più la mia, che sono sua moglie. So che l’essere sua lo rende felice, so che non tollererà nessun passo indietro, fosse pure un passo di formica. Sa che lo so, che agirò come lui desidera, e se ne bea.
Sono tre millenni che questa è la mia vita al fianco di Aro.
Ed è meravigliosa.





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Capitolo 3
*** L' incrocio [Renata] ***


L' INCROCIO

“La casa era giusto al confine tra il vento e la sete
Un posto abitato da fate
E da poche altre forme di vita ugualmente concrete”


Mia nonna era una jana.
Così si diceva in giro, e si diceva perché aveva la pelle pallida e perché mio nonno l’aveva portata con sé in paese tanto tempo prima, quando era ragazzo, e non si era capito bene da dove. Inoltre aveva cominciato a dirlo lei stessa quando era diventata tanto vecchia da non capire più niente. Dimenticava quello che aveva mangiato pochi istanti prima, il posto delle cose, ad un certo punto dimenticò anche i nostri nomi, ma parlava della sua giovinezza tra le altre janas che aveva abbandonato per un bellissimo uomo. Io non le davo retta ed odiavo ascoltare i vaneggiamenti di una vecchia uscita di senno; ora che l’incredibile è diventato quotidiano non so più a che pensare, ma tanto non ha più importanza perché mia nonna, la jana, è morta da secoli.
Mio padre lavorava sempre e quando finiva di lavorare andava a bere, ed in casa non lo vedevo mai. Era il primo ad uscire, l’ultimo a rientrare. Mia madre era morta dandomi alla luce, mio padre mi dette il suo nome e continuò imperterrito a lavorare e a bere, fino alla morte.
Nella casa c’erano un sacco di gatti che davano la caccia ai topi in dispensa e non si capiva mai quanti fossero, perché i gatti vivono a cavallo tra i mondi ed odiano farsi contare ed anche farsi dare nomi.



“Vicino all’incrocio di un paio di strade sterrate
Che senza motivo apparente s’incontrano
E poi disperate ripartono, tristi, così come sono arrivate”


Non le percorreva nessuno, quando abitavo nella casa, quelle strade polverose. Nessuno a parte noi del paese, io che mi trascinavo a raccogliere ricci di mare, papà all’alba e al tramonto. Una di quelle strade portava alla città degli spagnoli, non sapevo bene quale, una volta me lo avevano detto ma io me n’ero dimenticata; non aveva importanza, non ci sarei mai andata alla città.
Ora le percorrono le strade, che sono polverose ma meno perché le hanno asfaltate, ora che il vento e la sete qui non fanno più paura a nessuno. Ora pagano per andare alla spiaggia, a coprirsi di quella sabbia e sale e sole che io non avevo neanche la forza di maledire. Pagano per fotografare le domus de janas, da dove proveniva mia nonna. E poi vanno alla città che non appartiene più agli spagnoli, camminano sul lungomare e mangiano il gelato.



“La chiesa era uguale alle case, ma aveva una croce
[…]Ed un’unica luce fornita da fiaccole appese imbevute di pece”


Ci andavo poco in chiesa, ma i paesani non ci facevano molto caso nonostante fossi la nipote della jana, e comunque nessuno ha mai considerato molto la mia presenza. Non mi sembrava che Dio avesse qualcosa di particolare da dirmi, non a me, forse passavo inosservata anche ai Suoi occhi. Niente e nessuno pareva sfiorarmi, tutto ciò che poteva ferirmi scivolava via da me come acqua dolce. Una volta dei bambini mi si avvicinarono per tirarmi dei sassi, ma poi parvero dimenticarsi del motivo per cui erano lì e corsero via leggermente perplessi. Non stetti neanche tanto tempo a stupirmene, tornai a casa camminando più svelta con i miei ricci di mare che non mi pungevano mai.
Ci dovetti entrare a distanza di poco all’ombra della croce, quando prima mia nonna e poi mio padre morirono. Tutti in paese li avevano visti uscire da casa con i piedi avanti, eppure dicevano che la jana era tornata dalle sue compagne portandosi dietro anche suo figlio. Mi chiesi vagamente come mai non mi aveva voluto, e continuai a raccogliere ricci di mare.



“la gente che passa ci guarda e prosegue veloce
ci osserva e prosegue veloce
magari sorride, ma sempre prosegue veloce.”


Non ne passava quasi mai, di gente, dalla strada. I pochi che lo facevano si recavano furtivi alla città o vi fuggivano, perché chi usa strade secondarie le percorre velocemente e non si ferma a portare notizie, ma si limita a dirigersi verso la propria destinazione, ovunque essa sia.
Io non pensavo a nulla. Non avevo tempo e fantasia per chiedermi cosa ci fosse di là dall’incrocio, era inutile interrogarsi su destini che non avrei mai vissuto. La sola idea di mettermi in viaggio era talmente inconcepibile che neppure mi sfiorava la mente; il mio futuro era già dipanato, lo vedevo tutto, fino al momento in cui sarei uscita dalla chiesa dentro una cassa, da sola.
Persino gli uomini che attraversavano la mia vita erano come la gente della strada: non mi vedevano, e se mi vedevano magari sorridevano, poi mi passavano attraverso e proseguivano veloci. Ripensandoci, a quel tempo non odiavo la mia vita. Non l’amavo. Sopravvivevo, nella più completa e totale indifferenza.



“A volte succede qualcosa di dolce e fatale
Come svegliarsi e trovare la neve”


Avevano i volti di neve quegli uomini venuti dalla strada.
Mi chiesero ospitalità perché la mia casa era sull’incrocio e loro dovevano attendere un servo che li avrebbe raggiunti dalla città. Avevo paura perché loro erano tre e in casa c’ero solo io e persino i gatti erano scappati soffiando, ma non potevo rifiutare l’ospitalità a dei signori e li feci entrare, sperando che anche loro m’ignorassero e non pretendessero da me cose che avrei dovuto concedergli per forza. Il più affascinante dei tre signori mi mise in mano delle monete lucenti che non sapevo bene dove avrei potuto spendere e senza staccare la sua mano dalla mia mi rassicurò.
-Non devi preoccuparti, l’ospitalità è cosa sacra: non ti nuoceremo in alcun modo, Renata nipote della jana.-
Non sapevo come potesse conoscere il mio nome e la sciocca diceria a proposito della nonna, ma pensai che gliel’avesse detto qualcuno a cui avevano chiesto indicazioni; ero spaventata ed al contempo terribilmente attratta da quei signori bellissimi e pallidi dagli strani occhi da demoni, e questo mi spaventava ancora di più. Ma non potevo fare nulla, e come al solito chinai la testa e mi rassegnai ad attendere il mio destino. Gli offrii da mangiare pane, formaggio e ricci di mare, ma rifiutarono tutto. Li lasciai in pace e me ne andai a dormire con i gatti; come promesso, nessuno di loro tre venne ad importunarmi.



“o come quel giorno in cui lui mi sorrise”

I tre signori aspettarono il loro servo per tutta la giornata successiva chiusi nella stanza da letto di mia nonna, la stanza migliore della casa. Al calare del sole scesero e si misero ad attenderlo in strada, discorrendo a sussurri senza rivolgermi un solo sguardo. Meglio così, pensavo, le attenzioni dei signori non portano mai nulla di buono ad una come me. Ad un certo punto alzarono la testa fissando la strada, e poco dopo sulla strada comparve un uomo. Era alto e bruno, dalla pelle olivastra sotto il pallore. Giunto al cospetto dei tre signori e s’inginocchiò davanti a loro; -Alzati, Eleazar. Dunque, cosa riferisci?- lo apostrofò spiccio il più imponente dei tre, quello con i capelli candidi come la neve. L’uomo si alzò e scrollò le spalle. –A Barceloneta estàs todos caballeros!- esclamò sorridendo. Il più affascinante dei signori rise, il più bello dei tre rimase impassibile, lo sguardo vagamente assente. –È tutto a posto. Potrò partire per Granada tra poco più di un anno, massimo due. Se non avete altri ordini possiamo rientrare a Volterra, la nave è pronta e ci aspetterà in porto.-
Mentre i tre signori annuivano compiaciuti, lui mi vide e mi guardò di sfuggita. Poi mi fissò. Poi mi sorrise.
-Abiti qui? Sei tu la donna che ha ospitato i miei signori?- mi domandò avvicinandomisi, scambiando una rapida occhiata con i tre. Balbettai una risposta, mi sentii arrossire, ma notai comunque che mentre si avvicinava a me Eleazar porse la mano ad uno di loro. Non capivo cosa stesse accadendo, allora. Adesso lo so. Allora sapevo solo che sia l’affascinante signore che l’uomo alto e bruno mi stavano sorridendo come nessuno mi aveva mai sorriso prima.



“vederlo venirmi vicino fu quasi morire
trovare per caso il destino
e non sapere che dire”


Aro sa essere irresistibile quando vuole e con me non gli ci volle che quel sorriso. Aro che sapeva il mio nome prima che io glielo dicessi, che per primo mi rivolse la parola e che dopo quel sorriso si presentò a me e mi parlò a lungo tenendomi le mani e guardandomi sempre, io che ero abituata a sentire gli sguardi scivolarmi addosso e passare oltre. Aro, adesso lo so, ogni volta che è amabile dev’esserci sotto qualcosa, ci dev’essere qualcosa che desidera, che deve essere suo. Quella volta voleva me, ed io soggiogata dai suoi occhi da demonio balbettavo risposte, gli tracciavo a smozzichi il disegno della mia solitaria ed insignificante esistenza sforzandomi di cercare qualcosa di interessante da raccontargli, senza trovarlo. Mi sentivo la mente vuota, e pensavo agli sguardi della gente che non mi vedevano, ai bambini che non mi tiravano i sassi, ai ragazzi che non m’importunavano ed ai ricci di mare che non mi pungevano mai.



"mi piace sentire la forza di un'ala che si apre
volare lontano
sentirmi rapace”


-Potrei farti un dono, Renata nipote della jana-, furono le parole che mi rivolse dopo il mio patetico racconto. Non le dimenticherò mai. –Potrei renderti forte, potente, molto più bella di quanto tu già sia… oh, certo che lo sei. E immortale. Un demone? Sì, se ti piace questo termine, oppure un angelo, non sono forse la stessa cosa? Un uccello rapace magari, che ne dici? Come un avvoltoio!- All’epoca non capii il suo giochetto di parole preferito, ero povera ed ignorante. Capii solo che per la prima volta in tutta la mia vita potevo sollevare lo sguardo dalla polvere della strada ed andare a vedere la città degli spagnoli, salire su una nave, abbandonare l’immobilità della mia casa ancorata all’incrocio. Ora so che se avessi rifiutato il suo dono Aro mi avrebbe presa comunque, o mi avrebbe uccisa, perché aveva già deciso e nulla può opporsi alle decisioni di Aro; ma non fu necessario.
M’inginocchiai davanti a lui, pregandolo di portarmi via.



“E intanto volevo sparire
pensando alle cose che avevo da offrire:
l'incrocio
la casa
la chiesa
la croce”


-Certo che ti porterò via, Renata-. Quanto era dolce il suo tono e perfetto il suo sorriso, mentre mi accarezzava le lacrime sul volto con le dita gelide. –Ma tu dovresti offrirmi qualcosa in cambio; dopotutto, quello che ti concedo è un dono immenso-. Era un patto col diavolo. Ero vagamente consapevole di stare trattando con un demonio, e la mia unica, bruciante preoccupazione era che non potevo pagarne il prezzo. Cosa mai potevo donare? Cosa possedevo? Due strade che s’intersecavano e che non avevo mai percorso, né in un senso né nell’altro. La vecchia casa con i suoi gatti. Il ricordo di una jana che era mia nonna e di suo figlio, che morivano da umani, nelle loro bare in chiesa. La condanna di un destino già segnato. Ma la domanda di Aro non era posta a caso. –Mi offrirai te stessa. Sarai serva mia e dei miei fratelli, così come lo è Eleazar.- Accettai.



“oppure proseguire ovunque vada
meglio
meglio che qua”


Ed Aro mi portò via. Bloccò la mia giovinezza, rivelò in me poteri meravigliosi. In cambio non ebbe altro che ciò che gli avrei dato comunque: la mia totale devozione a lui.
Ho stretto un patto col diavolo, forse, ma un patto che mi ha donato molto più di quanto io gli doni ogni giorno. Lo seguirò ovunque voglia portarmi, ovunque mi chieda di scortarlo, proteggendolo da qualunque cosa osi provare a nuocergli; e qualsiasi luogo, anche l’inferno, sarà meglio della casa sull’incrocio nella quale ero nata e nella quale si prese la mia vita mortale quel giorno.
Demoni, se mi piace questo termine, o angeli, o uccelli rapaci. Non sono forse la stessa cosa?










Note:
I versi in corsivo all'inizio di ogni paragrafo sono tratti da una canzone di Daniele Silvestri, che s'intitola "L'autostrada".
Le Janas sono piccole fatine sarde; generalmente non si sposano, ma ho trovato scritto da qualche parte che pare che alcune di loro si siano unite in matrimonio agli umani, nascondendo la loro natura. La "città degli spagnoli" è Alghero, territorio catalano fino al 1720, conosciuta anche come "Barceloneta".
Ed ora dismetto il tono da maestrina e mi profondo in ringraziamenti, che non ne faccio mai abbastanza: grazie a chi mi ha ficcato nei preferiti e nelle seguite, nonostante i personaggi negletti e secondari (Aro è convinto di essere il protagonista di Twilight. E non c'è verso di fargli capire che non è vero: quando hanno provato a spiegargli che i protagonisti sono Edward e Bella ha riso per tre giorni. Adesso nessuno ha il coraggio di andargli a dire che non era una battuta). E grazie particolarmente a:
OttoNoveTre: sì, la mia Sulpicia è parecchio matrona. E forse non del tutto normale, ma d'altra parte è sposata con Aro... tu giochi di ruolo, vero? Quindi capisci se ti dico "Malkavian"?
Luna95: Guarda, a quell' "a me, mi" ci ho pensato tantissimo, lo toglievo, lo rimettevo... un dramma. Alla fine ho deciso di lasciarlo perchè mi piaceva l'effetto sonoro: "le altre sono cosà, a me, pausa, mi vuole così". Onestamente e spudoratamente: fa schifo? Accetto pareri! Per il resto grazie per i complimenti: io mi immagino i Volturi come qualcosa a metà tra gli unici, veri, tenebrosi vampiri in Twilight e una sorta di azienda con Aro nel ruolo del Megadirettore Galattico e annesse crocifissioni in sala mensa... vedremo come proseguirà!
houdry: Grazie mille! Io amo i personaggi secondari, come puoi notare!
lon8tana: sono commossa! Leggo sempre le recensioni, e purtroppo scrivendo pressochè solo one-shot non riesco mai a ringraziare nessuno. Finalmente posso ringraziarti come si deve per i tuoi commenti sempre lusinghieri, e te lo ribadisco anche qui: scrivi ancora!
Di nuovo grazie a tutti, alla prossima!

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Capitolo 4
*** Mostri [Jane] ***


MOSTRI

-Tu e Carlisle credete che noi siamo mostri, vero?-
Non era molto saggio ammetterlo lì, a Volterra. Ma la domanda era retorica, ed Edward annuì.
-Non avete capito niente.-
La mente di Jane si riempì di fumo acre, grida, insulti e risa sguaiate.
Lampi di immagini baluginarono violenti nella cortina di fumo: le dita della mano del fratello strappate da quelle della sua, le pire gemelle su cui sarebbero stati arsi, lo sguardo di Alec ancora e sempre specchio del suo, dalle pupille dilatate dal terrore.
La folla impazzita, sadica, esaltata.
-Non siamo noi i mostri. I mostri sono loro.-










Note: Questa mi girava in mente da un po', poi è arrivato il contest Know your enemy indetto dal "Collection of Starlight" che richiedeva di presentare un personaggio dei Volturi visto attraverso il potere di Edward "la pesantezza" Cullen, Jane ha pestato i piedi dicendo "Io! Io! Ioioioio!" e l'ho iscritta.
Passo ora ai dovuti ringraziamenti. OttoNoveTre:premetto che io sono una che per una one-shot pubblicata ne ho altre tre incomplete nel pc; diciamo che la mia Renata è in realtà meno ombrosa di come l'ho presentata qui, in cui mi sono concentrata solo sul suo background (com'è comodo parlare in terminologia gdr!). E sì, immagino che per Aro potrebbe tranquillamente fare quelle belle scene di sacrificio! A proposito di Aro: Malkavian, sì. Caius è un Bruja e Marcus un Ventrue. Toreador è Rosalie, ha la rosa pure nel nome! Mi chiedo solo quale clan si debba sobbarcare quella palla di Edward... lon8tana:Mille mila grazie! Esatto, Renata ha quel potere sgravatissimo per cui nessuno può toccare nè lei nè le persone con cui è a contatto perchè viene sviato da una specie di forza invisibile (a meno di chiamarsi Bella Swan ed essere la superprotagonistafikissyma). Quindi ho immaginato che da umana passasse perecchio inosservata, soprattutto se lei stessa non voleva farsi osservare, e che il suo potere (che non so se la Meyer se n'è resa conto, ma è fortissimo!) fosse presente in misura minima anche da umana. La canzone... diciamo che ho preso solo le parti che si adattavano alla soria, ma la storia mi è venuta in mente mentre ascoltavo quella canzone, che concordo, è bellissima.
Grzie di nuovo a tutti, a presto!

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Capitolo 5
*** Pettegolezzi [Chelsea, Felix, Renata] ***


 

 

PETTEGOLEZZI

 

 

-Chelsea, per piacere, vedi di fare qualcosa subito perché altrimenti io quella lì la ammazzo!-

La donna bruna che aveva parlato si richiuse violentemente la porta alle spalle. Nella stanzetta illuminata dal sole l’uomo alto e grosso si limitò a sogghignare senza staccare gli occhi dalle pagine color rosa del quotidiano che stava leggendo, mentre quella chiamata Chelsea fece un piccolo sospiro ed alzò gli occhi dal suo ricamo fissando il volto furibondo della nuova arrivata.

-Aspetta che indovino. Hai litigato di nuovo con Jane.-

-Non è esatto, Chelsea. Io non ho litigato con Jane. A me non importa niente di litigare con Jane. È lei che litiga con me!-

-Ok, Renata, ricevuto. Cos’ hai combinato con Aro, o meglio, che cos’ ha combinato lui con te?-

-Niente abbiamo combinato!-

-Eja!- intervenne l’uomo grosso, sempre leggendo il giornale. Renata abbassò gli occhi.

-Ho parlato con l’accento sardo?-

Chelsea annuì. –E questo significa che c’è qualcosa che non vuoi dire, o che ti imbarazza, o che…-

-Non importa cosa significa il mio accento! Il punto è un altro: Aro è il nostro Signore. Chiaro? Quindi può fare quello che gli pare senza rendere conto a nessuno. Però Jane non può rompere l’anima a me solo perché non può osare romperla ad Aro! –

-Perché non può? Certo che può, infatti lo fa sempre-, puntualizzò l’uomo.

-Non può perché un giorno di questi, e forse quel giorno sarà oggi, io mi recherò dal più vicino benzinaio, comprerò una tanica di benzina e le darò fuoco, va bene?-

-Così poi Aro dà fuoco a te perché gli hai rotto la bambolina.-

-Almeno non sarò morta invano, e brucerò con il sorriso sulle labbra!-

-Renata, Felix, adesso basta. Tu calmati e tu non provocarla. Ci penso io, va bene? Appena la vedo farò in modo di ricucire un po’ il legame tra voi. Però i miracoli io li so fare solo con ago e filo, e tu Renata ormai dovresti averlo capito: Jane è una stronza, lo sappiamo tutti e se c’è di mezzo Aro è peggio, tu sei sempre appiccicata ad Aro e lei s’innervosisce ma non può farci nulla, così si diverte a fare innervosire anche te. Non darle corda, lascia che parli, cosa te ne importa?-

Felix rise. –Chelsea, non si riesce a non dare corda a Jane! Più non la caghi e più fa peggio, quella troia è una fottuta mosca tze-tze! Ma che cazzo ti ha detto per ridurti cosi?-

-Parla bene Felix, non siamo mica a scaricare il pesce… Renata, è vero, cosa ti ha detto?-

-Niente mi ha detto! Le sciocchezze solite!-

-“Niente mi ha detto, ajo, capito mi hai?”. Visto che quando dice che sei il cane da guardia di Aro non ti arrabbi, avrà tirato fuori l’asso nella manica: Eleazar?-

Renata abbassò gli occhi. –Sai Felix che a volte sei peggio di lei?- bisbigliò.

Chelsea guardò Renata diritta in faccia. –Non mi dire che hai fatto tutto ‘sto casino perché Jane ti ha detto qualcosa su Eleazar. Ti prego non me lo dire.-

-Non è perché mi ha detto qualcosa su Eleazar. È per come dice le cose. Con quel tono colloquiale falso come Giuda e quella faccina col sorrisetto, capito, insiste nel rompermi le scatole e quando ha visto che mi stavo arrabbiando ha cominciato a tirare fuori “quel catalano bruno, te lo ricordi, quello che si è fidanzato con una di Granada e l’ultima volta che l’abbiamo visto era assieme alla sua fidanzata da Carlisle Cullen… ma sì che te lo ricordi, non ci andavi a letto quando era nella guardia dei Volturi? Cioè, lui andava a letto con tutto ciò che si muoveva, ma dopo aver incontrato quella bella donna non ha più visto nessun’altra… Lo senti ancora? No, vero? Immagino che alla sua fidanzata non abbia detto nulla, mica potrà raccontarle tutte le sue storielle di letto senza importanza…” e via così, capito? Solo per farmi arrabbiare, come se a me importasse di Eleazar, d’accordo, eravamo amici di letto, e allora? Non eravamo fidanzati, lui faceva quello che gli pareva e io anche, oltretutto al giorno d’oggi fanno tutti così e non è neanche più strano, mi dispiace esserci persi di vista ma ognuno di noi due ha fatto le sue scelte, tutto qui! E se lei è frustrata fatti suoi, ecco!-

Chelsea alzò le sopracciglia. Durante il lungo monologo aveva fissato l’altra con un mezzo sorriso, l’ago sollevato nella mano destra, immobile. -Finito?- Renata annuì. L’ago si rituffò nella stoffa, rapido e preciso.

-Jane è frustrata. Pacifico. Però ha ragione. Tu hai ancora in mente Eleazar perché ti piaceva eccome, e non fingere con me e Felix che siamo tuoi amici e ti conosciamo bene. Renata… perché non provi almeno a toglierterlo dalla testa?-

-Perché non… Non capite! Che c’entra Eleazar? È Jane che lo tira fuori, non io!-

-Perché non cominci ad uscire con Santiago? Lui ci uscirebbe con te. Magari poi ti piace.- propose Felix. Renata sbuffò.

-Santiago? Non scherziamo. L’unico Santiago che vorrei ora è Santiago di Compostela, che magari mi procuro un po’ di acqua benedetta e provo a tirarla a Jane, così se ho fortuna si scioglie… E quell’altra prostituta che stava lì e rideva…-

-Ecco che la trama si complica. Chi è che c’era con Jane?-

-Bocca di Rosa c’era! E il bello è che Jane non sopporta neanche Heidi, ma se può darmi fastidio non se ne lascia scappare una!-

Chelsea sospirò. -Renata, Jane non sopporta nessuno in generale e nessuna donna in particolare. Figurati poi una come Heidi, lei che ha la sindrome di Claudia!-

Felix aveva abbassato la Gazzetta e fissava il vuoto. –Heidi… che grandissimo pezzo di gnocca! E che bocca da pompini che ha! Quella sì che è da scopare, è proprio una gran maiala… Che cazzo è la sindrome di Claudia?-

-Fel, ti ho già chiesto per piacere di parlare bene. Claudia è un personaggio di una serie di libri di vampiri, una che è stata resa immortale da piccola e quindi il suo aspetto rimarrà sempre quello di una bambina, mentre lei ha la mente di una donna. E tra parentesi non è che ci voglia molto a scoparsi Heidi. Se l’è già scopata mezza guardia dei Volturi.-

-Ma perché io sono sempre nell’altra mezza?- sospirò lui. Chelsea e Renata scoppiarono a ridere.

-Poveri voi… qui l’unica a posto sono io che sono sposata!-

-Ah sì? E dov’è l’anello, scusa, che non lo vedo? Mi sono perso qualcosa? Mi devo offendere perché non mi hai nemmeno invitato al tuo matrimonio?-

Chelsea sbuffò. –Dai, sono praticamente sposata! Non stiamo a sottilizzare, e poi sono giunta alla conclusione che il bianco mi sta malissimo, sono troppo pallida.-

-Diciamo le cose come stanno: tu ti sposeresti anche subito, da quando ti conosco ti sarai cucita e ricamata come minimo ventimila obbrobri di pizzi e merletti; è Afton che non vuole. E chiamalo scemo, chiudersi in gabbia con le proprie mani è proprio da idioti!-

Chelsea scosse la testa. –Dio, Felix, sei la morte del romanticismo, e comunque i miei vestiti da sposa sono bellissimi. Non è che Afton non mi sposa per non chiudersi in gabbia. Afton non vuole sposarsi perché dice che il matrimonio è un proforma che non conta nulla, tanto siamo polvere ed ombra ed è inutile fingere che non sia così, si vive un giorno alla volta e mi basti sapere che mi ama e se è qui è perché vuole starci. Punto.-

-Ad Afton stare agli ordini stretti di Marcus fa male, già è flemmatico di suo…- commentò Renata.

-Non è flemmatico! Vede le cose in prospettiva!- ribattè piccata Chelsea. Felix sghignazzò.

-Afton, l’uomo il cui unico commento su tutto l’affare Forks è stato “che posto di merda”! Questo sarebbe vedere le cose in prospettiva? Ma che cazzo di prospettiva è “tanto saremo tutti mangiati dai vermi”? –

-È riposante. Riporta le cose al loro giusto ordine ed evita di agitarsi per sciocchezze come ad esempio le battutine di Jane. E comunque Marcus è in assoluto il migliore, non si diverte a muovere tutti come marionette quando si annoia come fa Aro!- esclamò Chelsea con veemenza. Renata sbuffò.

-È noioso, vuoi dire. Marcus non si fa mai coinvolgere da niente, lo sai benissimo. Invece Aro è affascinante. Sono d’accordo con te, stargli vicino non è certo semplice, ma altrimenti che viviamo a fare?-

-Se voi volete vivere per fare tutte quelle chiacchiere o per sfracellarvi le palle in attesa di morire fate pure. Siete donne. Noi uomini siamo portati all’azione, andiamo al sodo e quando c’è da combattere combattiamo. E questo l’ha capito solo Caius.-

I tre si fissavano intensamente, fronteggiandosi. Poi d’improvviso la tensione si sciolse, e scoppiarono a ridere di gusto.

-Ognuno ha la sua squadra del cuore, eh?- ansimò Felix sventolando la Gazzetta.

-Certo Felix che anche tu… Se dessi meno importanza al campionato di calcio e più a Bocca di Rosa magari a quest’ora saresti con lei a fare la cosacce e Jane non l’avrebbe avuta come pubblico mentre mi prendeva in giro, no?-

-No tesoruccio, come direbbe Aro. Bocca di Rosa non è per me, il campionato invece sì. A proposito, Chelsea, te l’ho mai detto che ti chiami come una squadra di calcio?-

Lei sospirò. -Più o meno diecimila volte. Ed è di Londra, come me.-

Renata fissò Felix. –E perché Heidi non è per te? E chi sei tu, scusa, il figlio della serva?-

Chelsea sorrise, l’espressione saputa di chi conosce già la risposta. Felix sbuffò. –Sono il migliore amico di Demetri. Ed anche tralasciando le ovvie considerazioni sul fatto che è vietato trombare con la donna di cui è innamorato il tuo migliore amico, non mi sembra molto saggio fare incazzare uno che se decide di ammazzarti ti troverà ovunque tu sia.-

-Perché, scapperesti da Demetri?- domandò Chelsea provocandolo. Lui ghignò. –Sì che scapperei, perché se lui volesse battersi io finirei per ammazzarlo, e poi mi dispiacerebbe, mondo porco!-

-Perché, Demetri è innamorato di Heidi?- domandò Renata sgranando gli occhioni. Chelsea scoppiò a ridere, per poi esclamare: -Non finirai mai di stupirmi!-.

-Dì, Bambi, mi prendi per il culo?- ribattè Felix guardando perplesso la ragazza.

-Io credevo che fossero solo amici di letto! Ma davvero?-

-Certo, amici di letto! Come eravate tu ed Eleazar, ma a parti invertite!-

–E finiscila, Felix! L’avevamo calmata… hai la sensibilità di una piccozza!- lo rimbrottò Chelsea. Lui alzò le spalle, poi fissò sorpreso Renata che sbatté il pugno sul tavolino finendo per staccarne un angolo. –Mi avete tutti rotto le scatole con questo Eleazar! E poi tu Felix cosa parli a fare, che quando c’era Eleazar neanche eri nella guardia? Sono passati trecento cazzo di anni, va bene? Perché tutti…- Felix interruppe lo sfogo della ragazza: aveva detto una parolaccia, quindi doveva essere davvero arrabbiata. Si alzò dalla poltrona su cui era seduto e le depositò un bacio schioccante sulla guancia. –Scusami, fatina. Sarò il tuo fottuto umile servo fino a domani, solo per farmi perdonare. Però adesso sorridimi… brava. E comunque sì, Demetri e Heidi scopano alla grande, ma lui vorrebbe qualcosa di più, lei glielo fa credere ma poi si fa strombazzare felicemente da tutto ciò che le capita a tiro.-

-Se nasci quadrato non muori tondo-, commentò Chelsea.

-E se in vita facevi la puttana e ti piaceva, da immortale ti piace ancora di più- specificò Felix. Renata, appena rinfrancata dalle scuse dell’amico, s’incupì di nuovo. –A volte però le persone cambiano-, sospirò. –A volte magari uno s’innamora e mette la testa a posto.-

Chelsea la fulminò con lo sguardo. –Mi sono rotta le scatole anch’io, Renata, di parlare di Eleazar. Mi sta sulle palle, Eleazar, e neanche poco. Quindi o te lo togli dalla mente, o ti faccio spaccare la testa da Braccio di Ferro qui e te lo tolgo io con le cattive. D’accordo?-

Renata annuì, l’espressione sconfitta.

-Basta-, sbottò Felix, -tu devi sfogarti e tu la devi smettere di cucire sempre, ormai mi hai cucito anche le palle! Sapete che si fa? Adesso chiamiamo Afton, Demetri e Santiago e andiamo nel bosco a giocare a calcetto, Milan – Chelsea, si arriva ai dieci! Ok?-

-Prima di fare qualunque cosa che comporti l’uscire da Volterra preferisco chiedere il permesso-, nicchiò Renata.

-Chiedere il permesso voglio, eja… E chiedi il permesso allora, poi però andiamo a divertici, va bene?-

Chelsea depose ago, filo e stoffa nella cesta situata di fianco alla sua poltrona, poi si alzò in piedi con un gesto deciso. –Dimmi, Renata, sei più calma adesso? Ti va di fare una pausa e di andarci a divertire?-

Lei sorrise ai suoi due amici.

-Sono più calma,  pronta a chiedere se posso andare a divertirmi, e il divertimento non comprende dare fuoco a Jane, almeno per oggi. Grazie, ragazzi.-

I tre uscirono assieme dalla stanza, ridendo.

 



 

 

 

Note: Fa molto bar di paese, lo so. È proprio per questo che mi sono divertita a scriverla: la mia visione dei Volturi oscilla tra momenti serissimi e truculenti e momenti di stupidità estrema. In fondo questi vivono tutti insieme, cazzeggeranno pure ogni tanto! Felix segue il calcio perché se Emmett segue il baseball non si vede perché lui non possa appassionarsi al campionato, in fondo vive in Italia; Heidi la chiamano “Bocca di rosa” perché “mette l’amore sopra ogni cosa”; Chelsea cuce perché ci sta bene col suo potere; Renata aveva un intorto con Eleazar perché mi sono fissata con questa cosa da quando ho letto per la prima volta “Breaking Dawn”, ed Heidi con Demetri per lo stesso motivo, ma da “New Moon”. Il libro di vampiri in cui c’è Claudia è “Intervista col vampiro” di Anne Rice.

Ed ora i dovuti ringraziamenti: a chi mi preferisce, a chi mi segue ma soprattutto a chi mi commenta!

Luna95: una recensione che inizia con “Esatto” e finisce con “perfettamente IC”…wow! Questa è la prima drabble della mia vita e di Jane avevo un po’ paura, perché mi è molto più facile parlare di emeriti signori nessuno che di personaggi che hanno una caratterizzazione da rispettare; sono contenta che ti sia piaciuta, e sono contenta di essere riuscita a trasmettere la mia visione di Jane!

OttoNoveTre: credo che Jane sia a primo impatto quella che impressiona di più semplicemente perché è l’unica a cui la Meyer si spreca a dare un minimo di caratterizzazione. E saputa la sua storia, va da sé che la reazione non poteva che essere “col cavolo che porgo l’altra guancia, io ti spacco la faccia!”. Jane rimbecca Edward perfino in “New Moon”, non mi sembrava carino interrompere questa buona abitudine; Nosferatu? Ma poveri, già la maledizione di Caino su di loro ha infierito abbastanza, gli vuoi appioppare pure Mister Pesantezza?

lon8tana: diciamo che ho sempre visto Jane come “un litro di nitro con la miccia corta”, per citare impropriamente J.Ax: una che come potere provoca dolore già doveva essere parecchio stronzetta in vita, chiaro che se poi decidono pure di bruciare lei e suo fratello il risultato non poteva che essere uno stupendo mix di sadismo e cattiveria. Come succede spesso anche nella realtà  l’ odio alimenta se stesso, e i mostri creano mostri peggiori.

Grazie a tutti di nuovo, a presto!

 

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Capitolo 6
*** Il giorno che ho quasi convinto Afton [Chelsea] ***


IL GIORNO CHE HO QUASI CONVINTO AFTON

 

 

A cosa pensereste vedendo un gelso sotto un pergolato?

Alle more, forse, quelle grosse more scure che se le raccogliete con troppa foga o sono troppo mature macchiano la mano di un succo molto simile a sangue, e sembra che vi siate feriti o che abbiate appena ucciso qualcuno. Ma ai fini del mio racconto siete fuori strada.

Quelli che hanno pensato ai bachi da seta invece hanno seguito il filo giusto: grossi bruchi pallidi che divorano le foglie larghe e poi si chiudono nei loro bozzoli, ed è da quei bozzoli che si produce lo splendido tessuto chiamato seta, che adorna il corpo magnificamente se è nelle mani di un’abile sarta.

Ed io, senza false modestie, sono la più abile di tutte. Lo sono sempre stata. C’è la stoffa, ci sono i fili, c’è un ago: questo è il mio regno. Annodo i fili, li ricamo, li taglio, così come piace a me o come piace a chi mi commissiona il lavoro, e nessuno tranne Dio sa fare un lavoro migliore. Perfino se il tessuto è liso e sta per cedere io non mi scoraggio: aggiungo fili, rinforzo orli e cuciture ed eccolo lì, magari non proprio come nuovo ma fermo al suo posto. Se sostituite i termini “stoffe” a “persone”, o “tessuto liso” a “Marcus dei Volturi” il risultato non cambia: c’è sempre il lavoro preciso della sarta, dietro.

Ora, qual è l’abito in cui una sarta può mettere tutta se stessa, tutta la sua arte, sovrapporre tessuti,  cucire perle, ricamare merletti ed amare ogni più piccolo ed infimo punto?

Il proprio abito da sposa, ovvio. Questa era troppo facile.

Va da sè che per farsi un abito da sposa bisognerebbe avere al proprio fianco qualcuno disposto a fare lo sposo, altrimenti l’abito è inutile. E ci sono uomini felicissimi di ricoprire questo ruolo e che hanno approfittato della propria immortalità per ricoprirlo più e più volte, facendo la gioia di chissà quante sarte, e chissà quante mogli.

Poi c’è Afton.

Mettiamo subito in chiaro una cosa: a tutt’oggi Afton mi ama, ed io che vedo chiaramente la trama dei fili che Dio in persona tesse lo so con certezza. Non è questo il problema. Il problema si trascina da tempo, e precisamente dal giorno in cui io, in opposizione alle consuetudini dell’epoca che imponevano all’uomo di fare le proposte di matrimonio e che vigevano anche tra vampiri, proposi: -Perché non ci sposiamo?-

La sua risposta fu: -Perché dovremmo?-

Afton ha un potere ben preciso, ed è per questo che i Volturi lo vollero nella loro guardia: è in grado di far credere a chi vuole di starsi decomponendo. Non è per niente carino, lo so perché una volta l’ho provato, tanto per capire. Se c’è una cosa che abbiamo compreso su queste capacità peculiari che alcuni di noi hanno è che esse, in genere, sono l’amplificazione estrema di qualche tratto caratteriale o strana caratteristica che avevamo già da vivi: nel mio caso una sensibilità in grado di farmi intuire, già da umana, la trama di Dio, e la capacità di intervenite su di essa per unire o dividere le persone con frasi precise come fili che uniscono o che si spezzano; nel caso di Afton, beh… non riesce a non pensare costantemente all’ inutilità a lungo termine di tutte le cose, siano esse mortali, vampiri, edifici, governi, religioni, galassie: niente è eterno e tutto finirà, e di fronte a questa consapevolezza tutto il resto che importanza può avere? Lato positivo: è bravissimo a sdrammatizzare e ridimensionare ogni situazione, anche quelle che ti rendono disperato, mostrandotele inserite nel variegato mosaico del mondo di cui non sono che tessere. Lato negativo: a cosa servono tutte quelle stupide cerimonie, ivi compreso il matrimonio, dato che nessuna forma di autorità sopravvive abbastanza da rendere sensato santificarle? Per quanto lo riguarda lui mi ama, io lo amo, e fintanto che durerà questo stato di cose staremo insieme. Forse fino alla morte, forse no. Lui non può saperlo, io neanche, neanche un Dio che fino a pochi millenni fa nessuno venerava e tra pochi millenni nessuno venererà più, neanche i Volturi per i quali vale lo stesso discorso. E che senso ha celebrare una cerimonia priva di significato?

Così non mi sposa.

Ma una volta, una sola volta, tanti anni fa, l’ho quasi convinto.

Per merito di Eleazar.

Poi non se ne è fatto niente.

Per colpa di Eleazar.

E siccome l’ultima volta che ho visto Eleazar c’era una radura tra noi, un sacco di gente intorno, e ancora mi chiedo come mai non è finita in un bagno di sangue (Afton no. Afton non si è chiesto un bel niente. Si è guardato intorno, non ha fatto una piega, e quando una volta tornati in Italia sono scoppiati i pettegolezzi, i perché, le teorie, tutti facevano gli opinionisti che neanche Controcampo, l’amicizia con Felix è deleteria, lo so, e gli hanno chiesto: –Tu cosa ne pensi?-, lui ha risposto: –Certo che Carlisle Cullen vive proprio in un posto di merda-. E basta.), quella volta, dicevo, non sono potuta andare lì da lui a dirgli che è stato proprio stronzo, che poteva almeno aspettare ad andarsene, che Carmen secondo me avrebbe capito, se solo lui le avesse spiegato.

E invece se n’è andato, e io non sono ancora sposata.

Sono stati i bachi da seta.

Eleazar era bruno, bello e catalano, suonava magnificamente la chitarra ed aveva un atteggiamento calmo e serio capace di esplodere in momenti di estrema sensualità. Adorava le donne ed era abilissimo nel corteggiarle, ma siccome era un uomo d’onore non si permetteva di insidiare quelle già impegnate. Essendo io la compagna di Afton, persona con cui Eleazar andava molto d’accordo, i rapporti tra me e lui erano improntati ad uno scambio educato e cortese di saluti ed informazioni contingenti al nostro compito e nulla di più.

Le cose cambiarono quando, in seguito ad un viaggio compiuto da Marcus, Caius ed Aro nelle terre spagnole di Sardegna, viaggio al quale partecipò Eleazar perché sfruttasse i suoi contatti con la nativa Catalogna, con loro tornò una neonata timida, discreta e insicura dalla non indifferente capacità di creare uno scudo su di sè e su chiunque lei avesse toccato, in grado di sviare ogni tipo di attacco.

Renata.

Lo so, sembra che non ci arrivi mai a questi bachi. Abbiate pazienza. Vi sto cucendo una storia, la sto confezionando, sto ricamando il pizzo per adornarla. Alla fine sarà completa, sarà come se sollevassi l’abito che ho fatto per voi, ed allora mi direte se vi piace o no. Intanto lasciatemi lavorare, la sarta sono io.

Renata, dicevo.

Renata è la persona a cui sono più affezionata (dopo Afton, va da sè) e l’innesco del conto alla rovescia per far scoppiare Eleazar e fargli prendere la decisione di abbandonare i Volturi. Carmen… Carmen è stata la persona giusta al momento giusto, ma a volte mi chiedo se da sola, senza Renata, ci sarebbe riuscita. Perché fu Eleazar a vedere il potere di Renata, e lo vide quando lei era ancora mortale. Non potè esimersi dal comunicarlo ad Aro, un po’ perché Aro era lì, un po’ perché tanto l’avrebbe comunque scoperto prima o poi, e non è saggio cercare di nascondere qualcosa ad uno che legge nella mente. Ovviamente a quel punto il destino della ragazza era segnato: un potere già intuibile in un semplice mortale non sarebbe mai stato ignorato dal nostro Signore. Che infatti fece la cosa più logica: la trasformò.

Ed è qui che saltò il primo punto, e quando il primo punto salta c’è poco da fare: l’orlo si scuce.

Eleazar non era abituato a vedere mortali che venivano trasformati deliberatamente. Non aveva mai pensato più di tanto alla nostra natura, considerava la trasformazione un accidente come un altro: qualcuno si vuole nutrire, ti morde, poi capita qualcosa per cui ti lascia lì ed ecco servito un nuovo vampiro neonato. C’erano Alec e Jane, che certo sarebbero stati trasformati nel medesimo modo di Renata, ma quella volta i fatti si erano evoluti in modo che il senso di colpa di Eleazar non trovasse appigli: stavano morendo sul rogo, trasformarli era stato un atto misericordioso, la sola maniera di salvargli la vita.

Renata invece, semplicemente, era lì. Aveva la casa su un incrocio e solo per caso Aro, Marcus e Caius avevano deciso di farsi ospitare proprio da lei mentre attendevano Eleazar. Non aveva una vita particolarmente piacevole, ma neppure era in pericolo di morte; la sua umanità le era stata tolta per un semplice desiderio di Aro.

Specifichiamo: Renata era stata ben felice di ciò. L’aveva supplicato di togliergliela, la sua umanità, in ginocchio e piangendo. Viveva una misera esistenza, era orfana, povera e sola, confinata in un minuscolo paese della Sardegna dei primi anni del diciottesimo secolo: i Volturi per lei sono angeli redentori. Toccatele Aro, e la mite pecorella diventa una tigre feroce.

Eleazar tutto questo lo sapeva, ma secondo lui non era questo il punto: il punto era che per colpa sua una ragazza era diventata un mostro agli occhi dei mortali. Si sentiva in colpa nei suoi confronti e decise di prenderla sotto la sua ala protettiva, e tra parentesi anche nel suo letto. Dal canto mio appena Renata arrivò dovette fronteggiare, totalmente impreparata, il disappunto di Jane che non poteva sopportare che Aro avesse un’altra protégée; non che Aro si fosse stancato di Jane, lui è capacissimo di tenersi tutti i suoi tesori in equilibrio come un giocoliere, ma Jane, beh, è Jane. Così, cercando di calmare una e non fare impazzire l’altra, mi affezionai a Renata e di conseguenza ad Eleazar.

Per un po’ tutto andò bene, ed i dubbi di Eleazar si placarono davanti alle rassicurazioni di Renata. Fu l’arrivo di Carmen a destabilizzarci, come il drappo di stoffa rosso fuoco del toreador destabilizza il toro già ferito dai colpi delle banderillas.

La conobbe a Granada, nel corso di una missione dalla quale tornò sorridente, con una luce nuova e febbrile negli occhi: radunò me, Afton e Renata e annunciò: -Soy enamorado.-

Non capimmo subito la portata della cosa, perché pensavamo che gli sarebbe passata in fretta; insomma, era Eleazar, quello che trovava belle tutte le donne sulla faccia della terra, quello che, a suo dire, poteva amarle tutte perché ognuna di noi era splendida. E invece Carmen operò il miracolo.

Riusciva a tenere acceso il suo interesse in maniera magistrale. Rispondeva alle sue missive molto meno spesso di quante lui gliene inviasse, ma in modo da non farsi dimenticare: una volta gli mandò un fazzoletto di splendido pizzo spagnolo che conteneva i petali secchi di una rosa rossa, e non so cosa significasse per loro ma lui restò distratto per giorni ed ogni volta che credeva che non lo stessimo guardando aveva il naso infilato nel fazzoletto. Un’ altra volta, sempre per non so quale celia privata, trascinò me e Renata per tutta Firenze perché lo aiutassimo a comprare le calzature più belle e alla moda, e poi non gli sembrarono ancora abbastanza e mi ci fece aggiungere ulteriori decori, prima di mandargliele. Trovava ogni scusa possibile per andare a Granada o svicolare in Spagna in qualsiasi missione, fino a che Aro gli disse di mostrarcela, questa Carmen, non vedeva davvero l’ora di conoscerla di persona.

Avevo sempre pensato, da ottima sarta, che Carmen in vita dovesse essere stata un’ottima cuoca, di quelle che cucinano come fanno l’amore, con gioia, divertimento e sapiente uso di spezie. Una che, conosciuto Eleazar, avesse capito subito che certi piatti vanno cucinati dosando sapientemente la fiamma, a fuego lento, per dirla con parole sue.

Quando arrivò a Volterra la mia convinzione si rafforzò: Carmen era calda e generosa, aveva un sorriso splendido e rideva spesso e bene; Aro commentò che il nome Carmen, “canto”, le si addiceva perfettamente, ed aveva ragione. Di carattere amabile, andava facilmente d’accordo con tutti, e manteneva un atteggiamento educato e sereno anche con le eccezioni: ovviamente Jane, indispettita dal fatto che Carmen fosse donna, bella e che Aro si fosse sperticato in complimenti dopo averla vista ballare il flamenco, e Renata, perché Carmen aveva capito i suoi sentimenti per Eleazar molto più di quanto li avesse capiti Renata stessa.

Fu nello stesso viaggio in cui la presentò a Volterra che Eleazar mi portò i bachi da seta. Finalmente, dite? Finalmente.

A voler essere precisi mi portò le uova dei bachi da seta, e me le portò perché qualche anno prima erano stati piantati tre grandi gelsi in uno dei cortili interni, da un membro della guardia che qualche anno dopo ci aveva disgraziatamente lasciati per sempre dopo aver scatenato l’ira di Caius a causa di motivi assolutamente non pertinenti al mio racconto. Comunque c’erano questi gelsi, a Granada c’erano le uova dei bachi da seta, Eleazar era innamorato e generoso e me li portò in regalo. Chiesi e ottenni di poter mettere le uova sugli alberi e le sorvegliai come una chioccia; in breve divennero il diversivo del momento e vennero adottate da tutti i mantelli scuri dell’epoca, che chiedevano notizie sulle uova molto più di quante ne chiedessero sui loro compagni. Un giorno ci trovai perfino Marcus, assorto sotto i gelsi, la pelle tremolante di luce tra le mobili chiazze d’ombra prodotte dallo stormire delle foglie. Increspò la bocca in un millimetro di sorriso, e con voce di una sola nota meno apatica del solito mi disse: -Ti auguro che si schiudano, queste uova, Chelsea-.

Marcus.

Rimasi letteralmente a bocca aperta.

E pensai che quelle uova dovevano essere magiche, per radunare così tante persone sotto gli alberi su cui attendevano di schiudersi. Avevo ragione, in un certo senso, perché fecero molto di più di quanto sia mai riuscita a fare io, e sono passati trecento anni.

Le uova si schiusero verso fine aprile, e me ne venne a dare notizia Afton. Ci misi qualche istante a capirlo, perché le sue esatte parole furono: -I gelsi sono in decomposizione-, ma sono abituata al modo di esprimersi peculiare del mio uomo e corsi fuori a vedere i bachi che divoravano felici le foglie larghe.

Mangiarono per ventotto giorni esatti, precisi come la luna, rituali come il ciclo femminile che in me era congelato da secoli; poi si cercarono i rametti dalle foglie ormai divorate e per quattro giorni si avvolsero di seta, tra gli sguardi incuriositi e stupiti delle guardie vampire dal mantello grigio scuro. Io ero orgogliosa come una madre: quella era seta, era tutta mia, era luminescente sotto la luna e univa i miei belligeranti compagni molto meglio di quanto io stessa sapessi fare.

E convinse Afton.

La cosa più incredibile è che fu lui ad iniziare il discorso, anche se ad onor del vero non voleva assolutamente andare a parare . Guardava i gelsi costellati di bozzoli candidi mentre io riflettevo su quale sarebbe stato il momento migliore per raccoglierli, e ad un tratto mi disse:

-Quei bozzoli sono come noi due.-

Lo guardai perplessa, perché stavolta non riuscivo a cogliere assolutamente il nesso nelle sue parole. Lui me lo specificò con tono calmo, come se stesse spiegando una cosa ovvia ad un bambino.

-Un verme e un filo, no?-

-Non sono vermi. Sono bachi.-

Lui alzò le spalle. –Fa lo stesso. Si sono divorati i gelsi come i vermi divorano i cadaveri. Poi si sono avvolti con fili di seta bianca. Sono vermi bianchi avvolti in un sudario bianco di seta. Siamo io e te, no?-

Gli sorrisi e gli presi il viso tra le mani per baciarlo. Credetemi sulla parola, se si è la compagna di Afton questa è una delle cose più dolci che possiate mai sentirvi dire. Non mi dirà mai che siamo come il sole e le stelle, o roba del genere. No. Il verme e il filo. Io amo quest’ uomo.

Sto ancora divagando, ma le sarte chiacchierano ed io non faccio certo eccezione. Comunque, adesso o mai più, mi dissi. C’era Afton romantico, l’eco della chitarra di Eleazar innamorato nell’aria, i bozzoli magici che avevano incuriosito i vampiri grigio scuro e fatto fare un millimetro di sorriso a Marcus. Le mie mani scivolarono sul suo corpo leggere come un velo di seta, fino a trovare le sue. Le legai con le dita alle mie, come la trama e l’ordito.

-E allora perché non ci sposiamo? Forse arriverà il giorno in cui qualcuno ci butterà nell’acqua bollente, per uccidere te e srotolare me, o forse sarai tu a farmi a pezzi per andartene via. Ma cosa importa? Adesso siamo insieme, il verme e il filo. Sposiamoci, Afton.-

Lui parve considerare una serie di obiezioni, ma non ne trovò. E al posto di –Perché dovremmo?-, questa volta alzò le spalle e rispose: -Perché no?-

Quasi non ci credetti io, figuriamoci gli altri. E così commisi un errore, uno stupido errore da sciocca, che se non lo avessi commesso a quest’ora sarei la moglie di Afton e non la sua compagna: avrei dovuto tenere ben strette le sue mani, acchiappare al volo Eleazar e Renata, tirare giù dal letto il prete della prima chiesa che avessi incontrato e pronunciare il fatidico “sì” benedetti dal corpo, ma soprattutto dal sangue, di Cristo. Invece volli fare le cose con calma, organizzare nei dettagli il giorno che sognavo da secoli e cucirmi il vestito più bello del mondo. Capitemi, sono una sarta: l’abito da sposa che avrei indossato sarebbe dovuto essere il mio capolavoro.

E il vestito prendeva forma: estrassi la seta dai bozzoli, ne feci uno splendido filato e poi lo mescolai ad altre stoffe; giocavo con le trame, i pieni e i vuoti, con la diversa consistenza dei tessuti ed il loro modo di riflettere la luce. Era la cosa più splendida che mai avesse preso forma sotto le mie abili dita.

Afton, incredibilmente, pareva non avesse ripensamenti. Non dico che prendesse la cosa con entusiasmo, non esiste entusiasmo nella mente di uno che è un monumento vivente al memento mori, e chiedo perdono per l’ossimoro ardito; però osservava i miei preparativi con una certa curiosità mista al solito scetticismo della sua espressione, quella che sembrava chiedere al mondo “è proprio necessario?”. Lo era.

Un giorno Aro mi mandò a chiamare, nella stanza circolare. C’erano tutti e tre e sorridevano. Perfino Marcus aveva sfoggiato il suo millimetrico sorriso per me ed Afton.

-Ci è giunta alle orecchie la notizia… chissà che questa non sia la volta buona, tesoruccio!- trillò Aro, congiungendo le mani con grazia, come se dovesse catturare una farfalla.

Chinai il capo. –Io lo spero, Signore-, risposi. Caius esplose in una risata fragorosa. –Non sperarci troppo, bambina, che poi avrai tutta l’eternità per pentirtene e desiderare di poter tornare indietro e dartela a gambe!-, celiò. Sorrisi: chiunque ci avesse abbastanza a che fare (ergo, avesse il mantello abbastanza scuro) sapeva perfettamente che Caius si lamentava sempre del matrimonio, ma senza Athenodora si sarebbe sentito perso. –Daglielo, fratello!- incitò Aro, rivolgendo a Marcus un cenno del capo.

Lui si recò leggero verso di me, la sua espressione era come al solito impenetrabile ma il filo dei suoi legami con gli astanti era molto meno sfilacciato del solito; reggeva tra le mani un piccolo scrigno, un oggetto che doveva appartenere agli arredi sacri della basilica di Hagia Sophia prima che fosse depredata durante la quarta crociata. Nel porgerlo a me lo aprì lentamente.

Sono bachi da seta, fu il mio primo, incoerente pensiero. Invece erano perle, meravigliose, perfette perle birmane. A bocca aperta balbettai che era troppo, che non potevo accettare, che ancora facevo fatica a crederci perfino io che mi sarei sposata. Caius sbuffò,  Aro ribatté che non importava, che nessun dono era troppo per i suoi tesori. Marcus mi mise la scatola nelle mani. –Consideralo una ricompensa per tutti gli anni di onorato servizio-, disse. Accettai, commossa.

Le perle finirono sulla seta, per adornare il mio abito. Usai le più piccole per i delicati ricami del corpetto, quelle di misura media per i bottoncini sulla schiena, le più grosse le applicai in fili di cinque sulla gonna ampia, a trattenere le balze di seta come fossero i bachi pallidi sul gelso.

Però nel frattempo il sorriso di sole di Carmen si spegneva ogni giorno di più, i suoi vivaci occhi di rubino erano neri sempre più spesso, e sempre troppo a lungo. Conoscevo il motivo perché me ne aveva accennato Eleazar: lei non sopportava il nostro modo di nutrirci.

Raramente partecipava ai banchetti, preferendo cacciare da sola. Aveva i suoi metodi e le sue vittime: prediligeva gli stupratori, gli uomini che picchiavano la moglie, quelli che maltrattavano i bambini; detestava togliere la vita a persone innocenti. Eleazar era turbato, ma non condivideva con noi i suoi turbamenti, forse perché a parte Carmen non c’era nessun altro con cui potesse parlarne: non era il caso che si confidasse con Renata, non avrebbe trovato appigli discutendone con Afton (già lo sento rispondergli: -Tanto dovremmo morire tutti, prima o dopo che differenza vuoi che faccia?- ), e la paura di guastare la mia gioia perfetta respingeva le sue confidenze.

Col senno di poi immagino che gli fossero tornati in mente tutti i pensieri risalenti alla trasformazione di Renata, dubbi che Carmen non fugava, ma anzi alimentava con il suo modo di pensare.

Ed io commisi il mio secondo errore, e se pesco quello che dice che “la gatta frettolosa fa i gattini ciechi” lo divoro partendo dal cuore. Farà anche i gattini ciechi, però almeno lei è sposata.

Il filo che legava Eleazar a noi si stava sfilacciando a vista d’occhio. Ricordate quello che dicevo a proposito degli orli che si scuciono? È vero in parte: se la sarta se ne accorge in tempo li ripara in men che non si dica. Peccato che la sarta fosse troppo distratta dal suo abito da sposa per badare a degli stupidi orli.

Vedevo il legame tra lui e Carmen rafforzarsi sempre di più, cucito col filo luminoso del quale solo Dio possiede il rocchetto, e nella mia distrazione pensai che fosse a causa di quel contrasto che tutti gli altri fili mi sembravano più sbiaditi.

Fino a che un giorno, io ero nella mia stanzetta da cucito ed applicavo del finissimo pizzo ad un velo impalpabile, Renata spalancò la porta e rimase fissa sulla soglia a guardarmi con i suoi occhi immensi, l’ espressione talmente triste che mi sembrava di vedere fiumi di lacrime scorrerle lungo le guance pallide.

-Eleazar se ne va. Lascia i Volturi-, rispose al mio sguardo interrogativo.

-Cosa…? Quando…?- balbettai, in inglese credo, basita.

-Adesso. Non so cosa sia successo, ma ha lasciato Volterra assieme a Carmen. Pare che abbia preferito andarsene senza salutare nessuno.-

Sentii l’ago accartocciarsi tra le mie dita. –Ma… e Aro… Caius…-

-E che potevano fare. Dispiaciuti, sono. Ma non potevano costringerlo.-

Scossi la testa. –No, loro no… però forse io sì, se riesco a raggiungerlo, forse, io…-

-No che non puoi. Non contro Carmen. Lei è troppo forte per noi.-

Per noi. Capii subito cosa intendeva: non per la guardia dei Volturi, ma per me e per lei. Troppo forte per i miei poteri e per i suoi sentimenti.

Il viso di Renata era il perfetto riassunto di tutta la filosofia di Afton: il ritratto di chi si trova di fronte il momento che temeva ma che sapeva ineluttabile, quello contro cui non si può lottare, in cui tutto finisce e si decompone. Andai ad abbracciarla, sperando di riuscire a tenerla insieme.

Ed è qui che il mio racconto finisce. Sto fermando tutti i fili, ci siamo quasi.

Renata riuscii a tenerla insieme, perché il suo posto è questo e questa è la sua casa. Di Eleazar non parla quasi mai, ma io conosco bene la nostra natura bastarda e so che nessuno riesce a farglielo dimenticare, nonostante lei neghi ogni legame. Ha sempre negato, a pensarci bene.

Di Eleazar non ebbi che sporadiche notizie, sparse in questi tre secoli: è andato nel Nuovo Mondo, si nutre solo di sangue di animali, si è unito al clan di Tanya e le sue sorelle. Sempre con Carmen al fianco, ovvio. Chissà se riesce ad immaginare che gli sarebbe bastato aspettare qualche giorno in più per andarsene ed ora io sarei la moglie di Afton; chissà se gliene è arrivata qualcuna, di tutte le maledizioni che gli ho indirizzato.

Del matrimonio non se ne fece più nulla: l’abbandono di Eleazar fu come una gelata improvvisa, che uccide tutte le uova prima che possano diventare un verme e un filo. La magia era stata spezzata, io ebbi il mio bel daffare a badare che nessun altro membro della guardia si scucisse e trascurai di finire l’abito.

Passata la tempesta era passato anche il momento giusto, e Afton era di nuovo il fiero portabandiera dell’infinita vanità del tutto. Il mio vestito bianco era lì, perfetto di seta e perle, ed inutile. In questi anni l’ho disfatto e ricucito non so più quante volte, seguendo le mode del tempo ed il mio estro di sarta, per essere pronta nel caso in cui capitasse di nuovo qualcosa, come la magia del gelso e dei bachi, capace di convincere Afton.

Eccomi qui, dunque, a mostrarvi il lavoro completo. Vi prego di credermi, sono la prima a rammaricarmi che questo racconto non finisca con un bel matrimonio, come dovrebbero fare i racconti perbene. Spero che sia di vostro gradimento, come usano dire le sarte attendendo una risposta.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:  la cosa dei “mantelli grigio scuro” la dice in Breaking Dawn: Qui Quo e Qua hanno il mantello nero, i vampiri talentodotati grigio scuro, e gli altri di varie gradazioni di grigio che si schiariscono man mano che si scende nella gerarchia. Immagino che le “scale di grigio” non si mescolino più di tanto, e un conto è Felix, un conto Sconosciuto Vampirizzato Ieri che magari non ha neppure l’accesso al giardinetto con i gelsi in cui ogni tanto si ferma anche Marcus.

Se la storia è venuta troppo lunga è colpa di Chelsea che non la smette mai di chiacchierare, se invece va bene è merito mio. 

Come sempre, grazie a tutti quelli che proseguono indefessi a leggere le storie di questi omarini snobbati solo perché sono piccoli e grigi scuri!

lon8tana: non sentirti Bella, mai! Corri il rischio di convincerti che uno stalker che non ti toglie gli occhi di dosso nemmeno mentre dormi possa essere l’uomo della tua vita! Tornando seri: neanche a me piacciono gli OOC (con le dovute eccezioni, va da se’), e sentirmi dire che i personaggi sono credibili anche quando fanno gli scemi è una gran soddisfazione. I Volturi non sono una famiglia come i Cullen, ciò non toglie che vivano insieme da secoli e passino insieme 24 ore al giorno senza mai dormire. Quanto è credibile che le passino tutte dicendo cose gotiche in pose plastiche? Ti ringrazio per i complimenti… oddio, adesso mi hai messo in ansia! Mi raccomando, se combino una schifezza non aver paura di dirmelo!

OttoNoveTre: “tamarrate”! Evviva! Lieta di averti fatto ridere… nonostante Tuailàit sia, come recita la copertina della mia edizione economica, il manifesto della generazione emo, io cerco di mantenere l’emitudine lontano da me. Se non dovessi riuscirci, fammi un favore: fammi esorcizzare dal sacerdote amico di Machete!

 

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Capitolo 7
*** Un semplice colloquio di lavoro [Felix] ***


 

UN SEMPLICE COLLOQUIO DI LAVORO

 

 

 

 

Se t’inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli

In quell’aria spessa, carica di sale, gonfia di odori

Lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano

Quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.

(“La città vecchia”, F. De Andrè)

 

Felix si sentiva braccato, e la cosa peggiore era che non aveva la stramaledetta idea di come cazzo potesse essere successo.

Eppure era spalle al muro, e non in senso figurato: c’era una fottuta, invalicabile parete proprio dietro di lui, e nemmeno l’ombra di una via di fuga. Era stato spinto nel labirinto di carrugi e costretto a fuggire troppo in fretta, fino a perdere la strada, ed infine si era cacciato in un maledetto vicolo cieco. Appena se n’era reso conto si era voltato per uscire da quella trappola, ma non era stato abbastanza veloce. E di fronte a lui stava l’uomo.

Lo conosceva: era uno dei passeggeri del Seahawk, lui, i suoi due fratelli, la donna mora e i ragazzini gemelli. Per quel che si poteva fare nello spazio ristretto di un dannato clipper si era tenuto alla larga da tutti loro, perché uno come lui sopravviveva solo grazie all’istinto e quello che l’istinto gli urlava era di fuggire a gambe levate. Aveva cercato in tutti i modi di evitarli: teneva d’occhio i loro movimenti e dormiva con il coltello tra le mani, cercando sempre di non incrociare la loro traiettoria. Eppure a volte se li ritrovava di fronte anche quando era fottutamente certo che non sarebbe potuto essere possibile; una volta uno di loro gli era perfino arrivato alle spalle senza che lui se ne accorgesse, gli aveva stretto la mano con quella untuosa finta cortesia da bastardo del cazzo, solo il diavolo sapeva perché, guardandolo in un modo che non gli era piaciuto per niente: come se gli stesse prendendo le misure per la bara. Appena la nave era giunta in porto ed erano scesi a terra si era considerato al sicuro, si era rilassato, era andato a bere e poi a puttane sperando di dimenticarli in fretta; invece quel fottuto albino chissà come l’aveva trovato e adesso era lì davanti a lui, gli occhi rossi che ardevano come i baci di una donna, e sogghignava.

Anche il volto di Felix, madido di sudore, si storse in un ghigno.

Fletté i muscoli, le dita si serrarono sul manico del coltello che portava alla cintura. Adesso che lo scontro sembrava inevitabile la paura era scivolata in secondo piano; c’era solo l’istinto e l’acuirsi dei suoi sensi, l’udito, la vista, l’odorato. Il problema era che tutti i suoi sensi gli dicevano che in quel vicolo qualcuno sarebbe morto e che quel qualcuno sarebbe stato lui. Bene, se questa doveva essere la fine almeno avrebbe venduto cara la pelle.

-L’epidemia sul Seahawk era una fottuta balla, e io lo so. Eravate voi, vero? Io gli assassini li fiuto, albino.-

-Com’è quel detto, Felix? “Prendi un assassino per prendere un assassino”?-

La postura dell’uomo era rilassata, le braccia lungo i fianchi, il volto sorridente. Nonostante questo l’albino metteva paura: sembrava uno squalo, un maledetto squalo bianco che aveva appena sentito l’odore del sangue e nuotava lentamente attorno alla preda. Non era in guardia, anzi era completamente scoperto, ed a ben pensarci era proprio questa la cosa peggiore.

-Cosa vuoi da me, figlio di puttana? Sei qui per ammazzarmi. Ti hanno pagato? No, vero? Sei troppo ricco perché ti servano quei due soldi che guadagneresti facendo fuori uno come me. Ammazzi perché ti piace? Magari sei uno di quei pervertiti che dopo stuprano il cadavere… Chi cazzo sei, eh?-

L’uomo continuava a sorridere con aria di scherno.

-La sodomia e la necrofilia non rientrano nei miei principali interessi. Sono qui per offrirti un lavoro, Felix.-

Lui sputò per terra. –Stronzate.-

-Niente stronzate. Lavorerai per me e per i miei fratelli.-

-Vaffanculo tu e i tuoi fratelli, albino.-

Se voleva convincerlo ad abbassare la guardia non ci sarebbe riuscito. L’istinto l’aveva tenuto in vita fino a quel momento, e l’istinto gli diceva che quell’uomo voleva ucciderlo. Quasi a dargliene una conferma l’albino cominciò ad avanzare lentamente verso di lui, l’orlo del lungo cappotto nero che gli lambiva le caviglie ad ogni passo.

Mai mettersi contro un marinaio armato di coltello, si diceva, e Felix era sempre stato fermamente convinto che chi colpisce per primo colpisce due volte.

In un gesto fulmineo estrasse il coltello con la mano sinistra e si scagliò ringhiando verso l’uomo, pieno della rabbia dell’animale intrappolato che si rivolta perché tanto non ha più niente da perdere e che il puro istinto di sopravvivenza rende letale.

L’albino si limitò ad alzare il braccio destro e Felix si ritrovò lanciato all’indietro contro il muro, neanche l’avesse colpito con una sbarra di ferro. Si rese conto che doveva essersi rotto qualche costola, ma non diede il tempo al dolore di diffondersi nel suo corpo. Si rialzò inaspettatamente, molto più rapido di quanto sarebbe stato chiunque altro, pronto ad un nuovo attacco.  Ma l’albino sembrò sparire per poi ricomparirgli di fronte e bloccarlo contro il muro prendendolo per il collo, continuando a sorridere soddisfatto.

La mano dell’uomo sembrava una morsa d’acciaio. Felix provò a liberarsi o almeno a respirare, senza riuscire in nessuna delle due cose, fino a che la vista gli si annebbiò e sprazzi di luce gialla gli balenarono davanti agli occhi. Con la forza della disperazione riuscì ad alzare il braccio sinistro con energia sufficiente a piantare il coltello esattamente nel punto in cui doveva trovarsi il cuore dell’albino: fu come provare a piantarlo nel muro.

“Avrei preferito morire in mare”, riuscì a pensare prima che il buio lo sopraffacesse.

 

-Il marinaio olandese tutto tatuato… Felix, giusto? Che scelta di cattivo gusto, fratello…-

-Parli tu che hai scelto questa nave solo perché ha il nome di un uccello rapace… e comunque non mi serve un pezzo raro da aggiungere alla tua collezione. Mi sono stancato di donne e bambini, Aro. Voglio un uomo forte e senza scrupoli, che sappia come si combatte, uno a cui possiamo far fare il lavoro sporco. Dicono che Felix si sia venduto anche la madre.-

-L’ha fatto. Ma considerato quello che la dolce mammina aveva fatto passare a lui, mi spingerei a definire come un atto di misericordia il fatto che si sia semplicemente limitato a venderla.-

-Felix mi piace. È più tosto di un chiodo da bara. Tu che ne pensi, Marcus?-

-Non ho nulla in contrario.-

-Benissimo, Caius. Allora prendilo, se proprio lo vuoi.-

-Attenderò la fine del viaggio. Appena sbarcheremo nel porto di Genova lo renderò uno di noi.-

-Spero che sia una buona scelta, fratello…-

-Non vedo alcun problema, Aro. Non sono mai stato un sentimentale. Se si rivelasse una scelta sbagliata lo ucciderei e cercherei qualcun altro.-

-Ah, Caius, la pragmaticità è sempre stata la tua qualità principale, questo devo ammetterlo!-

-Puoi dirlo. Spero che sia anche la sua.-

 

Non avrebbe mai immaginato che morire soffocato facesse così male; pensava che passato il momento brutto fosse un po’ come addormentarsi, poi la morte sarebbe arrivata velocemente: quelli che lui aveva strangolato, almeno, morivano in fretta e senza urlare (era per quello che si strangolava la gente, in effetti, perché così moriva in silenzio). Allora cos’era quel dolore bruciante che gli divorava il corpo?

Ma forse non stava morendo: era già all’inferno, ecco cos’era quel dannato fuoco. Doveva veramente sopportarlo per l’eternità, come dicevano quei preti del cazzo? O poteva sperare che finisse, a costo di ammazzarsi piuttosto, anche se a pensarci bene non poteva ammazzarsi se era già morto?

Poi, poco alla volta, il morso del fuoco si affievolì. Sì ritirò come la marea, come quando dopo una tempesta le onde diventano più basse e allora si capisce che il peggio è passato… forse neppure stavolta era morto, tutto sommato. Magari l’albino aveva lasciato il lavoro a metà. Forse Jacqueline, la sirena tatuata sul suo braccio sinistro, gli aveva portato fortuna ancora una volta. Appena recuperò la lucidità sufficiente Felix ignorò il dolore residuo e si puntellò sui gomiti pronto a combattere, scappare o bestemmiare a seconda di ciò che si fosse trovato davanti. E quello che si trovò davanti furono gli occhi di brace dell’albino.

Bestemmiò.

-Amen-, ghignò l’albino.

Quella era la sua voce? Ma era stato sordo, fino ad ora? E cieco, e paralitico… cazzo, quello sì che era l’inferno, ma lui non era un’ anima dannata: era un’ anima nera e dovevano averlo promosso a demone, o roba del genere. Riusciva a distinguere con chiarezza ogni minimo particolare della squallida stanzetta in cui doveva averlo fatto portare, o più probabilmente portato, l’ albino; come se fino a quel momento avesse navigato nella nebbia, cazzo. Si sentiva dannatamente forte e veloce, i sensi si erano acuiti in una maniera quasi eccessiva e la sua mente non era mai stata così lucida; si sarebbe sentito invincibile se non fosse stato per quella maledetta fame, o forse era sete, non capiva bene, sapeva solo che era insopportabile.

Voleva chiedere chiarimenti all’albino prima di spaccargli quella faccia di merda, ma anche i suoi nuovi sensi lo misero in guardia: era pericoloso quanto prima, era astuto e, se Felix l’avesse attaccato, stavolta ci avrebbe davvero rimesso la pelle. Però almeno stavolta c’era un se, ed eventualmente maggiori possibilità di giocarsela; non capiva a che gioco stava giocando l’uomo, però, che si limitava ad osservarlo sorridendo.

Poi Felix sentì quell’odore. Proveniva da una ragazzina, smarrita e spaventata, che era entrata nella stanza. Senza farsi domande Felix pensò che doveva averla, ma no, il pensiero era già troppo lungo, neanche il tempo di formularlo che era già lì con i denti affondati nella sua carne a bere quel liquido delizioso che lo dissetava. Era meglio del rhum, meglio di quei fottuti brandy che bevono i capitani, meglio di una scopata, tutto insieme. Quando ebbe finito si voltò verso l’albino e lo trovò accigliato che scuoteva la testa.

-Felix… povera ragazza. Guarda com’era giovane e bella. Era impaurita, magari aveva dei fratellini da sfamare, certamente non meritava una fine del genere. L’ hai dilaniata. Sei un mostro.-

Felix ghignò, leccandosi le labbra per non sprecare neppure una goccia di quel sangue delizioso. Era diventato un cazzo di mostro, era vero, e adesso voleva proprio vedere chi avrebbe avuto il coraggio di fermarlo. Si rivolse all’uomo, strafottente.

-Questa puttanella era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Cos’è, adesso ti dispiace per lei, signorina?-

Allora l’albino scoppiò a ridere, una risata lunga, grassa, soddisfatta.

-Proprio come pensavo… Felix, ti ripeto la proposta: lavorerai per me e per i miei fratelli. Tutto quello che ti ho dato, perché nel caso in cui tu ancora non avessi capito ti ho fatto un dono e se voglio me lo riprendo, ti rende all’altezza di servirci egregiamente. Sappi che non è il genere di proposta che puoi permetterti di rifiutare.-

-Vaffanculo. Decido io se posso rifiutarla o no. Vuoi che lavori per voi, dici. Bene. Io faccio qualunque lavoro, per chiunque, a patto che mi paghino abbastanza. Tu quanto paghi?-

L’uomo scosse la testa.

-Felix Felix Felix… tutto muscoli e niente cervello, come direbbe Aro. Ma non hai ancora capito? Il pagamento è l’immortalità!-

Nel volto di Felix si dipinse un ghigno compiaciuto.

-In questo caso affare fatto, capo.-

 

 

 

 

 

 

 

Note: I clipper erano velieri mercantili, molto usati, mi si dice su wikipedia, tra il 1840 e il 1870, prima di essere soppiantati dalle navi a vapore. Felix è olandese perché il nome è tedesco od olandese ed un marinaio tedesco… beh… l’idea mi faceva schifo, ecco. Felix è un marinaio perché i marinai sono maragli, e Felix è maraglio. “Più tosto di un chiodo da bara”, come faccio dire a Caius copiando spudoratamente l’espressione dal film “Snatch”.

La scena si svolge a Genova perché Genova è un porto, è in Italia, e c’era la canzone di De Andrè che ci stava bene. Ed uno con i capelli bianchi e gli occhi rossi è un albino, per quel che ne sa Felix.

E vado a ringraziare chi legge, segue e commenta!

OttoNoveTre: prima o poi Afton se la sposa, la Chelsea! Nella versione seria basta aspettare che Felix si rompa abbastanza le scatole di tutta la situazione, dia appuntamento a Chelsea davanti ad un altare e poi faccia un catturone ad Afton che ormai, tanto che è lì, si sposa e buonanotte; nella versione stupida, beh… ci pensa LEI!

lon8tana: …non so che dire! La tua recensione mi ha commossa… mille grazie!

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** La caccia [Demetri, Heidi] ***


 

LA CACCIA

 

-Dovevamo solo nutrirci e poi riprendere la caccia.-

Demetri rotolò via dal corpo della compagna, sdraiandosi su un fianco.

-Oh, già… Peccato che quei due cadaveri ai piedi del letto dormissero in una stanza così invitante, peccato che mangiare e fare l’amore siano più o meno la stessa cosa, peccato che vederti mentre segui le tracce mi ecciti da morire…-

Lui stirò le labbra sottili in un sorriso.

-Peccato lo dicono i preti, Adelaide. Io dico solo che prima del piacere dovrebbe venire il dovere.-

Lei a sua volta sorrise. Il sorriso di Eva quando porse la mela ad Adamo.

-Ma che assunto noioso… chi ti ha addestrato, il Veglio della Montagna? Non mi dire che hai già perso le tracce del disertore, Demetri. E adesso come lo raccontiamo a Caius?-

-Smetti di canzonarmi. Sento dov’è perfino da qui… se tu non mi distrai.-

La mano di Adelaide scorreva leggera sul corpo dell’uomo. Duro, anche per essere un vampiro, ed il buio sembrava donare un colorito d’acciaio alla sua pelle pallida. Un uomo simile a una spada.

-Mi piace distrarti. E a te piace farti distrarre da me.-

-Fin troppo… Smettila!-

Le carezze diventavano sempre più audaci. Demetri afferrò la mano della donna, bloccandogliela sopra la testa.

Lei alzò un sopracciglio.

-Interessante… E, di grazia, ora che mi hai catturata che farai di me, cavaliere?-

-Non sono un cavaliere. E non ti ho catturata. Nessuno riesce a catturarti, Adelaide.-

-A tutti voi ciò che interessa catturare è il mio corpo, non la mia vita né la mia mente. Mi vedete e mi volete, a quello mirate e quello non è difficile da ottenere; ma non si catturano i lupi con le trappole per conigli, Demetri.-

-Ricordati che stai parlando con un segugio, Eugeneia di Bisanzio.-

Lei aprì la bocca, poi la richiuse e scosse la testa, compiaciuta.

-Ma bravo! E così hai raccolto informazioni sulla mia vita prima di recarmi a Volterra…-

-Luogo in cui sei giunta al seguito di Aro lasciando la tua amata Costantinopoli, dopo che i crocesignati vi entrarono nell’anno del Signore 1204, o 6712 dall’inizio del mondo, come preferite compitare voi greculi. Pare che gli eventi che non hai potuto sopportare e che ti hanno spinta ad accettare infine le blandizie di Aro ed unirti alla nostra guardia siano stati, in ordine d’importanza: l’incendio della città, la distruzione della statua di Elena di Troia che recava le tue sembianze, ed il saccheggio della basilica di Hagia Sophia, luogo che amavi grandemente. Basilica da cui peraltro tu ed Aro avete salvato ciò che potevate dal sacco dei crociati, sebbene la maggior parte delle opere d’arte contenute lì siano andate perdute per sempre.-

Lei si voltò verso l’uomo, puntellandosi su un gomito.

-Sono sinceramente stupita, cacciatore. E pensare che sono eventi di… oh… almeno duecento anni fa. Chissà, forse se seguissi le tracce fino a scoprire tutti i luoghi in cui ho vissuto, le mirabilia che ho visto e le opere d’arte che ho ispirato riusciresti a catturarmi, sempre se ancora mi volessi, naturalmente.-

-Ci vorrà ben più di qualche secolo, temo, anche per un buon segugio.-

-Oppure puoi sempre accontentarti del corpo… sai anche chi ero prima di essere Eugeneia?-

Il sorriso di Demetri si spense, gli occhi di Adelaide si accesero di malizia.

-Non crederai che io sia di origini bizantine, vero? Ho i capelli rossi e, ti regalo un’informazione, i miei occhi erano celesti. Non sono esattamente i colori di una grecula, credi?-

-Allora sei più vecchia di quel che immaginavo-, ponderò Demetri, pensieroso. Lei si finse indignata.

-Demetri! Questa è una maniera davvero villana di rivolgersi ad una dama!-

Lui sghignazzò.

-Sei una dama tanto quanto io sono un cavaliere, Adelaide. Tuttavia mi hai fatto cambiare idea.-

-Cambiare idea su cosa?-

-Sulle precedenze: adesso facciamo ancora l’amore-, disse traendola a sé.

-E poi?- Lei inarcò la schiena, voluttuosa, spingendo il bacino contro il suo.

Demetri sorrise, l’espressione astuta, concentrata e soddisfatta di quando fiutava una preda.

-E poi inizia la caccia.-

 

 

 

 

 

Note: Buon anno! Siccome chi fa qualcosa il primo dell’anno la fa tutto l’anno ed un paio di scarpe nuove l’ho appena comprato, posto qualcosa, così poi pubblico tutto l’anno… sperando che nessuno la consideri una minaccia!

Passiamo alla storia: Heidi. Ma una che ha tremila anni (l’ha detto la Stephenie) si potrà chiamare Heidi? Come una pastorella svizzera o una pornostar qualunque? Io non ci sto a questo gioco al massacro. Heidi è diminutivo di Adelaide, che significa “di nobile razza”. Eugeneia vuol dire più o meno la stessa cosa (“di nobile stirpe”) ma in greco. Siccome io me la immagino tutto meno che nobile, presumo che lei si sia divertita parecchio a portare questi nomi.

Per il sacco di Costantinopoli ringrazio Umberto Eco in “Baudolino”, che l’ha descritto in un modo che pareva di esserci. Ed io ci ho messo Heidi e Aro.

Ed ora, ringraziamenti!

OttoNoveTre: Dehihihohohosherlockholmes… con le scene di boxe a mani nude, così maragliamente Guy Ritchie! La dimostrazione, in barba al Dorian Gray dell’ammmore, che si può stravolgere completamente un personaggio letterario e cavarne fuori qualcosa di fico! Ok, mi ricompongo; il bello di scrivere sui Volturi è che ogni personaggio in realtà è una riga di libro (quando non una parola e un asterisco…), quindi ci sono tante versioni quante le stelle nel cielo o vermi nella terra! Evviva!

Luna95: Ho letto la tua recensione la notte di Natale, e la notte di Natale non esistono persone orribili! Scherzi a parte, figurati: le recensioni non sono mica una tassa sul macinato. Recensisci quando hai voglia/tempo/modo ed io sarò felicissima; l’importante è che tu ti diverta a leggere, che è tutto karma positivo!

Zenobia_vampire: Grazie mille per i complimenti! Anch’io adoro Afton e Chelsea, in effetti… si nota molto? E mi hai già sgamato Felix e Renata? Sono così palesi? Bellini! Corin, beh… appena mi dice che cavolo di potere ha ci faccio un pensierino. So anche come si veste, e non so il potere! Ma si può?

 

Di nuovo, buon 2010 a tutti!

 

 

 

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Capitolo 9
*** Una storia per Sulpicia - Prima parte [Aro] ***


Note iniziali: Questa storia nasce per il contest Quando il sangue è irresistibile indetto da storyteller lover e Marie Cullen su EFP.

Detto contest prevede che un vampiro si ritrovi irresistibilmente attratto dal sangue di un essere umano, e che il vampiro si trovi a Volterra. E che anche l’umano sia attratto dal vampiro.

E in tutto ciò io chi sono andata a sorteggiare? Aro. E ‘sti cavoli, direi.

Poi c’era una parte facoltativa che ho sfruttato, proprio per non farmi mancare nulla: prevedeva che il nostro vampiro incontrasse una veggente vampira dai vampiri soprannaturali, una che conosce il futuro, sa già che il vampiro la cercherà e gli porterà aiuto, ovviamente esigendo qualcosa in cambio. Essa però è vincolata al silenzio.

C’era una lista di oggetti dalla quale attingere, che la veggente doveva dare al vampiro come sussidio; io ho scelto lo specchio, il libro e la fiala.

Infine c’era una poesia a cui ispirarsi, ossia “Fontana di sangue” di Baudelaire, ed una citazione, rivista, dalla poesia, da inserire nel testo: “Mi pare a volte che il sangue fiotti come una fontana dai ritmici singhiozzi; rende l’occhio più acuto e l’orecchio più fino.”

Ringrazio storyteller lover per avermi segnalato gli errori, che ho corretto.

E ringrazio Addison89 per il banner, che conto di inserire appena capirò come si fa!

Bene, mi pare di aver detto tutto; credete che l’introduzione sia più lunga della storia? Stolti.

L’ho divisa in due, la storia, perché era troppo lunga!

Buon divertimento!










UNA STORIA PER SULPICIA

-Prima parte-

Mia amata,

       so che la noia ti sta sopraffacendo, forse anche più del solito; lo so e me ne dispiaccio, ma in questo momento non posso permettermi di trastullarti con sciocchi passatempi. Così ti racconterò una storia affinché tu possa tenere a bada la noia e la mente occupata almeno per un po’, almeno fino a quando deciderò che è giunto il tempo di dedicarti qualcosa in più di qualche fugace momento privato.

Leggi dunque questi fogli, Sulpicia, sono per te. Ti immagino come se ti avessi di fronte, seduta ed immobile come una splendida statua crisoelefantina, solo le pupille che seguono le righe a tradire la vita che ancora scorre dentro le tue vene.

Questa storia inizia il giorno in cui la Veggente si presentò al nostro cospetto. C’eri anche tu, ricordi? Lei indossava un abito gonfio e pesante, di taffetà color rosso geranio, ed i suoi capelli erano lunghi e rosso fuoco. Sul volto portava una maschera veneziana adorna di piume di pavone, e tu pensasti che ti sarebbe piaciuto molto accompagnarmi nuovamente al carnevale di Venezia, come quel giorno di non ricordi più quanto tempo fa. Duecentotrentasette anni fa, Sulpicia. E mi sento di poterti promettere che ti ci riporterò presto.

Quello che pensai io, invece, fu che mi ricordava un fuoco acceso e che le piume in cima a tutto quel fuoco sembravano quelle di un’araba fenice pronta a spiccare il volo. Quello che mi stupì fu che riuscì con grazia a non farsi mai neppure sfiorare da me, come se conoscesse le mie intenzioni. Eppure fu cortese e deliziosa con tutti, si tolse la maschera obbedendo alla poco aggraziata richiesta di Caius ed accettò di sottostare rigidamente alle nostre leggi per tutto il periodo in cui avrebbe risieduto a Volterra. Immagina come fui stupefatto quando trovò il modo di avvicinarsi a me e sussurrarmi qualcosa all’orecchio, in un soffio, senza tuttavia farsi sfiorare; so che non ti è sfuggito, Sulpicia, quel momento, e so che ti chiedesti cosa mi avesse detto quella donna. Ebbene, essa disse: -Non contravverrò alle tue leggi, Aro dei Volturi. Tuttavia tu stesso potresti farlo, e se lo farai la rovina scenderà sul tuo impero; vieni da me quando ne sarai tentato, ed io ti aiuterò. Non farlo, e perderai tutto-.

La profezia m’ inquietò. Non sottovalutiamo gli aruspici, Sulpicia, non noi che apparteniamo ad un popolo che ha inventato la scienza esatta del vaticinio. Volli afferrarla per il polso, esplorare i suoi pensieri ed eventualmente punirla se mi avesse preso in giro, ma già lei rivolgeva le sue parole educate a Marcus e Renata aveva discretamente appoggiato a me la propria mano, con lo sguardo e i pensieri che chiedevano se andava tutto bene. Intimai a Renata di andarsene e lei staccò la mano dal mio braccio abbassando gli occhi; pareva avere paura della Veggente senza capirne bene il motivo. A quel punto anche Jane si avvicinò a me fissando torva la Veggente, come a voler ribadire il concetto che non poteva avvicinarmisi in quel modo sensuale, che io ero territorio suo; sai quanto mi diverte di solito l’irruenza della mia piccola, perfida bambolina, ma non quella sera. In quel carosello di donne che mi ruotavano intorno lei non si avvicinò più, e poco dopo se ne andò aggraziata e leggera così come era venuta.

La storia prosegue con una nuova scena, ed ancora una volta con una donna. Hai serrato le labbra, non è vero Sulpicia? “Un’altra?”, devi aver pensato. Oh, di questa non essere gelosa; qui inizia la parte dilettevole.  Mi trovavo per le strade di Volterra accompagnato solo da Renata, il crepuscolo era calato da poco e stavo tornando alla nostra dimora, soddisfatto del successo degli affari che mi avevano spinto ad uscire e che non rivestono alcuna importanza in questo racconto. E la vidi, no, non la vidi, se l’avessi semplicemente vista non avrei avuto nulla da narrarti. La sentii. Il suo sangue cantò per me, lo sentii scorrere nelle sue vene come acqua di fontana, il suo voluttuoso odore avvolse tutta la città, il selciato, le case, il mondo divenne rosso ed arsi dalla sete. La guardai come attraverso una coltre cupa; era una ragazzina, giovane, doveva avere appena qualche anno in più di Jane ed Alec quando li salvai dal rogo. Non era particolarmente bella od affascinante, né pareva particolarmente acuta, nulla aveva che valesse la pena salvare. Ed il suo sangue mi chiamava in modo irresistibile, giovane, invitante.

Come attirata dall’intensità delle mie emozioni (o più probabilmente per caso, poiché il Fato è vanitoso e deve comparire in ogni storia, come fosse un angelo in un dipinto medievale) lei si voltò verso di me e mi guardò.

E naturalmente s’infatuò di me al primo sguardo, come solo una fanciulla giovane e mortale può infatuarsi; mi sorrise e si ravvivò i capelli sottili dietro l’orecchio in quell’erotica maniera perversamente ingenua propria delle ninfe.

Ah, mia amata, ero ubriaco! Ero ubriaco di quel profumo e la volevo, quella frizzante sorsata di giovinezza. Così senza pensare (a tal punto, Sulpicia, la volevo! Senza pensare! Io! Comprendi quanto forte era il richiamo del suo sangue?) risposi al suo sorriso, e quanto facilmente lei mi avrebbe seguito ovunque!

Provvidenzialmente il Fato vanitoso intervenne. Si spalancò su di lei una finestra, una voce di donna ordinò repentinamente di entrare in casa, è già in tavola, dove sei stata fin’ora. Odore di cibo mortale mischiato al suo. Mi rivolse un’ ultima occhiata d’intenso rammarico ed entrò in casa di scatto, gettandomi in faccia il suo profumo.

Una cittadina di Volterra.

“È fatto divieto, da parte di chiunque e per qualunque motivo, nutrirsi di un mortale residente a Volterra, causandone o meno la morte. La punizione per i trasgressori è la pena capitale.”

Mi voltai di colpo, camminando velocemente in una delle strette vie della nostra avita città. Troppo velocemente, debbo confessarlo. Renata mi tenne dietro fin quando non le ordinai di tornarsene a casa; tentò di replicare e le ripetei l’ordine, ringhiando. La preoccupazione le ombreggiò il volto, ma se ne andò.

Ti sembrerà assurdo, mia amata, ma pensai alla Veggente. Perché in un certo qual modo mi aveva profetizzato questo incontro e mi aveva predetto sventura, invitandomi ad andare da lei. Davvero mi era indispensabile parlarle? O il suo non era che una sorta di macabro modo per rivedermi? Forse che qualcuno stava tessendo trame contro di me, usando quella ragazza per attirarmi in trappola? O forse era la Veggente stessa la nemica?

Inoltre, non sapevo dove trovarla. Se n’era andata, quella sera, come una lingua di fuoco nel vento. Era a Volterra, ma dove?

Di fronte a me, Sulpicia. Svoltai l’angolo ed ella era lì, nel chiarore della tarda sera. Sedeva su uno scranno ricoperto di stoffa dorata e leggera come un fiume di luce, di fronte ad un tavolo da chiromante, all’angolo della strada. Indossava larghi pantaloni di foggia orientale anch’essi dorati, fluidi come acqua, ed una casacca che pareva intessuta di lamine d’oro, stretta in vita da una cintura dello stesso metallo splendente. I suoi capelli erano biondi, imprigionati in una rete di volute dorate, incrostati di topazi. Sulle braccia nude vi erano bracciali che parevano scivolare su di esse come se le avessero sciolto addosso una colata d’oro, e portava anelli in ogni dito: ancora topazi, ambra, occhio di tigre. I lacci dorati dei sandali si arrampicavano voluttuosi sul collo del piede e sulle caviglie, e sul volto portava una maschera dello stesso colore, dalla quale pendevano come una tenda file di perline. Pensai che la volevo, la volevo per me, un giorno fiamma e un giorno scrigno di tesori. Poi mi ricordai del motivo per cui ero lì, ed il desiderio si sopì.

Vi era una sedia vuota di fronte al tavolo da chiromante ricoperto di innumerevoli oggetti. Senza aspettare che lei m’invitasse, mi sedetti.

-Benvenuto, Aro dei Volturi. Avete un aspetto magnifico questa sera-, Mi salutò con garbo.

Risi. –Voi avete un aspetto magnifico. Sembrate una donna che è stata rapita da un sultano per farne la sua principessa, maestra di delizie.-

Lei chinò graziosamente il capo, in segno di ringraziamento. Le perline appese alla maschera frusciarono.

-Siete venuto, Aro. Vi attendevo-. Se trasecolai –se, mia Sulpicia, io non trasecolo- non lo diedi a vedere. Composi un sorriso calmo, quel sorriso beffardamente placido da scolpire nel bronzo delle statue funebri.

-Così sapevate che sarei venuto? E da dove avete tratto il vostro vaticinio, la sera che vi siete presentata a noi?-

-Per ciò che riguarda la seconda domanda, la risposta è semplice-. Abbassò la mano sul tavolo rapidamente, ed un istante dopo un ventaglio di tarocchi variopinti le si spiegava tra le dita. –Sono stati loro a dirmelo. Questo è ciò che so fare meglio.-

Chiromanzia, dunque. Aveva forse bisogno di quelle carte perché il suo potere si sviluppasse al meglio? O stava soltanto cercando di farmelo credere? Soprattutto, aveva davvero un potere? Non importa, pensai, scoprirò presto la verità. Mi basterebbe sfiorare le sue mani bianche dalle unghie laccate d’oro, o le sue labbra dipinte con le mie, per vedere dentro la sua mente. Ti stai alterando, Sulpicia? Non vuoi sapere se gliele ho sfiorate o no, quelle labbra color del bronzo? Continua a leggere, mia amata, da brava.

-E per ciò che riguarda la prima domanda?- Soffiai, sporgendo il busto verso di lei.

-Ero certa che sareste venuto. Mi sono abbigliata d’oro, per luccicare… tutti gli uccelli sono attratti dalle cose luccicanti, non è forse vero?- Non si ritrasse. Si sporse anche lei verso di me, con in mano il suo ventaglio di tarocchi.

-Tutti gli uccelli, tranne gli avvoltoi… Gli avvoltoi sono attratti dalle carogne, non lo sapevate?-

Eravamo vicinissimi, il mio volto ed il suo avvolti dal profumo reciproco del nostro fiato.

La baciai, baciai le sue labbra dorate, sentii sul volto la carezza delle perline della sua maschera, assaporai il gusto dolce della sua lingua.

Non è vero, Sulpicia!

Ti sei alterata? Mi stavo prendendo gioco di te!

Questo è ciò che avrei voluto fare. Ma lei non me lo permise. Si rigettò all’indietro sulla sedia, ridendo di gusto.

-Carogna… sì, è la parola più adatta per definirmi, certo! E dire che neppure mi conoscete! Ma ora smettete di cercare di sedurmi. Ci siete già riuscito, per questo sono qui ad offrirvi spontaneamente il mio aiuto. Non l’avrei fatto se non mi aveste affascinata.-

Come avrai già intuito la sua frase m’indispettì. Pareva concedermi qualcosa, il suo aiuto, la sua attenzione; lei, una sconosciuta, concedere qualcosa a me, Aro dei Volturi? Avrei voluto rovesciare quel tavolo e tutte le chincaglierie appoggiate su di esso, afferrarla per il collo e stringerlo mentre le mie mani leggevano tutto ciò che volevo sapere di lei, affondando nella carne.

Mi trattenni. Non sarei Aro dei Volturi, se non sapessi trattenermi.

Sublimai il mio scatto d’ira in una risata beffarda.

-Che genere d’aiuto potreste offrire a me, affascinante donna affascinata?-

Lei ricompose il mazzo di carte di scatto, proprio come quando si chiude un ventaglio. Poi le appoggiò sul tavolino, con l’aria di chi smette di scherzare per tornare ad occuparsi di faccende più serie.

-Ripeterò il vaticinio: se infrangerete le vostre stesse regole, non avrete che rovina. Non so in che modo le infrangereste, non so in che modo la rovina si abbatterà su di voi; però posso mostrarvelo, e in modo che solo voi vediate; non temete: nessun segreto, nessuna immagine mi raggiungeranno. Così forse potreste evitare la sorte avversa, e volgere gli eventi a vostro favore… mi dispiacerebbe vedervi cadere. Mi piacete.-

Non mi lasciai lusingare. Anche perché ero certo di piacerle. Piaccio a tutti.

-Mostratemelo dunque, questo prodigio. Devo forse procurarvi un fegato?-

-Temo che non me ne farei nulla, e sapreste leggerlo certamente meglio di me… niente fegato.- Frugò tra gli oggetti del suo tavolino, scartandoli man mano che le capitavano tra le mani: una bussola, un calamaio, uno squisito, piccolo flauto d’osso. Finalmente trovò ciò che cercava: uno specchio, Sulpicia, incredibilmente simile ad uno che avevi tu un tempo e che proveniva dall’Egitto. Era il tuo preferito, poi lo perdesti e te ne dispiacesti per molto tempo, poiché era un dono di mia sorella. Ebbene, sembrava proprio quello. Era identico a quello, ora che ci penso.

-Questo andrà bene. Ma non posso farlo gratis, non questo.-

La guardai con aria interrogativa.

-Vi mostrerò come sarà il futuro nel caso in cui infrangeste le regole. Però dovete darmi qualcosa in cambio. Non posso farlo, altrimenti.-

Ecco, pensai, dove andava a parare questa storia. Una volgare mercante, dunque, coperta di lustrini per abbindolare gli stolti. Ma perché non visionare la sua merce? Il gioco m’incuriosiva, e lo proseguii.

-Qualcosa in cambio!-, Trillai. –Che vorreste in cambio? Un topazio grande come un uovo, per incastonarlo in una tiara? Un velo di pizzo fatto a mano dalla donna più abile del mondo ad annodare fili? Un corredo funerario etrusco? Coraggio, non siate timida, mia luccicante bellezza: io possiedo tutte queste cose, e molte altre. Qual è il prezzo?-

Rise. –Niente di tutto ciò, anche se ciascuno di quegli oggetti m’intriga. Niente cose materiali. Dovete semplicemente rinunciare ai vostri poteri. Oh, non temete, sono una carogna ma non sono avara: i vostri poteri non funzioneranno con me e con me sola, e per la sola durata della mia permanenza a Volterra. È questo il prezzo: la vostra fiducia nei miei confronti.-

-La mia fiducia!- Esclamai. Ero trasecolato da tanta impudenza, ma non lo diedi a vedere. Non lo feci perché il gioco mi divertiva, come ti ho già detto, ma insieme mi spaventava. Quella ragazzina il cui sangue cantava per me, quella regola da non infrangere, quella profezia di sventura: il grande Cesare cadde, per non avere prestato ascolto ad un etrusco che lo mise in guardia dalle idi di marzo, ed io lo so perfettamente, Sulpicia. Io c’ero.

Fu per quello, credo, che accettai lo scambio. Oh, certo che lo accettai, mia amata, anche se ad essere sincero non credevo che funzionasse veramente: lei mi avrebbe mostrato lo specchio ed in cambio i miei poteri non avrebbero avuto effetto su di lei. Aggiunsi una condizione: sarebbe stata vincolata al silenzio, non avrebbe rivelato a nessuno –umano, immortale o dio- nulla di questa storia. Non aveva mai avuto intenzione di farlo, disse, ed accettò di buon grado.

-Ma davvero saprete limitare i miei poteri? È un’abilità strabiliante. Manterrete la vostra parola? O è più saggio da parte mia temervi, e quindi distruggervi?-

-Temere colei che vi sta aiutando? Siete troppo diffidente, mangiatore di carogne. Vi ho dato la mia parola e voi mi avete dato la vostra. Il patto è stato stipulato. Non potrei mai venir meno alla parola data: le conseguenze, per me, sarebbero terribili.-

Avrei detto che la sua carnagione fosse illividita, cosa impossibile per noi. Forse fu il tono della sua voce, così terribilmente definitivo, quella nota di terrore puro che avevo avvertito nelle sue ultime parole, a convincermi.

Mi porse il tuo specchio. Ho detto il tuo specchio, Sulpicia? Era come il tuo, davvero. Era perfino scheggiato nel suo stesso punto, quando ti era caduto dalle mani alla notizia della morte di mia sorella.

“È fatto divieto, da parte di chiunque e per qualunque motivo, nutrirsi di un mortale residente a Volterra, causandone o meno la morte. La punizione per i trasgressori è la pena capitale.”

 Era stato Marcus a formulare e volere fortemente questa legge, e Caius ed io c’eravamo trovati in perfetto accordo con lui. Stilammo dunque quella legge, e la diffondemmo con le altre.

Il collo della fanciulla era abbronzato e caldo, e la sua carne tenera cedette come un frutto maturo quando vi affondai i denti. Il suo sangue giovane, dolce, freschissimo zampillava dentro la mia bocca, scorreva in me, ed io bevevo avidamente, gustandone in estasi ogni sorsata. Era perfetto, assolutamente perfetto. Sapeva di sole, di felicità, di futuro. Sapeva di vita.

Qualcuno l’aveva scoperto. Sapevo chi, ma sapevo che non aveva importanza, avrebbe potuto essere chiunque ed in qualunque momento: qualcuno l’avrebbe scoperto. E non fu come un castello di carte che cade tutto d’un tratto, no, fu piuttosto come far cadere la prima tessera del domino che trascina con se’ tutte le altre arrivando infine alle più lontane, a quelle che mai avrebbero incontrato la prima se non grazie a questo moto di caduta e distruzione. Scoperto quel reato, Sulpicia, tutti gli altri vennero alla luce. Ci volle tempo, poiché le trame del ragno sono difficili da vedere, ma non è certo il tempo a mancarci. Si cominciò indagando sul sangue a Volterra; si proseguì con il coinvolgimento di Carlisle, ed il mio caro amico di nuovo si oppose a me invece di essermi grato per non aver spiegato le mie forze, non realmente, contro suo figlio; si continuò interpellando la splendida Siobhan, che mi era sempre stata amica, per la seconda volta contro di me, con la sua bella Maggie pronta a sbugiardarmi; ed infine si arrivò all’ultima tessera del domino, e l’ultima tessera ha nome Didyme. Avevo infranto una regola di Marcus e a Marcus ero ritornato. Le tessere di domino disposte a cerchio, l’ultima che con un secco “tic” si adagiava sulla prima.

Il volto di San Marco si spaccò, e la furia per secoli e secoli messa a tacere eruppe furibonda come la lava del Vesuvio. Ero colpevole, ero indifendibile, e l’unico con potere pari al nostro, Caius, come al suo solito non si tirò indietro dal punire chi aveva infranto le leggi, o forse ebbe paura di me che non avevo temuto neppure l’ira degli dei. Nessuno potè prendere le mie parti di fronte alle mie colpe evidenti. Tu lo facesti e Marcus ti fece a pezzi davanti a me, ti straziò e ti bruciò e straziò di nuovo perché tu ripagassi settanta volte sette la sofferenza di mia sorella. Non urlasti mai, mi fecero guardare e tu peristi sorridendo, perché sei una buona moglie e non volevi che io soffrissi per te.

Poi toccò a me morire, morire in cenere come Cartagine, sventrato e depredato come la basilica di Hagia Sophia a Costantinopoli.

Ed infine il potere dei Volturi si sfaldò. Senza la mia astuzia ed intelligenza niente potè tenerli insieme. Trattenni Marcus, a quel tempo, passando sopra al sangue ed alla pietas, perché io lo sapevo: in tre avremmo dominato il mondo. In due no. Tutto il nostro impero, tutta la nostra potenza non esisterono più, chi non si uccise in lotte intestine se ne andò per la sua strada, disperdendosi nel mondo. Tutto per nulla, dunque.

Un volto pallido di uomo finemente cesellato, lucidi capelli neri ad incorniciarlo, gli occhi rossicci che brillavano come fiamme nel volto squisito, illuminato dalla luce serotina.

Lo specchio era ritornato ad essere solo uno specchio.

La Veggente era lì e mi guardava, e sorrise quando vide lo sguardo che le rivolsi.

-Il mio consulto vi è stato utile, vedo.-

Annuii. -Lo è stato. Eviterò d’infrangere le mie stesse leggi; lo eviterò con tutto me stesso. Ho visto la rovina e non mi è piaciuta, mia luccicante bellezza.-

-Tornate da me se avrete bisogno. Come oggi, mi troverete.-

Il suo sorriso era ammiccante, il suo tono vellutato. Aveva ricominciato con gli scherzi, e mi piaceva. Restava una questione da chiarire.

-E ditemi: secondo voi ora dunque i miei poteri vi sono preclusi, e a nessun altro?-

Lei accennò col capo ad una donna, l’unica figura che percorreva veloce il vicolo. Nessun altro vi era entrato nel corso della nostra conversazione, nessun altro vi sarebbe entrato dopo di lei.

Non feci altro che alzarmi fingendo di non averla notata e scontrarmi con lei, sfiorandole la mano; sono esperto in questo genere di cose, da millenni. “Devo mettere su la pasta. Chissà che dice Armando. Maremma che bel ragazzo”. Mi scusai, si scusò anche lei e proseguì. Tutto bene dunque, non ero stato derubato di nulla.

Le sue perline frusciarono.

Era dietro di me, in equilibrio sui tacchi sottili come la punta di un dito, liquida come una colata d’oro. Le toccai una guancia, feci scendere lentamente le dita lungo il collo, fino a quel sensuale punto tra le clavicole. Niente. Nessun pensiero veniva trasmesso dalla sua mente alla mia, nessun suono, nessun sentimento.

Di nuovo desiderai afferrarle il collo e spezzarglielo, scagliarla contro il muro delle case, distruggerla, lei e i suoi poteri immensi: non credevo che avrebbe potuto farlo davvero, ed invece eccola, silente e immota davanti a me. Increspò le labbra e ricominciò a respirare, poi portò la sua mano destra, ornata di anelli, sulla mia ed intrecciò alle mie le sue dita.

Oh, mia amata, questa volta non mento: l’ho baciata davvero.

Adesso sei arrabbiata, e sei arrabbiata non perché io abbia voluto baciare un'altra ma perché te l’ho voluto far sapere ad ogni costo, perché tu ora stai immaginando la Veggente tra le mie braccia ed i nostri baci e sai che io mi divertirò a cercare quell’immagine nella tua mente, cosa che certamente farò. Sono curioso di vedere se te l’ho descritta bene, mia amata.

Ma non sono questi lunghi baci la cosa importante, no davvero! La storia non è finita affatto, Sulpicia; non vuoi continuare a leggere? Ti sto intrattenendo, dopotutto. Apprezza il mio gesto, da brava.

A dire il vero non ho ancora finito di farti arrabbiare, ma naturalmente tu sai già cosa sto per dire: ossia, le ho chiesto di unirsi alla nostra guardia. Un talento così raro, una donna così bella, un modo di fare così affascinante… sarebbe stata un vanto tra i miei gioielli, gemma tra le gemme. Ha declinato con grazia, ed ha declinato ogni volta che gliel’ho chiesto, come puoi facilmente evincere dal semplice fatto che essa non è tra noi, purtroppo. Non fare quel sorrisetto soddisfatto, ora, mi sembra di vederti… ho ancora tempo per convincerla. Un’eternità di tempo, per la precisione.

Ma proseguiamo, ora.

Non avevo ancora messo piede nelle stanze del palazzo, e già volevo rivederla.

No, mia amata, non la Veggente; l’altra, la ragazzina, la mia cantante. Nonostante avessi visto il pericolo, nonostante dopo aver deposto lo specchio avessi preso la decisione di vigilare, di prestare attenzione massima nel corso dei miei movimenti, volevo respirare ancora una volta il suo profumo inebriante. Una volta sola. Non si può resistere al richiamo della sirena; Ulisse si fece legare all’albero maestro per sentire quel canto delizioso, ed io cominciai a chiedermi se la mia sola volontà e la consapevolezza del rischio sarebbero state corde abbastanza robuste.

Dopotutto, Sulpicia, il giovane Edward Cullen ha dimostrato così bene di essersi assuefatto al canto della sirena, e posso forse io essere da meno?

Me lo chiesi spesso in quel periodo, guardando i soli tramontare e risorgere ed ogni giorno durava anni, mentre il pensiero della giovane ninfa mi logorava. Non potevo sopportare di starle lontano, mi pareva che il suo sangue fluisse attraverso la città come per un campo recintato e trasformasse i selciati in isolotti, cavando la sete a ogni creatura, tingendo la natura in rosso. Fino a quella sera non sapevo neppure che esistesse, quella bambina, nel grembo caldo della nostra città, e non mi era mancata; ma ora sapevo che c’era, che era lì, e la volevo. Non riuscivo in nessun modo ad ignorarla.

E dopo un breve ed inquieto passar di giorni (forse te ne ricordi, giacché ti chiedevi cosa mai potesse essermi accaduto, confidavi che prima o poi ne saresti venuta a capo e come vedi la tua pazienza ora è stata premiata) mi risolsi ad avvicinarmi di nuovo, come un amante bramoso, alle sue finestre. Senza sapere cosa aspettarmi né cosa sperare. Con le immagini catturate dallo specchio a riempirmi gli occhi, in attesa di un solo velo del suo profumo.

Che venne, infine, leggero, portatomi dall’aria, attraverso la finestra aperta.

Ed immediatamente dopo lei comparve nel rettangolo della finestra, e sfumata dalla sera sembrava quasi un’ Ofelia. La vidi osservare la strada, la vidi cercare il punto in cui mi aveva visto quell’unica volta, trovarmi, e spalancare sul volto il sorriso perfetto di gioia pura degli amori che hanno le ragazzine. Intuii che era divenuta sua abitudine cercarmi nell’unico modo in cui poteva, sperando che, come quella sera, le comparissi nuovamente davanti agli occhi. Mi fece cenno di attenderla e scomparve dalla finestra, evidentemente con lo scopo di raggiungermi.

Ora, mia amata, riconosco di avere molti difetti, la maggior parte dei quali accrescono il mio fascino; ma non sono pazzo, o almeno non del tutto. Non rimasi certo ad attenderla, tanto più che già la mia gola ardeva pregustando il sapore della giovinezza; mi allontanai di nuovo, percorrendo le stesse strade della prima volta. E giunto nel punto esatto in cui stava la Veggente scoprii in quello ch’era sempre stato il muro di una casa una piccola insegna luminosa, di quelle che al giorno di oggi segnalano la presenza di un locale di svaghi, raffigurante un corvo.
Seppi che la Veggente era lì dentro prima ancora di raggiungerla.

Maledetta, pensai, maledetta, ma come fa ad incrociare sempre la mia strada? Si fa rivelare dalle carte le traiettorie del Fato, per poi intersecarle?

Ciò non toglie che volli vederla, naturalmente. E pensai -non senza vergogna- che probabilmente avrei avuto bisogno del suo aiuto, di nuovo.

La trovai in una saletta buia, solo una candela a far tremare le ombre, la fioca luce che scivolava sul vetro di centinaia di bottiglie. Indossava un gilet di piume nere stretto in vita da una cintura di pelle. Portava di nuovo una maschera, una lucida maschera nera con il lungo naso a becco, i suoi capelli nerissimi avevano riflessi bluastri ed erano lunghi, ispidi e scompigliati. Le lunghe gambe erano ripiegate, i tacchi dei sandali piumati agganciati allo sgabello. Nella penombra pareva un gigantesco corvo, sedeva sull’alto sgabello come su un trespolo.

-Aro dei Volturi!- Esclamò nel vedermi, quasi fosse sorpresa. Evidentemente mentiva, le labbra color mirtillo erano incurvate in un sorriso. Notai immediatamente che non era sola. C’era un giovane con lei, un bellissimo giovane biondo che al mio ingresso mi guardò appena con i suoi splendidi, vitrei occhi grigi, per poi riportare lo sguardo appannato sul calice colmo di vino che aveva in mano e berne avidamente il contenuto. C’erano altri due calici puliti sul tavolo, ed una bottiglia vuota. “Sangue di Giuda”, lessi sull’etichetta.

-Non siete priva di un qual certo macabro senso dell’ironia, noto-, dissi accennando col capo al mortale, evidentemente assuefatto da qualcosa che non poteva essere solo vino.

- Spesso al vino capzioso ha chiesto di addormire per un giorno il terrore che l’assilla, per dirlo con le parole di Baudelaire; io non ho fatto che accontentarlo. Hai bevuto abbastanza, tesoro, direi che tocca a me, ora.-

Oh, Sulpicia, che spettacolo vederla nutrirsi! Sapessi! Mi tornò in mente il secolo decimottavo, quando erano in voga personaggi come Poe e Wilde ed il gotico, nato come simbolo di luce, chiarità e leggerezza, divenne simbolo di oscurità e decadenza (perché incostante e smemorata è la mente umana) e noi ci adattammo così compiaciuti all’immagine che i mortali medesimi ci avevano cucito addosso; ricordi quanto mi divertiva questo paradosso? Lacerò le vene del polso del giovane biondo, che non si lasciò sfuggire nulla più che un gemito, e fece colare il sangue in uno dei due calici; un giochetto molto in voga un tempo, a cui potevano indulgere solo i più vecchi e potenti di noi, perché in genere si finiva col perdere il controllo e non riuscire ad aspettare che il delizioso nutrimento colmasse il bicchiere. Lei vi riuscì senza alcuna difficoltà, poi premette le dita sul taglio per evitare di far scorrere altro sangue e mi offrì il polso del giovane affinché anch’io potessi attingervi. Non ripetei il suo giochetto; mi portai alle labbra il polso del ragazzo e bevvi. Nessuno l’avrebbe cercato; veniva da un luogo lontano e freddo, ed aveva vagabondato a lungo prima di trovare la Veggente. Nessuno l’aveva mai visto, a Volterra, nessuno l’avrebbe visto mai più. E sulla Veggente… certo, mia amata, che cercai informazioni su di lei risalendo nella sua mente mentre mi nutrivo. Per chi mi hai preso? E sai quale fu il risultato? Nessuno. Hai capito bene: assolutamente nessuno.

Bevvi il suo sangue fino a che il cuore non si fermò ed il bellissimo ragazzo morì; sazio, staccai le labbra dal suo polso. Pareva dormisse, questo placido giovane, il bicchiere di vino ancora nella mano.

-Vi ringrazio, mia cara, ne avevo davvero voglia: mi pare a volte che il sangue fiotti come una fontana dai ritmici singhiozzi; rende l’occhio più acuto e l’orecchio più fino -, le dissi, parafrasando la stessa poesia da lei citata poco prima. Chinò il capo di lato, come un uccello.

-Conoscete Baudelaire?-

-Non ho avuto il piacere. Peccato, avrei volentieri fatto qualcosa per lui, ma la sua vita è durata troppo poco.-

-E cosa avreste fatto per lui, di preciso?-

Scrollai le spalle. –Oh, avrei badato che non rimanesse mai senza amanti, oppio e assenzio, naturalmente. Un ragazzo così bravo a parlare di melanconia! Cosa può saperne un giovane, della melanconia? Eppure lui sapeva! E chi può capirlo meglio di me?-

-Ah, la vostra passione mi affascina! Non vi facevo amante dei poeti decadenti, vi vedevo molto più sui classici, sapete?-

-Sbagliavate, mia bella! Amo l’arte in ogni sua espressione. Ed “i libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto”, come diceva uno scrittore che invece ho avuto il piacere di conoscere di persona.-

-Ecco, ora vi invidio davvero! Io non ho mai conosciuto Wilde, purtroppo. Ma ditemi: voi non siete qui per parlare di letteratura, anche se un po’ mi dispiace. Cosa vi assilla?-

Ah, mia amata, lo sai? Me ne dimenticavo sempre. La Veggente m’incantava: giungevo a lei in preda a violenti tormenti, divorato dalla sete, e mi trovavo a discutere deliziosamente di argomenti fatui. La cosa m’indispettiva allora e m’indispettisce ora, mentre ne scrivo.

Decisi, per prudenza e puntiglio insieme (e so che le due cose sembrano lontane, ma così spesso non lo sono, Sulpicia!), di non rivelarle il mio segreto, dal momento che lei mi teneva celati i suoi.

Sorrisi.

-Cosa mi assilla, piccolo corvo? Mi assilla una domanda, e la domanda è: cosa devo fare? Ma non posso chiederlo a voi. Dovrò risolvermi a chiederlo a me stesso.-

Lei inclinò nuovamente la testa di lato, proprio come un uccello. Con lunghe dita dalle unghie aguzze dipinte di scuro m’indicò uno scaffale polveroso su cui stavano una pila di libri, un prezioso vaso Ming, una rara conchiglia madreperlacea ed un piccolo orologio a pendolo, fermo.

-Potreste consultare un libro; hanno tutte le risposte, i libri, per chi sa come trovarle.-

Risi. I titoli dei libri non si vedevano, e non erano scritti sulle coste. Tuttavia dubitavo fortemente che uno qualsiasi di essi avesse la risposta alla mia domanda. Glielo dissi.

-Non potete saperlo se non provate, no? Suvvia, prendetene uno, uno a caso, e apritelo. Magari vi sarà utile.-

-E va bene, farò come dite!- Esclamai divertito. Afferrai il libro in cima alla pila, e scoppiai a ridere leggendo il titolo: “Guida ai vini d’Italia”.

-Inutile, come vi dicevo; o credete che il mio problema sia decidere cosa offrire da bere ai mortali che Heidi conduce nella mia dimora?-

Per tutta risposta lei si strinse nelle spalle, e il suo viso bianco sembrò affondare tra le piume nere.

-Apritelo-, Disse laconica, -e leggete quello che c’è scritto. Non c’è alcun bisogno che leggiate ad alta voce. Secondo me potrebbe esservi utile.-

Che avevo da perdere, mia amata? Aprii a caso, e lessi.

“…fresco e di facile bevuta. Un vino che va gustato giovane per non perderne l’aroma fresco, di frutta non ancora matura, a volte con sottile tendenza floreale.”

Rimasi onestamente stupefatto. Ne hai tratto le stessi conclusioni che ne trassi io, non è vero? “Cosa devo fare?”-“Fai in modo che la tua ninfetta non sia più fanciulla, ed il gusto del suo sangue si guasterà”. Scoppiai a ridere, chiudendo sonoramente il libro. Sulle meravigliose labbra della Veggente aleggiava un sorrisetto.

-Siete contento, vero? Avevo ragione?-

Annuii, senza riuscire a smettere di ridere.

-Allora rispondereste ad una mia curiosità? Siete etrusco. La scorsa volta che ci vedemmo faceste una battuta sulla pratica dell’aruspicina. Vi fate chiamare Aro. Ogni volta che interrogo le carte, esse si riferiscono a voi tramite la figura del Mago. Eravate un aruspice?-

Ah, Sulpicia, sai quanto mi diverto a spargere indizi ed indugiare sui giochi di parole. E sai quanto adoro la gente che li coglie. Battei le mani.

-Proprio così. Il politico, il guerriero e il sacerdote: questo eravamo Marcus, Caius ed io.- Non riuscii ad evitare di pensare come il ruolo mio e quello di Marcus si fossero capovolti col tempo, come io sia dovuto divenire il politico e lui il santo; ma non importa, è la triade che deve essere conservata, indipendentemente dai singoli ruoli da noi assunti.

Parve deliziata.

-Sapreste farmi un vaticinio?

Pensai stesse celiando.

-Mi servirebbe un fegato, mio splendido corvo del malaugurio!-, Risi.

Lei ammiccò verso il pallido giovane accasciato sul tavolo. –Ma noi ce l’abbiamo, un fegato. È quello di una vittima sacrificata per placare la nostra sete. Oh, suvvia, Aro l’aruspice: solo un vaticinio, uno piccolo!-

Devo riconoscere, mia amata, che La Veggente sapeva come prendermi. Come fabbricare, abile meccanico, situazioni che mi divertissero. E non potei dirle di no.

Rovesciai il giovane sulla sedia e con le unghie feci un taglio preciso sul suo addome, estraendo il fegato piacevolmente caldo e posandolo sul tavolo. Lei sorrideva affascinata: sadica e perversa, mi piaceva. Lo esaminai nell’antico modo, non ho bisogno di spiegarti procedimenti che conosci già, poi alzai lo sguardo, soddisfatto.

-Bene, mia cara. Le vostre azioni andranno a buon fine, otterrete ciò che vorrete, ma comunque non saprete che farvene. Perciò guardatevi da una donna decisa a riprendersi ciò che avete ottenuto, perché per voi non erano che capricci, mentre lei sarà disposta a tutto. Per il resto, come direbbero oggi, il fegato si presenta sano e non vi riscontro patologie di sorta, cosa che un po’ mi stupisce visto il tipo di vita che conduceva questo ragazzo… ah, le meraviglie della giovinezza!-

Lei era pensierosa, pareva soppesare le parole che le avevo rivolto. Forse si stava chiedendo se le avevo mentito, o se le avevo omesso parte della verità; io me lo sarei chiesto. Comunque, Sulpicia, non le avevo mentito: perché avrei dovuto? Non è molto più divertente mettere in guardia qualcuno e stare ad osservare gli sforzi che fa per difendersi, od anche solo sapere che ci penserà ogni volta che le sue preoccupazioni lo assilleranno?

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Capitolo 10
*** Una storia per Sulpicia - Seconda parte [Aro] ***


UNA STORIA PER SULPICIA

-Seconda parte-

 

 

 

 

Sta di fatto che la lasciai in quel luogo di limbo a pensare alla sua profezia ed a chiedersi da quale donna avrebbe dovuto guardarsi e tornai alla nostra dimora, pianificando la mia prossima mossa.

Semplice eppure perigliosissima: capire quanto, in questo secondo millennio dopo la nascita di Cristo, una fanciulla vergine è ansiosa di non essere più tale. Non una fanciulla vergine, anzi: quella fanciulla vergine. E per saperlo in fretta e con precisione l’unico modo è farmelo rivelare dalla sua stessa mente, con il non indifferente ostacolo che sarei dovuto avvicinarmi alla ninfetta tanto abbastanza da poterla toccare.

Ponderai di avvicinarla durante la notte in modo da trovarla ferma ed addormentata, ma scartai l’idea: la tentazione poteva farsi troppo forte, il desiderio irresistibile. Mi risolsi così a farmi trovare di nuovo sotto la sua finestra, come il più sciocco degli amanti, durante una giornata grigia: avrei potuto attrarla al mio fianco e la presenza di altri mortali avrebbe costretto il mio autocontrollo a non cedere. Furono i giorni in cui mi procurai un completo elegante e ti dissi che avevo deciso di passeggiare per la città come un semplice umano, li ricordi? Era passato così tanto dall’ultima volta che l’avevo fatto che nessuno avrebbe potuto ricordarsi di me.

Così feci. Attesi una giornata nuvolosa, che per mia fortuna giunse presto dopo giorni di bel tempo, e mi sedetti su una panchina posta di fronte alla finestra della ragazza, leggendo uno degli orribili romanzetti di Chelsea per passare il tempo (avevo scelto “Intervista col vampiro”, e pensa che cosa buffa: vi è un personaggio simile a Jane, ed uno simile ad Edward Cullen!). Non dovetti attendere molto prima di vederla gettare un’occhiata annoiata fuori dalla finestra, notarmi, e ricomparire sul portone d’ingresso della casa, diretta verso di me. Sfacciate, davvero, queste fanciulle d’oggi.

Mi ero ben nutrito, e smisi di respirare. La piazzetta non era deserta, le vie attorno neppure, davanti ad un piccolo bar poco distante vi erano dei mortali che fumavano sigari e parlavano di partite di calcio. Alzai gli occhi e le sorrisi, in modo che le mie parole non risultassero brusche.

-Prego? Hai bisogno di qualcosa?- Le dissi. Sul suo viso si dipinse un ombra di preoccupazione. Era arrivata fin lì senza saper bene cosa dire, ed era in difficoltà. La vidi mordicchiarsi il labbro, per poi riprendersi agilmente.

-No, è che ti vedo sempre qui, però non sei di Volterra. Sei in vacanza?-

Questa abitudine di rivolgersi agli sconosciuti in tono così colloquiale mi ha sempre disturbato, Sulpicia. Lo sopporto in lingua inglese poiché non può essere diversamente, ma non lo tollero in altre lingue e soprattutto non in italiano. Eppure dovetti far buon viso a cattivo gioco perché lei non era che una giovinetta e vedeva in me una persona evidentemente abbastanza giovane da non meritare neppure la terza persona.

-Diciamo di sì, in vacanza; e tu invece abiti qui, non è vero…- M’interruppi. Termini come “tesoruccio” o “carina” non erano adatti e proprio non me ne venivano in mente altri. Per mia fortuna lei interpretò questa mia incertezza come una richiesta di presentazioni, e mi tese la mano.

-Chiara-, Disse stringendomela.

Chiara aveva sedici anni di vita ed una mente così vacua che mi ci volle davvero poco a trovare ciò che cercavo. Nella fattispecie una sorta di fidanzatino che lei sentiva di amare follemente e che reputava l’uomo perfetto: fico, simpatico e sensibile (sic!). Lei lo amava tanto, eh, però aveva visto in giro uno che era il ragazzo più fico che ci fosse sulla terra (questo sono io Sulpicia, e spero tanto che il parere di Chiara coincida con il tuo) e doveva almeno provare a conoscerlo, solo conoscerlo non era tradimento, lei non avrebbe mai tradito Gianma (il ragazzino di cui sopra, poichè la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni) perché lo amava tantissimo (ripetitiva, adorabile Chiara) e sicuramente sarebbe stato quello con cui fare l’amore per la prima volta (lupus in fabula!) perché lui ci teneva davvero a lei, non come quello stronzo di Dedo (non me la sono sentita di approfondire oltre, non ero certo che avrei retto senza scoppiare a ridere), e anche lei lo amava un casino (onestamente la faccenda stava iniziando a diventare noiosa). Comunque io ero veramente un gran fico. Segnatelo, mia amata, ché voglio sentire questo termine triviale pronunciato dalle tue labbra delicate.

-Fosco-, Mi presentai trattenendo la sua mano nella mia quel tanto che bastava per trovare ciò di cui sopra. Sì, il gioco di parole è atroce, ma mi venne in mente quello e tanto non ha importanza.

-Che nome strano!- Esclamò lei. Sorrisi. –Nomen omen-, Ribattei, ma il suo sguardo smarrito mi suggerì che il latino non era incluso tra le materie che questa ragazza studiava nella vita.

Poco male. Dovevo andarmene, perché ogni volta che parlavo mi sembrava che il suo sapore m’inondasse la bocca, raccolto nella semplice aria che usavo per questa banale funzione. Benedissi gli uomini fuori dal bar e le loro vivaci bestemmie, che mi ricordavano continuamente che non potevo permettermi alcun cedimento. Così consultai l’orologio e composi un’espressione preoccupatissima, per poi alzarmi.

-Oh, com’è tardi! Devo andare…- La sua espressione era delusa. Stava per dirmi qualcosa ma non glielo permisi, evitando che le venissero in mente sciocchezze tipo “scambiamoci i numeri di telefono” et similia. Mi voltai rapido, per poi rivolgerle un cenno di saluto. –Arrivederci, Chiara!- Mi sembrò che andasse bene. La sventurata rispose, entusiasta.

 

So bene, Sulpicia, che le profezie nefaste si possono evitare, e chi afferma il contrario è uno stolto. La guerra di Troia non sarebbe scoppiata se Priamo avesse avuto il coraggio di uccidere Paride, ed avrebbe avuto un diverso esito se Cassandra fosse stata ascoltata.

Solo che le profezie scongiurate non vengono tramandate: se Cesare si fosse guardato dalle idi di marzo la congiura a suo danno non sarebbe stata che una riga negli annales. Ed io non avevo alcuna intenzione che si parlasse della caduta di Aro dei Volturi.

Così  non mi restava che vedere se le profezie della Veggente potevano essere scongiurate, e l’unico modo per verificarlo era fare sì che la vergine Chiara non fosse più tale. E se questo non fosse bastato, Sulpicia, ebbene, avrei trovato un altro modo: andarmene da Volterra per almeno un secolo, o non uscire dalle mie stanze per il medesimo periodo di tempo; eppure, non sopportavo questa idea. Nella mia esistenza non sarebbe cambiato nulla, ma io mi sarei sentito prigioniero, ed io detesto che qualcuno o qualcosa mi obblighino a piegarmi ai loro voleri. Sono io quello che obbliga gli altri, mia amata, e non viceversa. Ma non aveva senso pensarci ora: un problema alla volta, mi dissi.

Esclusi naturalmente l’ipotesi di prenderla io stesso, giacché so perfettamente che non sarei mai e poi mai riuscito a non ucciderla nel tentativo. Mi trovai a ponderare l’idea di farla prendere per forza da qualcuno, c’erano in ballo il mio regno e la mia stessa vita ed una risoluzione così truce mi avrebbe lasciato senza alcun senso di colpa; ma, mi chiesi, e se questo atto avesse messo in moto la profezia? Avrei forzato il destino introducendovi un elemento estraneo, che per di più sarebbe nuociuto alla fanciulla, e non potevo rischiare di far avverare la profezia con un maldestro tentativo di evitarla. L’unica alternativa rimaneva Gianma (presumo si chiamasse Gianmaria, o almeno lo spero per lui), ma come convincere il ragazzino sensibile et simpaticissimo a cogliere rapidamente il delizioso fiorellino? Ci pensai per qualche giorno, inquieto, senza trovare soluzioni che non mi esponessero troppo. Infine ripensai a lei, non Chiara, la Veggente, perché era l’unica che già sapeva.

 

Mi recai alla via in cui, ormai sapevo, avrei trovato la Veggente; a questo punto della storia è inutile mentire, mia amata, o fingere che mi ci trovai davanti per caso. Mi recai dunque là di proposito, ben consapevole del fatto che avrei dovuto chiederle aiuto ed oltremodo indispettito per il fatto medesimo.

Questa volta all’angolo vi era una sorta di delizioso negozietto dagli scaffali stipati di nugae e chincaglierie. Lei stava dietro al bancone e davanti ad uno scaffale di bambole sembrava una bambola ella stessa, con i perfetti boccoli color del cioccolato azteco ed una maschera in velluto verde con un fiore applicato a un lato, costellata di ricami in filo argentato, ed un corpetto di broccato d’un intenso color smeraldo ricamato a foglie d’argento.

Non appena la porta annunciò il mio arrivo con un delicato scampanellio lei ricompose nel mazzo le carte disposte sul banco, accennò un saluto chinando la testa e cominciò subito a parlare.

-Pare che la questione sia piuttosto seria-, Esordì. –Ma se è il mio aiuto che vi serve dovete per forza dirmi qualche cosa di più: vedo che la minaccia è una donna e il desiderio che avete per lei, mentre il futuro è ancora incerto: riuscirete nelle vostre imprese se avrete audacia e sarete nel vostro diritto. Solo non capisco in quale modo una donna possa farvi infrangere le vostre regole, tra le quali non mi sembra contemplata una pena per l’adulterio; sapete? Ci sono anch’io nelle carte: una donna più forte di voi che vi porterà aiuto.-

Non perdetti tempo a rimanere perplesso, Sulpicia, non più; in tutta questa storia, avrai capito, ero ormai oltre la perplessità. Perfino la sua impudenza mi risultò divertente.

-Sorvolerò su quel, come avete detto? Essere più forte di me, adorabile bambolina-. Alzai la mano per bloccare le sue parole. –Lo so, volete specificare che le vostre parole non erano da intendersi in senso assoluto ma erano riferite alla specifica circostanza; in altre occasioni vi consiglierei di pensare bene alle parole prima di pronunciarle, ma ora non c’è alcun motivo di formalizzarsi. Dunque.-

Girai intorno al bancone, fino a raggiungerla dietro di esso. L’abito si apriva in una gonna color verde bottiglia, di tulle, simile a quelle delle ballerine, indossava calze di seta trattenute da un reggicalze e deliziose scarpette da ballo argentate.

-Non è la donna il pericolo, né l’adulterio; è il suo sangue di fanciulla. Ho motivo di credere che, qualora la fanciulla non fosse più tale, il suo sangue si guasterebbe ed il suo odore sarebbe per me allettante ma non più di altri. Va da se’, mia adorabile ballerina, che non ritengo prudente forzare l’evento facendo sì che qualcuno la prenda per forza. Il discorso cambierebbe se fosse lei a concedersi, traendone il giusto piacere.-

-Lei a concedersi, dite? Dunque…- Si picchiettò il dito indice sul mento, pensierosa, le labbra color fragola imbronciate in un’espressione concentrata.

-Potrei avere qualcosa che fa al caso vostro, qui. Lei si concederà alla persona a cui è più vicina sentimentalmente, voi escluso e parenti esclusi, parenti stretti intendo. Però è merce costosa, perché è unica. Devo barattarla con qualcosa di unico. Avete idea di cosa offrirmi?-

-Niente cose materiali, giusto?- Le dissi sorridendo, perché ormai conoscevo il gioco. Lei annuì.

-Potreste donarmi il vostro nome. Dopotutto sono millenni che non lo usate più.-

Rimasi stranito dalla peculiare richiesta.

-Il mio nome? Questo solo vi basta?-

-Potrei dirvi che sì, sono generosa, in fondo non è che un piccolo dono senza importanza, ma sono vincolata a giocare in modo pulito. Non è un dono di poco conto, è il vostro vero nome, e lo donereste a me. Non lo ricordereste più né voi né i vostri fratelli, o vostra moglie, o i vostri amici e sottoposti. Mi apparterrebbe.-

La fissai intensamente e lei sospirò, spiegandomi ciò che intendeva.

-Non sottovalutate la vostra natura e quello che significa vivere per sempre: potete dire di ricordare com’era la consistenza della vostra carnagione mortale, l’odore dei vostri capelli, il colore degli occhi? Cosa vi piaceva mangiare, cosa bere, com’era fare l’amore? No, certo, o almeno non tutto, e forse penserete che non v’interessa. Ma con i vostri ricordi il mortale di un tempo si sgretola, e prima o poi di quella umanità non rimarrà che il nome dell’uomo che eravate. Se mi donerete il vostro nome il giorno in cui cercherete quel mortale non troverete null’altro che Aro dei Volturi. Siete consapevole di questo?-

Risi. Un nome! Uno sciocco nome, il nome di un mortale che non esiste più da tre millenni in cambio del mio impero, un nome che probabilmente non ricordava più nessuno a parte me e te… toglimi una curiosità, Sulpicia, e pensaci adesso: tu riesci a ricordarlo? A pronunciarlo ad alta voce, a scriverlo sui margini di questa pergamena? Eppure dovresti. Ed io certamente lo ricordavo, quel giorno.

-Vi dono il mio nome, se è questo che chiedete. È già come dite: esiste solo Aro dei Volturi.-

Presi il suo viso tra le mani e glielo sussurrai all’orecchio. Sospirò, con un brivido.

Poi mi trattenne la testa contro il suo orecchio, affondando le mani nei miei capelli e guidando la mia bocca sul suo collo sottile. La sollevai fino a deporla a sedere sul bancone, e lei mi cinse i fianchi con le gambe attirandomi a sé.

-Quando dicevo di essere più forte di voi-, Mi sussurrò con voce roca, - ero assolutamente seria.-

Non persi tempo a controbattere una tale sciocchezza piazzata ad effetto. Ero impegnato a fare altro.

 

Allora, mia amata, non vuoi sapere cosa mi ha dato la Veggente?

Sulpicia!

Sei una signora, suvvia, certe battute volgari non ti si addicono proprio! Chiedo venia, te l’ho servita su un piatto d’argento, ma insomma, contieni i tuoi pensieri! Non vedo l’ora di averti sotto le mie mani, mia amata. Non sai quanto sia divertente questo pensiero, e quanto mi ecciti questo desiderio.

Comunque fu una bottiglietta di profumo l’oggetto che mi porse, e mi sarebbe bastato che Chiara l’annusasse per scatenare l’effetto voluto. Contenuto in una fiala d’alabastro di meravigliosa fattura, tipica di Volterra, come quelle che si usavano un tempo per contenere gli unguenti profumati. Come una delle tante che regalai a Didyme, simile in tutto e per tutto ad una che lei preferiva e che perdette, lasciandola scioccamente in giro durante un convegno d’amore. Di nuovo, Sulpicia, una bizzarra coincidenza, non trovi? E due coincidenze fanno un indizio, diceva quel famoso investigatore. O erano tre?

Non importa. Guardai gli oggetti sparsi sugli altri scaffali: una rosa gialla sotto vetro, le bambole di porcellana, una scacchiera d’ebano e alabastro con i pezzi in posizione di partenza, un kimono rosso di seta. Nessuno di questi aveva l’aria familiare.

 

Immediatamente mi recai da Chiara: pensai che potesse valere la pena di battere il ferro finché era caldo; non c’era motivo di non essere impazienti fintantoché ancora riuscivo a controllare la mia sete. Volevo solo soddisfarla o dimenticarla: impossibile assuefarmici. In questo, lo ammetto, Edward Cullen è stato davvero più bravo di me.

Riutilizzai la panchina, su cui notai una nuova scritta in colore rosso fiammante: “Fosco was here”. Se mai un vampiro può morire, mia amata, in quel momento rischiai seriamente di morire dalle risate.

Ero nel punto del libro in cui la piccola e adorabile Claudia manipola così abilmente il suo amante ai danni del loro affascinante comune creatore, reo ai suoi occhi di averle sottratto la mortalità quando non era che una bambina (Jane non sarebbe mai così sciocca, a onor del vero, e comunque sono io l’amante di Jane, quindi non possono esservi parallelismi), quando sentii il suo odore.

Rischiai di cedere, per colpa di quello sciocco romanzetto che aveva catturato la mia attenzione distraendomi. Per un attimo vidi solo il sangue rosso fluire da lei come da una ferita, irresistibile, ma qualche occupante del bar pensò bene di iniziare una conversazione in dialetto stretto a voce altissima e mi riportò con i piedi per terra. Benedetto sia quel mortale.

Probabilmente Chiara era di ritorno a scuola, visto lo zaino colorato che portava in spalla. Nel vedermi s’illuminò e corse verso di me.

-Ciao Fosco!- Esclamò vivace. Mascherai il disappunto che mi assaliva ogni volta che si rivolgeva a me con quel tono colloquiale, e sorrisi.

-Buongiorno Chiara!- Le risposi. Lei si mordicchiava le unghie, come al solito un po’ imbarazzata. Prima che se ne uscisse con qualche vacua stupidaggine presi in mano io la situazione.

-Sai, oggi mi è stato regalato questo…- Le mostrai la fialetta, confidando nel fatto che lei non capisse il valore di un simile oggetto. –È un profumo da donna ed io non me ne farei nulla, naturalmente. Prendilo tu!-

Sorrise come se le avessi offerto l’immortalità. Ringraziandomi prese la fialetta e l’aprì, annusandone il contenuto. Ho fatto un bingo, pensai. È così che si dice, Sulpicia, “ho fatto un bingo”?

-Buono!-, Esclamò. Lo sguardo le si appannò leggermente, talmente leggermente, mia amata, che forse me lo sto solo immaginando.

-Chiara, o che ci fai lì? L’ è cotta la pasta!- Gridò una donna, la madre suppongo, dalla finestra. Una donna che a quanto pare non fa altro che cucinare tutto il giorno, direi. La ninfetta mi guardò con rammarico, io colsi l’occasione per salutarla ed andarmene.

 

E poi attesi. Attesi vari soli senza mai uscire dal nostro palazzo, per essere sicuro. Attesi perché, in una parte della mia mente, temevo di scoprire che la Veggente mi aveva imbastito una storiella stupida a cui io avevo dato fede, magari allo scopo di trovare un mio punto debole a beneficio di chissà quale dei miei nemici, Chiara era ancora la mia cantante ed io dovevo venire a capo di questo complotto senza sapere da che parte incominciare e con la sottile convinzione che la profezia fosse reale.

Fino a che non ne potei più di attendere e per l’ultima volta raggiunsi Chiara.

Stavolta non avevo con me il libro, che avevo terminato di leggere (ora devo procurarmi il seguito, perché Chelsea dice che il protagonista è l’affascinate creatore della bambina, la quale tra parentesi muore… non volevi leggerlo, Sulpicia, vero?) ed attesi nascosto nelle ombre, senza mostrarmi, pronto a fuggire al primo accenno di dolcissimo odore di sangue.

Ma poi lei attraversò la piazzetta. E potei sospirare, riempirmi la gola di quel sospiro di sollievo: era finita. Un buon odore, nulla di particolare. Heidi ne cattura di meglio perfino quando non s’impegna. Per esserne certo mi avvicinai a lei passeggiando lentamente, ed addirittura mi arrischiai ad attirare la sua attenzione.

-Chiara!-, La chiamai. Lei saltellò verso di me.

-O Fosco! Ciao! Come stai?- Stavo splendidamente. Nessun effetto. Ed era ora che Fosco se ne andasse; non sarebbe neanche dovuto esistere, ed era stato anche troppo su quella panchina, come decretava insindacabilmente la scritta rossa.

-Molto bene, davvero! Nonostante le mie vacanze siano finite. Ma è stato un vero piacere conoscerti!- Le tesi la mano e lei me la strinse, dicendo qualcosa del tipo: -Di già? Che peccato, ma torni?-

Oh, l’aveva persa eccome la verginità, Sulpicia. Ma non con Gianma, no, con Dedo (non riesco davvero ad immaginare come possa chiamarsi in realtà), che lei non era mai riuscita a dimenticare nonostante l’avesse tradita con quella troia della Francesca (sic!). Ed il giorno dopo, presa dai sensi di colpa, aveva ripetuto la performance con Gianma, per poi lasciarlo perché aveva capito che in realtà amava di più Dedo. Voi donne, mia amata, siete meravigliose. Siete dipinte dalla mano di Dio, e non capisco come facciate ad amare così tanto degli uomini come noi. Meno male che non sono mai stato un brav’uomo, Sulpicia, altrimenti come avrei potuto continuare ad affascinarti così tanto dopo tremila anni?

Mi congedai da Chiara quasi con rammarico, ora che quella bambina non era più un pericolo. Chissà come procedono le sue vicende amorose; magari tra qualche tempo Fosco ci tornerà, in vacanza a Volterra.

 

Qualche giorno dopo, ricordi, la Veggente mandò un biglietto con il quale comunicava ufficialmente che la sua permanenza a Volterra sarebbe terminata al sorgere della luna. Con la scusa di controllare i suoi movimenti la raggiunsi a sera, a Porta dell’Arco; Renata mi seguì in qualità di guardia del corpo.

Stavolta non portava alcuna maschera; indossava una veste bianca lievissima, che pareva intessuta di luce lunare, ed i suoi capelli candidi fluivano lisci sulle spalle minute, appena trattenuti da una sottile tiara di platino. Aveva zigomi affilati e labbra pallide, ed i liquidi occhi rosso vivo orlati da lunghe ciglia bianche parevano essere l’unica nota di colore in un disegno bianco e argento. Nel vedermi sorrise e s’inchinò; feci cenno a Renata di rimanere dov’era e mi avvicinai a lei.

-Ho consultato le carte, e il vostro destino è cambiato: potere, amore, ricchezza, le solite cose. Niente caduta; la ruota ha girato di nuovo.-

-E devo ringraziare voi, bellissima-, Le dissi baciandole la mano. Rise.

-La prossima volta che mi vedrete, se vi sarà una prossima volta, dovrò stare attenta a non farmi baciare da voi, perché come da patti i vostri poteri funzioneranno di nuovo su di me. Mi avete predetto il futuro e donato il vostro nome: non c’è alcun debito tra noi e nessun patto è stato infranto. L’equilibrio è rispettato.-

Annuii. Pareva obbedire a leggi tutte sue, Sulpicia, questa donna affascinante. Mi sarebbe piaciuto davvero sapere quali.

-La prossima volta vi unirete a me?-, Proposi ancora una volta.

-No, perché non vi appartengo-, Rispose con grazia.

 

 

Su congedò da me con un inchino, lanciandomi un bacio con due dita.

Renata la fissava furibonda, i denti scoperti. Ricambiai il bacio della Veggente e la guardai uscire dalla Porta dell’Arco, argentea alla luce della luna. Mi concessi il tempo di vederla scomparire, di ripensare a questa bizzarra vicenda che già mi sembrava sfumare come un tempo facevano i sogni al mattino, e presi la decisione di raccontarti questa storia affinché sia tu a ricordarla per me.

Poi concessi attenzione al mio scudo.

-Renata, che c’è? Calmati, dunque. Va tutto bene, e questa reazione è totalmente fuori luogo!-

Lei chinò il capo.

-Chiedo perdono, Signore, ma… Perdonatemi… quella donna: avete avuto commercio con lei? Le avete donato qualcosa, promesso qualcosa?-

Non avevo certo voglia di parlare della vicenda e sicuramente non con Renata. Quindi negai.

-È solo una donna che ha chiesto il permesso di stare qualche giorno a Volterra, l’ha ottenuto, e ora se ne va. Che ti succede, tesoruccio?-

-Perdonate, signore… quella non è una di noi.-

Scoppiai a ridere. –Cosa cerchi di dire? Riesci a spiegarmelo o preferisci che capisca da me quello che intendi?-

-Come desiderate, Signore.-

Sembrava smarrita, così le accarezzai il volto.

La mente di Renata, Sulpicia, presenta figure dai colori vividi stagliate su sfondi cupi. Sentii gli echi delle leggende della sua isola, storie di minuscole fate che a volte scendevano nei villaggi dalle loro dimore di pietra e ballavano con i contadini al suono delle launeddas. Le vidi come le immaginava lei, con la pelle luminosa per rischiararsi la via, vidi le più crudeli tra loro succhiare il sangue dei giovinetti, le vidi fingersi umane. Sentii il turbinio preoccupato dei suoi dubbi: se esistono vampiri e uomini lupo, perché non le fate? Se esistono nella sua isola, perché non in altri luoghi? Se potevano farsi passare per umane, perché non per vampire? Su di loro vi era tanta mitologia quanta ve ne era su di noi, dopotutto: potevano essere tutte fole?

Come aveva identificato la Veggente in una fata? Non lo sapeva, le era venuto istintivo e mi aveva messo in guardia. Aveva ragione? Non lo sapeva, potevano essere sciocchezze e spero che Aro, il mio Signore, non si arrabbi.

Le depositai un bacio leggero a fior di labbra.

-Non mi arrabbio, Renata, ma credo che la tua immaginazione sia troppo fervida. Non temere, tesoruccio. Quella era una vampira, come noi, e adesso se n’è andata.-

Lei annuii, poco convinta. E dico il vero, sono poco convinto anch’io.

 

E così, mia amata, finisce questa storia. Tuttavia avevo promesso di darti qualcosa che tenesse la noia lontana da te, e sarei un ben misero fabulatore se il mio tentativo si esaurisse con l’ultima pagina di questa pergamena.

Dunque voglio che tu la rilegga, e poi ancora e ancora, senza mai neppure posarla, fino ad averne in mente ogni dettaglio. Neanche allora poserai questi fogli: accenderai una candela ed, uno dopo l’altro, li brucerai.

Lo farai perché nessuno sguardo tranne il tuo vi si possa posare sopra, e nessuna mente tranne la tua possa custodire questa mia favola; lo farai perché te lo sto ordinando e saprò di certo se il mio ordine è stato eseguito o meno.

Ridurrai queste carte in cenere, e continuerai a bruciarle fino a scottarti la punta delle tue adorabili, piccole dita.

A questo punto sarai sola nella nostra stanza, e so bene cosa farai: ti chiederai quanta verità è contenuta in questa storia e quanto è mia invenzione; se io abbia semplicemente usato una bella donna venuta a chiedere udienza come spunto per inventare un racconto di fate, vampiri e sangue, se ogni parola sia testimonianza fedele di accadimenti reali, o se le cose siano state mescolate. Se davvero io sia riuscito a resistere alla mia cantante o se abbia ceduto, e con quali conseguenze.

Se io ricordi il mio vero nome, perché sono pronto a scommettere che tu l’hai dimenticato, e magari fino a qualche istante fa eri convinta che ciò non sarebbe mai successo.

So anche che sai che non risponderò a queste domande, lasciandoti come sempre ad interpretare ogni mio più minuscolo gesto, e sai quanto mi divertirò ad affondare nel gorgo i pensieri che la tua mente così splendida sta producendo.

Sulpicia, mia amata, non vedo l’ora!

                                                                                                                                                    Aro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note finali: alè! Ho iniziato a scriverla quest’estate, ‘sta storia, e finalmente (finalmente?) vede la luce!

Dal momento in cui ho deciso che doveva essere scritta in prima persona, Aro si è impossessato di me. Ha cominciato a flirtare spudoratamente con la tizia (giuro, non l’avevo previsto). Ha scoperto che la sua cantante era una bimbaminkia (tiè!). Si è messo a leggere i libri della Rice e poi ha spoilerato il finale a sua moglie. Cita impunemente i film di Tarantino (“Ho fatto un bingo! Si dice così, ho fatto un bingo?”). Fa orribili giochi di parole. Insomma, come al solito ha fatto tutto ciò che voleva lui. E, se qualcuno si stesse chiedendo se alla fine questa storia è vera o no, beh… non ne ho idea: non me l’ha mica detto!

La mega soddisfazione? Che, nel suo giudizio, storyteller lover ha scritto: in questa storia ci troviamo di fronte ad Aro in persona”.

 

Se qualcuno è riuscito ad arrivare fin qui, lo ringrazio!

E ringrazio tanto:

Luna95: come vedi, nel mio tuailàit-mondo a Volterra i giochetti di parole vanno di moda! Grazie per i complimenti, sei sempre troppo gentile!

Zenobia_vampire: Demetri ed Heidi li si immagina solamente a letto perché, parole di Demetri, “io ci giocherei a Trivial Pursuit con Heidi, è che dopo un po’ mi deconcentro”! L’immagine di Renata che svia Felix col suo potere è…è… oddio! Troppo carini, sì! Ed anch’io adoro Afton e Chelsea. Follemente.

OttoNoveTre: E parliamo degli etruschi con i nomi romani? Io la risolvo cambiandoli tutti. Oltretutto qui, come vedi, cambio il nome pure all’unico che almeno aveva un suono etrusco! E’ che un etrusco di nome Aro, vuoi che non gli faccia avere un passato da aruspice? Me lo vedo troppo col fegato di Piacenza sotto il banco durante le verifiche!

 

 

 

 


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Capitolo 11
*** Seven - Accidia [Marcus] ***


 

 

SEVEN

 

I – Accidia

 

-Mi spiegate che cazzo è st’accidia? Quando uno è acido, tipo come Jane?-

Marcus si bloccò, la mano tesa verso la maniglia della porta della biblioteca. Aro gli aveva detto qualcosa del genere, in effetti: Chelsea e Renata si erano messe in testa di acculturare Felix, e si trascinavano dietro Afton che aveva accettato solo perché non vedeva motivi validi per non farlo.

L’ informazione, come al solito, era volata via dalla sua mente. Per ritornarvi solo ora che voleva andare in biblioteca, e voleva stare solo.

Attraverso la porta chiusa gli giunsero la risata vivace di Chelsea e la voce di Renata: -Ma no! L’ accidia è indifferenza, negligenza, avversione all’operare mista a noia, tristezza, melanconia!-

-Ah! Allora come Marcus!-

Marcus s’irrigidì. A malapena udì Chelsea che, al solito, lo difendeva a spada tratta, definendolo pacato, calmo, sicuramente triste e certamente melanconico, ma non accidioso.

Felix diceva il vero. Ritrovava la sua condizione in tutto ciò che affermava Chelsea, ma poi in quello stato d’animo si era adagiato, fino ad impantanarsi in esso. Alla sua Dydime non sarebbe piaciuto affatto l’uomo che era diventato, non alla sua adorata svampita felice.

Pensò che doveva assolutamente sforzarsi di uscirne. Da domani avrebbe cominciato a fare qualcosa. Forse.



















Note:
la fiction è nata per il concorso “Seven Deadly”, indetto da Addison89 sul forum di EFP. Io mi ci sono trovata come una grossa anatra nello stagno. E non sono riuscita a resistere alla tentazione di chiamare la raccolta “Seven” come il film (a giugno in 3D nei cinema, con Brad Pitt nel ruolo di Afton! Non è vero, scherzavo).

Già, perché questa è una raccolta. Vi aspettano altre sei flash fiction con gli altri peccati, siete contente? Dovete dire “sì”!

Passiamo alla storia: Dydime l’immagino piuttosto svampita, in quel modo che in genere la gente trova adorabile e che io, personalmente, odio. Se non fosse svampita dura non si spiegherebbe come ha fatto in secoli e secoli a non capire che suo fratello è pazzo, né come abbia fatto a farsi ammazzare da lui… Dydime è un personaggio che mi piace poco. Fortuna che ci ha pensato il buon Aro!

La definizione “made in Felix” dell’accidia è di un mio amico, che ribatté “Come mai ti senti acida?” al mio “oggi sono accidiosa”.

Ed in quanto accidiosa DOC so perfettamente che il modo peggiore di indulgere in questo peccato è rimandare, così passano giorni e mesi senza aver concluso un tubo.

Infine, peccaminosi ringraziamenti a:

Addison89 per il giudizio su questa mini raccolta; ti è piaciuta l’ironia, e ti ringrazio tanto. E’ il complimento che preferisco!

Tutti quelli che hanno messo queste storie tra le preferite o le seguite o quelle da ricordare, perché sono contenta che i miei cattivi adorati vi piacciano!

Storyteller lover: grazie per le bellissime parole, è bello avere conferma di essere IC!

Zenobia_vampire: concordo, Aro è un figo assoluto. E concorda anche Aro. Che è diventato anche lui un fan della Rice, però non lo ammette!

OttoNoveTre: il tuo commento mi ha fatto morire! Giuro che non ci avevo pensato, volevo un nome semplice ed all’inizio avevo pensato a Sara, ma poi il gioco di parole stupido non veniva. Beh, dai, la tua omonima ha incontrato Aro, pensa che culo(?). Sono contenta che il mio Aro ti sia piaciuto!

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Capitolo 12
*** Seven - Avarizia [Afton] ***


 

 

SEVEN

 

II – Avarizia

 

Lei l’aveva rubato alla Nera Signora mentre stava morendo di peste, e lui non l’aveva neppure ringraziata perché se così era stato evidentemente era scritto che così dovesse essere.

Lei l’aveva raccomandato presso i suoi Signori affinché potesse continuare a ricoprire un ruolo di prestigio, come lo ricopriva a casa sua nelle Highland, e lui a malapena aveva notato il suo sorriso ed i suoi splendidi riccioli.

Lei era attenta ai suoi stati d’animo e gli si offriva nel letto ogni volta in cui pensava che lui potesse averne bisogno, e lui non sapeva cosa farsene del chiacchiericcio e della vivacità di quella donna.

Poi un giorno lei l’aveva affrontato a muso duro, sopracciglia aggrottate e mani sui fianchi.

–Sei avaro come tutti gli uomini della tua terra, Afton. Sei avaro di parole, pensieri e sentimenti; strano, la Morte che ti piace così tanto è talmente generosa!-

E allora lui l’aveva guardata per la prima volta ed ascoltata per la prima volta, ed a forza di guardarla ed ascoltarla si era reso conto di non poter più fare a meno di lei.

Di quella donna generosa come la Morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:  Afton è un Highlander perché:

-il nome è scozzese

-gli scozzesi sono avari per antonomasia

-è troppo bello immaginarselo mentre dice “ne resterà soltanto uno” con espressione fatalista e tono di voce rassegnato. O, in alternativa, “Gli inglesi potranno toglierci la vita, tanto prima o poi dobbiamo morire tutti”.

Ho pensato che l’epidemia di peste del 1300 che ha coinvolto un’ Europa già provata da carestie, mini glaciazioni e amenità simili fosse lo scenario ideale per il background di uno che ha come potere quello di far credere alla gente di starsi decomponendo.

E un inutile appunto: credo che questi due stiano diventando la mia coppia preferita di Twilight!

 

Millissime grazie a tutti, e particolarmente a:

Bella_kristen: Grazie mille! Spero che ti piacciano anche i miei Chelsea e Afton… sono una coppia stranissima ed ho un vero debole per loro!

Zenobia_vampire: Mi hai dato un’ottima ragione per farmi stare simpatica Dydime: perché è morta! Anche se a rigor di logica sono morti anche gli altri… Come vedi, eccoti due membri della guardia in un “tenero” momento della loro love story, spero che li apprezzerai!

Storyteller lover: Grazie, sono contenta che ti sia piaciuta l’impostazione della mia “accidia”! Come vedi questa è un’ avarizia un po’ strana, ed è stata scritta di cuore più che di testa… spero ti piaccia comunque!

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Seven - Gola [Corin] ***


SEVEN

 

III- Gola

 

Quando era ancora di tenera e fragile carne mortale, pareva che Corin avesse l’intenzione di assaggiare tutto il mondo.

I cibi raffinati dei nobili e quelli poveri dei contadini, le spezie dell’India e gli esotici prodotti delle Americhe, ogni tipo di vino, liquore e distillato; tutto ciò che si poteva mangiare, bere o fumare era passato attraverso le sue labbra e la sua gola. Aveva assaggiato sostanze sopraffine e altre disgustose, che nutrissero, ubriacassero o fossero capaci di dare visioni.

Poi tutti quei sapori erano diventati noia. I cibi e le bevande avevano tutti lo stesso orribile gusto, le diverse consistenze delle pietanze non allietavano il suo palato, le sostanze che davano visioni non ne regalavano più.

In compenso c’era il sangue a riempire la gola, a nutrire e mandare in estasi; anzi, c’erano i sangui, perché il sangue di ogni persona aveva un sapore diverso, un diverso profumo, perfino una diversa densità. Era una fame da saziare ogni volta, assaporando il terrore della preda o portarla con dolcezza dal sonno alla morte, giocarci o stritolarla tra le mani. Per poi passare il prima possibile alla successiva.

Corin spesso pensava con rammarico che in nessun modo avrebbe potuto saziare la sua gola, in nessun modo avrebbe potuto degustare tutto il sangue del mondo.

C’è da dire, comunque, che Corin faceva del suo meglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: lo so che Corin è un nome e un asterisco. Lo so. E allora? Eppure esiste, povera stella!

Non si sa che diamine faccia, che potere abbia, quale sia il suo ruolo. Io ho pensato che qualcuno di schifosamente godereccio e decadente ci stesse bene nella guardia. No?

 

Ed ora, ringraziamenti adoranti a tutti!

Storyteller lover: esatto! Afton non è accidioso, in effetti… è convinto che la maggior parte delle cose non serva a molto (tanto dobbiamo morire tutti), quindi molto meglio tenersele per sé; solo che poi rischia di farsi sfuggire le occasioni. Sono contenta che ti sia piaciuta!

OttoNoveTre: Afton e Chelsea sono i miei tesorucci! Miei! Giù le mani, Stephenie, che gli hai dato solo la carta d’identità e neppure completa! Sono contentissima che ti siano simpatici; comunque da questa storia ad oggi sono passati settecento anni e Afton non l’ha mica ancora sposata, povera Chelsea!

Bella_kristen: Afton e Chelsea riscuotono consensi, e chi l’avrebbe mai detto? Sono felice che ti siano piaciuti, grazie mille!

Zenobia_vampire: Che bello, grazie! Coppia alla Walt Disney? In effetti proprio no… Afton a questo punto commenterebbe qualcosa del tipo “ricordatevi che la mamma di Bambi muore”! Niente Disney, niente baci perugina, neanche un centimetro sopra il cielo, al limite sottoterra a decomporsi… però sono romantici, nevvero?

 

 

 

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Capitolo 14
*** Seven - Invidia [Heidi] ***


SEVEN

IV - Invidia

 

Un giorno aveva aperto un dizionario ed aveva controllato la definizione di “Invidia”: secondo il Devoto-Oli, dicesi invidia il “malanimo provocato dalla vista dell’altrui soddisfazione”.

Definizione precisa, ma noiosa e poco esaustiva.

Heidi era bellissima, colta e disinibita, ed in tremila anni di esistenza terrena aveva mietuto più invidia lei di chiunque altro: “a guardarla bene non è che sia poi un granchè”, bisbigliavano ad Atene; “sicuramente è una stupida e fa tutta quella scena per sembrare intelligente”, spettegolavano a Roma; “si dà tante arie ed è solo una puttana qualunque”, ghignavano a Bisanzio.

Lei era contenta di ciò che era, e qualunque cosa fossero gli altri non le provocava malanimo; il malanimo degli altri se lo faceva scivolare addosso come la stoffa leggerissima della danza dei sette veli, continuando allegra e soddisfatta a fare tutto ciò che le era sempre piaciuto.

E col passare dei secoli aveva coniato una sua definizione, abbastanza diversa da quella dei signori Devoto e Oli: secondo Heidi, dicesi invidia “la più sincera forma d’ammirazione”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: la definizione del Devoto-Oli è, ovviamente, del Devoto-Oli.

Heidi mi è simpatica, la vedo come una ragazzaccia adorabile… certo se fossi in vacanza a Volterra non la penserei così. È che si tende a fare l’equazione ragazza bella e zoccoleggiante = stupida e antipatica, e penso invece che Heidi sia pure simpatica e intelligente. Certo, meglio non innamorarsi di lei!

 

Come sempre, grazie a tutti quelli che seguono, ricordano, preferiscono e commentano!

OttoNoveTre: Tanto la Corin migliore è la tua. Punto. Però sono contenta che la versione “buongustaia” ti sia piaciuta…

Bonus track!

Felix: Scusa, Corin, ma si può sapere dove cazzo eri mentre noi eravamo dai Cullen?

Heidi: E perché quella faccia?

Corin: Ragazzi, non me ne parlate: mi sono fermata in quel ristorantino italiano a Port Angeles, quello famoso per i ravioli ai funghi…

Santiago: Què? Ti sei fermata al ristorante?

Corin: Lo so, ho sbagliato, colpa mia che mi incaponisco a mangiare italiano all’estero… guardate, uno schifo. O i ravioli ai funghi non li sanno fare, o è il sangue degli americani che non prende bene il sapore. Invece a voi com’è andata?

Jane: %/&(%&%£”%??)(/&*°ç°ò!!!!

Corin: Dai, ditemi qualcosa… com’era Forks?

Afton: Un posto di merda.

Renata: Dieci anni di non-vita ho perso!

Chelsea: Sì, in effetti questa missione è stata abbastanza uno schifo… l’unico che sembra soddisfatto è Aro…

Corin: Uno schifo, davvero. Se sapevo così piuttosto provavo il puma…

Alec: Basta sciocchezze. Andiamocene.

(Tutti salgono sull’aereo con espressioni funeree.)

 

Bella_kristen: non è che Corin è un personaggio che non ha spazio. Non esiste. Mi chiedo perché nominarlo nell’indice, a ‘sto punto… per le fanghèrl? Con me ha funzionato… maledetta Stephenie…

Zenobia_vampire: Grazie! In effetti ho notato una cosa: meno la Meyer parla di un vampiro, più questo diventa intrigante. L’hai notato anche tu? E si è capito che per me Edward è agli antipodi del fascino?

 

Vi è piaciuta la bonus track, ragazze? Grazie ancora a tutte!

 

 

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Capitolo 15
*** Seven - Ira [Renata] ***


SEVEN

V – Ira

 

-Com’è possibile che sei sempre così indifferente, Renata? A volte mi sembri scema!-

-Amen, Felix. Tanto non è che mi abbia detto niente di diverso dal solito.-

-Sì, ma non ti fa incazzare come una biscia? Quella stronza di Jane ti usa come un fottuto bersaglio per le sue frecciatine di merda e tu… tu niente, non ti incazzi, ti alzi e te ne vai!-

-E che devo fare? Se si diverte così…-

-Gli tiri un pugno in bocca, ecco cosa devi fare! Due dita negli occhi quando non se l’aspetta, così non può usare i suoi poteri, e poi un rullo di botte! Come ti ho insegnato, di palmo, non di nocca!-

-Le tiri, Felix. Femminile, come ti ho insegnato.-

-Ma chi se ne frega! Sai cosa? Te lo meriti di essere sfottuta. Sei capace solo di scappare via, non ti arrabbi perché hai paura delle possibili conseguenze e non perché davvero la cosa non ti tocca!-

-Adesso basta, Felix. Si può sapere cos’è che vuoi con questo modo di fare?-

-Voglio farti presente un fatto: sai cosa sei? Sei una codarda del cazzo, e se si accaniscono su di te fanno bene, perché accanirsi sui deboli è divertente!-

-Smettila. Stai esagerando.-

-Oh, poverina, sto esagerando? Dai, falla adesso la superiore di ‘sta minchia, alzati e vai via! Così appena ti volti ti arrivo un pugno fra le scapole che ti spalmo due muri più avanti!-

-Va a quel paese, Felix! Tu e la tua psicologia della mutua, tu e il tuo modo di risolvere sempre tutto a botte, andate tutti a fare in culo, tu e Jane!-

-Ecco! Così mi piaci, fatina!-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: informazione inutile: io Felix e Renata li adoro.

Faccio presente che Felix non avrebbe potuto “spalmarla due muri più in là” a causa dei poteri di lei, l’ha detto solo per farla arrabbiare; e lei, che è una donna e in quanto tale valuta i princìpi e non il significato letterale, si è arrabbiata.

 

Ringrazio tutti quelli che preferiscono, seguono o ricordano i miei beniamini!

Storyteller lover: tranquilla, scherzi? Le recensioni mi fanno piacere anche se arrivano più tardi dei treni di Trenitalia, ci mancherebbe! Sono contenta che ti sia piaciuta la mia Corin: senso di moralità? No grazie, non mi serve! Per quanto riguarda Heidi, è proprio così: il peccato lo subisce, più che commetterlo. Ognuno ha un rapporto diverso con i vizi capitali, c’è chi pecca e si dispiace, c’è chi nel peccato ci sguazza felice, c’è chi, appunto, lo subisce. Nel suo caso l’invidia tocca gli altri, non lei.

Zenobia_vampire: il bello dei personaggi con poca o nulla caratterizzazione è la libertà di immaginarli in mille modi diversi… Comunque, non è detto che non gliel’abbia fatta pagare. Magari se qualcuna rompeva un po’troppo veniva piallata, perché no?

 

 

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Capitolo 16
*** Seven - Lussuria [Aro] ***


SEVEN

VI – Lussuria

 

Decisamente, per secoli Aro non si era considerato un lussurioso.

Per carità, l’espressione “impero dei sensi” non aveva segreti per lui; d’altronde non vedeva motivi validi per trattenere i suoi cosiddetti bassi istinti, aveva fatto l’amore con un numero davvero alto di persone e solo una di queste era sua moglie.

Però una lussuria da peccato mortale, bah, quella no; anche se avesse creduto (e lui non ci credeva) nell’esistenza di un inferno di fuoco riteneva che non se lo sarebbe meritato per quel peccatuccio, talmente innocuo da essere appena il primo dopo le rive dell’Acheronte. Il suo posto sarebbe stato certamente il Cocito, vicino a gente del calibro di Giuda o Lucifero, perché era indubbio che nella classifica dei suoi vizi capitali Superbia battesse Lussuria di parecchi punti.

Per intendersi: se avesse deciso di irretire Athenodora con i versi di un libro d’amore, sicuramente lui non sarebbe mai stato così imprudente, stupido e avventato da farsi cogliere sul fatto da Caius; non che avesse mai pensato di irretire Athenodora, comunque.

Un vizio così travolgente da fagocitare tutto il resto? Da diventare pericoloso, da fargli compiere atti blasfemi e contrari alla pietas? Non la lussuria. Le capriole nel letto erano piacevoli, d’accordo, ma mai una volta gli avevano fatto perdere di vista la realtà.

Poi un bel giorno scoprì l’espressione anglosassone “lust for power”.

E da quel momento, decisamente Aro si considerò un lussurioso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: i riferimenti ai gironi e all’adescare la moglie del proprio fratello con un libro d’amore sono tratti dalla Divina Commedia. Serviva dirlo? No, vero?

Qualcuno voleva la lussuria sozzona? Peccato, è venuta così. Adesso per punizione dite quindici avemaria, così imparate. Adoro far parlare Aro… anche perché non devo fare niente, lui parla da solo!

 

Stragrazie a chi segue questa storia!

Zenobia_vampire: diciamo che in effetti volevo mettere un vizio “in negativo”: il problema di Renata non è l’ira, ma la mancanza dell’ira. Come se ci fosse una sorta di “aurea via di mezzo” anche nei vizi capitali! No, Felix dice che non era arrabbiato, faceva finta per fare arrabbiare lei… Certo che avrei fatto una storia su di loro, io li adoro!

 

 

 

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Capitolo 17
*** Seven - Superbia [Alec] ***


SEVEN

VII – Superbia

 

Il detto “tutti utili, nessuno indispensabile” aveva sempre provocato in Alec un lieve sorrisetto di superiorità. Valeva per gli altri, non certo per lui e sua sorella: Jane e Alec, l’Ira e l’Accidia, i pilastri di ogni strategia, le gemme più preziose di Aro, gli indispensabili.

Non gli era mai passato per la mente che lui e Jane erano lì da trecento anni e i Volturi da tremila, ed in quei duemilasettecento anni dovevano pur essersela cavata in qualche modo. Che gente vissuta negli anni di Napoleone e Giulio Cesare non avrebbe mai basato i propri successi militari esclusivamente su due persone. Che “strategia comoda, veloce ed efficace” non è sinonimo di “unica possibile”.

Già era stato un duro colpo vedere lui e sua sorella messi nell’impossibilità di agire da una che era diventata vampiro da meno di un anno. Ma cogliere di sfuggita il sorrisetto di Aro durante il ritorno a casa, quell’espressione che gli aveva visto assumere solo quando le cose erano andate meglio di quanto si aspettasse; rendersi conto che non solo lui e Jane non erano indispensabili, ma che se non si era arrivati ad un combattimento era solo perché Aro aveva voluto così, e non certo perché quella che credeva essere l’unica strategia possibile (che cosa ridicola, a ben pensarci!) fosse fallita; quella era stata la cosa peggiore di tutte.

E dopo trecento anni, Alec si sentì di nuovo uno stupido ragazzino tredicenne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: questo è l’abbinamento che ho sorteggiato, Alec e la superbia.

Certo che i Cullen non sono stati piallati perché Aro non ha voluto. Nel mio tuailàit-mondo è così, e il contrario è OOC anche se l’ha detto la Meyer! Va bene, infermiera, ora la smetto, metta pure via quella camicia a maniche lunghe…. Domanda: qualcuno sa di preciso quanti caspio di anni ha Alec quando lo vampirizzano? Io gliene ho dati tredici, ma ogni sito riporta età diverse… la Meyer mi farà dannare!

 

E questo era l’ultimo peccato (ma certo non l’ultima storia sui miei ignorati cattivoni della saga!). Ringrazio a piene mani chi ha letto la raccolta, chi ha letto anche tutte quelle prima e chi ha recensito!

Zenobia_vampire: anche secondo me Aro ama sua moglie. Insomma, uno non starebbe con la stessa donna per tremila anni (mica bruscolini! Tremila cazzo di anni!) se non la amasse; soprattutto non uno che è arrivato ad uccidere sua sorella! Penso che farebbe capitare un “tragico incidente” e buonanotte, se non l’amasse. Chiedergli di esserle fedele è un altro paio di maniche, Aro è troppo curioso per essere fedele. E troppo perverso, sì, direi che “perverso” è assolutamente la parola giusta!

Trullitrulli: Grazie! Già, povero Aro, hai proprio ragione: dovrà pur passare le sue lunghe e noiose giornate in qualche maniera, no? Comunque, Aro fa notare che: (A) non è un problema se nessuno infrange la legge: prima si trova un comodo pretesto e poi gli si va a rompere le scatole. Salvo scoprire che si può avere un ibrido mezzo umano/mezzo vampiro/mezzo licantropo aspettando solo qualche annetto, e allora tanto vale fingere di essere impauriti e farsi tutto il viaggio di ritorno a Volterra unendo le punte delle dita e dicendo “Eccellente, Caius!”. (B) Comunque lui è il più bellissimo, intelligentissimo e superdotatissimo di tutti. Doppi sensi compresi.

P.S. chi è Corin se lo chiede anche Roberto Giacobbo. Probabilmente è colei che guiderà l’invasione di vampiri templari che distruggeranno la Terra nel 2012 mostrandosi col suo vero nome, ossia Tutankhamon. Scherzi a parte: prendi “Breaking Dawn”. Vai all’ultima pagina, quella dove c’è la lista, e fai caso all’elenco dei Volturi. Tra i membri della guardia è indicato un nome, “Corin”, con accanto un asterisco, che ci significa che anche Corin ha un talento speciale. Punto. Tale personaggio viene poi dimenticato: non solo non è nominato nella saga, ma neppure dalla Meyer nelle interviste, a quanto mi risulta. Per fortuna nel fandom ha trovato anche lei qualcuno che la calcola!

Kukiness: Trovo anch’io seccante non fare i milioni. Io non mi vestirei di color kaki; io sarei fighissima, se avessi i milioni. Però potrebbe andare peggio, potrebbe piovere! Scherzi a parte, la tua recensione non recensione mi fa ingrassare, perché se mi emoziono mangio e quella era da ingurgitare cioccolata a chili! Davvero, un commento così fatto da te è un ottimo presidio medico chirurgico; niente milioni, ma vuoi mettere i livelli di serotonina? Grazie, grazie, grazie. Mi si son commossi anche i Volturi.

Storyteller lover: Come sono andati gli esami? Spero bene! Grazie mille dei complimenti… in effetti Aro è sempre il più figo di tutti! Aro ha ucciso la propria sorella pur di conservare il potere; direi che sia stato un gesto piuttosto esplicativo. Ti rinnovo i complimenti per la tua raccolta, e grazie ancora!

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** Giardini - Api e fiori [Felix, Renata] ***


Giardini

 



I - Api e fiori

 

-Hey, fammi un sorriso, fatina di Swarovski!-

Renata alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, socchiudendoli all’intensa luce del sole. Felix si sporgeva dal balcone affacciato sul giardino e approfittò del momento per scattarle una fotografia.

-Dove l’hai presa quella?-

Lui scavalcò la balaustra e saltò giù, atterrandole vicino. Disturbò due api, che volarono via ronzando.

-Questa? Niente, ce l’aveva uno dei giapponesi di ieri… deve avere un sacco di funzioni fighe, ma non le ho ancora scoperte tutte; non capisco perché questi nippobanzai debbano scrivere per forza in ideogrammi. Oh, le api e i fiori… vuoi che ti parli delle api e i fiori, Bambi?-

Lei rise, sistemandosi più comodamente sui cuscini colorati della sedia sdraio.

-A me l’hanno già raccontata, quella storia. E a te?-

Lui girò una rotellina sulla macchina fotografica e le scattò un’altra foto, un po’ a caso.

-A me no. Mia mamma faceva la puttana, ho imparato in diretta… mi infilavo nella stanza e rubavo le cose ai suoi clienti. Una volta ho rubato una pistola a uno.-

-Davvero? Come il protagonista di un libro!-

-Tu leggi troppo, fatina. E che ci ha fatto quello del libro con la pistola?-

Renata abbassò il braccio e si mise a stropicciare un gruppo di margherite. Si sentiva idiota: il suo migliore amico le raccontava che sua madre era una prostituta e lei rispondeva che gli ricordava il personaggio di un libro. È che proprio non sapeva cosa dire.

-Niente ci ha fatto. L’ha nascosta e basta.-

Lui fece una faccia perplessa. Non sembrava che l’argomento lo tormentasse granché, comunque.

-Ah. Che scemo. Io ho sparato ad un uomo, invece. E anche ad un gatto.-

-Hai sparato ad un gatto? Ma che idiota sei! E che bisogno c’era?-

Felix scoppiò a ridere fragorosamente. Si era dimenticato della passione di Renata per i gatti; non aveva mai capito come ci si possa affezionare sul serio ad uno stupido gatto.

-Cioè… alla gente potevo sparare ma se sparo ai gatti sono un idiota? Sei un fenomeno! Davvero, sei la numero uno!-

Renata aveva stropicciato le margherite, l’erba e pure la terra sotto. Cercò di pulirsi la mano strofinandola con l’altra, con scarsi risultati.

-Credo di avere affrontato l’argomento senza la minima sensibilità. Scusa.-

La cosa peggiore fu come la guardò: sembrava dispiaciuto, come se il torto l’avesse avuto lui.

-Oh! Ma scusa di che? Perché adesso devi fare quegli occhi tristi? Hai presente con chi stai parlando? Sensibilità?- Fletté i muscoli e si esibì nel suo migliore ghigno da squalo. –Io me la sbatto, la sensibilità!-

Renata azzardò un timido sorriso. Lui si mise a pasticciare con la macchina fotografica.

-Le vuoi vedere un po’ di foto stupide in cui dei musi gialli fanno finta di tenere su la torre di Pisa?- propose. Lei annuì. Lui si sedette sul prato con un movimento fluido, accanto alla sua sdraio, tra le margherite e le acetoselle; il sole brillò sulla sua pelle e nei suoi occhi scarlatti, mentre le metteva la macchina fotografica del turista giapponese sotto il naso e commentava che avevano fatto bene a mangiarsi uno che faceva foto del genere, che quella si chiamava selezione naturale. Le api continuavano a ronzare e Renata si domandò per un momento cosa c’entrassero le api e i fiori con lei e Felix.

Poi la risata per l’ennesima foto stupida riscosse la sua attenzione, e lei non ci pensò più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: Questa è la prima storia di una raccolta che ho scritto per il contest “Luoghi di storie”, indetto dal Fanfiction Contest ~ { Collection of Starlight since 01.06.08 }.
Il contest prevedeva che ogni partecipante scrivesse una raccolta di Drabbles o Flash-fic su cinque pairing diversi, di cui quattro a scelta dell’autore e uno obbligatorio assegnato in seguito, ambientate tutte nella stessa tipologia di luogo.

Io ho scelto il “giardino” e ho scritto su quattro coppiette dei miei amati ed ignoratissimi Kattivi. Quella obbligata era Leah e Sam, e siccome l’unico contatto che hanno avuto loro due con i Volturi è stato guardarsi nelle palle degli occhi la notte prima di capodanno, la loro flashfic la pubblicherò a parte e singola (perché Leah è single anche nelle flashfic, porella).

 

Parte tecnica: il libro di cui parla Renata è “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino.

Felix immagino che sia stato bambino durante i primi anni del 1800 in una città portuale del nord Europa, probabilmente Rotterdam. La “mia” Renata invece è di origini sarde.

La macchina fotografica era di uno dei turisti che si sono mangiati i Volturi… mi sono sempre chiesta che fine facessero tutte quelle macchine fotografiche, e Felix mi sembra il tipo che non si fa troppi problemi a sciacallare cadaveri.

La pistola che usa Felix da bambino è una pepperbox, pistola a canne multiple. Era un’arma studiata per la difesa personale in ambito civile, quindi è plausibile la sua presenza addosso ad uno che va a donnine allegre in una zona malfamata. Se l’arma era carica, Felix per usarla avrebbe dovuto solo armare il cane e tirare il grilletto. L’arma era carica.

 

Ringrazio come sempre chi legge, commenta, si diverte e passa di qui.

Ringrazio gli organizzatori del contest e la giudice, che ha stilato un giudizio bellissimo, mi ha permesso di correggere alcuni orrori grammaticali e mi ha fatto gongolare come neanche Aro davanti ad un eventuale mezzo umano/vampiro/licantropo che ha avuto l’imprinting con un changeling/fantasma/mago (chi capisce questa è nerd). Un risultato così con dei personaggi così bistrattati non me l’aspettavo, e siccome io a ‘sti omarelli voglio un bene dell’anima mi sono emozionata tantissimo. Davvero. Però Renata/Felix non è crack: è canon, solo che la Meyer si è dimenticata di dirlo, ecco!

Zenobia_vampire: hai visto? Ho aggiornato con la tenera coppietta! Ti sono piaciuti? Chissà cosa ne ha fatto Fel delle due foto che ha scattato a Renata…

trullitrulli: eh, sì, me li immagino abbastanza “tardi” i gemelli “ce l’ho solo io” (il potere, cosa avevi pensato?), e un brusco risveglio doveva arrivare, prima o poi! Io invece sono contenta che la Meyer abbia scritto ‘sti libri; se non l’avesse fatto non mi sarei divertita così tanto a scriverci su fanfiction. Però se le adoratrici della Meyer si fanno troppo minacciose non temere, gli mando contro i gemellini, che di roghi ne hanno già scampato uno e oltre che superbi sono molto vendicativi!

storyteller lover: 12 o 13 anni, sì, non si capisce bene. Immagino che Alec si sentisse indispensabile perché Aro li aveva fatti sentire tali, e la sua giovane età non gli ha mai permesso di riflettere bene sulla cosa. Grazie per le recensioni, e in bocca al lupo per lo studio!

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** Giardini - Eden [Aro, Sulpicia] ***


Nota iniziale: avete visto il bellissimo banner che ho vinto? Ecco, questa storia immaginatevela lì. Proprio dentro quel banner.


Giardini

 



II- Eden


Sulpicia irruppe furiosa nel peristilio stringendo i pugni, trattenendo l’impulso di prendere a calci la ghiaia del vialetto. Suo marito uscì dalla loro stanza e comparve sotto il porticato che circondava il cortile, fluido come acqua.

Decisamente, “lasciami stare” era una frase che non aveva neppure preso in considerazione. Sorrideva, divertito.

-Sulpicia… sei arrabbiata con me, mia amata? Ma non ce n’è ragione alcuna! Non dovresti alterarti per così poco! Anche se in verità sei adorabile quando fai così, sai? Tanto che potrei stare qui delle ore a spiare il tuo disappunto! Ma a te non piacerebbe affatto, o sbaglio?-

Il momento migliore delle sue infedeltà coniugali era quando sua moglie ne veniva a conoscenza. Adorava vedere l’irreprensibile Sulpicia fingere superiorità, smascherare i suoi veri pensieri con una sola carezza e a quel punto vederla sbottare come una delle servette di Plauto. Sebbene lui non gliel’avesse mai detto, lei sapeva perfettamente di essere il sale di ogni tradimento del marito. Riteneva di conoscerlo meglio di quanto lui conoscesse se stesso, e dentro di sé Aro non era certo di poterle dare torto.

Lei ristette al centro del peristilio, accanto ai cespugli di rose. Gli gettò una rovente occhiata scarlatta.

Sulpicia è un hortus conclusus, pensò Aro. Un giardino di delizie, accessibile a lui solo. Un eden da cui lui aveva scacciato tutti gli altri ed egli soltanto, in quanto divinità, poteva mettere piede.

Le si avvicinò leggero. Avvertiva la tensione di lei nella linea delle spalle.

I suoi seni erano due cerbiatti, il suo collo una torre d’avorio, i suoi occhi chicchi di melograni maturi, il suo amore molto più dolce del sangue. Il cantico non è esattamente così, si disse, ma che importa.

Allungò il braccio come per toccarla, le sfiorò l’abito leggero, poi l’oltrepassò e chiuse le dita intorno al gambo di una rosa.

-Vuoi che io mi faccia perdonare, Sulpicia? Cosa vuoi? Un pomo d’oro con su scritto “alla più bella”? La testa di un santo su un piatto d’argento? O ti basta una rosa rossa?-

Staccò la rosa e le sfiorò le labbra con i suoi petali.

-Cosa vuoi?- ripeté intrecciando le sue dita a quelle, ridivenute arrendevoli, di lei.

Sorpreso dalla risposta catturata nei suoi pensieri lasciò cadere la rosa e rise, poi baciò la moglie con foga, con passione dirompente.

“Tu più lieve del sughero e più sfrenato / che non sia nell’ira l’Adriatico, / voglio vivere con te, / con te morire.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: Sono in uno stupido internet point, visto che il mio pc è andato a meretrici. E mi fa quegli stupidi spazi tra una frase e l'altra che io odio furiosamente, ma non so togliere... maledetti computer!

La poesia che Aro storpia è “Il cantico dei cantici”; mi è stato fatto notare che la similitudine sui seni è un po’ paradossale, ed è verissimo, ma quello è davvero  un pezzo del “cantico”… e non ho messo il pezzo sui capelli simili a greggi di pecore!

Quella a cui pensa Sulpicia invece fa parte delle “odi” di Orazio.

Il tema dell’ hortus conclusus, il giardino di delizie, era molto comune nel medioevo; il “pomo d’oro” è ovviamente un riferimento al racconto mitologico sulle origini della guerra di Troia, mentre “la testa di un santo su un piatto d’argento” è relativo al racconto biblico di Salomè e Giovanni Battista, e anche alla “Salomè” di Wilde.

 

Grazie, grazie, grazie. A chi legge e commenta, a chi legge in silenzio, a chi è arrivato fin qui e gli è piaciuto. Grazie!

 

Ulissae:È ammirevole la capacità di gestire il personaggio di Aro: non molto spesso si trovano fanfiction capaci di dargli verosimiglianza all'uomo descritto nei libri, pur inserendolo in un momento unico e con uno stampo quasi da commedia.” Cosa vuoi che ti dica? Non grazie, grazie è poco, di più!

Effettivamente i “miei” Aro e Sulpicia sono molto diversi dai tuoi (io ti leggo silenziosamente!) e capisco la sensazione strana di trovarsi davanti a personaggi che in qualche modo sono gli stessi ma per altri aspetti sono completamente differenti. A dire il vero però è anche questo che mi diverte da matti nel leggere e scrivere sui Volturi: mentre gli altri personaggi, se si vuole rimanere IC, sono più o meno simili, Volterra è uno spaccato di mondo che cambia notevolmente da uno scrittore ad un altro. E questi mondi sono tutti giusti, tutti credibili, vanno tutti bene (quelli non da ardere, intendo! XD). A me piace immergermi nella Volterra degli altri, compresa la “tua” Volterra, e sono contenta che ti sia piaciuto fare un giro nella “mia”; quando ti va fatti sentire, che Aro è sempre lieto di avere ospiti, fan e seguaci!

P.S. Povero Felix, non sarà uno stinco di santo, ma cos’ha fatto di così male per vedersi appioppare sempre la Mary Sue? Ma non è più crack Felix/Mary Sue di Felix/Renata? Scherzi a parte, tranquilla, capisco benissimo la definizione, è che io la spingo più all’estremo: loro due si conoscono, vivono nello stesso luogo, del loro carattere si sa poco o nulla, e non sapendone nulla non la vedo improbabile. Considero crack, che ne so, una Leah/Stefan; d’altra parte però mi sa che di questi due ci scrivo solo io (Renata/Felix, non Leah/Stefan…), quindi magari è parecchio strana, in realtà!

 

maleka: Ti piace la Felix/Renata? Wow, mi sento fierissima, è un complimento meraviglioso (cioè, non so se è un complimento, ma io lo avverto come tale!). Sono contentissima che ti siano piaciuti; io li vedo bene insieme, ma da lì a “trasmettere” la mia visione al lettore ce ne passa. Mi hai detto che è divertente immaginarli, ed è splendido sentirselo dire! Grazie!

 

Zenobia_vampire: Felix potrebbe aver fabbricato con le sue manine una delicata cornicetta di conchiglie e averci messo le foto, o potrebbe aver fatto quello che hai pensato tu… e direi che è molto più probabile la seconda! Sì, la “mia” Renata adora i gatti; le piacerebbe averne uno, ma si sa che gli animali temono i vampiri. Siccome io sono una gattofila sfegatata non potevo non mettere un personaggio gattofilo come me! Afton e Chelsea? Chissà, intanto beccati Aro, che come sappiamo bene è un figo assoluto!

 

 

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Capitolo 20
*** Giardini - Rondini [Marcus, Didyme] ***




Giardini

 



III- Rondini

 



D’inverno, sepolto da una coltre di neve, quel giardino sembrava diverso.

Potesse la neve congelare i ricordi!

Potesse la neve congelare il frinire delle cicale, l’ombra del pergolato, la figura di lei.

Ghiacciare il frullo delle sue mani ed i capelli sciolti e quell’entusiasmo felice da eterna bambina mentre parlava con lui, ricoprirli con un manto bianco e nasconderli alla memoria.

 

-Olanda! Mi piacerebbe tanto andare in Olanda… Ricordi quel pittore che è stato qui qualche anno fa, quello che piaceva tanto a te e ad Aro?-

-Quale pittore, Didyme? Ce ne sono stati così tanti!-

-Quello olandese! Ricordi? Lui raccontava che in primavera l’Olanda si copre di tulipani, campi interi di tulipani di tutti i colori… non ti piacerebbe vederli?-

-Certo che mi piacerebbe, rondinella.-

-Ti adoro quando mi chiami rondinella! Anzi, ora che mi ci fai pensare, sai dove vorrei andare? In Africa, come le rondini. In Africa ci sono i leoni, e a me piacciono così tanto i leoni! Vorrei andare dove sono i leoni, e cogliere una rosa del deserto!-

-Ma guarda che le rose del deserto non sono fiori, è sabbia pietrificata.-

-Lo so benissimo, amore mio, ma cosa importa? Anche noi siamo esseri umani pietrificati, no? E non siamo bellissimi lo stesso?-

-Tu di certo lo sei! Allora, hai deciso per i leoni?-

-Non farmi decidere, sai che detesto decidere… Scegli tu, e a me andrà bene. Oppure il Catai! Nel Catai ci sono fiori bianchi e rosa che crescono negli stagni!-

-Deciderò io, rondinella. Tu però continua a pensare ai luoghi che vorresti visitare, ho bisogno del tuo entusiasmo!-

 

Non avevano visitato nulla di tutto ciò. Ed ora, ogni luogo che aveva nominato gli sarebbe stato insopportabile senza la felicità di lei a colorarlo, vederlo senza di lei sarebbe equivalso ad un tradimento. E lei aveva nominato talmente tanti luoghi che l’unico posto in cui poteva rimanere era lì, a Volterra, a casa sua.

A niente valeva l’inverno. I ricordi tornavano sempre, come le rondini.

Potesse la neve congelare le rondini!

 

 

 

 

 

 

 

 

 Note: Le rondini danno l’idea di primavera, di piccolo, di frullo d’ali e cinguettii gioiosi. Danno l’idea di nero-blu, come immagino abbia i capelli Didyme, simili a quelli di Aro, neri e lisci. A me personalmente mettono felicità, ma allo stesso tempo le collego ad un’idea di morte violenta (studiare “X agosto” alle elementari è una cosa che segna…); quindi, mi è venuto spontaneo collegarle al personaggio di Didyme. Marcus, nella storia della Meyer, viene associato dalla tradizione popolare a San Marco, ed il leone è il simbolo di San Marco. Ho giocato un po’ con questo e con il fatto che nel medioevo sulle mappe c’era la dicitura “Hic sunt leones” in corrispondenza del deserto del Sahara.

Non so invece chi possa essere il pittore olandese semplicemente perché non ho ancora deciso quando, di preciso, Aro uccide Didyme; ma il nostro medioevo e rinascimento sono pieni di pittori dei paesi bassi, quindi immagino che sia uno di quelli.

 

Detto ciò passo a ringraziare tutti quelli, vecchi e nuovi, che passano di qui. Grazie mille!

 

LAZIONELCUORE: grazie per i complimenti! Sì, anch’io tra Edward e Demetri sceglierei Demetri. Decisamente Edward non sarebbe l’uomo che fa per me, ed i Volturi hanno un fascino innegabile! Anche Aro sperava che loro tre si unissero ai Volturi. Jane invece no, ed io neppure: lasciatemeli in pace i miei cattivi dal mantello scuro, che stanno bene così come sono… che vi hanno fatto di così male da volergli appioppare Bella ed Edward?

 

Zenobia_vampire: eh già, ti pare che lasciavo lì Aro e Sulpicia? Poi Aro mi si innervosiva, e non bisogna mai fare innervosire Aro, diventa pericoloso! Oramai hai capito troppo bene su quali coppie mi fisso, quindi non sarai troppo stupita quando pubblicherò la prossima…

 

trullitrulli: il cantico è stato scritto un paio di millenni fa, in una società che era prevalentemente di pastori e contadini, da qui alcune similitudini che oggi paiono un po’ strane; però ho pensato che alla fine Aro è un etrusco del 1000 a.C, quindi certamente a lui devono apparire meno assurde che a noi. Sono contenta che ti piacciano i miei Aro e Sulpicia, e che ti piaccia la storia su di lei: sono una delle coppie su cui mi piace molto scrivere, assieme a Rosalie ed Emmett, i miei adorati Chelsea e Afton e poi Renata e Felix. Che sì, hai capito bene, non è che li ho proprio fidanzati ma volevo farli intortare, prima o poi! Felix della macchina fotografica se ne fa quello che ci fanno tutte le persone del mondo: quando si ricorda se la porta dietro e fa le foto. Più che foto artistiche ai paesaggi però mi sembra il tipo che fotografa tette e/o culi, macchine tamarre e lui con gli amici in pose truzze!

 

Euridice Volturi: grazie! Scrivere di Aro è facile e difficile allo stesso tempo: facile perché ogni volta che lo ficco da qualche parte lui si impossessa di me e fa quello che gli pare, praticamente si scrive da solo, difficile perché ogni volta ho paura di non aver reso bene un personaggio complicato come lui. Sono felice che ti sia piaciuto!

 

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Capitolo 21
*** Giardini - Il gelso [Chelsea, Afton] ***



Giardini

 



IV - Il gelso


Di tutti i giardini presenti nelle proprietà dei Volturi a Volterra, ce n’era uno che Chelsea evitava sempre.

Nel corso dei secoli l’aveva amato e l’aveva odiato, ed ora aveva quasi paura a metterci piede: era come se lo spazio di quel ritaglio di verde si dilatasse all’infinito, aprendo campi sterminati nel suo cuore. Forse avevano ragione quelli che sostenevano che a forza di vivere troppo a lungo si finisce per impazzire.

Lì aveva conosciuto Demetri, quando era appena entrata nel corpo di guardia dei Volturi e ancora non sapeva che quel luogo sarebbe diventato casa sua; lì aveva spettegolato con Heidi al tempo delle crociate. Lì aveva udito la risata garrula di Didyme, che adorava chiacchierare, e quella profonda di Marcus, ai tempi in cui lui ancora sapeva ridere. Lì vedeva fantasmi di compagni che non c’erano più, morti per disgrazia o per punizione.

Lì una volta aveva quasi convinto Afton a sposarla.

C’erano dei gelsi, a quel tempo, lei ci aveva messo dei bachi e con la loro seta si era fatta un abito da sposa che non aveva mai indossato. Ora i gelsi erano morti, perché come avrebbe detto Afton “neppure le stelle vivono per sempre, figuriamoci i gelsi”. Col tempo era morta anche la speranza di sposare il suo amato: neppure i gelsi vivono per sempre, figuriamoci le speranze. Il pensiero la faceva ridere; tentava di rassegnarsi, ridendo.

Eppure quel giardino continuava a chiamarla; ogni volta che ci passava vicino c’era la porta aperta, o un taglio di luna che si proiettava sul pavimento del corridoio, il profumo dell’erba e delle margherite, e a volte le sembrava di udire l’eco delle risate fantasma dei morti. Stare con Afton mi fa male, si diceva in quei momenti.

Poi in una notte d’autunno particolarmente buia fu la voce di Afton a chiamarla dal giardino; la guardava con una specie di sorriso e teneva in mano una vanga.

Sta scavando una fossa, pensò Chelsea.

Invece aveva piantato un gelso.

Aveva notato che da quando i gelsi non c’erano più lei non andava lì molto spesso, e invece quello non era un brutto giardino. Le aveva detto, con una sorta di malcelato orgoglio, che aveva aspettato la luna nuova perché così il gelso sarebbe cresciuto meglio. Lei aveva ribattuto che la luna doveva essere piena, non nuova. Lui aveva fatto un laconico commento circa il fatto che non le andasse mai bene niente. Avevano fatto l’amore.

Poi era passato l’inverno, ed in primavera il gelso era spuntato, spavaldo e robusto nonostante la luna nuova.

A Chelsea piaceva andare a vederlo crescere in giardino. Aveva l’impressione che piacesse anche ai fantasmi, ed in fondo era davanti ad un gelso che aveva quasi convinto Afton a sposarla, tanto tempo prima.

Persino i gelsi rinascono, figuriamoci le speranze.

 





 

Note:  se per sbaglio a qualcuno interessasse la storia del mancato matrimonio è al capitolo 6, quella intitolata “Il giorno che ho quasi convinto Afton”; il mio intento era comunque scrivere una flashfic che si capisse anche senza avere prima letto l’altra, e spero di esserci riuscita. La storia del mancato matrimonio risaliva circa a metà del 1700, e siccome i gelsi non sono alberi molto longevi è plausibile che nel frattempo siano morti di morte naturale.

Ah: io adoro questi due. Afton nel giardino, al buio, con la vanga in mano, non fa un casino famiglia Addams? Ci sarebbe stato bene un lampo…

 

Questa era l’ultima storia della serie “Giardini” sui Volturi, ce n’è un'altra su Leah e Sam e chi ne ha voglia può leggerla qui. Naturalmente scriverò ancora sui miei tesorucci residenti in Italia, appena mi procurerò un pc funzionante.

Intanto devo ringraziare chi si è sciroppato 21 capitoli di Volturi (dai, su, alcuni erano corti corti!), leggendo, seguendo, preferendo e ricordando; comunicherò i vostri nominativi ad Aro, così se passate da Volterra invece di mangiarvi vi offre il caffè al baretto in compagnia della vostra guardia preferita.

Ragazzi, davvero, ma davvero di cuore: GRAZIE.

 

maleka: grazie mille! Chissà perché le fiction su Marcus e Didyme vengono sempre fuori tristissime; il potere di lei era infondere felicità, e invece fa una tristezza allucinante. Sarà la pessima fine che ha fatto, e il povero Marcus che non riesce più ad appassionarsi a nulla… pensare che a me Didyme è pure antipatica. Cioè, nel fandom ce ne sono di dolcissime, ma la “mia” non la sopporto proprio.  “Quando i personaggi prendono vita”, su rieducational channel!

Zenobia_vampire: ma guarda un po’, avevi indovinato! Dai, era troppo facile stavolta! Piaciuto Afton versione giardiniere notturno? Sì, Marcus e Didyme sono una coppia un po’ sfigata… tutta ‘sta smania per prendersi le ferie a tutti i costi, non potevano andare a Viareggio come tutti? O al massimo a Milano Marittima assieme ai VIP. Ci credo che Aro ha ucciso la sorella, ufficialmente era assunta come dipendente e dopo 2500 anni chissà quanto aveva accumulato di ferie pagate, lo mandava in rovina! Scherzi a parte, grazie mille per i tuoi commenti!

vannagio: mamma mia… È incredibile come i tuoi Volturi possano essere inquietanti e comici al tempo stesso” è uno dei complimenti più belli che abbia mai ricevuto, va dritto nella mia top ten! Sono contenta che tu sia approdata nella “mia” Volterra, che ti sia piaciuta, che tu mi abbia onorata con un commento così bello; grazie, davvero.

Guarda, io spero davvero che la Meyer non scriva (e non dica nelle interviste) più nulla su di loro, perché sono una maniaca dell’IC e mi metterebbe davvero in crisi; però pensare che qualcuno se li immagina come li ho raccontati, che magari va a vedere il film e in quegli attori ci rivede almeno un po’  i “miei” caratteri è una cosa che davvero mi manda tre metri sopra il cielo. Io sono andata a vedere “Eclipse” e mi immaginavo Felix che commentava “ma perché io sono sempre quello che le prende da Jane?”.

Per quanto riguarda Aro, beh, la Meyer nella sua pessi… ehm… non eccelsa capacità di caratterizzare i personaggi è riuscita a fare una cosa bellissima: ossia a dare vita ad un essere che, se si guardano le informazioni su di lui, risulta un pazzo furioso stracolmo di potere che fa cose inspiegabili (la non-battaglia finale, ad esempio, è inspiegabile). Io sono partita da qui, poi Aro ha fatto tutto da solo. E’ un personaggio che ha una forza incredibile e una personalità soverchiante, davvero! Ad esempio, adesso ci tiene a far sapere che sa perfettamente di stregare, non potrebbe essere altrimenti. E che sì, il suo intento era esattamente quello, tesoruccio.

Scherzi a parte, di nuovo stragrazie, ora e sempre!

Kukiness: considerato che di Jane Austen ho letto solo “Orgoglio e pregiudizio”, e che l’ho comprato in seguito alla lettura di questo tuo commento, mi sento orgogliosissima di averla rievocata senza saperlo! Anche perché ho ceduto all’impulso malato di comprare (sì, l’ho comprato. Mandami Vup con la pistola, che me lo merito. O Murray a mani nude, che è più cattivo.) lo spin-off della saga di tuailàit, ed anche se assieme a quello ho comprato un libro di Amado per compensare, solo adesso ritengo di aver rimessso in pari la bilancia. Oltretutto: ma Darcy? Cioè, ma dov’è il fascino di Darcy? Io preferisco il padre delle cinque sciroccate, lui sì che è fantastico!

Comunque mi stai facendo sentire in colpa: non ti starai rileggendo millemila pagine di “ti amo” “io di più” “no, di più io” solo per me, vero? No, perché come minimo devo offrirti una cena di pesce! Le poche informazioni che ci sono in giro sui Volturi vengono quasi tutte dalle interviste alla Meyer, e spero che nessuno le chieda più niente altrimenti mi manda OOC i personaggi. Sono contenta che i miei Volturi siano vampireschi, nonostante il luccichìo; loro si impegnano, si sono letti “Dracula” e hanno visto il film, si fanno vedere in giro con l’abbigliamento adeguato e leggono pure la Rice, almeno le ragazze. Ed Aro.

Grazie mille, le tue recensioni sono sempre da ingrasso!

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Capitolo 22
*** Spagna-Olanda 2010 [Felix] ***


SPAGNA-OLANDA 2010

 

 

Felix non si ricordava spesso di essere olandese.

Si era imbarcato non appena qualcuno aveva acconsentito a prenderlo come mozzo, ed era niente più che un bambino alto. Inoltre i suoi capelli e occhi scuri erano senz’altro un tributo paterno, e anche se non sapeva chi fosse suo padre, difficilmente gli olandesi sono scuri di occhi e capelli.

C’erano solo due cose che risvegliavano il patriottismo di Felix: una era quella storia, diceva lui, “di quel povero stronzo che vede un buco in una diga e capisce che se non fa qualcosa la diga cede, e allora lui mette il dito nel buco; la mattina dopo lo ritrovano morto assiderato, però ha salvato l’Olanda”.

L’altra erano i mondiali di calcio.

 

Quando partivano i mondiali non ce n’era più per nessuno: Felix tirava fuori la sua maglia arancione e piazzava la sua poltrona preferita davanti al televisore più nuovo. Perfino Aro e Caius si intenerivano, e non lo mandavano mai in missione se giocava l’Olanda.

Felix aveva avuto la gioia di vedere la sua nazionale in finale solo altre due volte, ed erano passati trentadue anni.

L’ultima volta se la ricordavano tutti: correva il 1978 ed Alec aveva pensato che sarebbe stato buffo se quella sera Aro li avesse convocati tutti per vedere “la corazzata Potëmkin”, film del quale possedeva una copia personale. Aro aveva letto nei pensieri del ragazzo, aveva trovato l’idea estremamente divertente e quando Felix era andato a sedersi tutto contento davanti al televisore aveva fatto partire la scena della scalinata di Odessa. L’espressione di Felix era rimasta negli annales.

Lui era stato allo scherzo, aveva tuonato che “la corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca” e poi si era goduto la sua partita fino ai tempi supplementari, quando l’Argentina aveva portato via all’Olanda il titolo mondiale vincendo tre a uno.

 

Ora era già il 2010 e l’avversaria era la Spagna, data per favorita. Ma Felix ci credeva.

Detestava gli spagnoli. Quelle teste di cazzo con tutte quelle “s” alla fine delle parole, con le loro chitarre di merda e i loro sguardi sensuali, che seducevano donne a destra e a manca per poi sposarsi con la prima Carmen che passava, mettere la testa a posto e bere solo sangue di animale, per carità, che noi siamo compassionevoli. Anzi, compassionevoles. Olè.

Renata ogni tanto si metteva lì a guardare le partite con loro, anche se a lei già non fregava molto dell’Italia, figuriamoci l’Olanda. Nonostante l’unica cosa che capisse di calcio era che bisognava buttare il pallone nella rete degli altri senza toccarlo con le mani, e non vedeva un fuorigioco nemmeno con i sensi da vampiro.

Anche adesso era lì buona buona, con un vestitino a fiori chiari e i piedi scalzi in quel torrido undici di luglio, assieme a tutto il resto della guardia e ad Aro, Marcus e Caius, perché la finale dei mondiali è la finale dei mondiali, cazzo.

Nella sua maglia nuova, talmente arancione da fare male agli occhi, Felix soffriva. Magari gli olandesi li avessero sconfitti, quegli spagnoli del cazzo. Cancellati dalla faccia della terra e dal cuore di Renata, loro e le loro chitarre di merda.

Quando Iniesta, al secondo tempo supplementare e dopo centosedici minuti di gioco, portò il risultato sull’uno a zero per la Spagna Felix eruppe in una serie di bestemmie talmente colorite che spinsero Aro a guardarlo con palese ammirazione. Quando due minuti dopo l’arbitro fischiò la fine della partita nella sala calò un silenzio di tomba.

-Andate via tutti. Lasciatemi solo-, ringhiò Felix con voce sepolcrale. Caius annuì con un cenno del capo e tutti scivolarono in silenzio fuori dalla stanza.

Renata uscì per ultima; gli sfiorò la spalla con la mano e mormorò: -Mi dispiace. Io tifavo per l’Olanda-.

Felix si sentì come se fosse sopravvissuto ad una tempesta.

Quattro anni, si disse. Dateci quattro anni e noi olandesi vi facciamo il culo, spagnoli di merda.

 

 

 

 

 

 

 

Note: (parte la sigla di “Beautiful”) nel mio Tuailàit-mondo Eleazar e Renata avevano avuto una relazione, che per lui era una cosa esclusivamente fisica mentre per lei era qualcosa di più. Eleazar è spagnolo (in canon) e il mio Felix è olandese, e la finale dei mondiali è stata proprio Spagna-Olanda. Allora me le chiamano, le stupidaggini! Peraltro io tifavo Spagna, esclusivamente in virtù del fatto che, grazie alla mia abbronzatura, in estate spesso mi chiedono se sono spagnola.

La storia del bambino che salva l’Olanda è una leggenda dei Paesi Bassi; in alcune versioni il bimbo muore, in altre lo salvano. Per Felix ho scelto quella truculenta.

Le due finali mondiali dell’Olanda sono nel 1974 e nel 1978, il film “Il secondo tragico Fantozzi”, in cui c’è l’episodio della corazzata Potëmkin, è del 1976; non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di citare quello che per me è il più bello degli episodi della saga di Paolo Villaggio.

I Volturi seguono i mondiali perché se vivi in Italia ai mondiali non scampi neppure se sei un vampiro; Marcus comunque se lo trascinano dietro, a lui non interessano granché.

 

Grazie a chi segue questa raccolta e a chi la commenta; stavolta la storia era proprio una stupidaggine, ma l’ho scritta il giorno dopo la finale divertendomi molto. Quindi l’ho condivisa!

 

LAZIONELCUORE: Grazie! Che bello che la mia Chelsea ti piaccia, è un personaggio che piace tantissimo anche a me, e procacciarle fan è una grandissima soddisfazione!

 

maleka: approfitto per ringraziarti di entrambe le recensioni, questa e quella su “semi”. Mi hanno fatto davvero ridacchiare e saltellare come una scema.

Mi piace molto parlare di Chelsea e Afton, sono una coppia canon di cui non si sa nulla e considerati i loro poteri devono avere due caratteri completamente diversi, quindi mi ci diverto un sacco! Per quanto riguarda Leah, io l’adoro. Sarà che ha una sfiga che la porta via, sarà che la Meyer cerca di renderla antipatica e invece il suo sarcasmo è eccezionale, fatto sta che adoro scrivere su di lei. E non riesco mai a scrivere cose completamente tristi: la mia Leah viene sempre fuori tragicomica. Sono contentissima che la pecora nera del branco ti sia piaciuta!

Grazie mille per le tue recensioni (e per la tua Maria)!

 

vannagio: Oddio, che brutta immagine, povera Leah! Guarda, meglio che la Meyer tenga giù le sue manacce dal pc e si goda i suoi milioni. Sciò, sciò, che ci pensiamo noi fan ai suoi personaggi!

Ogni volta mi fai dei complimenti bellissimi: sulla caratterizzazione in particolare sono fissata, adoro i racconti con dei bei personaggi e cerco sempre di fare del mio meglio. I Volturi poi fanno tutto da soli! Felix in Eclipse è quasi il meno: chi è, Demetri quello con quell’abituccio damascato? E io che me lo immaginavo serio e vestito sobriamente! Mi sa che se provo a mettergli quella giacchetta si ribella, l’unica è fargliela regalare da Heidi.

La tua reazione nei confronti di Afton è esattamente la stessa che ho io: vorrei strigliarlo per bene e fargliela sposare, quella povera ragazza. Ma lui non è romantico in modo tradizionale, è romantico a modo suo, e non cede: niente baci perugina, siamo vampiri non vegetariani!

Grazie mille per le tue recensioni (e per il tuo Nick)!

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Capitolo 23
*** Gioco di ruolo [Aro] ***


GIOCO DI RUOLO

“Sei qui per giocare e divertirti”

Qualcuno aveva detto ad Aro che lì, in un punto ad est di Antiochia alle pendici di un monte, c’era una colonna sacra su cui era posata una statua miracolosa. La colonna era stata dimora del grande eremita e santo Simeone Stilita il Vecchio e perciò, secondo le voci popolari, la statua ritraeva il grande uomo ad imperituro ricordo della sua santità.

Per la precisione essa rappresentava un uomo in preghiera, con la barba bianca e uno straccio a coprirne le pudenda. Sembrava scolpita dalla mano di Dio tanto era perfetta, gli avevano detto, e rifulgeva al sole come fosse coperta di gemme. Il miracolo consisteva nel fatto che la statua era comparsa lì dal giorno alla notte, posta in quel luogo da Dio stesso, e ogni tanto cambiava posizione. Ora era in ginocchio, le mani intrecciate protese verso il cielo, ma c’era chi giurava che anni prima fosse sempre in preghiera, però in piedi, ed un giorno era addirittura scomparsa come monito ai peccatori,  per poi ricomparire in seguito a preghiere, lamenti e processioni.

Si portava dietro la solita sfilza di guarigioni miracolose, paralitici che tornavano a camminare e ciechi che tornavano a vedere, ma non erano quelle manifestazioni di credulità di massa che interessavano ad Aro. Era con lui che voleva andare a parlare, perché aveva immediatamente capito cosa fosse la cosiddetta statua miracolosa e non vedeva l’ora di sapere perché avesse deciso di condurre una vita così inusuale.

Marcus, che quando qualcuno minacciava la sua famiglia o le sue terre combatteva come un leone ma era per il “vivi e lascia vivere” in ogni altro caso, aveva cercato di dissuaderlo; -Magari tutti i piantagrane decidessero di mettersi in cima ad una colonna e non disturbare, il mondo sarebbe un luogo molto più vivibile-, aveva commentato. Caius, più pragmatico, gli aveva detto che a parlare con i pazzi si passa per pazzi, e non capiva cosa ci fosse di interessante in uno che passa interi decenni fermo sopra una colonna.

Naturalmente Aro non li ascoltò e alla prima occasione si recò alla colonna sacra, eccitato.

L’asceta era lassù in cima, immobile. Di notte le moltitudini che di giorno si recavano a pregare tornavano nei propri accampamenti, inoltre la notte era scura e senza luna e così si trovavano soli, lui e l’asceta. Aro si presentò e gli chiese di parlare con lui, ma l’uomo non diede segno di averlo udito; senza scomporsi Aro si arrampicò sul marmo e giunse sul piedistallo di fronte all’uomo. Si accovacciò, le suole dei sandali per metà sospese nel vuoto, e lo osservò da vicino.

Gli occhi del santo erano neri come l’ossidiana, la sua pelle pareva il più sottile foglio di papiro che Aro avesse mai visto; non dava mostra di accorgersi di lui né di null’altro, perduto nelle immagini mistiche e nelle sue preghiere.

Curioso come un bambino, Aro gli toccò la fronte con un dito.

Lo ritrasse come se si fosse scottato.

Poi lo posò sulla fronte dell’asceta di nuovo, più lentamente.

Quella era la mente di un folle. Non c’era più un pensiero coerente, ogni cosa pensata in passato era stata in seguito disgregata, perduta e ricomposta a caso come il giocattolo di un demente. Pregava per avere la Pace e il Paradiso, ma non c’era calma nelle preghiere che erano i suoi soli pensieri: c’erano demoni e locuste e piogge di fuoco e mari di sangue, c’erano uomini con la testa di porco e terribili angeli con la spada e i cavalieri dell’Apocalisse, c’erano punizioni ed espiazione e pentimenti. C’erano pensieri su una donna seduta sopra una bestia scarlatta e il suo nome era nome di bestemmia, e il tino dell’ira di Dio fu pigiato e ne uscì sangue, dolce, dolcissimo sangue che arrivava fino al morso dei cavalli. C’erano sentine di pentimenti, sensi di colpa e orrendi demoni latranti come cani. C’era il terrore dell’Inferno e un Dio spietato e vendicatore che esigeva preghiere e preghiere e preghiere, mortificazione della carne e penitenze, e per il quale comunque nulla era mai abbastanza. Il tutto turbinante come un vortice, illividito dai bagliori delle fiamme dell’inferno.

Aro tolse il dito.

-Questo dunque è il tuo Dio?-, mormorò.

Guardò in basso, nella piana in cui si riunivano le moltitudini a pregare.

-Questo dunque è il vostro Santo?-, aggiunse.

Sorrise, e con un balzo leggero scese dalla colonna.

 

-Ma pensate! Quell’uomo neanche si nutre, perso nelle sue visioni, cosa che lo fa soffrire tremendamente ma insieme godere per la sofferenza che prova. Come se fossimo qui per soffrire, come se non avessimo il diritto di essere felici e goderci la vita!-

Marcus sospirò. –Fratello, saranno fatti suoi, non credi? Se intende stare su una colonna a digiunare sperando di guadagnarsi il Paradiso che lo faccia. Fintantoché non crea problemi, si maceri pure nella sua follia.-

Aro scosse la testa. –Invero, la mente e il corpo sono fatti perché noi possiamo tramite essi giocare, divertirci ed essere felici. E lui non lo fa.-

-E a te non va bene perché sei il solito curioso, viziato, prepotente giocatore.- rise Caius. –Cosa hai intenzione di fare dunque, per quel misero pazzo sulla colonna?-

-Lo vedrai, fratello. Lo vedrete tutti-, sorrise Aro.

 

Passarono alcuni giorni senza che Aro accennasse più allo stilita, tanto che gli altri due pensarono che se ne fosse dimenticato, preso da cose più importanti. Invece un giorno Caius lo vide comparire nel salone della villa di Antiochia vestito con abiti da pellegrino, di buona fattura ma laceri, ed una benda sugli occhi uguale a quella che portavano gli accecati. Scoppiò a ridere a crepapelle.

Marcus alzò gli occhi dalle pergamene che stava studiando e sussultò. -Fratello, si può sapere cosa ha intenzione di fare così conciato?-, gli domandò.

Risultò che Aro aveva intenzione di mischiarsi alle folle che andavano a pregare lo Stilita spacciandosi per un pellegrino cieco. Si era inventato uno pseudonimo, la città di provenienza, i nomi dei membri della sua famiglia, il mestiere che esercitava e l’appassionata storia di come la collera di Dio aveva punito la sua avidità rendendolo cieco e di come lui si fosse lasciato alle spalle i suoi beni recandosi in pellegrinaggio per chiedere perdono. Quando Caius gli chiese perché dovesse proprio essere cieco obiettò che non poteva certo farsi vedere con gli occhi rossi davanti a gente invasata che credeva nel Demonio, che la benda era effettivamente un po’scomoda ma la presunta cecità avrebbe dato molta più credibilità alla sua storia. Allo sguardo esterrefatto di Marcus replicò solo che se decidi di fare una cosa bisogna farla bene, e comunque il gioco è tanto più divertente quanto più i dettagli sono curati.

-Auguratemi buona fortuna, fratelli-, trillò contento come un bambino. Poi si calò il mantello sul capo e si accinse a raggiungere i pellegrini.

 

Caius e Marcus s’incontrarono nel punto convenuto; i fuochi della carovana dei pellegrini ardevano ad una certa distanza, nella notte scura.

-Dunque, l’hai visto?- chiese Marcus. Il fratello annuì.

-Non capisco cosa voglia fare, ma lo sta facendo bene: a quanto pare riscuote un certo successo tra quella gente. Almeno così mi ha detto.-

-Successo? Pendono dalle sue labbra. Sono andato a raccogliere informazioni e una donna mi ha detto che ci sono voci secondo cui è un angelo, mandato a testare la fede dei pellegrini e a portare con sé il santo in Paradiso…- Scosse la testa, ridacchiando. Caius scoppiò in una risata fragorosa.

-Un angelo? Nientemeno? Se conosco Aro, queste sono voci che ha messo in giro lui stesso. Per ottenere cosa, però, non riesco proprio a capire.-

-Per ottenere una reazione dallo stilita, credo… non chiedermelo. Non so che reazione e perché. Per gioco, suppongo.-

I due sospirarono, continuando a tenere d’occhio per un po’ la carovana. Poi si voltarono e tornarono ad Antiochia.

 

Il viaggio dei pellegrini fu breve e si concluse di sabato; Aro aveva speso il suo tempo leggendo la mente di tutti coloro che gli capitavano a tiro, guadagnandosi così la reputazione di uomo sensibile e pio. Durante il giorno aveva viaggiato intabarrato in un lungo mantello, asserendo che voleva mostrarsi allo sguardo di Dio solo nel momento in cui avrebbe fatto penitenza, mondato dai suoi peccati. Si era ben nutrito: approfittava dei momenti in cui tutti dormivano per eludere le guardie e andare a caccia nei dintorni, e la benda proteggeva il segreto rivelato dagli occhi.

Ora, giunto sotto la sacra colonna, predicava la penitenza, evocava immagini infernali e giurava che le avrebbe lavate col proprio sangue nel giorno santo di domenica; un gruppo di pellegrini, uomini e donne, lo ascoltavano come se fosse il nuovo messia. Era tutto pronto per la sua commedia. Una commedia dal finale aperto, tutta da giocare e dai molteplici svolgimenti, in cui niente poteva andare come previsto se solo a qualcun altro fosse venuto in mente di giocare.

Avanti, santo, pensava Aro. Ti sto lasciando tutto il tempo: scendi dalla colonna e vieni a fermarmi.

Ma il santo, considerò con rammarico Aro, non era un giocatore. Poco importava, avrebbe fatto la sua parte in qualche modo, gli piacesse o no.

 

Fece scendere la notte, fece trascorrere le ore, attese con calma che fosse domenica inginocchiato nei pressi della colonna. I suoi fedeli lo circondavano adoranti e i pellegrini pregavano, aspettando come lui il giorno santo. Giunse infine la mezzanotte.

Aro si alzò solennemente. Fece scivolare dalle spalle il mantello in un gesto di studiata trascuratezza, sorridendo tra sé nel constatare che le persone accanto a lui trattenevano il fiato, colpite dalla sua bellezza. Cominciò a pregare, poi a chiedere perdono e confessare i suoi peccati. Riciclò quelli che aveva letto nella mente dei pellegrini in modo che tutti potessero identificarsi in lui, inventò dettagli sordidi per catturare l’attenzione e dettagli drammatici per commuovere. Infine alzò verso il cielo un coltello, in modo che tutti potessero vederlo. Si chiese perché non ci fosse nessuno con abbastanza buonsenso da scoppiare a ridere e rovinargli tutta la scenetta; non gli sarebbe dispiaciuto particolarmente.

Ma nessuno fiatava, dunque Aro continuò il suo spettacolo.

-Farò penitenza, Signore: ti ho lasciato tutto, e ora è il mio sangue che ti dono!- esclamò, e con il gesto più teatrale che conosceva, copiato dagli attori tragici che aveva visto in Grecia secoli prima, si tagliò il palmo della mano con la lama e la alzò verso il cielo in modo che tutti potessero vedere il sangue (ad onor del vero non suo, semplice trucco da commediante) scorrere giù per il suo avambraccio candido. Poi cadde in ginocchio, le braccia alzate verso il cielo.

Fu un trionfo. Tutti cominciarono a urlare, pregare, confessare i peccati commessi. I pellegrini più vicini ad Aro decisero di imitarlo e donare al Cielo il proprio sangue per mondare i propri peccati.

Quando lo fece il primo pellegrino non successe niente. E quando lo fece il secondo neanche, né il terzo, il quarto o il quinto. Poi la gente che si feriva e si fustigava per penitenza cominciò ad aumentare esponenzialmente in un crescendo di isteria di massa; l’odore di sangue era così forte da stordire.

Il santo spalancò gli occhi, neri come la fossa dell’Inferno, e ringhiò.

Aro rise, rise come un pazzo, mentre il santo sopraffatto dalla fame si lanciava dalla colonna e faceva scempio di tutti coloro che trovava sul suo cammino. Non poteva resistere, non ad una tale  tentazione.

Il progetto originario di Aro sarebbe stato di unirsi al santo nel massacro e finire con un lauto e sfrenato banchetto la serata. Poi si rese conto che, nonostante il sangue scorresse abbondante, lui avrebbe potuto resistere a patto di avere la mente concentrata su altro. Un bel combattimento, per esempio: che storia è senza un combattimento finale?

Con un gesto che avrebbe deliziato gli scultori ellenistici si tolse la benda dagli occhi e si strappò la tunica dal corpo; quasi nessuno fece caso a lui, ma Aro considerò che questa non era certo una scusa per essere sciatti. In un solo movimento aggraziato si scagliò contro il santo. Non fu uno scontro difficile, tanto che quasi rimase deluso. Il santo era debole e combatteva senza strategia, menando colpi a caso e seguendo solo l’istinto. Ogni volta che Aro lo toccava percepiva terribili immagini dalla sua mente: il santo era precipitato all’inferno. Lo fece a pezzi davanti ad una folla di pellegrini terrorizzati.

Poi spalancò le braccia come fossero ali e balzò leggero in cima alla colonna.

-Bruciatelo-, ordinò alla folla in deliquio.

 

Marcus e Caius, increduli ed esterrefatti, guardarono il corpo del vampiro ardere ai piedi della colonna sulla quale ora stava Aro e che davvero sembrava un semidio.

Lo udirono servirsi senza pudore di tutti i trucchi retorici appresi in secoli di studio mentre parlava alla folla, presentandosi come l’emissario di Dio venuto a liberarli dal demonio che stavano inconsapevolmente adorando e a dare loro una lezione: non è con gli occhi che si vede la Verità, bensì con la Fede non intaccata dai sensi mendaci. Il tutto corredato da una serie di gesti e pose che fecero sbellicare dal ridere Caius e alzare gli occhi al cielo a Marcus.

Infine Aro spalancò le braccia al cielo e spiccò un balzo verso l’alto che lo fece scomparire dalla visuale della folla, che aspettò qualche istante poi cominciò ad inneggiare al miracolo.

-Decisamente è entrato nella parte-, commentò Caius quando, qualche minuto dopo, si riprese dallo stupore.

-Io non ci posso credere…-, gli rispose Marcus in tono rassegnato.

-Non puoi credere a cosa, fratello? Allora, vi è piaciuto il mio spettacolo? Siate gentili, prestatemi qualcosa da mettere, non mi sembra il caso di andare in giro nudo…-

-Aro-, lo interruppe Marcus, mentre Caius si sfilava il mantello color porpora, -si può sapere cosa stai cercando di dimostrare?-

Lui assunse un’espressione quasi offesa, poi prese a drappeggiarsi il mantello con cura, alla moda della toga della perduta Roma repubblicana. –Ma niente, Marcus, non cerco di dimostrare niente. Stavo giocando. Siamo qui per giocare e divertirci; speravo che quel cosiddetto santo lo capisse, avremmo potuto giocare in due, invece non l’ha capito ed è morto. Non era l’unica conclusione possibile, davvero. Era solo una delle tante.-

 

Il giorno dopo tutta la città parlava del demone travestito da santo e dell’angelo giunto a smascherarlo. I tre fratelli lo sentirono nei sussurri dei servi, nel chiacchiericcio delle strade; Aro appariva soddisfatto come non mai mentre dava ordine di impacchettare le loro cose e cercare una nave che facesse rotta verso l’Italia.

-Ce ne stiamo andando?- domandò Caius. Quando Aro prendeva decisioni senza consultare nessuno si irritava oltremodo. Aro alzò le spalle.

-Torniamo a casa, fratelli, qui non abbiamo più nulla di così urgente da fare e non vorrei che qualcuno mi riconoscesse per le strade. Dobbiamo andarcene prima che il fuoco devasti Antiochia, tanto vale farlo subito. Inoltre, Marcus, nella sua ultima missiva mia sorella non ha fatto che rimproverarmi: dice che ti sto tenendo troppo tempo lontano da lei ed io non ho cuore di angustiarla oltre!-

Il cognato gli sorrise. –Didyme è troppo viziata, davvero, pare che ogni suo desiderio sia un ordine! Non trovi anche tu, Caius?-

Caius annuì con aria grave. –Trovo. Ha un fratello che la vizia troppo, per non parlare del marito: loro governano il mondo e lei governa loro.- Poi scoppiò a ridere. –Donne! Non si fa altro che tornare alle donne, e davvero Dori mi manca anche troppo: torniamo a casa, è l’ora!-

Aro batté le mani, deliziato. –Ottimo! Sapevo che sareste stati tutti d’accordo; tutto ha una fine e con il mio bel gioco questo soggiorno è giunto al termine.- Nel suo volto si spalancò un sorriso a mezzaluna. –Non vedo l’ora di raccontarlo a Sulpicia!-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: questa storia e quelle che seguiranno sono state scritte per il contest “L’amore vissuto in tutte le sue forme” indetto da Fabi Fabi sul forum di EFP. Si trattava di scegliere una carta su cui era scritta una frase d’amore (quella che io ho messo sotto il titolo) e scriverci qualcosa. Io ne ho scelte sei, questa è la prima.

 La storia è ambientata intorno al VI secolo a.C.; suppongo che a quell’epoca Didyme non fosse morta, quindi Marcus non fosse ancora diventato il personaggio annoiato e indifferente che compare nella serie. Nel 525 Antiochia fu devastata da un incendio; dato che il fuoco è l’unico vero pericolo per i vampiri suppongo che il viaggio dei tre avesse lo scopo di consolidare il proprio potere nell’area mediterranea, magari organizzandosi in modo da eliminare avversari scomodi.

 

Ciao gente! Mamma mia, era davvero dalla finale dei mondiali che non scrivevo niente? Il tempo passa troppo velocemente… troppo… è in momenti come questo che capisco Bella Swan!

Scherzi a parte, grazie a tutti i lettori. Ma proprio a tutti tutti, anche a quelli nascosti e silenziosi. Grazie davvero.

 

enifpegasus: grazie mille per le tue parole, sapere che ti “vedi” i personaggi è una soddisfazione grandissima! Spero di meritarmi i tuoi complimenti; come vedi questa è una storia su Aro, spero ti sia piaciuta… e non farti influenzare da Aro che dice che se c’è lui è bella per forza!

 

Ulissae: ma certo che so chi sei. Sei quella che fa tutti i Volturi diversi dai miei! XDXD Però il pezzo della corazzata l’hai immaginato come l’avevo in mente io e questo mi inorgoglisce tantissimo: tu apprezzi la corazzata e io ti adoro! E’ che quella scena lì ci stava troppo bene, e se vivi in Italia un'altra cosa da cui non si può scampare è Fantozzi! Eleazar è spagnolo proprio in canon (egiziano? Ma oltre i Volturi anche gli altri pg li facciamo tutti diversi?XDXD), il fatto che stesse con Renata invece è pura invenzione della mia beautifulosa mente. Hai una Volturi e calcio? E cosa aspetti a postarla, che l’Olanda vinca i mondiali?

Grazie mille dei complimenti!

 

LazioNelCuore 1711: la Spagna ha rubato? Oh mio dio, povero Felix! Quando ho letto il tuo commento, nella mia testa la sua ira è triplicata! Da oggi in poi, per lui, spagnolo=ladro. Ne terrò conto. Grazie come sempre!

 

lon8tana: grazie mille come sempre!

Adoro inserire i personaggi nel mondo in cui vivono, me li fa sentire molto più vicini, molto più “veri”. In questo caso sono avvantaggiata dal fatto che i Volturi vivono in Italia, quindi mi posso ispirare a cose di dominio pubblico, cose che conosco meglio rispetto a, che so, quello che succede nello stato di Washington. Mi piace mostrarli così; garantisco che quando vanno in missione fanno le persone serie, tranne Aro, che fa solo quello che gli pare. Farmi leggere da te e leggerti è sempre un piacere, ti seguo!

Ps:l’abbronzatura da spagnola se n’è andata, ma per l’estate prossima appuntamento in spiaggia! Diventeremo milionarie!

 

maleka: come sono contenta che ti piaccia Felix! Io gli voglio un gran bene, da solo o con Renata: non sono fatti davvero l’uno per l’altra?

Ti ringrazio per le tue bellissime parole, saperti sorridente mentre ti immaginavi i miei omarini è una soddisfazione esagerata! Far sorridere mi diverte molto più che far piangere, quindi sono sempre felicissima di sapere di averti divertito. Spero che ti diverta anche Aro!

Grazie come sempre!

 

vannagio: eh, sì, penso che Felix avesse preso la partita proprio così: come una sorta di rivalsa. Quindi la sconfitta gli è bruciata particolarmente, povero… comunque lui è svelto a riprendersi, non fa mica Swan di cognome!

Il caldo torrido se n’è andato da un po’ ma spero che apprezzerai Aro e i suoi stupidi giochi…digli di sì, mi raccomando, che altrimenti si arrabbia con me!

Scherzi a parte, grazie mille per le tue parole, mi fanno sempre un piacere immenso!

 

Zenobia_vampire: sì, è vero, Chelsea e Afton sono tenerissimi! Lui magari è un po’macabro ma cosa vuoi farci, nessuno è perfetto! E poi è bello così, vero? E certo che Felix guarda il calcio. I Cullen possono rincitrullirsi col baseball, i Volturi che sono in Italia potranno non subire i mondiali? E se poi vanno in finale Spagna e Olanda mi chiamano, proprio. Grazie mille come sempre!

 

 

Ariel Riddle Volturi: se le recensioni sono un tormento allora tormentami, sono masochista! Scherzi a parte, le tue recensioni mi hanno davvero fatto un immenso piacere.

Innanzitutto perché ogni volta che i Volturi si guadagnano un nuovo lettore io salto di gioia; si sa talmente poco di molti di loro che li tratto quasi da originali e quindi un commento (anzi, due!) così bello me lo godo pienamente. Poi perché ti è piaciuta la storia di Aro! Perché “ti sembrava di avere davanti Aro mentre te la raccontava”! Ti rendi conto di che cosa magnifica mi hai detto? Graziegraziegrazie!!!

Ho inserito “Intervista col vampiro” perché mi piace mettere i miei personaggi nel mondo, mettergli a disposizione libri, film, sport che sarebbe strano ignorassero, dato che vivono in Italia. E quel libro/film mi è piaciuto tanto, e soprattutto penso che sarebbe piaciuto anche ad Aro!

Infine: ma davvero anche tu avevi visto la Renata/Eleazar? Davvero? Ma allora non sono pazza! Evviva!

Grazie di nuovo!

 

 

 

 

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Capitolo 24
*** Il regalo [Afton/Chelsea] ***


IL REGALO

“C’è saggezza nell’accettare ciò che si è”

–Sei avaro come tutti gli uomini della tua terra, Afton. Sei avaro di parole, pensieri e sentimenti; strano, la Morte che ti piace così tanto è talmente generosa!-

Non sapeva perché fosse sbottata con una frase del genere. Forse perché si sentiva ignorata dall’uomo che le piaceva inspiegabilmente così tanto, e perché si dava tanto da fare per conquistarlo. Inutilmente.

Afton era davanti a lei e la fissava con i suoi occhi rossi da neonato, così accesi in contrasto al generale aspetto spento dell’uomo. Cos’avrà adesso da guardare, si chiese lei, non mi ha mai guardata, non davvero, e se non lo so io chi…

Ohmygod, sussultò improvvisamente. Qualcosa le strisciava sulla guancia.

Scosse la testa e un paio di vermetti pallidi caddero a terra con un rumore flaccido. Si portò le mani al volto solo per accorgersi che la pelle delle mani le si stava staccando a strati, come fosse un guanto vecchio. Le carni del suo seno erano diventate il banchetto di un gruppo di vermi che si contorcevano; strillò.

Lo sta facendo lui, pensò un angolino della mente di Chelsea. Quel briciolo di mente che non urlava “Sto morendo! Sto morendo!” sapeva che non era reale, che era solo l’effetto del potere di Afton; si mosse verso di lui gridando per farlo smettere, ma cadde a terra vomitando un liquido nero e una quantità di quegli schifosi vermi biancastri. Con le mani ormai scarnificate si artigliò la gonna per capire come mai le gambe non la reggessero e si accorse che le gambe non c’erano più: il pizzo della sottogonna, macchiato di fluidi organici, non copriva che ossa verdastre di muffa. Provò a implorarlo di smetterla; non lo vedeva più, aveva l’orrendo sospetto che i bulbi oculari si fossero sciolti e le fossero colati sul volto, e le parole non le uscivano. Forse a quel punto non c’erano più neanche gola, naso, orecchie, eppure l’odore insopportabile del suo corpo che marciva occupava tutta la sua mente. Fallo finire, pensò. Uccidimi davvero, ma fai finire tutto.

E poi finì tutto.

Sentì l’eco del proprio urlo, un urlo vero, gli occhi erano di nuovo nelle orbite e si accorse di essere sul pavimento, la gonna alzata sulle sue gambe, lunghe, bianche e sottili come al solito.

Lui era lì e la guardava (e stavolta la guardava davvero) con espressione blandamente compiaciuta. Un’eco della tipica espressione che fanno gli uomini quando regalano alle donne qualcosa che esse desideravano tantissimo.

Chelsea si alzò, tremante. Singhiozzò. Singhiozzi convulsi, da vampiro, senza lacrime. –Perché l’hai fatto?-, gli chiese.

Lui cambiò espressione. A dire il vero mosse di pochi millimetri i muscoli del volto, ma lei lo notò ugualmente.

-Pensavo ti facesse piacere-, rispose con voce piatta.

-Pensavi che mi facesse piacere cosa, di preciso?-, strillò Chelsea.

Lui sbatté le palpebre una volta sola. Non per necessità, solo per esprimere incertezza.

-Hai detto che sono uno scozzese avaro, che la Morte è generosa, ho pensato che avevi ragione. Che tu sei la Morte. E allora ti ho fatto vedere la Morte.-

Lei lo fissò a bocca aperta, basita. Avrebbe imparato a seguire i labirintici processi della sua mente, a non perdersi nelle sue similitudini macabre, ma sarebbe stato dopo. Lì per lì fraintese.

Lì per lì le si crepò il cuore, e fu quasi peggio il cuore rotto del corpo decomposto. Decise di voltarsi e andarsene in dignitoso silenzio, ma dopo soli tre passi cambiò idea e cominciò a parlare. Mai una volta che riuscisse a stare zitta.

-Dalla prima volta che ti ho visto nel tuo, chiamiamolo così per mancanza di termini migliori, castello di famiglia, mi sei piaciuto. E Dio solo sa perché, dal momento che tu mi hai guardata un attimo e poi dimenticata nonostante fossi un vampiro, quindi attraente per mia natura più di qualsiasi donna mortale ed in particolare delle donne scozzesi. Ma d’altronde non t’interessava granché di nessuno. I tuoi legami erano talmente sottili che non c’era nemmeno gusto a spezzarli, cosa che, infatti, non ho fatto. Quando è scoppiata la peste Dio solo sa perché sono venuta fino in Scozia solo per vedere come stavi, e di nuovo è solo nella Sua mente onnisciente il motivo per cui invece di lasciarti morire ti ho cambiato. Invece di farti uccidere dalla Morte ti ho ucciso io. Ora, maledetto highlander, se questo non ti va bene, se avresti preferito fare la fine dei tuoi famigli e di tutti quelli che ti circondavano, non c’è bisogno di farmela pagare. La soluzione è semplice: datti fuoco e raggiungili.-

Fece altri tre passi e lui inaspettatamente parlò.

-Tu sei stata generosa con me e volevo ricambiare. Però non ho niente da darti tranne il mio dono: la fine dei miei famigli, di quelli che mi circondavano, ma anche dei Re e dei Papi. È sempre la Morte a vincere. Io so come va a finire e adesso lo sai anche tu. Cos’altro potrebbe preoccuparti, ora?-

Chelsea aprì e chiuse la bocca svariate volte, senza sapere cosa ribattere. Aveva visto persone danzare in spregio alla Morte, ma mai nessuno considerare il “sapere come va a finire” qualcosa di positivo.

Lui si strinse nelle spalle con espressione vuota.

-Sono così, inglese. Non posso essere ciò che non sono, come non lo puoi essere tu. Se questo non ti va bene non so cosa farci, non sono un uomo saggio. Io non pretendo di cambiare gli altri.-

Chelsea pensò che non lo voleva cambiare, quello scozzese folle che le aveva regalato la Morte. Mica tutti regalano la Morte a una donna, in fondo. E quelli che lo fanno tendono ad incrinare irrimediabilmente i rapporti, non a rafforzarli come aveva fatto lui, come lei poteva ben vedere da…

Oh my God, pensò per la seconda volta nel giro di così poco tempo.

Adesso c’era un legame tra loro. Da lei a lui, ma anche viceversa. Lo vedeva chiaramente; era come se lui, prima completamente solo, avesse gettato un’ancora. Non un’ancora molto grossa, è vero, ma era pur sempre qualcosa. E qualcosa è molto meglio di nulla: qualcosa può diventare qualcos’altro.

-C’è saggezza nell’accettare ciò che si è-, concesse. Poi gli si avvicinò e gli prese la mano tra le sue. Lui non si ritrasse.

-Grazie del regalo-, gli bisbigliò sorridendo. -Però, la prossima volta che vuoi regalarmi qualcosa, ti prego di dirmelo prima!-

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: sfacciato spin-off di “Seven – Avarizia”, ivi presente al capitolo 12. Spin-off più lungo della storia da cui prende spunto, ma era da tanto che volevo farlo! Comunque si può leggere anche da solo, credo. Spero.

Chelsea vede i legami tra le persone e può rinforzarli o indebolirli, mentre Afton carinamente ti guarda e tu credi di decomporti; lo sapevate già, vero?

Ambientato nel XIV secolo, quello della devastante epidemia di peste che ha coinvolto tutta Europa. E sì, la mia Chelsea è inglese e il mio Afton scozzese; vi lascio immaginare cosa è accaduto quando hanno visto “Braveheart”.

 

E adesso lasciatemi dire GRAZIE a tutti voi, a lettere cubitali, per i vostri commenti splendidi. Ho risposto a tutti usando la nuova funzione trendy, ma di certo non sono riuscita a farvi capire quanto mi siano gradite le vostre parole. E’un onore sapere che le mie storie vi piacciono, davvero. E’bellissimo leggere i vostri commenti, ogni tanto li riguardo e mi chiedo “ma l’hanno scritta proprio a me questa cosa stupenda?”. Quindi grazie, grazie, grazie.

E ricordate: ogni volta che i Volturi si conquistano un fan un vampiro vegetariano muore!

 

 

 

 

 

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Capitolo 25
*** Fragole e champagne [Corin] ***


FRAGOLE E CHAMPAGNE

“Puoi vivere in paradiso proprio adesso”

Quando, a distanza di pochissimo tempo l’uno dall’altra, il padre di Corin contrasse la sifilide e lei si ammalò di consunzione, sua madre lamentò disperata che sarebbe stato meglio che i mali fossero scambiati e che loro due non sapevano neanche morire come si conviene.
Entrambi avevano sempre pensato che quella donna avesse una straordinaria vena di comicità involontaria; e quella volta, entrambi con la propria malattia che gli pesava sul capo come una sentenza di morte, risero fino alle lacrime.
Corin rideva spesso; il padre le aveva insegnato che la risata è il metodo meno dispendioso per coprire la gamma più vasta di espressioni. Si può esprimere felicità, rabbia, sdegno, sarcasmo, perfino tristezza, semplicemente modulando il suono delle risa. Molto più pratico che mettersi a piangere o urlare e senza mai correre il rischio di essere fuori luogo.
Fino a quando il medico non aveva pronunciato la parola “consunzione”, facendola seguire da poco convinti consigli circa luoghi di mare, dieta controllata e aria salubre, Corin non è che si era goduta la vita.
Ci aveva fatto l’amore, con la vita.
Era nata parecchio tempo dopo l’ultimo dei suoi fratelli e sorelle; sua madre era avanti con gli anni e suo padre ammetteva candidamente di non riuscire a ricordare cosa lo avesse spinto a tornare quella notte nel talamo della moglie, con tutte le donne disponibili che ci sono a Londra.
Comunque, forse a causa dell’età che gli aveva ammorbidito il cuore, s’innamorò follemente della sua ultima nata, assecondando i suoi desideri e insegnandole tutte le cose inutili che si possono imparare per godersi la vita. Imparò a parlare francese e a suonare il violoncello, ma anche a fumare tabacco e duellare come un gentiluomo. Viaggiò in Europa, Africa e perfino nelle Americhe. Non imparò mai a ballare da donna, in compenso eccelleva nella parte del cavaliere. Alla soglia dei trent’anni Corin assomigliava a sua madre nel corpo asciutto e dritto, senza forme, nell’ossatura spigolosa del viso dalle labbra sottili e nei finissimi capelli biondi, che aveva inspiegabilmente deciso di tagliare corti in seguito al suo ultimo viaggio in India. Ma sua madre non aveva mai avuto un briciolo di fascino, mentre lei aveva ereditato tutto quello di suo padre; d’altronde sua madre non sapeva sostenere una conversazione interessante né suonare davanti ad un amante coperta solo dal violoncello.
Suo padre le aveva sempre detto che poteva essere qualunque cosa volesse e lei lo aveva preso in parola; alla prospettiva di guadagnare qualche mese in più di vita conducendo un’esistenza quasi monacale oppose la decisione di non essere una malata e godersi al massimo ogni momento. Il padre le diede la sua benedizione.

Corin reagì alle nuove condizioni del suo corpo mostrandosi esageratamente stanca di vivere, cinica ed eternamente insoddisfatta circa un secolo e mezzo prima che la figura del dandy diventasse di moda. Senza però negarsi nulla di ciò che la vita poteva ancora offrirle.
Così quando Louie, il suo affascinante e sfuggente amico francese dai capelli rossi, la invitò a bere il vino prodotto nelle regioni della Champagne, Corin pensò che non poteva morire senza assaggiarlo.
Indossò abiti da uomo perché sapeva che Louie gradiva più i giovanotti delle fanciulle e, arrivata nel salottino privato dell’amico, si lasciò cadere su una chaise-longue con una spossatezza così evidente che sembrava finta.
Lui non si perse in convenevoli. Le parlò di monaci, uve di pinot e poi le versò il vino in una coppa di cristallo. Era paradisiaco. Le venne in mente che avrebbe voluto berlo mentre mangiava delle fragole, subito prima di fare l’amore… devo vivere almeno fino alla stagione delle fragole, pensò. Suggerì l’abbinamento all’amico.
-Fragole con il vino di Champagne? Mi sembra assurdo, ma se lo dici tu…-
-Vedrai. Torna quando ci saranno le fragole e mi darai ragione-.
Non aveva mai visto Louie bere o mangiare. Lui diceva che si distraeva troppo a guardare gli altri farlo e quindi tanto valeva mangiare in privato. Stravagante e fascinoso Louie.
-Sai Corin? Di solito si dice che gli occhi hanno il colore del cielo, o degli smeraldi, o della notte… ci si può anche spingere a metafore più ardite, soprattutto di questi tempi. Ma non ho mai visto qualcuno con gli occhi colore del vino di Champagne. Tu hai gli occhi color del vino, non ti sembra buffo?-
Lo scoppio di risa di Corin fu immediatamente seguito da un accesso di tosse. Ogni volta le sembrava di sputare pezzi di polmone; li sputò in un fazzoletto di seta nera. Louie sembrò trattenere il respiro e aggrottò le sopracciglia rosse. -Sei malata di consunzione, Corin-. Non lo chiese, lo affermò.
Lei sollevò un angolo della bocca sottile e si strinse nelle spalle.
-Come te ne sei accorto? Sono sempre stata esageratamente pallida, emaciata, pigra e indolente, tant’è vero che non se n’era accorto nessuno. Non è che sono malata: sto morendo.-
Louie non reagì in alcun modo alla notizia. Le versò dell’altro vino, giallastro come i suoi occhi.
-Se ti offrissero la vita eterna come reagiresti?-
Lei bevve il vino, chiudendo gli occhi per goderselo meglio. Lo faceva sempre: ogni volta che voleva godersi una sensazione eliminava la vista. La vista inganna, lo sapeva benissimo, e quindi via la vista. Il vino era inebriante e il profumo di Louie ancora di più.
-Cosa mi chiederebbero in cambio? L’anima?-
-No. Non avresti più bisogno di mangiare né di dormire. Non invecchieresti mai. Diventeresti bellissima, fortissima e immortale.-
Lei sgranò gli occhi (verdi giallastri, proprio come il vino).
-Non posso più né mangiare né dormire? E mi priverebbero così dei due terzi del bello di vivere?-
Louie ridacchiò. –L’ultimo terzo però rimane-, precisò.
Corin scosse la testa. –Sì, ma scopare senza prima aver mangiato e senza dopo poter dormire non è abbastanza… no, non ne vale la pena. L’anima l’avrei anche venduta, ma così l’offerta non è affatto allettante!-
-Quindi rifiuteresti?-
-Rifiuterei. Mi basterebbe arrivare alla stagione delle fragole.-
Louie fece un’espressione strana. Un’espressione che suggerì a tutti i nervi di Corin di farla saltare in piedi e correre via il più velocemente possibile. Il sangue defluì dalle sue guance già mortalmente pallide, conferendo al volto una tinta verdastra. La coppa le scivolò dalle mani.
-Se avessi accettato non l’avrei mai fatto, Corin.-
Non gli chiese cosa non avrebbe fatto. Era paralizzata davanti a quello sguardo. Aveva visto serpenti che paralizzavano le loro vittime ipnotizzandole, ed era così che si sentiva in quel momento.
È solo Louie, pensò. Non essere idiota, è solo Louie.
Louie rovesciò il tavolo che li divideva con un semplice, pigro movimento del polso. Si alzò dalla sedia e la raggiunse, sollevandola tra le braccia come se fosse una bambina. La baciò sulla bocca. Poi le morse le labbra.
Ricordava di averlo intravisto tra il dolore della trasformazione.
-Puoi vivere in paradiso proprio adesso-, le aveva detto.
Lei doveva aver gridato, perché lui aveva scosso la testa e aveva aggiunto –Solo che ci stai entrando dalla porta sul retro: quella che passa dall’inferno-.








Note: Corin è nominata solo alla fine di Breaking Dawn nell’elenco delle guardie dei Volturi con un asterisco a fianco. Non si sa altro di questo personaggio.
Ho ambientato la storia nel XVII secolo; in questo secolo pare che il monaco Dom Perignon abbia “inventato” lo Champagne, si diffonde l’uso del violoncello e le metafore erano davvero agghiaccianti. Ah, e poi ho questa idea di gente che ogni tre secondi duella per motivi idioti… colpa della storia di padre Cristoforo dei Promessi Sposi, suppongo. Lo spirito vagamente dandy di Corin è anacronistico, ma il carattere mica dipende dall’epoca storica! Suppongo inoltre che se Corin avesse solo immaginato che la proposta di Louie era reale non l’avrebbe mai rifiutata, mica è scema; comunque alla fine è andata bene così.
Concludo con un gigantesco GRAZIE a tutti voi che mi recensite, preferite, seguite, ricordate o semplicemente passate di qui e vi divertite a leggermi. Grazie, grazie e ancora grazie!

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Capitolo 26
*** Rosso di seta [Demetri, Heidi] ***


ROSSO DI SETA

“l’amore è la medicina che accelera la guarigione”

-Non c’è niente di peggio di un cacciatore che ha deposto le armi.-
Demetri non sussultò. Sapeva sempre dov’erano tutti e in particolare sapeva sempre dov’era lei. Senza contare che il suo profumo precedeva ovunque il suo arrivo.
Non resistette all’impulso di girarsi a guardarla; Adelaide era appoggiata allo stipite della porta, a braccia conserte. Aveva i capelli acconciati in boccoli morbidi, un abito color grigio-azzurro e, lo sapeva con agghiacciante certezza, calze rosse di seta nascoste sotto le sottane e le delicate scarpette a punta. Soprattutto aveva un corsetto strettissimo, che rivelava troppo seno perché un uomo normale potesse articolare un pensiero coerente.
Jane era stata nominata da qualche settimana capo delle guardie.
Quando mentiva a se stesso Demetri si diceva che i motivi per cui non se n’era ancora andato da Volterra erano che non voleva fare la parte del bambino capriccioso, che Aro, Caius e Marcus gli avevano esplicitamente detto che ritenevano preziosa la sua presenza, che sicuramente Chelsea era intervenuta con i suoi poteri. Quando invece guardava in faccia la realtà ammetteva che il motivo principale era la donna con le calze rosse appoggiata allo stipite della porta.
-Non c’è niente di peggio di un cacciatore sconfitto da un cucciolo-, ribatté lui con un sorriso amaro. Lei alzò gli occhi al cielo.
-Non mi piaci quando ti definisci sconfitto. Non mi piaci quando sembri ridurre te stesso a un misero strumento rimpiazzato da qualcos’altro.-
-Tu invece non mi piaci quando mi fai la predica. Sconfitto da una bambina e sgridato da una donna; chi è più misero di me?- declamò con ironica amarezza.
Lei gli si avvicinò camminando lentamente. È come annegare, pensò Demetri. Vedere Adelaide che ti viene incontro lentamente dev’essere come annegare.
-Niente più prediche, allora. Ma considera la cosa da un altro punto di vista…-
Non gli lasciò modo di ribattere. Gli slacciò i bottoni della marsina e si strinse a lui per parlargli nell’orecchio.
-Jane ha un potere che la rende forte. Tu hai altre qualità, sei un abile stratega e un cacciatore infallibile. Non sei il grande capo della guardia, e allora? Gli errori ricadranno su di lei. Le preoccupazioni anche. E tu continuerai a fare tutto quello che ti riesce così bene… fare l’amore con me, ad esempio…-
Lui rise, la bocca sul suo seno. Le sollevò la gonna: calze rosse di seta. La donna con le calze rosse di seta, con i capelli rossi di seta, con il cuore rosso di seta voleva lui, il cacciatore sconfitto. Le mani di lei scivolavano sulla sua pelle, lo baciava con la sua bocca rossa di seta.
Quando quella donna voleva fare l’amore con lui non c’era più spazio per i pensieri. Sapere che lo desiderava era una vittoria talmente dolce che il sapore amaro della sconfitta non si sentiva più.

Adelaide non voleva che Demetri se ne andasse.
Non aveva i poteri di Chelsea, non riusciva a tenere legate le persone con un semplice atto di volontà. Però sapeva bene come curare l’orgoglio ferito di un uomo: l’amore è la medicina che accelera la guarigione, e l’autostima di un uomo passa sempre dalla lussuria.
Strinse più forte le gambe intorno al bacino di lui.
Così non andrai da nessuna parte, cacciatore, pensò.











Note: Adelaide è Heidi. Ho deciso che lei abbia assunto questo nomignolo da pornodiva in tempi piuttosto recenti. La Meyer ha detto che Demetri era il capo della guardia fino a che Aro non l’ha sostituito con Jane; suppongo che la cosa non l’abbia lasciato indifferente, abbia chiesto una sfida e l’abbia persa perché Jane ha un potere troppo sgravato ed è una a cui piace vincere facile.
Dato che Jane è stata trasformata nel 1690 e che prevedo un minimo di addestramento prima di sbatterla al comando la storia è ambientata intorno al 1700. I vestiti sono in tema.
Lettori, recensori, un GRAZIE gigantesco per ognuno di voi! Un giorno ci troveremo a Volterra e offrirò da bere a tutti... tanto paga Aro!

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Capitolo 27
*** La generosità secondo Jane [Jane] ***


LA GENEROSITA’ SECONDO JANE

“L’amore non ha né obblighi né aspettative”

Jane sapeva di essere egoista. Sapeva anche perché: tutta la dose di generosità e altruismo che le aveva fornito (peraltro in quantità piuttosto esigua) Madre Natura, lei la riservava per il suo Maestro, meglio noto come Aro dei Volturi.
Del quale aveva avuto la disgrazia di innamorarsi in quel modo esclusivo ed eterno che caratterizza eroine romantiche, stupide principesse Disney e, purtroppo, vampiri.
C’era stato un periodo che a posteriori Alec chiamava “il periodo dell’adolescente incompresa” e che risaliva a quando lei aveva più o meno un centinaio di anni, in cui si struggeva convinta che Aro fosse interessato a lei solo perché era un’arma più forte degli altri. Non ricordava bene chi le avesse fatto pensare per la prima volta a una cosa del genere, ma doveva essere qualcosa che aveva detto Carlisle durante qualche sua visita a Volterra. Si era distrutta di melanconia fino a che Aro, evidentemente stanco di trovare solo pensieri negativi ogni volta che la toccava, le aveva fatto presente che scindere il lavoro dal piano personale è una cosa molto saggia da farsi e lui gliela consigliava vivamente.
Adesso era nella fase “Il fatalismo cosmico” che aveva simbolicamente preso l’avvio da una delle frasi più famose della divina commedia: quel cavolo di Amor, ch’a nullo amato amar perdona (porco cane). Se questa frase significa che nessuno che è amato può evitare di amare a sua volta, essa può essere palesemente falsa o tristemente vera. Falsa perché tutti sanno che non basta amare qualcuno per esserne riamato, vera perché, nel suo caso specifico, non è che il suo amato non amasse a sua volta. Non era detto, però, che questa persona dovesse essere lei.
L’aveva anche chiesto a Chelsea, un giorno, ingoiando l’orgoglio e minacciando tremende ritorsioni in caso di confidenze inopportune ad altri membri della guardia. La donna aveva incrociato le braccia, le aveva detto di stare tranquilla che tanto non c’è gusto nel rivelare a tutti il segreto di Pulcinella, poi le aveva raccontato di quella volta intorno al decimo secolo in cui Aro, dandole il benvenuto nella guardia, le aveva detto senza mezzi termini che rivelare ad altrui orecchie i suoi legami lo avrebbe reso estremamente deluso, amareggiato e arrabbiato. Ma proprio estremamente.
Spesso Jane si chiedeva perché Aro stesse con sua moglie invece di stare, per esempio, con lei; non si era mai sognata di fare una domanda del genere ad Aro a voce alta e Aro non aveva mai neppure accennato all’idea di risponderle. Alec, l’unico che potesse dirle verità scomode senza essere spedito a rantolare di dolore sul pavimento, le aveva fatto presente che nessuno di loro sapeva come fosse Sulpicia nella vita privata, ma comunque era una donna bella, elegante, raffinata e dagli indiscutibili gusti artistici. E che se Aro se l’era tenuta per tremila anni qualcosa in lei l’aveva trovato eccome, di certo non era tenuto a spiegare cosa ad ogni sua dannata guardia, e Jane avrebbe fatto meglio a mettersi il cuore in pace.
Il cuore in pace non se l’era ancora messo, ma aveva dovuto convenire col fratello.
Col tempo, per forza o meglio per amore, aveva dovuto imparare la generosità.
Non che dovesse esercitarla nei confronti di tutti, ci mancherebbe. Ma nei confronti di Aro era diventata, come le diceva sempre Alec, praticamente zen. Si godeva i momenti in cui lui le prestava attenzione. Non si aspettava molto e quindi qualunque gesto le dava gioia. Gli dava tutta se stessa e la considerava una gioia invece che un sacrificio.
L’amore non ha né obblighi né aspettative, si diceva, e la sua poca generosità si esauriva nel mettere in pratica, un giorno dopo l’altro, un secolo dopo l’altro, questa frase.
Anche perché era dall’anno 1980, in cui era uscito “L’impero colpisce ancora” e Aro aveva portato lei e Alec a vederlo, che era certa di una cosa.
Che se avesse detto davvero, a voce alta, “ti amo” ad Aro, lui avrebbe risposto solamente “lo so”.











Note: Questa si chiama sclerosi scaramanzia: pubblico il primo dell’anno così pubblico tutto l’anno! Inauguro il 2011 con la bambolina, così la faccio contenta; ringrazio Harrison Ford per il giorno in cui cambiò la battuta da “anch’io” in “lo so”, creando così una delle battute più maraglie della storia.
Ah, una cosa che non c'entra nulla: ho trovato quel test per vedere se il personaggio è una Mary Sue e l'ho fatto con Aro. Sapete cosa mi è venuto? Irrimediabilmente Sue! Lui ne è felicissimo, dice che non si aspettava nulla di meno. Anzi, alcune caselle mi ha costretto lui a spuntarle, tipo "il personaggio si veste in modo sexy, attraente o cool" o "una persona cara gli muore tra le braccia": ha detto che il fatto che l'abbia uccisa lui non conta. Voleva anche "abilità di passare attraverso i muri", ho dovuto convincerlo che è sottointeso che il muro debba rimanere intero.

Adesso torno seria.
A voi che mi leggete dall’inizio, da metà o da poco e che vi siete divertiti entrando nella mia Volterra; a voi che vi ci siete divertiti abbastanza da mettere questa storia nei preferiti, seguite o ricordate; a voi che mi avete lasciato più di cento commenti (‘sta cosa del numero a tre cifre mi destabilizza, giuro…) e avete fatto pubblicità ai miei ragazzi qui o sul forum; a voi che mi avete scritto cose bellissime, ma proprio splendide, lasciandomi basita a guardare lo schermo del pc chiedendomi “ma questo l’hanno scritto davvero a me?”; a voi che scrivete cose bellissime, regalandomi emozioni e il piacere di tante belle letture; a chi di voi ho incontrato dal vivo e un po’è anche merito dei Volturi; a tutti voi, che avete reso più calde le mie giornate, BUON ANNO!
Vi auguro un anno bellissimo e un numero di capodanni pari a quelli che ha festeggiato Aro, e brindo alla vostra con Champagne d'annata! Cin-cin!

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Capitolo 28
*** Garbino, gatti e nuraghe [Renata] ***


GARBINO, GATTI E NURAGHE

“L’amore è tutto intorno a te”

Renata aveva sempre avuto dei gatti, da umana.
Anzi, nell’ultimo periodo della sua vita aveva avuto solo dei gatti; li ricordava aggirarsi nella casa vuota, strusciarsi sulle sue caviglie, spezzare ogni tanto il silenzio con un miagolio o con un suono di fusa soddisfatte. Le mancavano, erano l’unica cosa che le mancava della sua vita mortale: non la fame, il battito del cuore, freddo caldo sonno e dolore. Solo i gatti.
Conosceva un vampiro che aveva dei gatti. Attualmente il suo rifugio era un casolare diroccato vicino alla pineta di Classe; fiero delle proprie origini romagnole non si spostava mai dalle provincie delle sue terre e nei vari traslochi portava sempre con sé almeno qualche gatto, che fondava una nuova colonia di randagi nel giro di pochi anni.
Il suo nome era Pio Bracci e si faceva chiamare Il Garbino, come un vento. Un vento fastidioso, caldo umido, a raffiche, che “fa uscire di testa i matti e taglia le gambe”, spiegava con un certo orgoglio. Era un essere lunatico e violento ("taglia le gambe" non era esattamente una metafora, nel suo caso), ma se gli piaceva qualcuno gli era fedele per sempre ed Aro gli piaceva moltissimo. Tecnicamente non era un membro della guardia perché, da buon romagnolo, odiava la sola idea di dover obbedire agli ordini di qualcuno; in pratica, da buon romagnolo, appena gli si chiedeva qualcosa faceva tutto ciò che era in suo potere per essere utile. Perciò Aro chiedeva e lui eseguiva; tutto sommato non era male, se non ti trovavi dalla parte sbagliata dei suoi denti, e poi aveva i gatti.
-Ciò, burdèla, ma i gatti non sono mica come i cani, che sono troppo abituati all’uomo per abituarsi a noi, o come i gazotti, che sono troppo selvatici e c’hanno paura; loro sono mezzo e mezzo come i vampiri-, le aveva detto una volta Il Garbino rispondendo alle sue perplessità. –Te il gatto lo devi prendere da piccolo, così si abitua: lo sa che sei pericoloso ma sa che non sei pericoloso con lui, gli dai da mangiare e per il resto si arrangia; quando fa i gattini gli insegna lui che non devono avere paura di te. E i gattini lo insegnano ai loro gattini e via via, e alla fine hai tutti ‘sti gatti che hanno il loro territorio dove non ci va nessuno a rompergli le palle e girano guardando dall’alto in basso gli altri animali che hanno paura di te. Ti portano anche i topi per regalo dal gran che ti vogliono bene. Se vuoi te lo regalo io, un gattino, se il tuo capo te lo lascia tenere: la Bianchina ne ha appena fatti quattro!-
Renata aveva declinato, ringraziando.

Qualche giorno dopo, sull’aereo privato dei Volturi diretto all’aeroporto di Olbia, Aro le aveva chiesto perché mai non avesse accettato il gattino; -Non avevi certo timore che io non te lo lasciassi tenere, vero, tesoruccio?-
Renata non aveva avuto bisogno di rispondergli.
Lei non temeva un diniego da parte di Aro; temeva che non ci sarebbe riuscita. Ad addomesticare il gattino, a farlo affezionare a lei; aveva paura del giorno in cui il gatto l’avrebbe abbandonata. Ci sono esseri che hanno bisogno di qualcuno di speciale per essere addomesticati e lei non si era mai sentita particolarmente speciale.
Ogni volta che Aro doveva (o meglio, acconsentiva a) spostarsi da Volterra, anche di poco, pretendeva sempre di fissare gli incontri con i suoi alleati in luoghi d’interesse storico o culturale; sosteneva che non c’era ragione di non unire l’utile al dilettevole e che per mettere a punto faccia a faccia i cavilli di un accordo era molto meglio un nuraghe di una squallida sala d’albergo. Il probabile futuro alleato l’aveva saggiamente assecondato.
Demetri era già in zona da qualche giorno per assicurarsi in incognito che gli alleati non stessero preparando loro qualche scherzo sgradito; Jane, Alec e altre cinque guardie accompagnavano Aro in qualità di testimoni dell’accordo e lei, al solito posto dietro al suo signore, guardava la sua terra d’origine avvicinarsi sempre più all’aereo. Inizio di settembre di vento e sole, di acquazzoni che se ne andavano veloci com’erano venuti; Renata sentiva l’odore della Sardegna perfino nel breve tragitto dall’aereo alla loro auto.
Non sarebbe voluta arrivare in auto al sito nuragico di Cabu Abbas; sarebbe voluta arrivarci a piedi, arrampicarsi sopra la città di Olbia e percorrere la strada tra le montagne, saltando tra le rocce bianche e la vegetazione brulla. Avrebbe voluto sentire sulla pelle le gocce di quell’acquazzone che scrosciava sui vetri dell’auto, riabituarsi a poco a poco ai colori e ai paesaggi della sua terra.
Dopo un’ultima salita le auto si fermarono in un piccolo spiazzo; non c’erano turisti, forse perché pioveva o più probabilmente perché Aro aveva deciso che non ce ne dovessero essere. Le sembrava ancora assurdo che esistesse gente che pagava per vedere i nuraghi o per sopportare il vento, il sole e la sabbia delle spiagge. Si tirò su il cappuccio scuro di malavoglia; avrebbe preferito che la pioggia le inzuppasse i capelli. Seguì il suo signore su per la ripida erta che portava alla cima del colle.

-Non trovate che questo paesaggio sia così meravigliosamente suggestivo? Sapete, ho studiato il luogo prima di portarvi tutti qui: vedete questa fortificazione?-
Aro fece un gesto teatrale, sfruttando le raffiche di vento che facevano svolazzare il suo mantello nero. Indicò i tratti di muro a secco che circondavano come una corona la cima dell’altura e il nuraghe vero e proprio sul quale si trovavano, incastonato nel punto più alto della collina.
-Sapete cosa temevano le tribù che tremila anni fa hanno fatto questo? Non gli attacchi dal mare, affatto. Temevano gli attacchi da terra da parte delle altre tribù. Vi ho dato appuntamento qui, mio carissimo alleato, affinché voi ricordiate sempre che i Volturi non amano gli attacchi da terra.-
L’interlocutore di Aro annuì come a dare ad intendere che aveva capito l’antifona. Era un uomo di poche parole; molto probabilmente sardo anche lui, considerò Renata.
Aro rise per stemperare la tensione, poi continuò a parlare.
-Naturalmente non amiamo neanche gli attacchi dal mare, ma ce ne facciamo una ragione. Quelli da terra invece proprio no. I Volturi non sono pocos, locos y mal unidos, al contrario! Forse un po’ pazzi, questo lo concedo… ma siamo tanti e molto, molto uniti, vero tesorucci?-
Renata sorrise tra sé; l’avevano detto gli spagnoli che i sardi sono “pocos, locos y mal unidos”. E se quel giorno lei era lì lo doveva anche ad uno spagnolo.
Si guardò intorno; lasciò spaziare lo sguardo sul paesaggio, sulle rocce bianche, sul porto di Olbia. Lo riportò sulla muraglia difensiva che circondava da tremila anni la cima della collina, a difendere il nuraghe dagli attacchi provenienti non dal mare ma da terra, dalle sue stesse genti poche, pazze e divise.
Lei era come il muro di quel nuraghe, proteggeva chi c’era dentro dai pochi vampiri pazzi e divisi, e anche di fronte a quelli numerosi, lucidi e uniti faceva egregiamente il suo lavoro. Intorno a lei c’era tutto il mondo, mari e monti. Per uno che l’aveva abbandonata c’erano quelli che le stavano accanto un giorno dopo l’altro, quelli a cui lei voleva stare accanto e che proteggeva.
Mentre Aro per suggellare l’accordo stringeva la mano all’alleato, risultava contento di ciò che vi trovava ed annuiva, Renata decise che era proprio ora di prendersi un gatto.

Tornò dal Garbino, che era sempre contento di vedere Aro o qualcuno del suo entourage e di accompagnarli anche fino a Forks. In quella missione Aro l’aveva infiltrato tra i testimoni perché sapeva che gli faceva piacere, perché tenesse d’occhio le loro reazioni e per un altro suo personale motivo di divertimento: Il Garbino pensava esclusivamente in dialetto romagnolo. E per quante lingue conoscesse Edward Cullen, il dialetto romagnolo non era tra queste.
Si rivolgeva in dialetto a tutti tranne che a coloro i quali, pur avendo il grave handicap di non essere nati in Romagna, gli erano simpatici e perciò meritavano lo sforzo di un idioma comprensibile. Chiamava Renata “la mi bela burdèla”.
La chiamò così anche quando lei gli chiese se l’offerta del gatto era ancora valida e per tutta risposta lui entrò nel casolare diroccato. Ne uscì con un gattino completamente bianco dal pelo un po’ lungo del tipo che, Renata lo sapeva con certezza, lasciano peli attaccati ovunque e in particolare sui mantelli di colore scuro. Gli sollevò la coda, poi scosse la testa.
-Credo che sia una femmina. Però l’è znìn, non si capisce. Potrebbe anche essere maschio.-
Glielo tese e il gattino appiattì le orecchie e soffiò, poi cominciò a miagolare impaurito.
-Cominciamo bene…-, sospirò lei scoraggiata. Il Garbino si accigliò.
–Alóra tan capèss, burdèla. Dacci da mangiare un po’ di volte e poi vedi le fusa che ti fa, son ruffiani questi bastardi, ciò! Adesso scusa ma devo andare a fare un lavoro-, le disse mollandole il gatto tra le braccia, che cercò invano di graffiare la sua pelle impossibile da scalfire.
Lo vide caricare alcune taniche di benzina sulla sua Ape Piaggio scassata.
-Dentro ho un frigor con della roba, comincia già a dargliela. Tante cose, burdèla, e saluta il tuo capo!- le gridò. In effetti, grazie alle scorte del Garbino, già all’arrivo a Volterra il gattino si era azzardato ad annusare circospetto il suo dito indice. Ruffiano bastardo, pensò Renata soddisfatta.

E già la settimana dopo le faceva le fusa e sopportava la vista di Felix, Chelsea e Afton senza soffiare. Non gli aveva dato un nome, aveva sempre avuto la convinzione che i gatti odiassero farsi dare nomi, e comunque non aveva ancora capito se fosse maschio o femmina. In compenso Chelsea la chiamava Luna per via del suo colore, mentre Felix asseriva che ci voleva un nome sardo e Pusceddu sarebbe stato adattissimo per un gatto; una volta aveva persino scorto Alec che provava a farsi avvicinare fischiando e chiamandolo “Vexen”, ma senza risultati apprezzabili.
-Guarda che se viene Sant’Inverno ti devi ricordare di nasconderlo prima che se lo mangi-, disse Felix per la trecentesima volta (Sant’Inverno era Carlisle Cullen. Felix aveva mutuato quel soprannome dal personaggio di un libro, che fosse dannato se si ricordava che libro era). Afton guardava il gatto come se lo vedesse già morto; -Quelli vivono pochissimo, quindi non ti ci affezionare-, le aveva detto.
-Come mai ti sei finalmente decisa a tenerti un gatto?- le chiese Chelsea, che stava immobile da mezz’ora con l’indice teso nella tenue speranza che Luna Pusceddu si decidesse ad avvicinarsi.
-Perché durante la missione ho capito una cosa: ho capito che l’amore è dappertutto, ma lo cercavo fuori da me. L’amore è ovunque, ma ho bisogno di occhi per vederlo-. Sollevò il gattino che miagolò debolmente. –l’amore è tutto intorno a te!-
Chelsea rise scuotendo la testa alla rivelazione che per una col suo potere suonava come la scoperta dell’acqua calda; Felix non trovò di meglio che aggiungere: –Vodafone- con voce impostata, mentre Afton la guardò in modo strano e incrociò le braccia.
-Io avevo capito che era una missione diplomatica-, commentò.













Note: “Romagna e sangioveseeee/ sei sempre nel mio cuoreeee…” ah, dì, ciò, volevo mettere un romagnolo perché io sono romagnola. Classe è un paese vicino a Ravenna: presente la basilica di Sant’Apollinare in Classe? Ecco, è lì.
Il garbino sarebbe, in dialetto romagnolo, il vento di libeccio, e quando soffia fa davvero uscire di testa. Volete un comodo dizionario italiano-romagnolo? Pronti: “la mi bela burdèla” significa “la mia bella bambina” (sì, il mio papà me lo dice. No comment…), i “gazotti” sono gli uccellini, “l’è znìn” vuol dire “è piccolo” e “tan capèss” “non capisci”. Tutto il resto è slang, ma si dovrebbe capire abbastanza bene. Il riferimento a Forks era perchè immagino che tra i testimoni che i Volturi si erano portati ci fosse qualche infiltrato fedele al clan, e immaginavo che sarebbe stato buffo qualcuno che sfotteva i Cullen in dialetto; detto fatto.
Ed ora passiamo alla Sardegna. Il complesso nuragico di Cabu Abbas esiste (non visitatelo con amici poco portati per l’archeologia che vi dicono “tutta questa fatica per un muro?”, farli volare giù dal monte è fin troppo facile e la tentazione è fortissima), come anche il detto spagnolo che i sardi fossero “pocos, locos y mal unidos”, ossia "pochi, pazzi e divisi".
Terzo amore: i gatti. Perché Renata doveva avere un gatto, e così gliel’ho fornito. Luna Pusceddu è il nome del mio. Giuro. Sostituite Chelsea a me e Felix a mio fratello ed avrete i motivi esatti di questo nome cretino; attualmente è un vecchietto, è sopravvissuto ad una situazione critica nonostante la veterinaria ci avesse detto che dovevamo prepararci a salutarlo ed è ancora con noi, acido, rompicoglioni, selvatico ed adorabile come è sempre stato.
Il libro in cui c’è Sant’Inverno è “La prosivendola” di Pennac. Vexen è il personaggio di un videogioco a cui io non ho giocato ma Alec sì.

Un GRAZIE cumulativo a tutti, e tante tante fusa!

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Capitolo 29
*** La sfida [Demetri] ***


LA SFIDA

 

Essere declassato a favore di una ragazzina incapace di combattere ti aveva fatto infuriare, ma non è con l’ira che si catturano le prede. Sii freddo, Demetri, chiedi una possibilità, chiedi una sfida, Aro rifiuterà, ma Caius l’accorderà e Marcus farà ciò che è giusto.
Ora che l’hai ottenuta lasciati alle spalle frustrazione e risentimenti, cacciatore, non servono. Sei superiore a lei, sfrutta il terreno, fiutala, tieniti sottovento. Avvicinati con calma, prenditi tempo, lei non capisce dove sei, non sa dove guardare. Senza alcun sentimento, con la mente aperta. Braccala.
Aveva quasi funzionato. Si accorse di te all’ultimo istante.
Peccato che gli sguardi viaggino a trecentosessantamila chilometri al secondo.

 

 

Note: Drabble scritta per il concorso “Team’s competition!” indetto dal Collection of Starlight sul forum di EFP. Si trattava di scegliere un personaggio al quale era abbinata una citazione da inserire obbligatoriamente nella drabble; la mia era “Senza alcun sentimento, con la mente aperta”, tratta dal brano dei Muse “Citiezen Erased”.
Bene, sappiamo che Demetri era il capo della guardia prima di Jane. Immagino che lui non abbia accettato passivamente la retrocessione; però, dato che attualmente è ancora lì e non dentro un’urna, mi piace pensare che sia stato diplomatico e abbia chiesto almeno una sfida con Jane. Che ha vinto perché ha un potere troppo sgravo.
Detto questo, il solito GRAZIE a tutti è assolutamente d’obbligo! I Volturi hanno sempre più fans, e presto i vegetariani dovranno soccombere o cambiare dieta. Aro ringrazia tutti per questo risultato, e si augura che diventeremo sempre di più, così da dominare il mon… ehm, fermare lo sterminio di quei poveri animali innocenti.

 

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Capitolo 30
*** Di un sorriso perfetto [Aro] ***


DI UN SORRISO PERFETTO

A onor del vero Aro non stava affatto cercando quel disegno. Gli capitò tra le mani mentre cercava lo schizzo preparatorio della “Vergine delle rocce”, il dipinto in cui Leonardo si era ispirato al suo volto per raffigurare l’angelo; tra i fogli ingialliti che si era portato da scartabellare sullo scrittoio trovò il ritratto a carboncino dei loro volti, la scritta “Aro e Didyme” che correva da destra a sinistra.
Leonardo ci sapeva fare con i sorrisi. Il volto perfetto di lui, con il suo solito sorriso a mezzaluna, e quello di lei. Lei sembrava la sua versione femminile ed accentuata: i capelli talmente neri da sembrare blu, gli zigomi ancora più affilati, il mento più aguzzo, il naso più sottile. E il sorriso a mezzaluna che in lei perdeva tutto ciò che aveva di enigmatico per diventare la quintessenza di un sorriso, un distillato di pura gioia che si spandeva nelle guance, negli occhi, nelle sopracciglia, tanto che chiunque lo vedesse non poteva esimersi dall’essere felice a sua volta.
Un sorriso che era come un’epidemia.
Leonardo era proprio geniale con i sorrisi, pensò Aro quando si accorse che stava venendo contagiato dal sorriso di Didyme solo vedendola disegnata.
Gli mancava. Lo sapeva che gli sarebbe mancata, la sua adorabile sorellina svampita, tutta piena di felicità e senza un briciolo di scaltrezza. Avrebbe davvero, davvero preferito non doverla uccidere.
Ma i Volturi dovevano essere tre. Non due. Tre.
Quando la porta del suo studio si aprì senza che nessuno avesse bussato lui seppe che si trattava di sua moglie, perché nessun altro avrebbe osato prendersi una simile libertà. Era una cosa che in genere lo faceva innervosire oltremodo; in quel momento invece si sentì quasi grato di non essere solo con Didyme. Sulpicia avanzò verso di lui, gettò un’occhiata al disegno e si appoggiò allo scrittoio senza dire una parola, fissandolo a braccia conserte.
Non riuscì a non notare gli anelli alle sue dita e il modo di portarli: riusciva ad abbinare in modo magistrale anelli romani, longobardi e cocktail ring di Cartier. Lo faceva anche con le collane, mescolando una massiccia torque celtica con un lungo filo di perle birmane; guardarla vestirsi lo faceva impazzire più di guardarla spogliarsi. Seguendo il percorso dei suoi orecchini arrivò ai suoi occhi che lo rimbalzarono di nuovo al disegno, e si accorse che l’aveva rifatto.
Lo faceva sempre. La sua mente saltellava di pensiero in pensiero, non aveva il tempo di fissarsi su una cosa soltanto mentre qualcosa di nuovo e interessante spostava altrove la sua attenzione, e questa era stata la sua fortuna: lo scorrere dei suoi pensieri era talmente rapido e imprevedibile da risultare impossibile da interpretare. Anche Didyme lo faceva, quando chiacchierava a voce alta: seguire il filo dei suoi discorsi a volte era così straniante da stordire.
-Leonardo ci sapeva davvero fare con i sorrisi, non è vero, Sulpicia?-
-Te l’avevo detto che non era interessante solo per le sue macchine impossibili.-
-A me era piaciuto per quelle. Anche a lei piacevano le sue macchine impossibili, ma al contrario di me non è mai riuscita a salire davvero su una macchina volante. Un peccato, non trovi?-
Sulpicia sospirò lievemente.
-A cosa pensavi?-, gli domandò. Lui le rivolse un sorriso che non arrivava agli occhi.
-Ho pensato che la tristezza si sarebbe annoiata e se ne sarebbe andata.-
-La tristezza è come la felicità, Aro: non si annoia.-
Lui le sciolse le braccia, le catturò le mani, appoggiò il viso sul suo ventre.
-Mi stai rimproverando, Sulpicia?-
-No-, rispose lei. Era vero. Non c’era nessuna decisione che Sulpicia gli rimproverasse. Sua sorella era morta e lui era triste, una delle sue rare reazioni normali. Anche se era stato lui ad ucciderla, che importanza hanno cavilli di questo genere? Lei era morta e lui era triste.
-Dovrei dimenticarla. È colpa di Marcus, finché lui non la dimentica e non torna quello di prima neanche io posso dimenticarla… incredibile l’egoismo delle persone, non trovi?-
Lei non ebbe bisogno di rispondere a voce alta. Non parlava mai molto, soprattutto con lui.
-Lo so che non la dimenticherà mai, mia amata, cerca di non fermarti al significato letterale, so che puoi fare di meglio… Non intendevo certo che deve scordarla. Intendevo dire che dovrebbe passare oltre.-
“Sì, dovrebbe”, pensò lei. Ma quel pensiero era una scatola, e il contenuto dentro al pensiero-scatola era: “ma per se stesso, non per te”.
-Per se stesso, per me… cosa cambia, mia amata? Ciò che conta è il risultato!-
Gli venne voglia di fare a pezzi quello stupido disegno dai sorrisi perfetti. O di fare a pezzi solo la metà in cui c’era Didyme, forse, e tenersi la sua; non sarebbe stata la prima volta che faceva Didyme a pezzi.
“Ad ogni modo non puoi farci nulla.”
Sua moglie aveva ragione, ed era questo a innervosirlo. Detestava non poter fare nulla. Meglio fare qualsiasi cosa piuttosto che nulla.
-Allo stato attuale delle cose, no.- Si scostò da lei e prese in mano il disegno, fissandolo intensamente. -Suppongo che già il fatto che Marcus non abbia mai innalzato una pira funeraria per poi buttarcisi dentro dovrebbe in un certo senso tranquillizzarmi. Non che non ci abbia pensato, all’inizio. Ad ogni modo mi auguro che trovi prima o poi il buonsenso di lasciarla andare, così lascerà andare anche me.-
Sulpicia gli tolse delicatamente il disegno dalle mani.
-Non posso permetterti di rovinare un Leonardo. Lo tengo io, e quando verrà il giorno in cui desidererai rivederlo potrai farlo.-
“Almeno questo”.
-“E quel giorno mi ringrazierai”-, la scimmiottò lui.
-No, non lo farai. Tu non mi ringrazi mai.-
Aro la guardò uscire dalla stanza tenendo in mano i loro due sorrisi. Avrebbe saputo sempre dove li teneva nascosti, ma occhio non vede, cuore non duole, si dice.
Bastava soltanto non vederlo, quel sorriso perfetto.








Note: qui ero ancora nella fase degli scritti un po' depressi, poi è arrivato Dioniso e me l'ha fatta passare (a proposito, ri-grazie per i vostri commenti!). Questa l'ho scritta per il concorso indetto da Saorio, che prevedeva di scegliere una tra varie frasi e metterla nella storia; per cui la frase "avevo pensato che la tristezza si sarebbe annoiata e se ne sarebbe andata" è di Michelle Featherstone, dalla canzone "Coffee e cigarettes". Invece la frase "meglio fare qualsiasi cosa piuttosto che nulla" è di un autore latino che non ricordo. Forse Seneca, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
Il fatto che la reazione di Aro sia normale... oh, Sulpicia la vede così. Cosa volete che le dica? Convinta lei!
Gente che mi commenta, che mi legge, che mi mette nei preferiti, che capita qui per caso e dice "ma chi è questa sfigata che scrive storie su personaggi inventati da altri?"... grazie a tutti voi!




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Capitolo 31
*** Tatuaggi [Felix] ***


TATUAGGI


Felix corse a rotta di collo davanti alla scrivania di Nora, la segretaria, per poi infilarsi nei sotterranei e ancora più giù, nelle segrete.
C’era Gunnar di guardia davanti alla massiccia porta di ferro della stanza delle torture; lo scansò di lato con una spallata e aprì la porta, precipitandosi dentro. Le urla del prigioniero risuonarono in maniera orribile per i corridoi e Felix si concesse un sospiro di sollievo, richiudendosi il massiccio portone alle spalle.
Caius, che aveva in mano uno strano strumento composto da denti di vampiro assemblati su una superficie di ferro, lo fulminò con lo sguardo; Jane fece lo stesso, aspettando solo l’ordine di fulminarlo con lo sguardo in maniera letterale.
Felix alzò le mani, scoprendosi completamente; la porta si spalancò e Gunnar irruppe, atterrandolo. Lui lo lasciò fare, rivolgendosi direttamente a Caius.
-Boss, chiedo perdono, davvero, tutto il perdono che posso chiedere lo sto chiedendo, ma avevo paura che lo avevate già ammazzato e io volevo solo il permesso di chiedergli una cosa, il Signor Aro ha detto che se era ancora vivo potevo…-
Il prigioniero aveva smesso di urlare e li guardava, allibito e terrorizzato.
Caius tamburellò sulla mano il suo strano strumento, le sopracciglia aggrottate.
-Gunnar, puoi tornare al tuo posto.- La sua voce era gelida come il ghiaccio; Gunnar si mise sull’attenti e uscì, rinchiudendo la porta.
-E ora, Felix. Dimmi perché non ti devo gettare nel fuoco.-
Felix abbassò le braccia. Jane lo guardava con un sorriso angelico e un’espressione di smodata lussuria negli occhi. Non aspettava che l’ordine di usare il suo potere, era evidente.
-Posso alzarmi, Boss?-
-Puoi, Felix-, ringhiò Caius.
Felix si avvicinò al prigioniero, che vedendolo arrivare si riparò il viso con le braccia, gridando e implorando, giurando che avrebbe detto tutto, fatto tutto, bastava che la smettessero. Lui si limitò a strappargli un braccio per poi mostrarlo a Caius, che sembrò non capire.
-Sbrigati a spiegarti, Felix. Te ne sto dando la possibilità solo perché sei tu, ma la mia pazienza ha un limite.-
Felix indicò il bicipite del braccio senza corpo, su cui era rozzamente disegnata un’aquila in volo.
-Boss… vede qui? Questo pezzo di merda ha un tatuaggio!-

Felix si era fatto il primo tatuaggio quando aveva circa quattordici anni, forse meno. Più o meno pochi giorni dopo aver visto la prima, vera, fottuta tempesta della sua vita, una tempesta che aveva disalberato la nave sulla quale lavorava come mozzo e che aveva rischiato di portarselo in fondo al mare facendolo diventare cibo per quelle merde di pesci. E siccome era un moccioso non sapeva far fronte ad una tempesta vera, una di quelle che si porta via anche marinai esperti, figuriamoci lui.
Però, quando l’onda l’aveva preso, sbattuto contro il parapetto di babordo e sbalzato fuori, e lui si era visto morto, con l’acqua già dentro i polmoni, lei gli aveva salvato la vita.
Una sirena. Una fottutissima sirena, coda, tette nude e tutto quanto. Col viso più bello che avesse mai visto, simile a quello di miss Jacqueline Greyjoy, la figlia del capitano. L’aveva preso e cazzo, l’aveva rimesso dentro quella dannata nave, quanto è vero dio.
Qualcuno degli altri marinai, finita la tempesta, a quel racconto aveva riso, ma poco, perché non si sa mai. Il vecchio Zachariah invece, che era stato tutta la vita in mare e sapeva come vanno le cose, gli aveva detto che era stato fortunato, e gli aveva creduto.
Quindi, appena sceso a terra Felix aveva cercato un tizio che facesse tatuaggi e si era fatto tatuare Jacqueline sul bicipite sinistro. La sua sirena portafortuna.
Dopo Jacqueline, negli anni, c’erano stati tanti altri tatuaggi, in altri porti, in altre galere e in altre situazioni. Tatuaggi misti a cicatrici, tutta la sua storia scolpita sul corpo.
E poi la sua storia era colata via.
Quando Caius l’aveva trasformato gli aveva dato l’immortalità, cosa che vale molto di più di qualche stupido disegno, ma tatuaggi e cicatrici erano spariti, guariti dal veleno, restituendogli un corpo intonso e fottutamente bianco.
Cosa che a Felix era sempre rimasta sul gozzo. Si era rassegnato, ci mancherebbe, ci si rassegna facilmente se si è immortali, imbattibili e si viene pagati per fare quello che più si ama fare, ma che a Felix mancasse Jacqueline non era un mistero per nessuno.
E Caius non lo diede a vedere, ma quando Felix gli sventolò sotto al naso il braccio tatuato di quel vampiro, si diede dell’idiota per non averlo notato subito.

Ad un interrogatorio dei Volturi non si sfugge, figuriamoci scoprire chi gli avesse fatto il tatuaggio, cosa che al tizio con l’aquila sul braccio non fregava nulla tenere segreta. Demetri ci mise pochissimo tempo a rintracciare il tatuatore, un po’ per fare un favore a Felix, un po’ perché in effetti non è che il suddetto ci tenesse particolarmente a nascondersi; a sentire Demetri girellava per il mondo facendosi i beneamati fatti suoi, ma il destino parve favorire Felix e attualmente se ne era tornato alla base, nel suo rifugio veneziano.
Felix ci sarebbe andato anche da solo o con Demetri, ma Caius decise di accompagnarli. Avrà voglia di mettere il naso fuori dalle mura di Volterra, pensò Felix.
Così Demetri li condusse nel sestiere di Santa Croce, vicino ad una chiesa. Indicò il piano superiore di una vecchia casa, probabilmente una mansarda. Caius sghignazzò.
-State pensando ai bei vecchi tempi, Caius?- sussurrò Demetri.
-Taci, stupido, che io sono sposato e ho sempre guardato e basta, a differenza vostra.-
Demetri sorrise.
– C’era da divertirsi qui, quando era il quartiere dei bordelli. Ma abbiamo di meglio a casa, noi. Heidi è inarrivabile.-
Felix sospirò.
– Ok, Boss, quand’è che si finisce di parlare di troie e si comincia a parlare di tatuaggi?-
- Bene, Felix, siamo qui per te, d’altronde. Andiamo.-
Caius si calò il cappuccio sul capo e salì nel palazzo. Gli altri due lo seguirono, silenziosi come ombre.

Bianca non si accorse di nulla, probabilmente perché aveva il giradischi con i Rolling Stones a tutto volume, anche se il suo udito avrebbe dovuto sentire lo stesso il movimento sulle scale. Invece sentì solo la sua porta che si apriva, mentre tre vampiri incappucciati entravano nel suo salotto come fosse casa loro. Vampiri che indossavano lunghi mantelli scuri; uno dei tre aveva lunghi capelli candidi.
Non che li avesse mai visti, ma ne aveva sentito parlare. Come tutti.
- Merda -, esordì, rendendosi conto che non doveva aver fatto una gran buona impressione. - Giuro che non ho fatto niente, davvero. Niente.-
Quello con i capelli candidi, l’unico con il mantello nero, scoppiò a ridere.
- Sai cosa direbbe mio fratello? Che nessuno ha fatto niente, e se davvero fosse così sarebbe comunque colpevole di ignavia. Ma tranquillizzati, non sono mio fratello. Dì al tuo amico che fa i tatuaggi di venire fuori, devo parlare con lui.-
Bianca aprì la bocca per ribattere, ma Demetri intervenne.
-Capo, con permesso… il tatuatore è lei.-

Il divano doveva essere un residuato bellico, a giudicare dai cigolii. Anche il resto dell’appartamento era decisamente pittoresco: il tavolo poggiava su una botte vuota, come nei migliori film pirateschi. Il comodino era una cassa di birra riverniciata, l’armadio uno scaffale da officina. Solo il giradischi sembrava nuovo di zecca.
Bianca, apparentemente convinta che nessuno volesse farle del male, aveva fatto cenno ai tre di mettersi a proprio agio e si era seduta, i piedi appoggiati sul tavolo.
- Un vampiro chiamato Martin… sì, l’ho incontrato ad Istanbul. Mi ha chiesto un’aquila in volo e l’ho accontentato. Non so altro di lui, davvero.-
Caius sogghignò. Chissà perché non ci credeva mai nessuno, quando diceva “voglio soltanto scambiare due parole con te”.
-Non era fatta granché bene, quell’aquila. Non sai farli un po’ meglio i tatuaggi?-
Bianca fulminò Felix con lo sguardo, o meglio, con l’unico occhio che le si vedeva. L’altro era coperto da un ciuffo dei capelli rossicci, che le nascondevano il viso quasi per metà. Tirò giù i piedi dal tavolo, si alzò con uno scatto di reni e si diresse verso una porticina in fondo alla mansarda.
-Venite nel mio studio, vi spiego una cosa-, disse.

Il cosiddetto “studio” era una stanzetta minuscola illuminata da un lucernaio. C’era un lettino, una sedia e un tavolino interamente ricoperto di inchiostri e pigmenti, su cui era appoggiato un grosso quaderno pieno di disegni. Ma la cosa più incredibile erano le pareti, ricoperte dal pavimento al soffitto di quadretti le cui tele erano in verità lembi di pelle umana di ogni etnia, su cui erano incisi tatuaggi meravigliosi, provenienti da ogni angolo del globo.
Bianca nel frattempo aveva preso in mano una boccetta di henné, e la faceva saltellare sotto gli occhi di un Felix in evidente stato di beatitudine.
- Vedi questa? Con questa posso essere precisissima, come puoi notare.-
Tutto il braccio destro di Bianca, compresa la mano e la spalla, fin sopra il seno, era ricoperto di intricati disegni scuri. A giudicare dai caratteri che si intrecciavano alle volute e alle spirali sembrava un tribale arabo; in effetti Caius notò che la ragazza aveva qualcosa di arabo negli zigomi e nella forma del volto. Forse era una mezzosangue, considerò.
- Ma questi sono solo scarabocchi, e durano poco -, proseguì lei. – Purtroppo per tatuare noi vampiri ci sono due problemi: i colori e gli aghi.-
Felix annuì. La loro pelle guariva ogni ferita quasi istantaneamente, per questo i tatuaggi non rimanevano al loro posto. Se anche si fossero trovati degli aghi adatti a scalfire la loro pelle, il colore sarebbe scivolato via e in pochi minuti il tatuaggio sarebbe scomparso.
- Ma io, signori, ho risolto questi problemi. O almeno, ho risolto un problema e mezzo, per ora.-
Demetri e Caius, che stavano guardando stupefatti i lembi di pelle sul muro, portarono l’attenzione su di lei. Che sorrise, fiera della sua pausa ad effetto.
- Primo, i colori. Che cos’è l’unica cosa che lascia cicatrici a noi vampiri? Il nostro veleno. E così mi è bastato miscelare i vari colori al veleno, in modo che la nostra pelle li trattenga. Ho fatto vari esperimenti e posso dire di aver trovato il dosaggio ideale di pigmento e veleno per ottenere colori perfetti, brillanti e che non vengono espulsi dal nostro organismo. Problema uno, risolto brillantemente.-
Felix la fissava, pensieroso.
- Cioè… vuoi dire che mi faresti un tatuaggio con lo sputo?-
- Se vogliamo metterla in questi termini, signor Felix…-
- Felix.-
-…Felix, diciamo che è così. Comunque lo sputo può anche mettercelo lei, non è necessario che sia il mio.-
Lui ci pensò un attimo, poi ghignò.
- Vada per lo sputo - decise, facendole l’occhiolino. – Che poi un tatuaggio con lo sputo non sarebbe neanche tra le cento cose più schifose che ho fatto in vita mia!-
Demetri soffocò una risata, Bianca invece rise apertamente.
- Ben detto, niente tatuaggi alle fighette schizzinose!- esclamò. Caius la fissò, sogghignando.
- E ora, contessa, passiamo al problema degli aghi -, le disse. Lei non si scompose. Sospirò.
- Bene, signori, questo è il punto dolente. Gli aghi. Cosa può scalfire la nostra pelle? La risposta è semplice: un cazzo di niente.-
Si prese un’altra pausa ad effetto.
- All’inizio ho pensato ad aghi di diamante, ma niente da fare: non incidono bene e se sono troppo sottili si spezzano, inoltre non è facile trovarli, insomma, non ne vale la pena. Poi ho pensato che ero una cretina, che la cosa che scalfisce la pelle dei vampiri c’è, e ce l’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, letteralmente: sono i denti di altri vampiri!-
Felix fischiò, ammirato. Lei prese un sacchettino di velluto e ne estrasse dei canini appuntiti, rigirandoseli tra le dita decorate di henné. Caius e Demetri allungarono il collo per guardare meglio.
- Problema: non hanno la forma giusta. Sono troppo piccoli, e anche mettendoli su un supporto sarebbero lo stesso troppo tozzi. Non sono abbastanza affilati, non sono aghi; ho provato ad affilarli io, ma restano lo stesso della forma sbagliata. Per questo il disegno viene abbastanza approssimativo, Felix. Problema risolto a metà, ma un tatuaggio approssimativo è meglio di niente.-
Demetri la guardò fisso.
- Dici che è così? Approssimativo è meglio di niente?-
Lei gli puntò in faccia uno sguardo che gli ricordò parecchio lo sguardo di Jane. Appoggiò i denti sul tavolino e fece due passi verso di lui, con le mani in tasca, fino a trovarsi a guardarlo dal basso.
- Dico, signor Demetri, che voi potete cercare quanto vi pare un tatuatore migliore di me. Non ne troverete, perché il migliore sono io, e quindi il mio meglio di niente è il massimo che si può ottenere. Naturalmente non obbligo nessuno a venire da me: Felix può pensarci quanto vuole, e se deciderà, non dubito che riuscirete a rintracciarmi. Tutto qui.-
- Eppure c’è qualcos’altro che può scalfire la pelle dei vampiri, ragazza.-
Bianca, Demetri e Felix si voltarono verso Caius. Stava fissando intensamente un lembo di pelle: doveva essere un pezzo del braccio di un uomo bianco, e raffigurava un lupo su una rupe che ululava ad un’immensa luna bianca.
- Mai sentito parlare dei Figli della Luna?-
Bianca scoppiò a ridere. – Per un momento pensavo che avesse avuto un’idea risolutiva, Signore!-
Poi si fece seria. – Ne ho… sentito parlare, sì. Ma è fuori discussione. Non se ne trovano praticamente più, a parte quello che ha trovato me, e si parla comunque di oltre un centinaio di anni fa.-
Caius si accigliò. – Quello che ha trovato te?-
Lei si passò una mano sulla fronte, tirandosi indietro i capelli. Appena sopra l’occhio sinistro aveva due profonde cicatrici: una le correva dall’attaccatura del naso alla tempia, l’altra da sotto l’occhio all’orecchio, a formare una specie di C attorno all’occhio.
- Quello che ha trovato me mentre me ne girovagavo per il Giappone imparando l’arte di tatuare carpe koi e dragoni, Signore. Me la sono cavata con poco, tutto sommato, ma la mia priorità non è stata strappargli i denti. È stata fuggire molto velocemente.-
- E quando hai detto che è successo, ragazza?-
Lei ci pensò un momento.
- A che anni corrisponde l’epoca Meiji?-
Caius sorrise, compiaciuto.
- Non credo che tu debba più preoccuparti di quel lupo, ragazza. I lupi giapponesi sono estinti, sai? Ma se mi confermi che i loro denti potrebbero essere più adatti al tuo scopo, allora…-
Caius frugò qualche istante sotto il mantello, poi si sfilò dal collo una collana di zanne. Lunghe, affilate, letali. Concesse un ghigno a Bianca che lo fissava con gli occhi spalancati.
- Dori, che è il modo in cui io chiamo mia moglie, dice che non è una cosa molto fine girare con questa, e naturalmente ha ragione, però a me piace. Vieni, ragazza, guarda: pensi che questi potrebbero andare bene?-
Bianca prese in mano la collana quasi con reverenza. Sgranò i denti tra le dita, ne saggiò la lunghezza, ci passò il pollice per sentirne il filo. Si tagliò. Sorrise.
- Penso che questi potrebbero andare bene, sì. No, penso che sarebbero perfetti. Potrei… Signore, potrei comprarne qualcuno? Ditemi un prezzo.-
Caius sorrise. Poi guardò con aria complice Felix e Demetri, come se si aspettasse la richiesta della ragazza. Felix, che vedeva i suoi tatuaggi farsi sempre più vicini, si era stampigliato in volto un sorriso che lo faceva sembrare uno squalo che ha fiutato l’odore del sangue.
- Quella potrei lasciartela per intero, ragazza. Io ne ho altre e non mi servono a molto, a parte ricordarmi combattimenti e vittorie e fare sbuffare Dori; tu almeno la useresti per qualcosa.-
Bianca lo guardò incredula. Felix e Demetri anche, ma meno sfacciatamente.
- Naturalmente, ci sono delle condizioni. Condizioni, più che un pagamento vero e proprio che non potresti saldarmi, perché questa collana mi è costata il rischio della vita e quello è senza prezzo.-
- Ah, mi sembrava… Bene, Signore, dettate le vostre condizioni.-
Bianca era risoluta. Si vedeva che voleva quella collana, se la rigirava intorno ai polsi come se fosse già sua.
- Ottimo, ragazza, vedo con piacere che collabori. Allora. Condizione semplice: tatuerai Felix ogni volta che vorrà, lui ed ogni membro della guardia dei Volturi che deciderà di farsi scarabocchiare qualcosa da te. Pensi di poterlo fare?-
- Questo lo farò con piacere, Signore; è la mia arte, ogni occasione per praticarla mi sta più che bene. Quando arriva la merda?-
- Sarai un’alleata dei Volturi, contessa. Questo significa che se durante i tuoi viaggi saprai qualcosa che ritieni possa interessarci troverai il modo di riferirlo, che se avremo bisogno di te sarai disponibile, e che verrai presto a Volterra per presentarti ai miei fratelli. Magari con addosso qualcosa di più adeguato, non che a me interessi, ma Aro lo preferirebbe. Naturalmente per questi servizi avrai ricompense e agevolazioni, come tutti i nostri alleati. Cosa rispondi?-
Bianca si guardò i vestiti. Sembrava non capire esattamente cosa non andasse nella sua canottiera da muratore e nei jeans, macchiati in più punti di inchiostro da tatuatore. Poi guardò le zanne di lupo.
- Si può fare, Signore-, rispose.
- Sei una ragazza ragionevole. E infine, un’ultima sciocchezza: vorrei uno di quei quadri. Penso che mio fratello lo gradirebbe tantissimo, sai, è da quando lo conosco che ha la mania di collezionare roba. Gli piacerebbe questo, posso prenderlo?-
Caius aveva staccato dal muro un lembo di pelle chiara, quasi sicuramente la pelle di una giovane donna; vi era raffigurata l’immagine di un demone dal volto delicato, con ali di piume scure e lunghi capelli neri.
Sembrò quella condizione pesasse a Bianca molto più delle altre due. Felix avrebbe giurato che Caius l’avesse capito: aveva lo sguardo sadico del torturatore, sotto la facciata cortese. Demetri sfoggiava l’espressione impassibile che si metteva in faccia quando capiva che non sarebbe stato il caso di scoppiare a ridere.
Lei fissò il quadretto tra le mani di Caius. Fissò i denti di lupo tra le sua mani. Felix si preparò a scattare, perché aveva la netta sensazione che lei avrebbe fatto qualcosa tipo usare i denti di lupo contro Caius; ma poi l’istante passò, e la tensione si sciolse.
- Prendetelo pure, Signore. Spero che vostro fratello lo apprezzi.-, ringhiò.
- Lo apprezzerà, e quando verrai a presentarti a lui capirà esattamente cosa significa per te, e lo apprezzerà ancora di più.-
Schioccò le dita.
- Bene, ti lasciamo lavorare. Torniamo domani sera, se pensi di essere pronta.-
- Sarò pronta.-
- Ottimo.-
I tre uscirono. Dalla mansarda risuonava a tutto volume il disco dei Rolling Stones.

- Una sirena. Qui.-
- Una sirena come?-
- Una fottutissima sirena.-
Felix aveva provato a disegnargliela su un foglio. Gli era venuta abbastanza bene; merito delle capacità da vampiro, perché non aveva mai saputo disegnare.
Lei l’aveva guardata, il sopracciglio alzato.
- Così e basta? Posso fartela più colorata, più…-
- Così e basta, bella topa. Questa è Jacqueline. Capito?-
- Capito. Vada per Jacqueline.-
L’inchiostro era pronto, l’ago aveva un aspetto decisamente… incisivo, ecco. Bianca l’aveva già provato su se stessa: il primo tatuaggio era stato suo, sul polso destro. Un carattere giapponese, come il lupo che le aveva lasciato la cicatrice.
E grazie a un lupo poteva esercitare la sua arte. Il suo più grande desiderio era stato esaudito.

Dopo Jacqueline, Bianca aveva avuto la possibilità di usare tantissimi colori.
Erano seguiti un veliero, squali, draghi, demoni e un sacco di altre cose. Erano seguiti altri membri della guardia dei Volturi, e poi la voce si era sparsa e lei si era ritrovata a girare per il mondo con i suoi inchiostri e i suoi denti di lupo.
Mezzo secolo dopo ascoltava ancora musica a tutto volume, solo che era passata al metal, collezionava ancora tatuaggi meravigliosi, e praticava la sua arte con inarrivabile maestria.
Bianca era convinta che avere accettato le tre condizioni di Caius fosse stata la cosa migliore che aveva fatto nella sua esistenza; ora poteva esibire tatuaggi veri, che non perdeva occasione di mostrare, vestendosi perennemente in canotta e pantaloncini corti. L’ultimo tatuaggio di Felix risaliva ad appena qualche mese prima: una pin-up dai capelli neri e dagli occhi grandi, simile a una donna che Bianca aveva intravisto nel corpo di guardia e che lui ogni tanto si fermava a fissare, quando pensava di non essere visto.
Ora, circondata da tutto quel verde, Bianca si chiese distrattamente quale fosse quello che leggeva i pensieri; il biondo, o il tizio con i capelli rossi e l’aspetto da ragazzino appena sverginato. Fissò la gente dall’altra parte della radura: le sarebbe piaciuto avere tra le mani l’uomo pieno di cicatrici, o ricoprire di rose la schiena della bellissima donna bionda, per non parlare della carnagione ancora scura di quella coppia di ragazzi sul fondo.
Sempre se i Signori non avessero deciso di attaccare, naturalmente.











Note, che risulteranno più lunghe della storia. Nella sua nuova giuda (dalla lettura della quale devo ancora riprendermi), la Meyer ha detto che i vampiri non possono avere tatuaggi, che nel momento della trasformazione vengono "guariti". Ora, dopo quello che ho combinato al povero Felix, dovevo assolutamente restituirgli almeno i tatuaggi se non volevo morire di morte violenta, e così è nata questa storia.
Ah, per la cronaca: il lupi giapponesi sono estinti per davvero, e indovinate in che periodo si sono estinti? Chi ha detto "epoca Meiji" ha fatto un bingo!
Devo ringraziare tutti quelli che leggono, commentano, aggiungono la storia qui e là, passano e si fanno due risate.
Ma stavolta ho qualche ringraziamento più specifico da fare, e quindi diamo il via alle danze!
OttoNoveTre, perchè Bianca è tutta sua. Creata su commissione, per lei. Le prime righe della descrizione dell'appartamento di Bianca sono scritte da lei, nella storia "Malo Eres". La mansarda di Bianca si trova nell'ex quartiere dei bordeli, da lì le batture dei tre. Spero che la tua tatuatrice ti piaccia, Chiara!
vannagio, alla quale appartiene la segretaria Nora (quella prima di Gianna, che compare nella sua storia "Cambio di personale") e che, mentre io raccontavo di voler far riavere i tatuaggi a Felix ma non sapevo se usare aghi di diamante o denti di vampiro, lei se ne salta su tutta placida con un bel "e perchè non denti di lupo mannaro?", dandomi la soluzione più maraglia possibile.
Solitaire per Gunnar (qui fa solo una comparsata, ma ha un background, perchè a noi i personaggi belli-e-basta non ci piacciono) e per tutto il resto, nel cui resto è compreso anche Vexen.

A tutti, grazie di essere passati da Volterra!

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Capitolo 32
*** ...Castello ululà - Scherzo [Alec] ***


Scherzo

“Bazinga!”
(Sheldon, “The Big-Bang theory”)

-Ciao, bello! Stai uscendo? Ti accompagno!-
Alec sospirò. Quando aveva deciso di iscriversi alla Normale di Pisa fingendosi un ragazzino prodigio aveva soppesato pro e contro, ma non aveva valutato quella possibilità: la tizia che aveva visto Demetri passare a prenderlo in macchina e da quel momento lo tampinava, sperando di farselo presentare.
-Stammi lontano, sono pericoloso-, le disse. Lei lo guardò con condiscendenza.
-Davvero. Sono un vampiro, bevo sangue umano, vorrei reciderti l’arteria femorale per nutrirmi e infine masticarti il cuore ancora caldo.-
Sorrise angelico, gustandosi il suo sguardo schifato. Poi se ne andò.
-Sei un orribile ragazzino bugiardo!- gli gridò dietro lei.









Note: se qulcuno si sta chiedendo il perchè del titolo idiota di questa mini raccolta di drabble (saranno quattro), sappia che il motivo è semplice: le ho scritte per il contest “Look in the mirror”, indetto dal Fanfiction Contest ~ { Collection of Starlight since 01.06.08 }.
Ogni partecipante poteva scegliere da un minimo di tre a un massimo di sei parole. Ciascuna parola doveva essere il fulcro di due drabbles: una con protagonista un vampiro del clan dei Volturi, una con protagonista un licantropo. Tutte le drabbles, inoltre, dovevano essere precedute da una citazione attinente al tema della drabble stessa. Le drabble con i Quileute saranno qui.
Il prompt scelto per questa prima drabble è "Bugia". Siccome va di moda mandare Alec a scuola, ce l’ho mandato anch’io. Una scuola adatta a uno che ha trecento anni, però, vogliamo mica mandarlo a studiare le espressioni con i binomi, 'sto povero ragazzo... Alec frequenta, per la precisione, un corso di perfezionamento in Fisica della Materia Condensata. Bazinga è la battuta di Sheldon, il nerd del telefilm "The Big Bang Theory", quando fa quello che secondo lui è uno scherzo.
Grazie mille mila a Ulissae, la giudice, per i giudizi e le correzioni, grazie a chi leggerà e si divertirà, grazie a prescindere!
Oh, e non ve ne fregherà niente, ma sono contenta di essere tornata a Volterra. Mi mancava, davvero.

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Capitolo 33
*** ...Castello ululà - La sposa cadavere [Chelsea] ***


La sposa cadavere

“La Morte verrà all’improvviso
avrà le tue labbra e i tuoi occhi

ti coprirà di un velo bianco
addormentandosi al tuo fianco”
(Fabrizio de Andrè, “La Morte”)

Chelsea metteva sempre lenzuola bianche, nel loro letto. Lenzuola di seta croccante, di raso scivoloso, di lino ruvido o di fine batista, talmente bianche da ferire lo sguardo.
Un giorno era sopra di lui, aveva afferrato il lenzuolo e con poche, abili mosse se l’era drappeggiato attorno al capo, facendolo scendere sulle spalle nude.
-Non ti sembra un velo da sposa?- gli aveva detto, sorridendo come una vergine durante la sua prima notte di nozze.
Lui aveva ribaltato le posizioni. L’aveva baciata.
-Lo sai cosa mi sembra?-
Le aveva coperto il corpo con il lenzuolo bianco, accarezzandola attraverso il tessuto.
-A me ricorda un sudario.-











Note: Seconda drabble! Questa volta il prompt era "lenzuolo". Poco da dire: questi sono i miei soliti Afton e Chesea, affettuosamente soprannominati Amore e Morte dai colleghi. A Chelsea non piace questo elemento, ma si sa che quando Felix appiccica soprannomi non c'è più scampo!
Mi è stato fatto notare dalla giudicia che il tremine "croccante" riferito alla seta è inusuale; l'ho lasciato perchè a me piace tanto, l'ho sentito in una canzone e mi evoca proprio la consistenza della seta lavata e stirata, che rimane appunto rigida e un po' croccante.
Grazie a tutti quelli che leggeranno, che hanno letto, ai nuovi amici e ai vecchi amici. Conosco la metà di voi soltanto a metà... ok, la finisco, sono un po' fusa! Per fortuna domani parto per le meritate ferie; se avrete voglia di recensire e non vi risponderò immantinente, non temete: appena torno a casa recupero!
Un bacione e un grazie a tutti!
Oh, e per chi fosse interessato, lupi uluqui.

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Capitolo 34
*** ...Castello ululà - Etoile [Jane] ***


Etoile

“La danza è un tentativo molto rozzo di penetrare nel ritmo della vita.”
(George Bernard Shaw)


La danza classica non è sport per signorine, Jane lo sapeva bene.
Certo, essere un vampiro le permetteva di eseguire passi difficili con notevole facilità, ma questo non bastava affatto.
La danza classica è precisione in ogni singolo gesto, movimento del collo, delle braccia, interpretazione. La danza classica è sadicamente razzista, richiede un corpo modellato apposta per lei.
Jane aveva il corpo da ballerina, e mentre danzava si illudeva di essere perfetta.
Ma ogni volta l’insegnante di turno proponeva audizioni in teatri prestigiosi, perché “un talento simile non andava sprecato, la bambina ha la stoffa per diventare un’ etoile”.
Allora l’illusione cadeva. E uccidere l’insegnante diventava un impulso irrefrenabile.











Note più lunge della storia: e andiamo con gli hobby e i passatempi dei ragazzi (dopo la passione di Alec per la fisica, ecco l'hobby di sua sorella!), perchè di tempo ne hanno, mica possono stare tutto il giorno a fare cose gotiche in pose plastiche! Jane fa danza classica perché la danza classica è come lei: una stronza dall’apparenza angelica. Non basta sapersi muovere con agilità (quindi non basta essere vampiri XD) perché la danza è Arte, non è ginnastica. Bisogna avere davvero un corpo apposta (solo l’esercizio, ore al giorno di esercizio, non bastano), e o ci nasci, o sei fuori.
Jane fa danza classica perchè la danza classica è una mia grande passione (e no, non ho assolutamente il corpo adatto, sembro più che altro l'ippopotamo di Fantasia e quel che è peggio sono totalmente en dedans, ma me ne fotto e ballo lo stesso!), volevo affibbiarla a qualcuno e, inaspettatamente, l'ha reclamata Jane.
Jane fa una strage di insegnanti di danza perchè, lo ammetto, l'immagine di Claudia che secca i suoi maestri di pianoforte è diventata un clichè che mi piace tantissimo, e chi meglio della bambolina poteva appropriarsene? Aro in genere reagisce tipo Lestat: sospira e fa finta che gliene importi qualcosa.
Oh, dimenticavo: il prompt di questa storia era "illusione", il suo corrispettivo lupesco ha come protagonista la mia cucciola, Leah, ed è qui.
Infine, gente: sono stupefatta da quanta gente passi da queste parti, davvero. Stupefatta e incredula e naturalmente felicissima, perchè l'idea che ci siate stati, a visitare la mia Volterra, mi emoziona veramente tanto.
Grazie a tutti, grazie di tutto, mille grazie per ogni volta in cui passate di qua!

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Capitolo 35
*** ...Castello ululà - Potere [Aro] ***


Potere

“Il potere logora.”



Un sacco di cose terrorizzano, pensò di sfuggita Aro, prima di scoprire come sono veramente. E, per fare crollare il cosiddetto velo di Maya, a volte poteva bastare il tocco di una mano.
Il capobranco mutaforma, ad esempio.
Amava perché era costretto, soffriva per se stesso e per coloro che faceva soffrire, non era che uno schiavo i cui vincoli erano il dovere.
Era lì, pronto a combattere, ma non avrebbe voluto esserci. Non avrebbe nemmeno voluto sapere che c’era da combattere. Si era assunto responsabilità che non avrebbe voluto e che gli pesavano sulle spalle, accartocciandolo.
Aro non ne era sorpreso.
Bisogna essere eccezionali per non farsi logorare dal potere.









Note: Questa drabble è fortemente legata a quella di Sam, qui. Credo solo che Sam e Aro vedano il loro ruolo di capo in maniera completamente opposta: che uno lo viva come un peso, l’altro non potrebbe vivere altrimenti. Si capisce che tifo spudoratamente per Aro? Ma tanto se siete arrivati fin qui lo sapevate già, nevvero, tesorucci?
E con questa le drabble sono finite; se a qualcuno può interessre il capitolo seguente in quanto zozzone è stato pubblicato a parte qui, per il resto... grazie mille a tutti quelli che hanno letto, commentato, chiacchierato, lollato in silenzio. GRAZIE. Non bastano mai i grazie che ho da darvi, sono più degli anni di Aro!
Notizia inutile: sapete che finalmente sono stata a Volterra? Ebbene, sì! Aro vi saluta tutti e manda a dirvi che sarete i benvenuti nella sua città, quando vorrete fargli visita. Scherzi a parte, Volterra è deliziosa... soprattutto il museo etrusco e le osterie (consiglio di Aro: se vi capita, mangiate il tegamaccio etrusco. E gioite)! Ringrazio Aro, la mia compagna di viaggio e... sì, ci vuole: la Meyer, alla quale devo tutto ciò!
A presto, e grazie ancora di tutto, gente!

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Capitolo 36
*** Come Santiago ebbe a che fare con gli Italiani [Santiago] ***


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Come Santiago ebbe a che fare con gli Italiani




Ay ay ay ay, ay ay mi amor
Ay mi morena de mi corazón
(Antonio Banderas, “Desperados”)

Lei era là, la schiena appoggiata a un albero, lo guardava con gli occhi del diavolo e sorrideva.
Continuava a sorridere, anche mentre lui ammucchiava i corpi dei suoi neonati. Si aspettava uno scatto, un attacco improvviso, e invece lei rimase lì anche quando lui tirò fuori l’acciarino. Le scintille baluginarono nei suoi occhi del diavolo, e quando i corpi presero fuoco con una fiammata, il suo volto sembrò per un attimo una calavera.
-Maria.-
Non lo chiese. Sapeva chi era.
-Così sia-, rispose lei.


TUTTO QUI?
Eh no! Questa storia è pubblicata per intero qui. E' stata pubblicata a parte per un semplice motivo: è un pornazzo è a rating rosso, e non volevo alzare il rating di tutta la raccolta solo per il trentaseiesimo capitolo.
Quindi, ci vediamo dietro le tende rosse, fanciulle! Un bacio!

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Capitolo 37
*** Se la gente usasse il cuore [Aro] ***


Se la gente usasse il cuore


“Se la gente usasse il cuore, tutto il mondo prenderebbe colore”…
Aro alzò gli occhi al cielo. Tremilatrecento anni di esistenza, e ancora si stupiva di quanto fossero melense le canzoni di Natale.
Guardò quell’adorabile matrioskina che fissava il televisore senza vederlo, in attesa della partenza per Forks. La bella Irina che aveva usato il cuore tanto da farsene usare. Certamente un mondo l’aveva colorato almeno per qualche momento, considerò Aro, e nella fattispecie il suo; per lei non sarebbe andata altrettanto bene. Succede.
Se la gente usasse il cuore tutto il mondo prenderebbe colore, forse.
Ma se la gente usasse il cervello farebbe davvero, davvero meglio.











Note jingle bells: Buon Natale, gente!
Capitemi, lavoro in un mercato natalizio. Mettono un cd in cui c'è quella canzone, proprio quella che apre la drabble, e quel cd gira da mane a sera. Comincio a sentirla il 24 notte, l'atmosfera natalizia, quando apro i regali; prima di quel momento è solo acidume, come potete notare.
Però, se ho scritto questa cosetta natalizia e posso approfittarne per farvi gli auguri, devo ringraziare jakefan. Io. Voi non saprei.

Gente, AUGURI. Auguri a quelle che hanno Circolato con me, a chi si è fatto leggere e che ho letto, che sono diventati amiche e amici, a chi ha condiviso week-end e a chi mi ha regalato draghi, ai biscioni che di sicuro non useranno il cuore, a chi mi dice sempre cose belle, alle portinaie, alle macchine tamarre, a Xhex che è il nostro Re, a chiunque abbia riso leggendo una mia storia, a chi ha commentato, a chi legge in silenzio, a chi passa e va.
Buon Natale a tutti voi, e i sorrisi che mi avete regalato vi tornino indietro moltiplicati per mille!
GRAZIE DI TUTTO!

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Capitolo 38
*** L'amante francese (non quello di Parigi, l'altro) [Corin] ***


L’AMANTE FRANCESE
(Non quello di Parigi, l’altro)


-Felix, ho chiamato il mio amante francese, non quello di Parigi, l’altro… se non ti senti in grado di reggermi il gioco mi faresti il favore di eclissarti?-
Ogni volta che Corin chiamava l’amante francese (del quale nessuno si ricordava il nome né da quale zona della Francia provenisse. Era noto come “non quello di Parigi, l’altro”), nel corpo di guardia si scatenava una specie di carnevale di Venezia fuori programma.
Per motivi ignoti ai più, la relazione con il tizio che non era quello di Parigi ma l’altro era iniziata e proseguita all’insegna della totale decadenza. Nel senso che Corin gli si era presentata come una sorta di poète maudit angosciata dal mondo e poi aveva trovato divertente continuare su questa via; i ragazzi ci avevano preso gusto e quello che era partito come un semplice “reggetemi il gioco” era diventato un divertimento collettivo.
Felix fece uno sguardo risoluto.
-No no, Dorian Gray, stavolta non rido. È che l’ultima volta proprio non ce l’ho fatta… com’era quel discorso sulle rose nere come la tua anima?-
Santiago rise. –La sua anima in effetti potrebbe benissimo essere nera, cabròn! Mi preparo le canzoni, querida…  hai qualche richiesta in particolare?-
Lei si stese sulla chaise-longue in posa languida. Riusciva a sembrare credibile anche con le all-star verde smeraldo.
-Mi fido di te… ma ti consiglio di evitare le canzoni che parlano di una Maria. Lo fai sempre e finisci ogni volta per deprimerti.-
Felix rise, lui sbuffò. –Canzoni con Corin non ne hanno fatte, bimba. Altrimenti le canterei sotto la tua finestra.-
-Senti senti senti… e dimmi, Santiago: chi ti dice che un giorno non verrai a implorarmi di farti entrare, non so, nella mia vasca da bagno? La riempirei di petali di rose nere come la mia anima corrotta…-
-Credo che non esistano universi in cui questo possa accadere. E poi a me piacciono las morenas.-
-Se vuoi ci entro io, nella tua vasca. Anche senza rose, basta l’acqua. Anzi, se vuoi neanche quella.-
Corin recuperò da una borsina decorata con perline viola un lungo bocchino d’avorio e un accendino d’argento. Poi cominciò a girarsi una sigaretta. Avrebbe potuto essere in un bar parigino di inizio secolo.
-Ma finiscila, Felix-, disse prima di leccare la cartina. –Sei tutta bocca. Parli parli e poi non concludi mai. Vuoi una vasca da bagno? Ti presto la mia. Però solo se ci porti Renata.-
Lui inaspettatamente lasciò cadere il riferimento.  Tacque un attimo, prima di riprendersi con il suo solito ghigno. –Vaffanculo, tutta bocca ti piacerebbe essere te, così poi potresti fare dei megapom…-
-Felix, abbiamo capito. Basta, ci sono dei bambini, qui.-
Alec aveva alzato gli occhi dal plico di articoli che stava studiando. Si era messo un paio di occhiali dalla spessa montatura nera, così, perché gli piaceva come gli stavano.
-Ma fottiti, Arnold, che sei più vecchio di me!- rise Felix.
-Sentite, tornando al punto principale, che è l’arrivo del mio amante… Alec, dov’è Jane?-
Lui si strinse nelle spalle.
-A pettinare Aro, credo. Quando hai detto che arriva quel francese? Non vorrei che fosse proprio il giorno del mio esame… male che vada me lo faccio anticipare, però.-
-Gli ho dato appuntamento fra tre giorni. Capito quanto è mistico tre? Comunque, dici che Jane se lo metterebbe il costume del cigno nero?-
-Vuoi che facciamo la scena “dai, vieni a giocare con noi”?-
-No! Ho detto decadente, non film horror… cerca di non uscire dal personaggio, Alec!-
-È che mi sono stancato della classica cosa del “non cresco e ho solo mia sorella”, capito?-
-Troveremo qualcosa.-
Lui picchiettò i fogli con le dita.
-Cosa ne pensi se dico a Gianna di far riempire il corridoio di specchi?-
In quel momento entrò Heidi, con Demetri.
-Cosa odono le mie orecchie? Corin, viene il tuo amante francese? Non quello di Parigi, l’altro?-
Lei accese la sigaretta con fare languido. Ci riusciva nonostante la maglietta nera con scritto “Staff”. Annuì.
-Allora dovrò tirare fuori il vestito nero da vedova! Non lo mettevo da… oh, da quella volta con te, Demetri!-
-Ehm… sì. Io mi eclisso con Felix?-
-Felix avrà un’ultima possibilità, e tu vai benissimo così. Solo, per pietà, non ti mettere un’altra volta la tuta. Hai quelle marsine bellissime, usane una, possibilmente scura. Oh, Heidi, mirabile visione e unica luce delle mie pupille che vedono solo disfacimento…-
-Guarda che quello è Afton.-
-Lo so, ho preso spunto.- Corin si alzò e camminò verso Heidi. Non camminava come una donna, ma nemmeno come un uomo.  Le accarezzò il volto.
-Per piacere, ce la fai a procuraci un paio di fanciulli pallidi e tisici? Però belli, eh, mi raccomando!-
Heidi alzò gli occhi al cielo.
-Pallidi e tisici? Penso che non ne esistano nemmeno più, di tisici!-
-Oh, non sottovalutarti, mia rossa come il sangue delle vene tagliate dagli amanti traditi…-
-Certo che per una che stava morendo di tubercolosi, chiedere dei tisici ha un che di morboso-, considerò Demetri. Lei gli lanciò uno sguardo da sopra le spalle di Heidi.
-Ma è proprio questo il punto. Allora? Me li trovi i due tisici?-
-Farò del mio meglio. Ma non sarà facile, in tre giorni.-
-Se c’è qualcuno che può farcela, quella sei tu… grazie tante, rossa come il sangue eccetera-, fece Corin. Poi la baciò.
Ci fu un silenzio di tre secondi prima che i maschi presenti nella stanza cominciassero ad applaudire. Felix urlò –Grazie, Dio!-
-Ma cos’è questa confusione?-
Renata era comparsa sulla porta, assieme a Chelsea. Afton le seguiva svogliato, probabile che lo avessero portato a fare shopping o cose così. Appena la vide, Felix le sorrise. –Renata, arriva il francese, non quello di Parigi, l’altro!-
Corin e Heidi si fecero l’occhiolino.
-Oh! Veramente? Le direttive sono le solite?-
-Ovvio, fatina… alla fine Corin non mi ha escluso, sai?-
-E quando arriva?- s’intromise Afton.
-Fra tre giorni… come mai? T’interessa?-
Lui si strinse nelle spalle.
-Mi è simpatico. -
Tutti si voltarono verso Afton, simultaneamente. Ora, tante cose si potevano dire dell’amante francese, e comunque in un certo qual modo divertiva tutti, ma simpatico non era esattamente tra i primi dieci aggettivi che venivano in mente quando si pensava a lui. Nemmeno tra i primi venti, a dire il vero.
-Mi sta sempre a sentire, quando gli parlo.-
Chelsea alzò gli occhi al cielo.
-Sì, l’ultima volta gli hai attaccato una pezza di mezz’ora descrivendogli per filo e per segno la Peste Nera in Europa, e lui era tutto interessato… un simpaticone, davvero!-
Lui la guardò lievemente sconcertato.
-Che c’è di male nella Peste? Senza la Peste noi adesso non staremmo insieme.-
Chelsea stette immobile quei due-tre secondi. Poi si voltò e gli si appese al collo, strappandogli un bacio mozzafiato.
-Afton, questa è la cosa più romantica che tu mi abbia detto da… da… Oh, God, scusate ragazzi, ci vediamo tra un pochino, eh? Vieni con me, tu!- E se lo trascinò dietro, uscendo dalla stanza.
-Poi dite che sono strana io-, commentò Corin dopo qualche istante.
-Tu sei strana, Lestat; loro due sono malati, è diverso!-, le rispose Felix.
Lei sbuffò un cerchio di fumo.
-Adesso vado ad avvisare Aro e Caius che il mio amante ha accettato l’invito… si sono raccomandati di farglielo sapere, in caso!-
La seguirono tutti, come in un corteo; trovarono solo Caius che infilava spilloni in una mappa dell’America del Nord.
Nell’apprendere la notizia, ghignò.
-Aro ne sarà entusiasta, Corin. In quanto a me, non vedevo l’ora di trovare una scusa per togliere la polvere dall’organo… Dori ne sarà felice!-
-Lei è sempre il migliore, Capitano Nemo!-, esclamò Felix, scoppiando a ridere.


Era una notte buia e tempestosa.
Corin esultò fra sé alla luce di un lampo, mentre aspettava sotto Porta dell’Arco. Scenario perfetto.
L’orologio del palazzo batté la mezzanotte. Corin uscì dal riparo della porta, mettendosi in posa sotto quella che, le avevano detto, un tempo era il ritratto della testa di Aro.
La pioggia le incollò al viso i capelli biondi, le scivolò sugli zigomi affilati e sopra il cappotto nero, lungo, con gli alamari d’argento. Colò sugli stivali neri di pelle e refluì sui ciottoli, come sangue.
Dai, cazzo, però. Muoviti.
Lo vide, alla luce del lampo, risalire la via con lentezza umana. Anche i suoi capelli lunghi erano fradici.
Sarai quel che sarai, ma minchia quanto sei bello, pensò.
La raggiunse. Si fissarono in silenzio. Due solitudini in una notte di pioggia.
-Seguimi-, gli sussurrò lei. Poi si girò e s’inoltrò nei vicoli della città, senza mai voltarsi indietro.
Entrarono dalla parte della pinacoteca; Corin accese una candela, la luce della fiammella scivolò sulle opere d’arte e sui ricami d’oro dei pastorali.
-Relitti di un’epoca passata. Nient’altro che relitti.-
Appoggiò la mano guantata di bianco sul vetro, davanti a un piccolo dittico che raffigurava l’Annunciazione. L’arcangelo Gabriele era avvolto da panneggi di stoffa scarlatta. Il suo amante appoggiò la mano accanto alla sua, il pizzo dei polsini era bianco sulle mani bianche. Le cinse la vita con un braccio.
-Andiamo via da qui. C’è troppa bellezza per due anime come le nostre.-
-La vista della bellezza è la mia sola consolazione-, affermò lei. Ma si voltò, gli sfiorò le labbra con le sue e scivolò via, guidandolo verso una porticina ben dissimulata. La aprì con una chiave d’ottone.
-Benvenuto nel luogo del crepuscolo eterno-, sussurrò in tono amaro.

Il lungo corridoio era pieno di specchi che lo dilatavano quasi all’infinito, moltiplicando la luce della candela. Un fanciullo sembrava guardarsi pensieroso, la cornice gli rimandava un’immagine identica alla sua, ma vestita di piume scure. Alzò una mano e l’appoggiò sul vetro; l’altro se stesso lo imitò.
-Non possono fare che questo, vedi…- sussurrò Corin, lo sguardo spento. –Rimirarsi l’uno nell’altro, per l’eternità.-
Il francese sussultò, guardandoli. I due fanciulli, l’arma più potente dei Volturi, voltarono appena i loro volti identici e li seguirono con lo sguardo. Perfino le loro pupille, color rosso fuoco, si muovevano con identica, fissa lentezza.

Aspettarono che i passi dei due scemassero. Poi Jane soffocò una risata con le mani.
-Shhh-, le fece Alec. Si guardò attorno, compiaciuto.
-Questi specchi stanno benissimo qui, vero? E se chiedessi ad Aro di lasciarli?-
Lei gli allungò un bacio sulla guancia, poi si piazzò in mezzo al corridoio.
-Perché no, in effetti sono fantastici-, gli disse prima di lanciarsi in una serie di fouettés.

Gianna li accolse con un sorriso stampato in volto, un sorriso perfetto che non arrivava agli occhi. Il francese inspirò con forza il suo odore umano e si lasciò sfuggire un ringhio. Corin gli appoggiò una mano sul petto.
-Non toccarla.-
Una voce piatta rivelò la presenza di un uomo in un angolo. Un uomo dall’espressione assolutamente indifferente.
-Tanto dovrà morire comunque. E anche tu. Ma non deve accadere per forza adesso. Credo.-
-Afton…-
-Mi fa piacere rivederti. Quando le parlo di te, la mia compagna si rivela… contenta.-
Non scoppiare a ridere in quel preciso momento, per Corin, fu come dover resistere al richiamo del sangue di una ventina di suoi cantanti che si fossero dati appuntamento per tagliarsi le vene. Si voltò di scatto verso Gianna, mordendosi le labbra con tutte le sue forze e sferrando un pugno sulla scrivania. Che siccome aveva un’anima di ferro si piegò invece di rompersi, facendo fare a Gianna un salto indietro.
-Stiamo perdendo tempo, qui. Vattene, Afton. Guardarti mi ricorda la morte, e la pace che non potrò mai raggiungere.-
Lui sbatté le palpebre. Una sola volta.
-Devo stare qui. Ordini di Aro. Credevo lo sapessi.-
-Bene, non importa, ce ne andremo noi. Tanto alla Nera Signora non potremmo sfuggire, alla lunga, non è forse così?- Il tono era sarcastico.
-È esatto-, confermò lui in tono piatto. Il bello è che non lo sta nemmeno facendo apposta.
-A proposito di morte, Gianna…- Corin le prese un polso, annusandolo. Cazzo, questo è difficile e lei ha paura davvero. Dai, bella, ce la puoi fare. –Non tentare di nuovo di tagliarti le vene, me lo prometti?-
Gianna scosse la testa e ritrasse il polso, nascondendolo con la manica della giacca. Ma tutti loro fecero in tempo a vedere la lunga cicatrice che glielo deturpava.
-Andiamocene, mio caro. La notte è sempre troppo breve. O lente, lente currite, noctis equi!-
il francese scoccò un’ultima occhiata ad Afton che lo salutò alzando una mano, e la seguì.

Gianna si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona, sospirando di sollievo.
-Non avrei lasciato che ti accadesse nulla. Aro non vuole e Chelsea ci sarebbe rimasta male.-
-Gra… Grazie, signor Afton. Se lo dice lei.- Gianna aveva preso una salviettina e si stava strofinando il polso. –Questo trucco non viene via…-
Afton si strinse nelle spalle. –Sì, i trucchi che usa Chelsea fanno così. Quando mi ha truccato da morto per Halloween sono andato in giro due giorni con la faccia da teschio. Comunque, prima o poi avrò quell’aspetto davvero, quindi la cosa non mi disturbava granché.-
-Certo… invece io non vorrei sembrare una che si taglia le vene, capite…-
Afton la guardò in un modo che rendeva evidente che no, non capiva. Gianna ci rinunciò e aggiunse “comprare struccante professionale” a una lista su cui erano già segnati “latte pane ricarica telefono richiamare Gigi”. Poi mise la lista in borsa.
Intanto, nelle sue sale private, Caius accarezzava con insolita delicatezza i tasti di un enorme organo a canne. Athenodora si era seduta su una poltrona, in attesa.
-Dovremmo invitarlo più spesso, quell’amante francese di Corin, se ti spinge a riprendere a suonare… non è quello di Parigi, vero?-
-No, è l’altro.-
-Oh, sì. Mi sembrano tutti uguali. Allora? Non ti sembra il caso di cominciare?-
-Non essere impaziente, Dori. Adesso inizio. Sai che Felix dice che gli ricordo il capitano Nemo?-
La moglie gli sorrise, maliziosa.
-Ora che ci penso non staresti male, in divisa.-
Caius rise, e pigiò sui tasti dell’organo.

E adesso arriva la parte difficile.
Il salone era pieno di candele nere, le tende di velluto coprivano le grandi finestre rendendo l’aria densa e soffocante.
Un gruppo di persone, con vestiti scuri e volti inquietanti, era intento a fare cose gotiche in pose plastiche, che riuscivano straordinariamente bene in quella semioscurità.
-Ogni volta che vedo il luogo in cui vivi, comprendo le ombre che ti avvolgono il cuore-, le sussurrò il suo amante. I suoi capelli castano chiaro avevano riflessi splendidi, sotto le luci delle candele.
-Qui le finestre hanno vetri, ma è come fossero lastre di pietra. Non lasciano entrare la luce. Noi siamo tutti pietre, come le statue dei defunti sulle urne cinerarie etrusche, intenti a difendere i baluardi di un potere vuoto e insensato.- Fece una pausa a effetto. Quella delle urne piacerebbe ad Afton. Poi si fermò in mezzo alla sala, fissandolo con sguardo grave. -Ma se tutto è senza senso, qui almeno ho l’illusione che possa averlo-, terminò.
-Ma… a che prezzo, Corin?-
In quel momento una risata folle risuonò alle loro spalle.
Un uomo bello e terribile come Lucifero scivolò (era questa la parola giusta. Lui scivolava, come acqua dolce) verso di loro.
-E dunque! Sei qui, mio gradito ospite!- gli si rivolse Aro in perfetto francese provenzale.
-Mio Signore-, si inchinò lui, impeccabilmente. Tutto apparenza, cucciolo…
-Niente è più profondo dell’apparenza-, trillò Aro accarezzandole una guancia. –Ricordalo, mia adorata schiava-. Non ridere. Non ridere non riderenonridere…
-Lo ricorderò, mio Signore.- Riuscì anche a lanciargli uno sguardo infuocato di rabbia, mentre diceva “mio Signore” in tono sprezzante. Aro si esibì nel suo migliore sorriso a mezzaluna. Poi scoppiò a ridere e si allontanò dando ordini improbabili, uno dei quali suonava tipo –Portate nelle segrete l’ambasciatore che non porta pena, e insegnategli che i vecchi modi di dire sono sba-glia-ti!-
-Seguimi-, intimò Corin al suo amante francese. Lui le appoggiò una mano sulle spalle sottili. Passarono di fianco a Renata, seduta in disparte su una poltrona di velluto rosso, con la schiena dritta e i capelli neri sciolti sulle spalle, intenta ad accarezzare un gatto bianco. Se almeno smettesse di ronfare, Pusci del cavolo… lei però era impassibile. I suoi occhi enormi erano semichiusi, fissava un punto invisibile e vago al centro del salone. Il rosario di grani neri attorno al collo, che accentuava il suo aspetto mediterraneo, era un tocco di genio; doveva essere stata opera di Chelsea.
Corin fece un mezzo sorriso amaro.
-I nostri poteri sono la nostra maledizione. Chi di noi aveva un’anima pura ora non ne ha che il ricordo, e il ricordo fa male, perché la Luce brucia l’ombra rassicurante in cui ci rifugiamo. Renata…- Tacque. Sospirò. –Lei è uno scudo. Tiene tutti fuori da sé.-
Lui la fissò intensamente. Tante grazie a tua mamma, bello mio. -E questo significa che nessuno potrà mai avvicinarla, non è forse così? Sarà sola. Per sempre.-
Corin annuì. –Può proteggersi da tutti. Ma non può proteggersi da se stessa. Lei… proviene da una nobile famiglia maltese, sai. È stata trasformata per essere schiava dei miei Signori; tutti siamo schiavi, qui, ma lei lo considera un onore perché così le hanno insegnato. Se le spalancassero la porta della gabbia non volerebbe via, perché non saprebbe dove andare; le manca la libertà, ma la libertà la ucciderebbe. E muore sola, consumata da se stessa, un giorno dopo l’altro.-
Accanto a loro, un uomo scoppiò a ridere in maniera incontrollata. Il francese lo fissò, Corin alzò gli occhi al cielo e fece segno a Felix di piantarla e andare via.
Invece, Felix si riprese alla grande.
-Lo sentite, Il mariachi? Canta canzoni sul suo amore perduto! Che stupido! L’amore non esiste!-
E si rimise a ridere. In effetti, Santiago stava suonando, i petali scuri di una rosa rossa a pezzi ai suoi piedi. Corin pensò che l’avesse stritolata per davvero, perché era già arrivato alle canzoni con Maria.
-“E dal rusett che i t’hann regalàa, sarann tanti a vess pituraa, e anca luur i te ciamen Maria. E anca noen te ciamum Maria… E così sia…”-
Ok, l’abbiamo perso.
-Non riesce a dimenticarla, vero? Si sente la disperazione, nella sua canzone.-
È che si sente davvero, maledetto idiota…
-Non può stare con lei. Ma non può nemmeno starle lontano. Quella donna è il suo demone, e lo spezza a metà.-
E non ho nemmeno inventato granché.
-L’amore, Corin… credevo non esistesse, credevo fosse una favola. Invece esiste. Ed è malvagio.-
-Tra queste mura, l’amore non può che essere dissoluzione e non creazione. Guarda.-
C’era una donna dai lunghissimi capelli scompigliati, rannicchiata, che si dondolava tenendosi le braccia strette attorno al corpo. Indossava un abito bianco da sposa, lacero e sporco. Il velo di pizzo, finissimo, sembrava una ragnatela a brandelli.
-Lei può legare le persone, eppure il suo unico amore l’ha abbandonata. Perché lei non sa cos’è, il vero amore, quindi non può né crearlo né distruggerlo, e così lega a sé persone in cui ricerca il suo ricordo sempre più sbiadito. E non lo trova mai.-
Chelsea intanto spargeva a terra petali delle rose secche di un bouquet nuziale, lamentandosi sommessamente in greco antico. Doveva avere qualcosa a che fare con il suo concetto di “tragedia greca”, pensò Corin, mentre camminava a passi lenti verso l’uscita del salone.
Accanto al portone che conduceva alle stanze private dei membri della Guardia, stava un uomo. Sorseggiava sangue cupo da un calice di cristallo, appoggiato spalle al muro in posa plastica. Indossava un’elegante marsina nera.
Quando Corin aprì la porta, lui la guardò da sotto i capelli neri che gli cadevano sul viso. Il suo sguardo era tagliente come un rasoio.
-Lei ti attende, Corin.-
-Ha quello che volevo, Demetri?-
Lui fece roteare il liquido nel bicchiere. Il sangue, denso, lasciò un alone rosso e vischioso sul cristallo.
-Lei ha sempre quello che vuoi. Sempre.-
Strinse le dita attorno al bicchiere, sbriciolandolo in mille pezzi. Polvere luminosa che gli scivolava assieme al sangue tra le dita, come le ferite di un sogno infranto.
-Quella donna mi ordina di tagliarmi le vene, e io lo faccio. Ho perso la vita tra le sue braccia, eppure morire per lei è l’unico modo che ho per sentirmi vivo. Maledetta, maledetta!-
Il suo amante le accarezzò la schiena. –Lasciamolo solo-, le bisbigliò in francese.

-E bravo, Felix, ti sei ripreso in corner!- Esclamò Demetri, dando così il segnale che i due erano abbastanza lontani e lo spettacolo poteva finire.
-Tutto calcolato!- ghignò lui. –Merito di Renata, è stata per me quello che il poster di Kledi è stato per BipBip Ballerina: le ho detto che avrei riso di sicuro e lei mi ha detto “se sei un asino, allora sii un asino! Fai quello che ride e basta, no?” E io l’ho fatto! Brava fatina!- e le schioccò un bacio sulla guancia. Lei fece la faccia di chi sarebbe arrossita se solo avesse potuto farlo e ridacchiò, giocherellando con il rosario, che le si ruppe in mano seminando palline per tutta la sala.
-Ehm… Santiago… non mi sembra che stia bene, ecco… magari a lui pensiamo…-
-Ajo!- fece Felix. Chelsea sospirò e si mise a recuperare le palline, borbottando qualcosa come “rosario di D&G” e “si dessero una mossa, due stupidi…”.
Santiago era passato a “Malagueña Salserosa” anche se Corin e il francese (non quello di Parigi, l’altro) erano usciti dalla stanza.
-Ehi, nero come la muerte!-
Chelsea alzò lo sguardo. Felix rise.
-Guarda, ti scambiano per Afton. Senti, molla quella chitarra di merda… ho “Pirates-Stagnetti’s Revenge” in Blu-ray!-
Santiago diede un’ultima schitarrata, ma poi cedette. Sospirò.
-Bièn, vediamo se una nave piena di putas basta a cancellare il ricordo di una sola di loro…-
-Ma è quello con la piratessa cinese?- s’informò Demetri. Felix annuì.
-Allora chiamo anche Alec, a lui piacciono le orientali.-
-Allora veniamo anche noi, chiamo Afton. Eh, Renata? I film porno con la trama sono cosa rara, dobbiamo godercela!- rise Chelsea. Renata stava per farle notare che era riuscita a mettere ben due doppi sensi in una frase sola, ma in quelle circostanze preferì evitare.

La musica di un organo, come composta di note liquide, li circondava. Il francese si bloccò, estasiato.
-Chi suona questa melodia divina eppure così piena di rabbia?-
-Il mio signore, Caius. Tutti noi possiamo mettere la nostra dannata rabbia sotto contratto, ma non lui. Lui la riversa sul mondo, implacabile.-
Fu a quel punto che, inaspettatamente, incrociarono Marcus. Nessuno disse nulla, il volto dell’uomo era quello di chi non ha alcuna ragione particolare per essere dove si trova. Rispose educatamente all’inchino dell’amante di Corin, poi proseguì per la sua strada.
E qui, nemmeno ho bisogno di commentare.
-Potrebbe trovare l’amore. Un amore d’Ombra.-
Corin annuì, più che per abitudine che per altro. E questa da dove ti è uscita, bonazzo?
Svoltarono un angolo del corridoio; c’era una donna ad attenderli, davanti alla porta della sua stanza. Era girata di tre quarti e aveva per mano due fanciulli biondi e bellissimi, evidentemente ipnotizzati. I boccoli rosso scuro le scivolavano sul seno, candido come neve, che spuntava dal corsetto di pizzo nero. Una veletta le ombreggiava gli occhi e metteva in evidenza le sue labbra carnose.
-Un giorno Dio disegnò la bocca di Adèle. È lì che gli venne quell’idea stramba del peccato.-
Heidi sorrise a Corin e si inchinò lievemente. Gli orecchini catturarono la luce, riflettendola sulla sua pelle di marmo.
-Vi ho portato quello che avete chiesto: fanciulli tisici, sottratti per un soffio dalle mani ossute della Signora. Affinché voi e il vostro… amico- lo disse con quel lieve ammiccamento, quasi in francese, dando alla parola una sfumatura sessuale che l’italiano non possedeva, - possiate nutrirvi adeguatamente, Corin.-
Heidi era una commediante nata; d’altra parte lo diceva sempre, che se un tempo “attrice” era sinonimo di “puttana” c’era davvero un perché.
-Grazie, mia bella Adèle.-
Le si avvicinò con quella sua camminata strana, né da uomo né da donna, e la baciò sulla bocca. Questo è un vecchio classico che non passa mai di moda. E poi è un antipasto perfetto.
Poi prese per mano i fanciulli.

La stanza di Corin era una specie di riassunto del decadentismo, se il decadentismo fosse stato una corrente architettonica. C’erano ovunque velluti scuri, bambole rotte, piume, un basso tavolinetto orientale su cui era appoggiato un narghilè e il suo violoncello, in un angolo.
E una gabbia dentro la quale un canarino cantava a squarciagola.
-Ti disturba?- gli chiese, togliendosi il lungo cappotto. Lui scosse la testa. Si abbandonò su un divano rosso, prendendo uno dei fanciulli sulle ginocchia.
-Perché non lo lasci libero?-
Lei gli diede le spalle, avendo cura che lui la vedesse riflessa nello specchio mezzo nascosto dal paravento cinese. Si allentò la cravatta.
-Perché mi ricorda me. È in gabbia, come me. È simbolo del mio essere prigioniera tra queste mura tristi. E canta triste, in questa gabbia senza aperture, senza amore.-
Sbottonò i polsini della camicia in silenzio, arrotolandosi le maniche. Altrimenti cosa me lo sono fatta a fare, il tatuaggio?
Si avvicinò al divano, prendendo per mano l’altro fanciullo e mordendogli il polso con uno scatto da predatore. Poi si avvicinò al suo amante, baciandolo con le labbra sporche di sangue.
Mangiare e scopare. I due terzi del bello di vivere, pensò.

-Sulpicia! Davvero, mia amata, non capisco perché tu non voglia mai partecipare a questo gioco. Sapessi com’è divertente! Io faccio la parte del re folle e corrotto, sai, lancio sguardi strani, mi produco in risate fuori contesto e unisco le punte delle dita, così!-
Lei alzò appena un angolo della bocca. Lui le si avvicinò.
-Insolente Sulpicia. E così non ci trovi nulla di molto diverso dal solito, eh? E io che pensavo ti sentissi sola, senza la tua dama di compagnia…-
Le diede le spalle. Aprì un baule antico, fatto con tavole islamiche dipinte. Ne trasse una custodia.
-Sai, lei ora suona il suo violoncello per quel suo amante francese, non quello di Parigi, l’altro. Visto che apprezzi gli archi pensavo di intrattenerti suonando il violino per te, ma se ti sono di disturbo, mia amata…-
-Suonalo.-
Lui girò la testa verso di lei e la guardò, il suo sorriso a mezzaluna era inquietante. Sulpicia ripensò a Tartini che l’aveva visto così, la sera prima di sognare il suo trillo del diavolo.
Aro si appoggiò il violino sulla spalla.

Nelle sue stanze, Corin indossava solo una cravatta. E un violoncello.


















Note di Buon Anno: non sono superstiziosa perché porta sfiga, ma come ogni primo dell’anno pubblico per assicurarmi di pubblicare tutto l’anno!
Dicono che questo 2012 finirà il mondo; Aro ci tiene a rassicurarvi, dice che si parla semplicemente di cambio di era e ciò è dovuto al fatto che Egli sta seriamente pensando di uscire allo scoperto e dominare il mondo apertamente. In tal caso, e mi rivolgo a voi che state leggendo queste righe, non preoccupatevi: Aro sa chi siete e dove vanno a scuola i vostri figli e dice che ha in serbo per voi un futuro lungo e brillante. Egli sa come ricompensare i suoi seguaci, dopotutto.
Ora che siete un po’ più tranquilli, passo alle note serie et culturali (seeeeh, certo, certo).
Il dialogo iniziale tra Corin e Santiago è puro fan service. Di preciso, di questi Corin e Santiago qui.
Porta dell’Arco, a Volterra, è una porta etrusca ed è sormontata da tre teste di pietra delle quali non si riconoscono più le fattezze. Dicono che rappresentassero Zeus, Castore e Polluce, ma noi sappiamo qual è la verità.
La pinacoteca, invece, è attaccata al Palazzo dei Priori, proprio sulla destra. Il famoso vicolo nel quale Eddy si rifugia invece di esporsi al sole dovrebbe essere quella via lì, quindi ho immaginato un ingresso a Palazzo attraverso la pinacoteca. Mica faranno passare gli ospiti graditi dai tombini, insomma! Il dittico dell’Annunciazione non ricordo di chi sia, ma era delizioso.
I fouettès sono questi. Visto che Jane è vestita da Odile, vi lascio proprio quelli della coda del cigno nero. Strabiliate.
“O lente, lente currite, noctis equi!” è un verso del “Faustus” di Marlowe. Significa “O lenti, lenti correte, cavalli della notte!”
La storia tragggica della Renata maltese, in realtà è la versione canon scritta nella Guida. Solo che ormai io l’avevo fatta sarda una trentina di capitoli prima e ho deciso di tenerla così. Confesso che il background canon di Renata, in realtà, mi piace anche abbastanza e se la Meyer l’avesse reso noto prima l’avrei usato più che volentieri. A modo mio, ovviamente.
La canzone che canta Santiago è “Maria” di Davide van de Sfroos. La traduzione è “e dal rossetto che ti hanno regalato sarranno in tanti a essere pitturati, e anche loro ti chiamano Maria. E anche noi ti chiamiamo Maria. E così sia”. “Malagueña Salserosa”, invece, è la colonna sonora di “C’era una volta in Messico”. Con Banderas che fa il mariachi. Ogni ispirazione non è puramente casuale.
Anche Chelsea che si lamenta in greco antico è una citazione dalla Guida. Secondo la Meyer, Chelsea è greca e senza di lei che li tiene legati i Volturi si ammazzerebbero tra loro. Ne deduco logicamente che, in pratica, Chelsea è un’eminenza grigia ed è lei a governare il mondo… non credo che la Meyer se ne sia resa conto, però. Anche qui, stesso discorso: ormai io tengo la mia. Anche perché Chelsea dice che l’eminenza grigia non la vuole fare, sarebbe troppo faticoso.
Il poster di Kledi e Bip Bip Ballerina fanno riferimento a questo superbo trailer qui.
Il film Pirates II- Stagnetti’s Revenge (che si pronuncia StaG-Netti), esiste sul serio. Ci sono attori del calibro di Belladonna, Katsumi e Steven St.Croix (io vi giuro che è vero. A volte la realtà supera la fantasia.), ed è veramente un film porno con la trama. Non l’avreste mai detto, eh? C’è perfino un Edward. Che recita meglio di Edward, oltretutto.
“Un giorno Dio disegnò la bocca di Jun Rail. È lì che gli venne quell’idea stramba del peccato” è una frase di “Castelli di rabbia” di Baricco. Corin l’ha usata modificando il nome della donna. Oh, a proposito: la trovo una frase di una sensualità estrema.
Si dice che Tartini sognò il diavolo che suonava il violino, e il giorno dopo compose la sua celebre Sonata per violino il sol minore, detta appunto “trillo del diavolo”. Ancora una volta, noi sappiamo come sono andate le cose, in realtà.
Mi sono resa conto che i ragazzi della guardia potrebbero mettere su una banda. Però l’eternità è lunga, e mica solo Edward può avere la musica tra i suoi hobby, no?

Ok, finite le note (musicali), lasciate che vi auguri il Buon Anno!
Se questa storia vi è piaciuta, ringraziate OttoNoveTre e vannagio, le mie beta-amykette, per i loro suggerimenti e incoraggiamenti. Io invece le ringrazio per tutto il resto, e soprattutto perché mettono le loro barbie assieme alle mie e poi giochiamo insieme!
I Volturi, i ragazzi della guardia, unitamente ai miei personaggi tutti di qualunque fandom abbia trattato, vi fanno i loro migliori auguri per un 2012 meraviglioso.
Io mi limito a ringraziarvi tantissimo, tutti, 2012 volte ciascuno. Grazie di tutto, gente!














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Capitolo 39
*** Una missione facile facile - prima parte ***


UNA MISSIONE FACILE FACILE
Prima parte


Arrivato in quota, il capitano Condorelli inserì il pilota automatico. Il suo vice sbuffò sonoramente appoggiando i piedi sulla plancia di comando, poi si accorse dello sguardo del capitano, li tolse e si alzò.
-Caffè?
Il capitano annuì.
-Odio volare con quelli lì. Davvero, ogni volta mi chiedo chi cazzo me lo fa fare.
-Te lo fa fare il fatto che hai una moglie in Italia e un’amante ucraina che non sa di tua moglie in Italia, Beppe. E loro pagano bene.
-Sì, ogni volta che mi arriva il bonifico penso che in fondo ne è valsa la pena, e che il resto sono tutte cazzate… però, capitano, adesso dobbiamo arrivare in Brasile e siamo appena decollati. E mi sto chiedendo chi cazzo me lo fa fare.
Gli passò il caffè. Il capitano recuperò lo zucchero e ce ne mise due bustine, mescolandolo a lungo.
-Ad esempio… quanti anni ha sua figlia, capitano?
-Martina? Ha quasi quattordici anni. Perché?
-Ecco. È cresciuta dall’anno scorso, no? Voglio dire, è cambiata, no?
Il capitano sospirò. Accidenti se era cambiata, la sua Martina. Crescono troppo in fretta queste figlie; ma aveva capito dove voleva arrivare il suo vice. Attese che si sedesse con il suo caffè e che lo bevesse d’un fiato, amaro e bollente. Ma come fa, si chiese.
-Credo che quella ragazza abbia una malattia, Beppe. Suo fratello gemello è come lei. Parlano come adulti e tutti li trattano come adulti. Sarà quella malattia che non cresci, ce l’aveva anche quell’attore nero che faceva Arnold, ti ricordi?
-Va bene, quella ha una malattia. E quello con i capelli bianchi e gli occhi rossi?
Il capitano sbuffò, mentre il suo vice lo guardava con espressione saputa, scartando un cioccolatino; non si poteva fumare, e così lui sopperiva alla mancanza di nicotina mangiando cioccolatini in continuazione.
-Quello è solo un albino, Beppe! Niente pigmentazione, presente? Capelli bianchi, pelle bianca, occhi rossi!
-È che non mi sembra la gita del reparto malattie rare del Fatebene Fratelli. Mi fanno paura. Sono strani, anche le fighe. Si ricorda quando siamo andati a Seattle, no? Ecco, c’era una concentrazione di passere mai vista. Se ne sarebbe scopata qualcuna, lei?
-Io, a differenza tua, amo mia moglie e le sono fedele.
Il vice scosse la testa.
-Ma non è questo il punto! Se fosse stato single se ne sarebbe scopata qualcuna? Io non le avrei toccate neppure con il pisello di un altro!
-E avresti fatto bene, amico Beppe, perché i mariti di quelle sposate sono violenti e cattivi, mentre le zitelle, essendo inacidite, sono ancora più cattive dei mariti di quelle sposate!
I due sussultarono, voltandosi di scatto.
Pareva che tutto il vano della porta fosse occupato da un uomo; un uomo molto grosso, molto alto e molto muscoloso, che sorrideva in modo veramente molto inquietante e che nessuno dei due aveva sentito arrivare o aprire la porta. Il vice aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse appena l’uomo ricominciò a parlare.
-Il mio capo mi manda a dirvi che chi si fa i cazzi propri campa cent’anni; lui l’ha detto in modo molto più educato, ma il senso era quello. Comunque non trovo i film. Ce n’è qualcuno ambientato su un aereo, tipo che un terrorista islamico prova a dirottarlo ma casualmente tra i passeggeri ci sono un ex marines e una psicologa gnocca che risolvono la situazione? O in alternativa andrebbe bene anche l’ultimo di Harry Potter.
Il capitano, mostrando un invidiabile autocontrollo, spiegò dove stavano i film e aggiunse che non sapeva quali fossero i titoli disponibili. Pensare a quei passeggeri che guardavano Harry Potter invece che tranquillizzarlo lo mise in agitazione; c’era qualcosa di sbagliato, di inquietante… un po’ come vedere Jack lo Squartatore che annaffia un vaso di gerani.
Comunque lui fece un cenno di ringraziamento e chiuse la porta, sempre sorridendo in quello strano modo, come a voler mettere in mostra più denti di quanto fosse normalmente necessario. Beppe, che era sbiancato, si asciugò il sudore dalla fronte.
-Visto? Cosa avevo detto? Come cazzo ha fatto a sentirci?
-Zitto, Beppe-, sospirò il capitano. Aveva bisogno di qualcosa di forte; in mancanza di meglio, si mangiò tre Mon Cherie contemporaneamente.


-Brasiiiil… lallalalla lallalallà…
-Felix, cosa ti è sfuggito nelle parole “siamo in missione”?
-Soldato Jane, cosa ti è sfuggito nelle parole “siamo in pausa pranzo”?
Lei sbuffò. In effetti l’atmosfera di Rio de Janeiro era contagiosa: sembrava che ci fosse gente che ballava dappertutto. In particolare donne bellissime che scuotevano culi perfetti e seni prosperosi; le venne voglia di sterminarle in blocco.
-Se siamo in pausa pranzo-, argomentò mentre passavano di fianco ad un locale da ballo all’aperto, -perché stai facendo il trenino con Alec invece di cacciare?
-Io non sto facendo il trenino. Sono una vittima delle circostanze-, puntualizzò Alec, scostandosi dall’amico. Felix indicò la folla con un vago gesto della mano.
-Perché nessuno sta cacciando, qui. Troppo affollato, troppi turisti. Ha detto il capo di raggiungerlo nelle favelas, ti sembrano favelas queste? E comunque Corin si è fermata là.
“Non devo usare i miei poteri, non devo usare i miei poteri…” -Corin si è fermata là? Dov’è , di preciso?
-Dove c’era il tizio che vendeva le magliette del Brasile. Ha detto che ne voleva proprio una così, poi si è fermata a flirtare con quello che gliel’ha venduta perché era un mulatto figone con i bicipiti tatuati. Parole sue, eh.
“Però solo un’occhiataccia… una piccola piccola…” –Porca puttana. Non è una gita scolastica. Siamo in missione e dobbiamo andare a caccia. Non a ballare, non a fare shopping, non a intortare. A caccia.
-E lo dici a me? Dillo a Corin, no?
Jane sospirò. L’odore di tutti quei mortali le arrivò alle narici. Aveva anche sete, adesso.
-Ma non potevi andarci tu con Caius, Felix?
-No, tesoruccio.- Nel sentire Felix scimmiottare Aro, Jane fece un basso ringhio. L’uomo ridacchiò.
-Una guardia con l’occhio assassino di là, e una di qua. E poi Caius voleva stare da solo, e Afton è un buon compromesso: non dirà una parola a meno che non gli venga posta una domanda. E anche in quel caso, se sarà possibile rispondere con un monosillabo lui lo farà.
Jane sospirò.
-Bene, andiamo a pranzo velocemente e poi dirigiamoci verso la Rocinha. Caius non ci metterà molto, doveva solo raggiungere l’uomo che andrà a contattare Malliouhana per suo conto…
-Oh, mi piacerebbe tantissimo vederla, questa famosa Malliouhana… che ne dite della mia maglietta?
Corin li aveva raggiunti, correndo a velocità umana. Aveva il mantello grigio piegato sull’avambraccio e sfoggiava una maglietta del Brasile talmente verde da fare male agli occhi.
“Non devo usare i miei poteri…”
-A me fa cagare, Lestat-, fece presente Felix mentre Alec si informava se il tizio vendesse anche le magliette del Doctor Who.
-Basta. A pranzo. Subito.
Lo sguardo di Jane era pericolosamente calmo. La seguirono tutti, in silenzio.


-…Proprio come avevo detto io, ma davvero, i capi di stato sono talmente arroganti, talvolta… Renata, tesoruccio, non mi stai prestando attenzione!
Lei sussultò, poi abbassò lo sguardo. Farfugliò qualche parola di scusa. Aro si accigliò e le accarezzò il volto, lasciandosi trasportare dalle immagini vivide su sfondi cupi della mente di lei.
Renata era nella sua stanza, seduta nell’androne della finestra. Non aveva acceso neppure una candela, si limitava ad osservare la sottile falce di luna dietro ai vetri chiusi e ad ascoltare canzoni a tutto volume, ma con le cuffie, per non disturbare.
-Ehi, fatina!
Lanciò un grido e sussultò, trovandosi faccia a faccia con Felix che era entrato, le si era avvicinato di soppiatto e le aveva tolto le cuffie. Lui scoppiò a ridere in quel suo modo irritante e le spense lo stereo col telecomando, gettandolo poi per terra, assieme alle cuffie.
-Sei impazzito? Si bussa, quando si entra nelle stanze degli altri!-
-Ma io ho bussato, Renata. Però tu non hai risposto, allora ho provato ad entrare, ed ho visto che la porta era aperta. Tu non ti eri accorta di niente, e allora ti ho fatto uno scherzo; domattina partiamo per il Brasile, sono passato a salutarti!-
Nonostante tutto lei sorrise. -Mi hai fatto paura. Non farlo mai più. Si può sapere perché sei mezzo nudo?
Tutto quello che Felix indossava erano un paio di pantaloni cargo militari ed i suoi numerosi tatuaggi. Fletté il braccio sinistro, per mettere in mostra la sirena che sorrideva maliziosa dal suo bicipite.
-Jacqueline voleva prendere aria. E comunque potrei farti la stessa domanda-, sogghignò, squadrandola.
C’erano svariate occasioni in cui Renata ringraziava Dio o Aro (che per lei erano più o meno la stessa cosa) di averla resa ciò che era, ad esempio ogni volta che si rendeva conto di non poter più arrossire. Chinò gli occhi e cercò di tirarsi sulle gambe i lembi della camicia bianca, il suo unico indumento a parte gli slip, ma con miseri risultati.
-Io sono in camera mia. Come mi pare sto!
-Mica ho detto che non mi va bene. Hai delle gran belle gambe.
-Idiota!-, rise lei allungando una delle sue belle gambe per tirargli un calcio, che lui bloccò facilmente afferrandole la caviglia.
-Ah, vuoi combattere? È questo che vuoi fare? E va bene, tanto io sono convinto che quello che ha detto che le donne non si toccano era un frocio di merda!
E dopo questa affermazione si avvicinò a lei cercando di bloccarle i polsi, ma con pessimi risultati; non capiva bene perché, ma non riusciva ad avvicinarsi a lei. Incrociò le braccia.
-Sei una stronza. Va bene, hai vinto: fammi avvicinare, che devo dirti una cosa!
Paventando una trappola lei cincischiò, ma lui mise su la faccia seria e le assicurò che doveva dirle una cosa per davvero; provò a metterle una mano sulla spalla e lei lo respinse, allora lui si mostrò offeso, lei si pentì, gli fece appoggiare le mani sulle sue spalle e a quel punto lui la bloccò al muro, col ginocchio sul ventre di lei.
-Devo dirti che usare i superpoteri non è valido!-, le urlò in faccia, ridendo a crepapelle.
Lei provò a difendersi, soffocata dalle risate. Cercò di spingerlo via, e per farlo si premette contro di lui.
Si premette un po’ troppo.
E fu così che si baciarono, e Renata neppure capì bene se lui avesse baciato lei o viceversa. Non che lì per lì la cosa avesse molta importanza; lei si chiese solo dove diamine avesse guardato negli ultimi duecento anni per non essersi mai accorta che baciare Felix sarebbe stata un’ottima idea.
Provò a dirglielo appena il bacio finì, ma lui le chiuse la bocca con un dito.
-Zitta, fatina-, intimò, con il suo solito ghigno da squalo. E la baciò di nuovo, per poi abbracciarla con forza.
Felix non è mai stato noto per essere delicato, romantico o sentimentale. Non sa neanche da dove iniziare per essere una qualsiasi di queste tre cose, e comunque non gliene frega niente. Renata aveva sempre creduto che il suo uomo ideale fosse una sorta di affascinante gentiluomo, uno che le portasse rose rosse e le strimpellasse serenate al chiaro di luna sussurrandole versi d‘amore con voce calda, per poi rendersi conto tutt’ad un tratto che quello che davvero le piaceva era essere presa tra un muro e un corpo forte, da un uomo con braccia enormi che non si facesse scrupoli nel stropicciala un po’.
E certo se c’è uno che non si fa degli scrupoli quello è Felix; tolse di mezzo gli indumenti che si frapponevano tra le sue mani e il corpo di Renata con notevole assenza di grazia, senza che lei pensasse nemmeno per un istante di volerlo fermare.
Fu una cosa rapida e piuttosto selvaggia, consumata con foga sull’androne della finestra; poi Felix, bramoso di ripetere, la sollevò per le natiche, la bocca di lei sulla sua.
Renata non aveva mai posseduto un letto, riteneva che occupasse troppo spazio; ogni tanto veniva presa in giro per questa strana scelta, ma lei diceva di non averne bisogno, ed in effetti fino a quella notte non le era mancato molto ed aveva soddisfatto i suoi istinti nei letti degli altri. Adorava però i cuscini ed i tappeti, e fu verso il suo mucchio di cuscini più colorati che fece cenno a Felix di portarla.
A volte può bastare poco per cambiare la collocazione di se stessi nel mondo. A Renata bastò una notte d’amore. Non che avesse sempre desiderato Felix ma non riuscisse ad ammetterlo; diciamo piuttosto che aveva sempre cercato qualcosa in una direzione per poi accorgersi di colpo che sarebbe bastato fare due passi nella direzione opposta per trovarla. Gli chiese a che ora doveva partire.
-All’alba-, le rispose. Lei guardò fuori dalla finestra, la luna era alta.
-E non uscirò di qui neanche un minuto prima dell’alba, fatina-, le disse lui prima di occupare la bocca in attività che gli davano molto più gusto delle parole.
Felix non era mai stato un uomo da grandi discorsi. Era abituato ad agire, e lasciava che fossero le azioni a riflettere i suoi pensieri. Renata invece, nonostante la sua età effettiva, è una ragazza, e certo fu questo il motivo per cui, quando ormai le dita rosa dell’alba tingevano il cielo e Felix, rivestitosi in fretta e furia, stava già per uscire dalla stanza, gli disse sorridendo: –Mi sa che quando torni dobbiamo parlare, Fel.
Lui, la mano sulla maniglia della porta, si voltò a guardarla genuinamente perplesso. –Parlare di cosa?-, pensò bene di chiedere.
E fu lì che, tragica come ogni ragazza, Renata si diede dell’idiota. La solita storia: buona per una scopata, o magari anche più di una, ma neanche da prendere in considerazione per qualcosa di appena un po’ più serio. E la cretina era lei, che ci sperava ogni volta.
Il sorriso le scomparve dal volto.
-Niente d’importante. Sbrigati, lo sai che Caius non tollera i ritardi.
Felix non è mai stato noto per la sua particolare sensibilità, per lui le parole vogliono dire esattamente ciò che dicono: “niente d’importante” significa che non c’è nulla di cui preoccupasi, ed il riferimento a Caius era notoriamente corretto.
Quindi si sbrigò.


Il gruppo scivolava tra i vicoli della Rocinha come ombre; se qualcuno li avesse visti avrebbe pensato di avere avuto una visione, o che lo sguardo gli avesse fatto una sorta di brutto scherzo; una donna, per sicurezza, si fece il segno della croce e segnò i bambini che erano con lei.
Caius procedeva sicuro. Felix si stupiva sempre quando scopriva che qualcuno lo riteneva poco pericoloso in virtù del fatto che negli ultimi due secoli non si era mosso spesso da Volterra; tutto, in lui, gridava la sua pericolosità.
Si fermò davanti a una costruzione non meno fatiscente delle altre, di fianco a un’officina scalcagnata. Non si girò nemmeno, sapeva che la sua guardia era perfettamente in formazione, un passo dietro di lui.
-Vi stavamo aspettando, Senhor.
Dalla porta della baracca era uscito un vampiro. Non era molto alto, ma era grosso quasi quanto Felix. Aveva un’espressione calma e leggermente strafottente. Una vampira dai capelli neri, in canotta e pantaloni militari, li fissava appoggiata allo stipite della porta.
-Don. Letìcia. Vogliamo andare dentro? I miei uomini faranno in modo che nessuno ci disturbi. Corin, con me.
Una figura sottile si staccò dalla formazione e si mise di fianco a Caius. Don si spostò di lato per lasciarli passare e Letìcia entrò in casa.
Fuori, Jane assunse automaticamente il comando.
-Felix, Afton, voi rimanete qui e intervenite nel caso da dentro ci fossero dei problemi. Sentite questo odore? Non mi piace.
Felix ringhiò piano.
-È l’officina. Sono pieni di bombole di NOS, lì dentro, e quella roba è pericolosa. Comunque non gli conviene tentare di fare gli spiritosi, e dovrebbero essere dei nostri cazzo di alleati, in teoria, no?
-Ad ogni modo state in guardia. Fratello?
Alec seguì Jane dall’altro lato della casa. Dopo nemmeno un minuto Felix cominciò a notare che alle loro spalle si stava formando una specie di foschia; Alec stava usando il suo potere per circondare la casa, in modo che chiunque volesse entrare o uscire perdesse l’uso dei sensi nel tentativo. Chiamavano quel particolare uso del suo potere “il muro di nebbia”, ma solo tra loro, perché Aro aveva decretato che era un termine troppo da “come dite, tesorucci? Ah, sì… nerd!” e non era bello per la loro immagine.
Felix aspettò qualche istante, per essere sicuro che il muro fosse completo. Poi mollò una gomitata ad Afton.
-Mi presti il tuo telefono? Devo chiamare Chelsea.
Afton lo guardò con sguardo vacuo. –Non ce l’ho il telefono.- Si accorse dell’espressione di Felix e aggiunse: –Aveva la macchina fotografica, e Chelsea pretendeva che le fotografassi la gente vestita in maniera interessante. Ho fatto finta di averlo dimenticato.
Poi lo sguardo divenne sospettoso. –Perché poi devi telefonare a mia moglie?
Felix ghignò. –A parte che non è tua moglie. E comunque volevo chiederle un consiglio.
-Adesso?
-Sì. Adesso. Dobbiamo solo controllare che non succeda niente, e posso farlo anche parlando al telefono.
-Puoi chiederlo a me. Il consiglio, dico.
Felix scosse la testa. –Macché. Qui ci voleva Chelsea.
Afton si voltò a guardarlo, poi incrociò le braccia.
-Giuro che non capisco. Conoscete me da tanto tempo quanto conoscete lei. Lottiamo assieme. Viviamo a stretto contatto. Siamo amici, credo. Siamo tutti maschi. E allora perché ogni volta che qualcuno ha bisogno di un consiglio è un continuo Chelsea, Chelsea, Chelsea? Non ritenete le mie opinioni degne di essere ascoltate? Non mi ritenete in grado di aiutare? Che diamine ha quell’inglese che io non ho?
Felix lo fissava a bocca aperta. Era uno dei discorsi più lunghi che gli avesse mai sentito fare.
-Ok, Afton! Giusto, hai ragione, cazzo! Scusa, non ci avevo mai pensato! Va bene allora, me lo dai un consiglio?
-Ma certo- assentì Afton, di nuovo con la sua solita espressione assente.
-Bene, sta a sentire: la notte prima di partire ho scopato con Renata, ok? E lei…
-Ho già un ottimo consiglio da darti-, lo interruppe Afton. Felix annuì.
-Parlane con Chelsea.
Lui rimase a bocca aperta, indeciso se mettersi a ridere o fracassarlo di botte.
-Eh, no, amico! Hai fatto tutto quel bel discorsetto e poi ti tiri indietro? Adesso mi ascolti e mi dai anche un consiglio valido, cazzo!
-Se proprio vuoi, ci provo.
-Ecco, bravo. Allora, ti dicevo, ho scopato con Renata, no? E lei era contenta, insomma, lo capisco se una donna è contenta, soprattutto se è Renata. Poi però prima che andassi via, proprio qualche secondo prima, si è rabbuiata. Così, senza motivo. Quale cazzo è il problema, secondo te?
Afton ci pensò un attimo.
-Intendi… a parte il fatto ovvio che dopo la storia con Eleazar ha paura di innamorarsi di nuovo di uno che non la ricambia, quella notte per lei significava qualcosa e aveva paura che per te non fosse lo stesso, ma è una persona orgogliosa quindi non si azzarderebbe mai a chiedertelo direttamente? Non saprei proprio cosa dirti, Felix. Davvero, ti tocca parlarne con Chelsea.
Felix era assolutamente spiazzato. Cercò di capire se Afton fosse stato sarcastico, ma la sua espressione era del tutto seria.
-Ok, grazie del consiglio-, biascicò.
-Di niente-, rispose Afton continuando a tenere d’occhio la casa.


Dentro la casa c’era un’altra vampira, graziosa, con i capelli castani e un vestito rosso a pois bianchi. Appena li vide entrare si alzò in piedi; -Benvenuti. Posso fare qualcosa per voi, Senhor?-
Caius fece un gesto di diniego con la mano. –Niente, Mina, grazie.
Don si sedette a un vecchio tavolo. Fece segno a Caius di accomodarsi.
-Si va subito al sodo, con voi, vero? Bene. Parliamo di affari.
Caius si accigliò. –Mi sembra che non ci sia nulla di cui parlare, Don. Ci è stato detto che l’avete trovato. Non è così, per caso?
L’altra donna, Letìcia, si mise alle spalle del compagno, braccia conserte e sguardo vagamente minaccioso. Al contrario, Don era perfettamente calmo.
-L’abbiamo trovato. Bran lo sta seguendo, vi comunicherà la sua posizione appena gli dirò di farlo. Ma vorrei rinegoziare il nostro compenso, Senhor. Ho altre informazioni che potrebbero interessarvi.
-Dimmi quello che vuoi, Don, e valuterò se le tue informazioni valgono la ricompensa che mi chiedi.
Don incrociò le braccia al petto. Due braccia enormi, i bicipiti sembravano esplodere sotto la maglietta bianca.
-Ultimamente stanno succedendo degli strani casini, qui. Ci sono vampiri che vengono nel nostro territorio, gente estranea, che non vogliamo. Fate in modo che la Rocinha sia ripulita, Senhor. Solo questo.
Caius scoppiò in una risata sarcastica.
-Don, non sei neanche più in grado di tenerti il tuo territorio di caccia?
Letìcia ringhiò. Lui invece rimase impassibile.
-Non sono i vampiri il problema. Si tratta dei narcotrafficanti.
Caius alzò un sopracciglio. –Narcotrafficanti?
-Quelli umani non sono mai stati un problema. Durano poco, si fanno fuori tra loro; l’ultimo si chiama Nem e fa parte del cartello degli “Amigos dos Amigos”. Ma questo Nem è un prestanome: dietro c’è vampiro di nome Sebastião Vadinho Azùl Gonçalves de Silva, uno che si arricchisce col narcotraffico e si crea alleati tra umani e vampiri. E ci sta mandando in merda la Rocinha.
-E da quando, Don, è diventato un problema ammazzare un Sebastião Comesichiama qualunque?
Letìcia di nuovo trattenne un ringhio. Mina le mise una mano sulla spalla, come per calmarla, e scosse la testa.
-Da quando quel figlio di puttana si è sposato, Senhor. È sposato con una vampira messicana di nome Maria. La cosa interessante di questa Maria è che è molto più vecchia di quanto voglia far credere e, se il mio istinto non sbaglia, anche molto più pericolosa di lui. Non so cosa c’entri lei in questa storia, sta di fatto che qualche anno dopo averla sposata, Sebastião non si è limitato ad arricchirsi col narcotraffico. Ha cercato di prendersi le favelas come territori di caccia, ma soprattutto ha cominciato a crearsi neonati. E ce ne siamo accorti troppo tardi.
Caius annuì. Letìcia notò che la guardia chiamata Corin stava ghignando, con discrezione, alle spalle di Caius. Si portò accanto a Don, sbattendo le mani sul tavolo.
-Non creda che non ci abbiamo provato, Senhor. Ne ammazziamo in continuazione. Solo che quei fottuti neonati non finiscono mai, e non riusciamo ad arrivare né a Sebastião né a quella vaca di sua moglie.
-Se c’è un infestazione di neonati, Don, la nostra stessa legge ci chiama a intervenire, tuttavia...
-È questo il punto. Non c’è.
-Non c’è?
-Non ne fanno abbastanza alla volta da provocare un’infestazione. Ma ne fanno continuamente. È come se il loro numero non cambiasse mai. Ma non avrei chiesto una rinegoziazione solo per questo, Senhor. Diga a ele, Letìcia.
La donna lo fissò negli occhi; a Caius era sempre piaciuta: era la metà di lui, ma era una dura.
-Stavamo prendendo informazioni su di lei, e abbiamo scoperto una cosa che è successa nel dicembre del 2006: ha ricevuto la visita di due persone. Due Cullen.
-Maria? Qui?
-Esatto, Senhor. Non so cosa cercassero e cosa lei gli abbia detto, però. Sono andati a parlarle, nella sua bella villa, e dopo poco se ne sono andati.
Caius annuì, pensieroso. Poi parve prendere una decisione.
-Bene, Don. Dicci dov’è Joham, e risolveremo il tuo problema con i narcos in maniera ordinata e pulita. Voi limitatevi a fare quello che state facendo fino a quando non vi arriveranno istruzioni.
-Ho la vostra parola, Senhor?
-Hai la mia parola, Don. I Volturi pagano sempre i propri debiti.
Dom alzò appena l’angolo della bocca in un sorriso soddisfatto. Poi allungò il braccio.
-Mina, dammi il telefono. È il momento di chiamare Bran.


-Jane, Alec, Felix, Corin, voi andate da Maria e vedete di capire cosa volevano i Cullen da lei; Afton, con me: il messo dovrebbe essere di ritorno, andiamo a sentire il luogo in cui dovrò incontrarmi con Malliouhana. Non uccidete Maria, per ora; voglio che abbia la possibilità di fiutare il pericolo e possa decidere di cambiare aria.
Nel vedere l’espressione perplessa di Felix, scoppiò a ridere.
-Diciamo che è una ricompensa per il buon lavoro del tuo compare, Felix. Avete domande?
-Una, capo. Dove la troviamo Maria? Qui serviva Demetri…
Caius si voltò di scatto verso Felix. Li guardò tutti negli occhi, uno per uno.
-Aro pensava, e io sono d’accordo con lui, che l’esperienza di Forks avrebbe dovuto farvi riflettere su un punto: fare affidamento sui talenti è diverso dall’adagiarsi su di essi. Demetri attualmente sta svolgendo una missione per la quale il suo talento è davvero necessario; non ditemi che voi non riuscireste a trovare Maria anche da soli, perché se così fosse dovrei pensare profondamente a come rivedere la Guardia.
Jane aggrottò appena le sopracciglia, trattenendo un ringhio.
-Troveremo Maria, Signor Caius. Suppongo che quello che intendeva dire Felix era che con Demetri avremmo fatto prima.
-Me lo aspetto, Jane. Afton, andiamo.
Appena furono abbastanza lontani, Jane si lasciò sfuggire una colorita bestemmia toscana.
-Notevole, soldato Jane. Questa era bella-, commentò Felix, ancora pensieroso.
-Zitto, tu e i tuoi “ci serve Demetri”. Idee per trovare Maria?
Alec le mise la mano sulla spalla, come per calmarla. Sorrideva tranquillo.
-Abbiamo detto che ci sono neonati che girano per la Rocinha, no? Ne becchiamo uno, lo torturiamo un po’, chiediamo dov’è Maria e poi lasciamo che vada a raccontare quello che ha visto.
Lei sospirò.
-Bene, muoviamoci. Non vedo l’ora di torturare qualcuno.
-Ma Jane, l’idea è stata mia… non potrei essere io a torturarlo?
Corin si accese una sigaretta.
-Bambini, bambini, avanti… ne catturiamo due e fate uno per uno, no? Poi uno va a raccontare quello che ha visto, l’altro… requiescat in pace, amen. La vita è dura, la non-vita figuriamoci.
Li mise di buon umore. Ridacchiarono prima di ripartire per i vicoli, silenziosi come ombre.


La trovarono sulla strada che portava alla villa sulla collina che era stata indicata come residenza di Sebastião e Dona Maria, sulla soglia di una casetta povera e diroccata. Stava seduta al contrario su una vecchia sedia di legno, le mani ricoperte di anelli d’oro appoggiate allo schienale.
Indossava un’ampia gonna dello stesso colore del sangue secco, che nella posizione in cui era seduta, a gambe larghe, le lasciava scoperte le ginocchia e i camperos impolverati; aveva lunghi capelli neri, che le sfioravano il seno prosperoso, a malapena contenuto dal corpetto marrone. La pelle era solcata da numerose cicatrici, quasi tutte sugli avambracci, salvo due: una alla base del collo e una sul seno sinistro, che più che ricordi di un combattimento sembravano morsi di un amante appassionato. Portava collane d’oro e anelle d’oro alle orecchie, era piccola di statura e aveva occhi cremisi che sembravano ardere. Felix sapeva che quelli erano occhi che ardevano anche quando Maria era umana: era lo sguardo di una di quelle donne che ti porta a morire per lei oppure a ucciderla. Ojos del diablo, diceva Santiago.
-Maria, suppongo-, esordì Jane. Lei stiracchiò le labbra in un sorriso affascinante.
-En persona. Ehi, ma chi si rivede… hola, Felix! E suppongo che Demetri sia in giro a controllare che io non faccia scherzi, vero? Non ne faccio, di scherzi. Non manca qualcuno? El hombre che mi avete portato via?
Felix alzò le spalle.
-Mica te lo abbiamo portato via. Si è solo tolto le manette.
-Ay, si è tolto le mie per mettersi quelle dei Volturi, vuoi dire! Mi avrebbe fatto piacere rivedere el mariachi, ma non si può avere tutto… a proposito, siete stati a nord di recente, mi dicono. Dal clan dei chupacabras.
 Jane fece un sorriso angelico. –Le voci corrono, a quanto pare.
-Más rápido que el viento… e come sta il maggiore Whitlock?
-Chi?- chiese Felix perplesso. Lei alzò gli occhi al cielo.
-“Maggiore Jasper Whitlock, per servirvi, signorine”… il mio cucciolo scappato di casa. Li avete lasciati tutti vivi, quindi estás bien, è così?
Il sorriso di Jane sembrò all’improvviso quello di una madonnina medievale.
-Sta benissimo, Maria. Si è sposato con una donna perfino più bassa di te.
-Ma non di te, Jane-, ribatté lei.
Inaspettatamente, Jane la prese con una certa classe. Si limitò a manifestare disappunto alzando un sopracciglio, per poi domandare in tono tagliente: -Se adesso abbiamo finito di riassumere le ultime puntate di “Cuore Selvaggio” potremo cominciare a parlare di cose serie.
-Vamos a hablar, ma non credo che potrò esservi utile. Sono in pensione.
Jane rise. –Ti sei fatta trovare facilmente, per essere in pensione!
Anche Maria rise. –Yo no estoy loca. Voi siete le guardie dei Volturi, mi avreste trovata comunque. Così mi sono fatta trovare io, e se posso vi aiuterò. Dico solo che non so se posso. Sono in pensione.
-Puoi, Maria, puoi eccome. Dimmi un po’: da quanto tempo non vedi il tuo cucciolo scappato di casa?
Il volto di Maria si rabbuiò. Rimase seduta sulla sedia, ma sembrava un felino pronto a scattare.
-Chiedimi quello che vuoi sapere, Jane. Non mi piacciono i giochetti.
-No? Peccato, a me sì. Però hai ragione: prima risponderai, prima tornerò a casa. Attenta però, sii esaustiva; lo dico per te, io mi diverto a torturare le persone!- ridacchiò Jane.
-Non lo vedo da pochi mesi. È venuto a trovarmi.
-Bingo. E cosa voleva?
Maria scosse la testa. – Coño … Yo sabía que me hubiera metido en problemas… voleva informazioni sui mezzosangue. Io non ne so niente, quindi non gliele ho date.
-Certo, Maria. Hai tre opzioni. Uno: Felix ti fa a pezzi e ti porta a Volterra, Aro carpirà le informazioni direttamente da te e poi ti ucciderà perché ci hai fatto perdere tempo. Due: ti torturiamo noi, qui ed ora e credimi, mi sento già entusiasta all’idea. Tre: cominci a chiacchierare a ruota, spettegolando come una vecchia comare.
Maria sibilò una serie di imprecazioni, poi fissò Jane negli occhi.
-Bien. Jasper e sua moglie sono venuti da me, chiedendomi quelle informazioni. No sabes una mierda sui mezzosangue, davvero, che me ne frega de ejos, e Jasper lo sa; ha detto che era in Brasile, ha saputo che c’ero ed è venuto da me. Non sembrava davvero interessato ai mezzosangue, in verità.
Jane rise. –Ti sei rincoglionita, Maria, o lui recitava benissimo?
Maria alzò le sopracciglia. –I mezzosangue, Jane! Ma a quién le importa dei mezzosangue? Pensavo fossero una scusa!
-Certo, voleva fare una cosa a tre con la moglie e la prima fidanzata…
Inaspettatamente, Maria rise. –La moglie non sembrava contraria, Jane…
-Orca troia!- commentò a voce alta Felix. Jane lo raggelò con lo sguardo.
-Va bene, avete scopato in tre, poi…
Maria rise ancora, con quella sua risataccia sboccata. –Niente cosa in tre. Ho detto che gli avrei dato informazioni in cambio di una notte con lui perché mi divertiva provocarlo davanti a sua moglie, e eja ha detto che una notte con lui l’avrei potuta avere a patto che ci fosse anche lei. Stavo per accettare, ma lui ha rifiutato e se ne stava andando. Allora gli ho dato le informazioni, porque mi ero divertita e lui è pur sempre il mio cucciolo, e poi chi se ne frega dei mezzosangue?
-Gli hai dato le informazioni.
Maria scosse la testa. Era spaventata. –Jane, non esistono i mezzosangue. Son leyendas! No son información!
Jane strinse gli occhi. Maria fece uno scatto come per ritrarsi, ma il dolore non arrivò.
-Ti ho chiesto un parere, Maria?
-Dos personas. Hay dos personas che potrebbero sapere. Uno è Elipas, el hechicero… esta nella foresta, è viejo, forse più dei vostri capi, è astuto, y conoce todas las leyendas del mundo… pero es peligroso. E non vuole che si cacci, nel suo territorio, né persone né animali. Yo no sé dov’è. Nella foresta. Ma non so dove. No son brasileña .
Jane si strinse nelle spalle.
-Va bene. L’altro?
-El otro es el médico. Joham. Lui studia i vampiri, e se ci sono leggende, le sa.
-Joham, dici.
-Sì. Torna a Rio ogni tanto, ma non so quando. Non so cosa fa se non è a Rio. No son brasileña, esta non es mi territorio.
-E queste sono le informazioni che hai dato al tuo Jasper e a quella troia di sua moglie, quindi.
-Sì. Sì, queste. Non una parola di più, Jane, ve lo giuro. Non avrei potuto, porque non so niente di altro. Nada de nada!
-La cosa che mi perplime, Maria, è che tu non abbia informato nessuno di questa visita. Non ti è parsa… diciamo così… quanto meno singolare?
Maria si irrigidì. Fosse stata umana sarebbe sbiancata.
- Coño… sì, era strana. Ma eran solo cuentos de hadas! Favole, solo favole!
-La prossima volta, Maria, ricordati una cosa: Aro adora le favole. Impazzisce letteralmente per le favole. Lo divertono così tanto, sai?
-Mi… ricorderò. Juro.
Jane scrollò la mano, come per cambiare argomento.
-Ma passando a notizie più allegre, Maria, mi dicono che anche tu ti sei sposata! Congratulazioni!
Lei si sforzò di inarcare le labbra in quello che doveva essere una specie di sorriso.
-Non avevamo detto di finirla con il riassunto di “Cuore selvaggio”?
-Che ci vuoi fare, sono una ragazza romantica. Come hai detto che si chiama tuo marito?
-Non l’ho detto-, ringhiò Maria. Jane fece un sorriso angelico e inarcò un sopracciglio. Maria sussultò.
-Azùl. Yo lo chiamo Azùl.
-Che bel nome… Príncipe Azùl! Portagli i nostri saluti, mi raccomando… noi porteremo i tuoi a Santiago!
-Cosa volete da…
-Niente, Maria, figurati! Tu rispetta le leggi, e non avrai problemi. Magari passeremo anche a trovarvi, prima o poi, muoio dalla curiosità di sapere come hai arredato casa!
-Mi… lasciate andare?
Jane inarcò le sopracciglia. –In effetti, se ti lasciassimo andare sarebbe la seconda volta che la passi liscia, forse dovremmo…
Felix scoppiò a ridere. –Lascia stare, Jane… se la ammazziamo, poi chi le sopporta le lagne di Santiago, a casa?
-Mi hai convinta. Andiamocene, e anche tu Maria, vattene subito. In fretta, prima che cambi idea.
Lei parve non crederci. Rimase rigida, pronta a scattare, finchè loro non voltarono le spalle. A quel punto sembrò prendere una decisione e si alzò di scatto, rovesciando la sedia.
-Felix!
Lui si girò. Maria si tormentava gli anelli alle dita.
-Dimmi tutto, querida.
-Felix, fammi un favore-. Maria sfilò l’anello d’oro che portava al pollice e lo lanciò all’uomo, che lo afferrò senza sforzo. Poi lo fissò, con gli occhi del diavolo.
-Dallo al mio mariachi- disse, prima di voltarsi e sparire.


Andare a prendere Joham era stato di una semplicità quasi noiosa.
Lui non sospettava nulla, né di essere sorvegliato né tantomeno che qualcuno lo cercasse, e quando gli erano piombati addosso, inesorabili, non aveva nemmeno lottato: era rimasto troppo stupito per reagire.
Poi, appena aveva capito di essere fottuto, si era arreso. Felix si era trovato a borbottare che erano dannatamente in soprannumero per una cosa del genere. Quando infine si era reso conto che il motivo per cui i Volturi lo cercavano era che avevano scoperto delle sue, diciamo così, inclinazioni agli esperimenti genetici, si era ripiegato in se stesso, come se si fosse sgonfiato completamente. Si era visto morto, e arreso senza lottare.
Caius si chiese che fine avessero fatto gli scienziati guerrieri di una volta, quelli che combattevano fino allo stremo delle forze ed erano pericolosi perché sapevano precisamente dove colpire per recarti più danno possibile; forse avevano buttato via lo stampo.
-Impacchetta le cose a cui sei più affezionato, dottore… il resto lo manderemo a prendere, nel caso.
Nel caso in cui tu sia ancora vivo, era il sottointeso. Joham lo capì fin troppo bene.
-Cosa volete da me?-, balbettò.
Caius ghignò.
-Consegnaci le tue tre figlie femmine, dottore.
L’impressione generale fu quella che Joham non crollasse svenuto solo perché i vampiri non crollano svenuti. Balbettò qualcosa in una specie di portoghese misto a qualcos’altro che sembrava suonare tipo “come avete fatto a scoprirlo”.
-Non sono stato chiaro?- Caius, con i capelli bianchi e il ghigno gelido che gli freddava il volto, sembrava una statua di ghiaccio. Con uno scatto rapidissimo afferrò Joham per il bavero. –Ho detto: consegnaci le tue figlie-, ringhiò.
Joham, anche se evidentemente terrorizzato, trovò la forza di scuotere appena la testa. Corin fischiò piano, quasi ammirata da quel gesto.
Caius lo lanciò a terra, e sempre continuando a ghignare si rivolse al gruppo delle sue guardie.
-Jane? Lo convinci tu?
Inaspettatamente, Jane non usò il suo potere. Sorrise come un angelo di Botticelli, per la precisione uno che era nel quadro che portava al corridoio che conduceva alle stanze di Aro.
-Joham… non ti è chiaro un punto, probabilmente. Noi le troveremo, le tue figlie, sappiamo già come trovarle per il semplice fatto che abbiamo trovato te. Ora, il problema che si pone è quante di loro saranno condotte sane, salve e su un comodo aereo privato a Volterra. Perché sai, Aro ha detto che gradirebbe averle tutte e tre, ma non che le vuole ad ogni costo. E il mio Signore Caius, qui, mi ha personalmente ordinato di non farmi problemi ad ammazzarne anche due. Dimmi… qual è la tua figlia preferita, Joham?
Lui sembrò davvero terrorizzato.
-Vi porterò da Serena; Jennifer, la piccola, vive con lei. E poi andremo da Maysun, se la contatta Serena è meglio, se la contattassi io potrebbe decidere di non ascoltarmi, lei è… capricciosa. Farò come volete. Ma vi prego, non fate del male alle mie figlie. Vi prego.
Jane fu quasi stupita da una reazione così ordinaria. Non durò molto. Perché Felix, con un ghigno, commentò -Certo, se farai il bravo non te le rovineremo, le tue piccole cavie!
Lo sguardo di Joham fu talmente esplicito che a Jane venne quasi da ridere.
-È davvero per quello? Ma sei un fottuto pezzo di merda!- sibilò Corin, che era particolarmente sensibile alle relazioni padre-figlia. Lui la guardò come si guarderebbe l’ultimo degli idioti ignoranti, lei scosse la testa.
-Basta così. Portaci da Serena, in fretta-, intimò Jane.
Caius annuì.
-Voi recuperate le mezzosangue. Afton, Corin, voi venite con me. Jane…
Lei gli rivolse attenzione. Caius la prese in disparte.
-Lo so che Aro preferirebbe che tu in questa missione non usassi il tuo potere a meno che non sia assolutamente necessario. Usarlo con chi non ci ha mai visto, almeno come dimostrazione, è necessario. Quindi l’ordine è di usarlo come al solito: voglio che Joham e le sue tre puttane abbiano chiaro con chi hanno a che fare.
Jane sorrise, e stavolta il suo sorriso non assomigliava per niente a quello di un cherubino.
-Agli ordini, capo.


Caius li aveva portati sfrecciando fuori dalla città e si era inoltrato nella foresta; nonostante l’intrico di vegetazione, che a tratti copriva persino il cielo, sembrava sapere esattamente dove andare. A un certo punto si fermò e si mise ad aspettare, rimanendo immobile.
-Comodi-, disse soltanto.
Il concetto di comodità di Afton a quanto pare era rimanere immobile dietro a Caius a guardarsi attorno con sguardo leggermente vacuo; ogni volta che faceva così, a Corin veniva sempre in mente uno stupido libro fantasy in cui uno dei protagonisti, per via di una maledizione, era condannato a vedere ogni cosa nel mondo decomporsi e morire. In seguito a ciò tale personaggio tentava di sostituirsi alle divinità e diventare il padrone del mondo; in tal senso Afton non sembrava rappresentare un pericolo, comunque. Di sicuro avrebbe considerato che non valesse la pena fare tanta fatica per un mondo che comunque era destinato a decomporsi e morire, prima o poi.
Lei frugò sotto al mantello e recuperò la sua borsina con le perline, per poi girarsi velocemente una sigaretta. Non le dava soddisfazione, era puro vizio, ma insomma, l’eternità è lunga.
Si stava portando la sigaretta tra le labbra quando vide la famosa Malliouhana avanzare verso di loro, facendo appena frusciare le piante del sottobosco. Rimase immobile, la mano alzata a reggere lo zippo con cui l’aveva accesa.
Malliouhana era una degli esseri più affascinati che Corin avesse mai visto, e lei gli esseri affascinanti praticamente li collezionava.
-Felice di rivederti, Malliouhana-, la apostrofò Caius. Lei chinò il capo, poi fissò Corin.
Aveva gli occhi di un colore stranissimo, pare a causa del fatto, le avevano detto, che quando si nutriva non stava a guardare troppo per il sottile, alternando umani o animali a seconda di quello che trovava; di conseguenza le sue pupille erano di un incredibile colore arancione brillante. La donna le si avvicinò e le prese di mano la sigaretta, per poi aspirare una lunga boccata di fumo. La brace della sigaretta era arancione brillante come i suoi occhi.
-Le piace la gente che fuma-, ghignò Caius. Poi le disse qualcosa in una strana lingua precolombiana, nella quale Corin distinse una parola tipo “tobago”. Lei sorrise.
-Ti ringrazio per avere sorvegliato il giaguaro e la donna che gi fa da madre, durante questo tempo.
-Non è stato difficile. Anche se sapevano di essere sorvegliati, e non so come sia possibile, perché io e i miei protetti siamo più abili di loro.
Caius si strinse nelle spalle. –So che lo siete, Malliouhana. Sapevano di essere sorvegliati perché qualcuno li ha avvertiti che sarebbe successo. Non c’è bisogno che ora sappiano di non esserlo più, ad ogni modo.-
Corin tirò una boccata di fumo, lo sguardo della donna fu attratto dallo scintillio della brace. Aro l’aveva detto, tre anni prima: Alice avrebbe visto l’ordine di controllare Nahuel e sua zia. Paradossalmente, mantenendo un profilo basso e non avvisando le sorelle per paura di dirottare su di loro attenzioni non richieste, Nahuel aveva fatto il gioco dei Volturi; per quanto riguardava Joham, invece, sia Nahuel che i Cullen sapevano bene che prima o poi sarebbero andati a prenderlo. Buffo come a nessuno la cosa interessasse granché; d’altra parte, Corin non riusciva a dare loro torto.
-Continuerò a farlo sorvegliare, di tanto in tanto. È un essere curioso.
Caius annuì.
-Cosa possiamo fare per ringraziarti, Malliouhana?
Lei parve rimanere per un momento pensierosa. Poi si avvicinò a Corin e le prese la sigaretta dalle dita. Aspirò una boccata di fumo e gliela soffiò in volto, guardandola intensamente con i suoi occhi arancioni.
Ottimo, ragazza. Questa è una delle cose più eccitanti che ti siano mai capitate, si ritrovò a pensare. Rifallo, e non risponderò delle mie azioni.
Poi la donna tornò a guardare Caius.
-C’è stato un tempo, prima che i demoni bianchi arrivassero nelle mie terre, in cui gli uomini mi veneravano. Essi sacrificavano per me esseri umani, affinché potessi nutrirmi, e in cambio li proteggevo. Compivano i loro sacrifici con un pugnale di ossidiana, sugli altari. Io sentivo l’odore del sangue e accorrevo a nutrirmi, e in cambio li proteggevo dai nemici; ma quando gli spagnoli hanno sterminato il mio popolo e saccheggiato le nostre terre, ed erano troppi perché io potessi fare qualcosa, si sono portati via il pugnale. Quel pugnale appartiene a me, e contiene le anime di coloro che sono morti per nutrirmi. Vi chiedo di ritrovarlo, e di riportarmelo.
Caius annuì.
-Sarà fatto, Malliouhana. Lo cercheremo e stai certa, se esiste ancora, lo troveremo.
-E delle tue parole io mi fido. Sul pugnale c’è un mio ritratto, e un invocazione a me. Ricordo che Aro sa leggere la nostra lingua.
-Aro sa fare tante cose. Avrai il tuo pugnale. Ho un ultimo favore da chiederti; c’è un clan che vorrei rintracciare in fretta. Potresti darmi indicazioni precise su di loro?
-Posso, Caius. Conosco ogni clan presente nella foresta. È di nuovo dall’Antico, Elipas, che vuoi andare? Come quando lo andaste a trovare tu e i tuoi fratelli, al tempo in cui i demoni bianchi arrivarono per mare?
-No, Malliouhana, non è a lui che voglio recare visita. Si tratta del clan di Zafrina.
Lei annuì. Indicò una direzione e punti di riferimento, inframmezzati da termini che Corin non capì. Caius non parve avere problemi. Annuì.
-Avrai quel che ti spetta, Malliouhana. Il tuo aiuto è prezioso, e i Volturi non dimenticano.
-Lo so, Caius. Porta i miei saluti ai tuoi fratelli.
-Sarà fatto. Ci vedremo di nuovo, e avremo il tuo pugnale.
Lei fece un sorriso in direzione di Corin, poi si voltò e scomparve di nuovo nella foresta. Caius ammiccò.
-Le sei piaciuta, Corin.
-Ah sì, Signore?
-Sì, ti ha soffiato il fumo in faccia.
Corin sorrise.
-Signore, ma è logico. Io piaccio a tutti.
Caius sbuffò, ma poi si mise a ridere.
-Basta cazzate. Adesso andiamo a trovare le amazzoni-, ordinò.














Note: Brasiiiil… lalallallà lalallalà…
Ok, scemenze a parte. Questa storia, vi assicuro, è stata un parto. La riprendo e la mollo da non so quanto tempo, e ora che finalmente l’ho finita non mi rendo nemmeno più conto di com’è, nei suoi confronti ho ancora meno distacco del solito. Le mie beta vannagio Santa Martire e OttoNoveTre Santa Subito però mi hanno dato il via libera (oltre a spronarmi tantissimo, cosa per cui non le ringrazierò mai abbastanza), e quindi eccoci qua.
Tutto nasce da “ok, è ora di fare trombare Felix e Renata”. Peccato che il pensiero successivo sia stato “sì, ma se trombano così e basta è brutto, è più bello se attorno c’è una missione”, e quello dopo ancora è stato “ma vuoi che Aro si lasci sfuggire tre e dico tre mezzosangue più uno che studia i vampiri?”, et voilà. Anzi, voilà un cazzo, visti i tempi. Da oggi solo drabble!
Però finalmente Felix e Renata hanno concluso. Siete contenti? Sì? Felix tantissimo.

La storia, secondo me, si svolge a fine luglio-inizio agosto 2010. Ok, so che non ve ne importerà granché, ma volevo tirarmela per far vedere che oh, io ci penso, alle cose era per mettere una coordinata temporale, ecco.
Malliouhana è un prestito, l’ha inventata OttoNoveTre e compare qui.
Rochina è il nome di una favela di Rio. Nel 2011 ha fatto notizia l’invasione in questa favela di una forza di polizia che ha arrestato, tra gli altri, il narcotrafficante Nem; io ci ho lavorato un po’ di fantasia, e come vedete, i Volturi pagano sempre i propri debiti!
A proposito: chi riconosce la citazione precedente è un figo. Chi riconosce anche la smaccata e vergognosa ispirazione dei componenti del clan di Don lo è ancora di più.
La mia Maria, come sempre, è dedicata a maleka; so che quando avrai tempo passerai e leggerai, tesoruccio, e la ragazzaccia è tutta tua!
Sappiate che non so lo spagnolo, le cose che dice Maria sono opera del traduttore automatico. Quindi se qualcuno che sa lo spagnolo troverà degli errori e avrà la bontà di segnalarmeli, in modo che possa correggerli, avrà tutta la mia riconoscenza.
Gli angeli del Botticelli li cita continuamente la Meyer nei libri per paragonarli a Jane. Ora, dato che il Botticelli non è che sia particolarmente famoso per i suoi angeli, presumo che la stragrande maggioranza delle opere in cui compaiono si trovi a Volterra, collezione privata di Sulpicia.
Continuiamo con il giochino delle citazioni colte! Il personaggio di cui parla Corin è uno dei protagonisti di una famosa saga fantasy, chi lo conosce? Questa è abbastanza da nerd, in realtà!

Va bene, se siete arrivati fin qui, a breve arriverà la seconda parte, che è già stata scritta… ho diviso la storia solo perché era piuttosto lunga. Se siete qui vorrei ringraziarvi tantissimo, uno per uno, tutti quelli che recensiscono, che leggono, che si divertono, che non recensiscono ma poi mi citano al ristorante… siete impagabili, dal primo all’ultimo. Mi mancava tornare a Volterra, anche se in realtà non sono mai andata via. Ma è in questa raccolta che mi sento a casa, è con voi che vi siete subiti 39 capitoli che posso chiacchierare a ruota, e quindi grazie di essere qui!
Tanto era l’ultima frase e non l’ha letta nessuno, quindi potevo essere smielata. Ecco. Grazie mille a tutti!


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Capitolo 40
*** Una missione facile facile - seconda parte ***


UNA MISSIONE FACILE FACILE
Seconda parte

Sulpicia adorava quando Aro decideva di intrecciarle i capelli.
Aveva l’impressione che fosse una delle cose che lui faceva per riordinare la matassa di pensieri, suoi e di altri, che gli vorticavano nel cervello; muovere le mani, concentrarsi su trecce, nodi e forcine doveva sembrargli un’attività estremamente riposante.
Lei se ne stava quieta e immobile mentre le dita veloci di Aro volavano tra i suoi capelli; le venne in mente che poche ore prima aveva visto Renata pettinare il suo gatto bianco, quello che riempiva di peli il tappeto del salone, e il gatto se ne stava in evidente stato di beatitudine ronfando come un matto.
Se avesse potuto ronfare l’avrebbe fatto.
-Oh, che immagine carina, mia Sulpicia bionda come il Tevere!- rise Aro, allungandosi a baciarle una guancia. Poi si rigirò attorno al dito una ciocca dei capelli di lei e gliela fissò alla nuca con una forcina dorata.
-In verità, mia amata, è proprio così; ho intenzione di uscire, questa sera-, trillò in risposta a una domanda che lei aveva solo pensato.
-Vedi, Sulpicia… Diciamo che sento in dovere di intrattenere te e Dori, visto che sono stato io a mandare la vostra Corin in missione. Oh, lei è imbattibile nella superba arte di perdere tempo, Sulpicia, mentre io… Non ne sono all’altezza, lo sai. Ma ho fatto del mio meglio per inventare un passatempo adeguato, mi sono impegnato davvero molto, e infine ho pensato che potremmo dedicarci a cercare di far divertire Marcus, non pensi? Chi di noi tre dovesse riuscirci, sarà incoronato vincitore della serata! Che te ne sembra? Non è un’idea meravigliosa?
Sulpicia fece una risatina sprezzante. -Non ci riusciremo. Marcus non si diverte.
-Mia amata, lo so bene, eppure nulla ci vieta di tentare, non credi?
Intrecciò velocemente un’altra ciocca di capelli biondi.
Lei espresse il suo pensiero ad alta voce, perché lui aveva allungato la mano verso una sottile forcina dorata.
-Questo è per te, Aro. Un gioco. Tutto ciò che fai non è che un gioco.
Lui fermò la treccia con la forcina, e si fermò a rimirare l’effetto.
-È questo che credi? Pensi che io voglia scherzare. Ma l’unico modo per fare è fare sul serio, mia Sulpicia.
Il suo sorriso era perfetto, ma si era fatto di ghiaccio. Lo sciolse appena lei formulò il pensiero. Le sfiorò l’acconciatura perfetta.
-O amore, figlia di delizie, un re è rimasto preso dalla tua treccia-, declamò, come se volesse distrarla. Lei scoppiò in una risata.
Magari fosse vero, pensò.


Corin aveva la netta sensazione che la vita a palazzo, con le Signore, la stesse rammollendo.
I suoi ricordi da umana sembravano scolorire ogni anno di più, e di anni ne aveva parecchi, ma si ricordava di avere viaggiato parecchio in condizioni pessime e, facendo le debite proporzioni, di essersela cavata molto meglio di così.
Ora di sicuro le sue capacità erano incrementate. Non sentiva la stanchezza né l’umidità, e non c’era praticamente nulla che potesse nuocerle, eppure, al fianco di Caius e Afton, non si sentiva all’altezza, e la cosa la faceva imbestialire. Afton veniva spesso mandato in missione e Caius era… beh, era Caius. Lei era capacissima di tenere attive due nobildonne di tremila anni e sapeva escogitare centinaia di nuovi divertimenti, ma aveva perso in fisicità: non era silenziosa come loro, ed era pronta a scommettere che i suoi sensi, pur acuti, non coglievano i nessi degli altri due. Si domandò brevemente se fosse il caso di proporre a Caius e Aro simpatiche gite di sopravvivenza in luoghi esotici e pericolosi da far fare alle loro donne; di sicuro la signora Athenodora ne sarebbe stata entusiasta. Un po’ meno il marito, certamente.
Improvvisamente Caius scattò in avanti con un guizzo talmente veloce da risultare invisibile; Corin ebbe l’impressione che il paesaggio attorno a lei avesse come un tremito, e meno di un istante dopo Caius stringeva una donna per il collo. Le avevano trovate.
Le altre due (ce n’erano altre due. Quella che Caius stringeva per il collo doveva avere creato una delle sue illusioni per coprire la fuga), appena videro le dita di Caius affondate nella gola della sorella, ringhiarono e si scagliarono verso di lui. Quella dall’aspetto più ferino venne immediatamente fermata da Afton; lei fece per scagliarsi contro l’altra, quando dal terreno eruppe una fiammata che la fece saltare indietro con un sibilo. Capì un istante dopo che doveva essere un’illusione, e imprecando fece per riprendere lo slancio, ma Caius aveva estratto con la sinistra il suo tubo lanciafiamme e lo puntava contro la donna incatenata dallo sguardo di Afton, senza lasciare il collo della sua avversaria.
-Le uniche fiamme reali sono qui dentro, troia-, ghignò Caius, affondando ancora di più le unghie nella trachea della donna. –Dì alle tue sorelle di smettere di combattere, o faccio fuoco.
Sembrava che non volesse davvero che si fermassero, in realtà. Invece l’unica delle tre ancora libera si fermò, e Caius le scagliò contro la sorella che teneva stretta per la gola, quasi con disprezzo. Fece un cenno ad Afton che distolse appena lo sguardo dalla terza, lasciandola libera dalla sua illusione.
Appena si rese conto di essere ancora viva e intera, la donna fece per scagliarsi contro Caius. Lui si limitò a puntarle contro la sua arma; fu sua sorella a gridarle di fermarsi, dato che quella che faceva le illusioni era troppo impegnata a cercare di farsi rigenerare la trachea.
-La prossima volta, Zafrina, ricordati che abbiamo cinque sensi, e non ti illudere di poter ingannare me con delle stupide illusioni. Se fossimo qui per voi, non dubitare, sareste morte.
Corin non era abituata a usare il suo potere in situazioni del genere. Il più delle volte lo esercitava senza nemmeno rendersene conto, oppure durante incontri diplomatici in cui comunque era previsto un dialogo. Si concentrò sulle tre.
Funzionò, perché le donne non cominciarono a ridacchiare né a proporre una gara a chi trova l’anaconda più grossa, ma smisero di emettere ringhi e sibili e una dei loro (non quella ferina, l’altra), domandò –Allora, cosa volete da noi?- in tono nemmeno troppo polemico.
-Niente. Non è per voi che ci troviamo qui. Diciamo che sono solo passato a salutarvi.
-Salutarci…-, ringhiò Zafrina, che riusciva a parlare con qualche difficoltà.
 -Salutarvi, Zafrina, vedere come state… l’ultima volta che ci siamo visti le circostanze non erano delle migliori.
-Volete vendetta? Siete venuti a regolare i conti?
-Mi state innervosendo, donne. Se ci fossero stati conti da regolare, a quest’ora voi tre sareste morte. Sono solo passato a salutarvi. E a ricordarvi che, in futuro, dovreste scegliere molto attentamente le vostre alleanze.
-È una minaccia.
-No. È un consiglio.
Zafrina parlò, sforzandosi. Si teneva una mano stretta attorno alla gola.
-Vi siete mossi contro il clan di Carlisle, gli avete mosso delle accuse che si sono rivelate ingiuste. Ci siamo limitate alla nostra testimonianza.
Caius ghignò.
-E infatti nessuno si è fatto male. Mio fratello Marcus e mio fratello Aro hanno preferito credere alla buona fede di tutti, e alle loro decisioni mi sono rimesso. Ma lasciate che vi dia un consiglio, Zafrina, Kachiri e Senna.
Lo sguardo di Caius si fece implacabile. Corin si era trovata dall’altra parte di quello sguardo, ed era sopravvissuta solo perché Aro aveva ritenuto utili i suoi poteri. Ma Louie… si impose di non pensarci.
-Allearsi con dei mutaforma, la cui razza è geneticamente predisposta a mutare espressamente per uccidere vampiri, non è una mossa saggia. Allearsi con i sopravvissuti del clan Rumeno, che nemmeno si preoccupano di nascondere il fatto che auspicano uno scontro per togliere il potere a noi, è una mossa ancora meno saggia. Dici che vi siete limitate alla vostra testimonianza? Vivete nella foresta, e certo non siete esperte di politica e diplomazia, ma sappiate una cosa: schierarsi con qualcuno piuttosto che con qualcun altro implica sempre una dichiarazione di intenti. La implica persino se non era nelle vostre intenzioni. Per questo vi dico: in futuro, pensate bene ai sottintesi delle vostre alleanze.
-Grazie dell’avvertimento, Caius. Perché è questo, vero? Un avvertimento.
Lui ghignò.
-È un consiglio. Siete sfuggite alla morte, vi sfuggirete anche oggi… ma sapete cosa direbbe Afton qui?
Loro lo fissarono. Quella dall’aspetto ferino ringhiò. Afton fece uno sguardo leggermente perplesso.
-Ma la mia non sarebbe una minaccia né un avvertimento, Signore. Direi loro che prima o poi moriranno, perché è questo che avverrà.
-Giusto, Afton. E come direbbe Aro… meglio poi che prima, giusto? Andiamocene, non abbiamo più nulla da fare, qui. Arrivederci Zafrina, Kachiri e Senna della tribù delle amazzoni. Porteremo i vostri saluti ai miei fratelli, con la consapevolezza che vi lascio più sagge di come vi ho trovato.
Le tre ringhiarono. Caius ghignò.
-Andiamocene-, ordinò.


Serena aveva scoperto da poco un folle amore per la scrittura, e come faceva da qualche tempo a questa parte, batteva al pc con dita veloci, approfittando dei momenti liberi che riusciva a ricavarsi. Serena buttava l’anima nelle mani, quando scriveva. A volte piangeva sul pc. Si escludeva dal mondo: Miaus e La Dada Grigia, le gatte, le stavano una in grembo e una sui piedi, e Jennifer guardava “Glee” in salotto, senza disturbarla. Forse per quello non si accorse di nulla. Forse, però, i vampiri che erano arrivati erano tremendamente pericolosi.
Sentì Jenny andare alla porta. Anzi, no, sentì Jenny esclamare –Ciao, papà!-. Alzò la testa. C’era il loro padre? Strano, non aveva fatto sapere del suo arrivo. Perplessa, salvò lo scritto e uscì dalla sua camera, per poi inchiodarsi sulla porta del soggiorno.
-Serena, se non sbaglio.
Jenny era sulla sua poltrona, lo sguardo terrorizzato nei grandi occhi scuri, le pupille che saettavano come impazzite da lei a suo padre. Suo padre era seduto sul divano, l’espressione tremendamente seria e contrita. E attorno a loro c’erano dei vampiri. Immobili, fissi, bellissimi, avvolti da mantelli grigio scuro.
Quella che aveva parlato sembrava avere non più di undici, dodici anni. Ma i suoi occhi, così incoerenti in quel viso infantile, impressionarono Serena: erano gli occhi rossi di una donna.
-Ma chi siete… cosa… Padre, chi…- non riuscì a terminare la frase. Un’ondata di dolore la travolse, facendola gridare. Non durò molto, ma Serena non aveva mai sofferto così: era come essere bruciata viva, ogni cellula del suo corpo, ogni grammo di carne bruciava e bruciava. Poi passò, rapido com’era venuto.
-Ho detto: Serena, se non sbaglio-, ripeté la bambina.
Jenny aveva strillato e aveva fatto per lanciarsi verso di lei, ma un vampiro gigantesco l’aveva bloccata per le braccia. Ghignava, mentre Jenny continuava a divincolarsi e a urlare senza riuscire a smuoverlo di un millimetro. Serena urlò il nome di sua sorella e fece per scagliarsi verso di lei, ma una nuova ondata di dolore la bloccò a terra.
Quando si riebbe, suo padre la guardava inorridito.
-Serena, rispondile… Jennifer, stai calma. State calme e andrà tutto bene. Vero? Me l’hai promesso, Jane!
Gli tremava la voce. Il sorriso della bambina fu qualcosa che Serena non dimenticò mai: il sorriso di un gatto che giocava con un topolino, e che avrebbe potuto lasciarlo a terra, morto, se la cosa l’avesse divertito abbastanza.
-Te l’ho promesso, sì, ma non so… fanno talmente tanto chiasso, non credo che il mio signore Aro vorrebbe tutta questa confusione, a palazzo. Tu credi che la voglia, Felix?
L’uomo enorme si limitò a tappare la bocca di Jenny con una mano.
-Massì, Jane, senti… una sta zitta, adesso. Basta usare le buone maniere. E tu, Serenella ti porto al mare, finiscila di frignare e rispondi a Jane. Dammi retta, che poi mi dici grazie.
Serena deglutì.
-Sono… Sono Serena. Chi siete voi?
-Amici di papà, Serenella. Dimmi, siete mai state in Italia?


-Non sarà un’imprudenza, fratello, farci vedere in città da così tante persone?
-Marcus… da quanto tempo è che non ti fai vedere a passeggio per le vie di Volterra? Non dirmelo, lo so: ben più di un secolo.
-Ma il luna-park, Aro. Non credo di avere voglia di venire al luna-park. Scusami, ma proprio non me la sento.
-Marcus. Corin non c’è. Le signore hanno diritto di divertirsi. Fallo per Sulpicia e Dori.
-Penso che vi rovinerei il divertimento. A Didyme sarebbe piaciuto…
-Vederti su un calcinculo. Sì, le sarebbe piaciuto, credo davvero di saperlo. Non ti chiederò tanto, a meno che non sia tu a volerlo, ma Marcus, se proprio non ci vuoi salire, almeno accompagna noi poveri vecchietti che vogliamo soltanto toglierci qualche piccolo sfizio!
-Penso, Aro, che voi poveri vecchietti sareste perfettamente in grado di…
Aro si esibì in un sospiro teatrale.
-Non puoi lasciarmi solo in balia di due donne, fratello mio, per quanto adorabili possano essere!
-Hai affrontato cose molto peggiori di Dori e Sulpicia, Aro.
-Marcus. Insomma, rifletti. Sei mio fratello. Sei legato a me dal sangue comune che ci ha fatti rinascere e dai vincoli creati dal tempo. Sei sovrano, al pari mio. Conosci i tuoi obblighi e i tuoi doveri. E mi sento di dire che, in base al contratto tra sovrani, è tuo preciso dovere accompagnarci al luna-park!
-Contratto tra sovrani?- chiese Marcus, allibito.


-Continuo a trovare inquietante che tu usi la musica dello “squalo” come suoneria quando chiamano le tue sorelle… sono davvero così tremende?
Maysun si issò con agilità dalla buca dello scavo e recuperò la borsa di tela.
-Fiutano una goccia di sangue a tre oceani di distanza, e le loro chiamate portano solo casini, di solito. Pronto?
-May… dove sei?
La ragazza sbuffò.
-Ciao a te, Serena! Sì, sto bene, tutto procede a meraviglia, il sole splende, gli uccellini cantano…
-May, per favore!
Serena aveva la voce angosciata. C’era da dire che Serena aveva la voce angosciata anche quando leggeva “Harry Potter” e scopriva che Piton, dopo tutto questo tempo, non aveva mai smesso di amare Lily. La voce angosciata di Serena non era garanzia di tragedia, di solito.
-Va bene, Serena, sono in Numidia, che è in Africa…
-Lo so dov’è la Numidia. May, senti… devi tornare qui subito. Non posso spiegarti, ora, ma per favore
-Cos’ha fatto nostro padre? Lo sai che non me ne frega un cazzo di…
-No, non è papà, è per Jenny…
-Jenny? In che senso Jenny?
-May, ti prego, vieni subito, abbiamo davvero bisogno che tu venga…
La voce di Serena era veramente angosciata. Sembrava una preoccupazione seria, stavolta.
-Va bene, parto subito. Stai tranquilla, ok?
Sentì un singhiozzo dall’altra parte della cornetta.
-Certo, May. A presto.
Poi riattaccò.
-Tutto a posto?
Maysun fissò con aria sconsolata il cappello da cowboy che spuntava dallo scavo.
-No, niente a posto, Harrison. Serena vuole che vada da loro, non so cos’ha combinato Jenny, ma la sentivo preoccupata… Probabilmente sarà in crisi perché Elena ha tradito Stefan con Damon. Cazzo.
-Su, non sarà niente di irreparabile, tranquilla...
-Lo immagino. “Cazzo” era perché se c’è qualcosa da scoprire, lo farai da solo prima di me, e ti prenderai tutto il merito.-
Lui rise.
-Non lo farei mai, mio sole di maggio. Io sono un gentiluomo.
Dall’altra parte del telefono, in America, Felix lascò la presa su Jennifer, che si precipitò in lacrime dalla sorella, massaggiandosi il collo. Jane sorrise soddisfatta.
-Come vedi, Serena, non è un grosso problema non essere capaci di dire bugie alla propria sorellina… basta rendere reale una minaccia, e non si rende necessario mentire. Facile, no?


-Vederti pilotare la macchinina degli autoscontri, mia amata, è stato davvero impagabile! Oh, mi domando per quale motivo non te l’avessi mai fatto fare prima, davvero!
Sulpicia si aggiustò lo scialle sulle spalle, mentre osservava pensierosa Athenodora avvicinarsi a una baracchina piena di peluches e prendere in mano un fucile ad aria compressa. I suoi bracciali tintinnarono.
-Tuttavia-, le disse, cingendole la vita, -Non credo proprio che sia una buona idea farti guidare l’auto. Suvvia, mia amata, non è una cosa per nulla signorile!
Sulpicia gli rivolse un mezzo sorriso. Poi tornò a guardare la cugina.
Athenodora era sempre stata una donna di buonsenso, una persona pratica; uno dei vaghi ricordi da umana che conservava Sulpicia era di lei, al telaio, che sorvegliava la loro casa senza che nulla sfuggisse al suo sguardo acuto. Ricordava anche che possedeva due pugnali di bronzo e li teneva ben nascosti, ma se occorreva non aveva paura di usarli.
Quindi non si stupì come avrebbe dovuto quando la vide imbracciare il fucile con un gesto fluido. Marcus, invece, che le stava accanto, si lasciò scomporre il viso in una leggera espressione sconcertata.
-Caius adora questi giocattolini, lo sai… ogni tanto me li fa provare. Questo non è per nulla bilanciato, ma d’altra parte è finto, non posso pretendere molto. Oh, beh, è solo un gioco, no?
Socchiuse gli occhi e fece un centro perfetto in tutti i bersagli. Aro ebbe la certezza che il silenzio di Marcus, più che a indifferenza, fosse dovuto al fatto che era rimasto senza parole.
-Perché non sapevo che sai sparare, Dori?- le chiese, con un mezzo sorriso un po’ tirato.
-Ma certo che lo sapevi, Marcus, solo che te n’eri dimenticato.
-Signora, mi scusi…
Il proprietario della baracchina si era avvicinato a loro, e reggeva un enorme peluche a forma di lupo.
-Questo l’è il su’ premio, sa, per tutti i centri ch’ ha fatto…
Aro scoppiò in una risata talmente contagiosa che perfino Marcus si concesse un lieve sorriso. Athenodora prese il peluche, che era quasi più grande di lei. -Non vedo l’ora che Caius torni e lo veda!-, commentò.
-Probabilmente gli si scaglierà contro uccidendolo-, considerò Marcus. Scoppiarono a ridere.
Il luna-park brillava delle sue luci pacchiane e variopinte; a Didyme sarebbe piaciuto.
Si impose di concentrarsi su altre cose; prese galantemente le cognate per il braccio e si sforzò di proporre la casa degli specchi, -Per fugare con il nostro riflesso ogni possibile sospetto-, aggiunse. Sulpicia si voltò a guardare il marito. Aro sorrideva, trionfante.


Caius condusse Joham e le figlie nella sala dei troni, scortati dal drappello di guardie che si era recato in missione. Raggiunse i fratelli, prendendo posto sul suo alto trono di legno. Aro si alzò, leggero, batté appena le mani e si produsse in un sorriso talmente accattivante e cordiale da essere quasi terrificante.
-Mi è stato detto, Joham, che hai creato quattro mezzosangue, tre fanciulle e un maschio. Ho avuto il piacere di conoscere tuo figlio Nahuel, un ragazzo davvero adorabile, ma loro tre… ragazze, voi tre siete assolutamente deliziose!
Scivolò verso di loro, leggero. Fece le presentazioni in maniera impeccabile, strinse mani, accettò inchini,e solo dopo tornò al suo trono, quasi di malavoglia.
-Cosa volete da me, Aro? E dalle mie figlie? Le volete per voi, vero?- sbottò Joham, al culmine della tensione.
Aro compose un sorriso perfetto e si girò lievemente verso le ragazze; a Maysun ricordò l’angelo gotico della cattedrale di Reims.
-Vedete, carine, vostro padre non è stato… come dire… affatto trasparente, né con voi né con noi. A voi non ha spiegato nulla dell’affascinante mondo a cui appartiene, vi ha proibito di avere contatti con altri vampiri e, cosa che trovo oltremodo sconcertante, non vi ha messo al corrente del fatto che ogni società ha delle leggi, soprattutto la nostra.-
Ora, pensò Maysun, l’angelo era diventato una specie di arcangelo con la spada. Di quelli che coglieranno la vigna e la pesteranno nel tino dell’ira, come dicevano i manoscritti medievali.
-A noi ha tenuto segreti i suoi esperimenti-, considerò concisamente il terzo, che non si era mosso dal suo trono. Non sembrava arrabbiato. Non sembrava neanche contento. Sembrava annoiato, come se avesse visto cose rispetto alle quali questa non era nulla. Maysun rabbrividì.
-Esperimenti? Marcus, che termine infelice… Ricerche. Ecco, ci ha tenuto segrete le sue ricerche. Sapete, care, non si fa. Non possiamo permettere che a destra e a manca si facciano ricerche così, senza controllo, rischiando di mettere a repentaglio la nostra segretezza e la nostra sorte. Vostro padre voleva evitare che io arrivassi a voi, o che voi arrivaste a me, e mi domando, Joham… perché mai?
-Temo avesse paura che gliele uccidessimo, come i bambini immortali, Aro.
Il sorriso di Aro divenne come quello del gatto del Chesire.
-Quello, o peggio ancora la paura che gliele portassimo via, non è forse vero, Joham?
Jennifer sgranò gli occhi, Serena le circondò le spalle con un braccio. Maysun fece un sorriso freddo.
-Fanciulle, non dovete temere per la vostra vita. Perdonate se le mie guardie sono state un po’… rudi, avrei davvero preferito evitarlo, ma d’altro canto questa situazione si trascinava ormai da troppo tempo e andava risolta. Siamo governanti severi, ma non siamo ingiusti. Non abbiamo alcuna intenzione di uccidervi e sarei davvero afflitto se ci deste motivi per farlo.
Le fissava sorridendo, come un cobra.
E Jennifer era completamente in balia dei modi ipnotici di Aro, lo seguiva con lo sguardo a ogni suo minimo movimento. Serena sembrava insieme terrorizzata e affascinata da lui. Maysun si stava sforzando di mantenere una certa compostezza, però si sentiva come se avesse improvvisamente visto il volto di un dio azteco sulla parete di un tempio sorridere e prendere vita.
-Voi… voi avete detto che Nahuel vi conosceva… perché Nahuel non ci ha detto niente…- balbettò Serena, tenendosi stretta Jennifer come una bambina.
-Oh, gli ho assicurato che non avrei fatto del male alle sue sorelle, cosa che difatti non intendo fare, bella Serena!
-Beh ma… avrebbe potuto avvertirci, no?  Padre, perché non ci ha avvertito?
Joham strinse la bocca in una linea sottilissima; Aro scoppiò in una risata argentina.
-Tesoruccio, Nahuel, ma soprattutto Huilen, sua zia, sapevano che vostro padre non aveva giustificazioni per il suo comportamento, e hanno ritenuto più saggio non intromettersi. Tra loro due e voi, hanno scelto di tutelare loro stessi.
-Ma Huilen è gentile con noi… Nahuel è come fosse suo figlio, ed è nostro fratello… avrebbe dovuto…
-Stupida-, sbottò Maysun. –Huilen è gentile con noi perché noi non abbiamo colpe. Ma lei è la sorella di Pire, e Pire è morta a causa degli esperimenti di nostro padre-. Le ultime parole le uscirono quasi ringhiando; delle tre, era decisamente la più simile a un vampiro.
-Pensi davvero che piangerebbe la morte di Joham? Tu come ti sentiresti se qualcuno avesse provocato la mia morte solo per fare un esperimento?
Serena si ammutolì. I suoi occhi chiari si riempirono di lacrime. Joham fece per ribattere, ma non trovò nulla da dire.
-Oh, ma suvvia, non c’è bisogno di demoralizzarsi in questo modo, tesorucci! Dovreste ascoltare quello che ho da proporvi… vi prego di credermi, saremo tutti soddisfatti, alla fine!- trillò Aro, richiamando l’attenzione su di sé.
-Joham, davvero non mi spiego perché tu non mi abbia mai parlato dei tuoi… studi. Meglio tardi che mai, però, non è forse così che si dice? Caius ritiene che dovremmo darti una punizione esemplare. Tenere nascosti studi del genere senza conoscerne le implicazioni è stato… imprudente. Avresti potuto mettere in pericolo l’intera razza, e noi questo non possiamo permetterlo. Tuttavia…
Si esibì in un sospiro teatrale.
-Tuttavia i miei fratelli ed io siamo concordi su un fatto: i tuoi studi sono interessanti, portano a risultati che potrebbero invece essere utili a tutti noi. Quindi, Joham, di fatto puoi essere processato qui e ora, davanti alle tue figlie, o accettare di lavorare per noi. Aggiungo…- Aro aveva troncato eventuali commenti semplicemente alzando una mano. –Che avresti laboratorio, materiali, apparecchiature all’avanguardia. Tutto ciò che ti servirà sarà tuo. Certo, dovrai condividere i risultati dei tuoi studi – e qui sorrise come un gatto che aveva catturato un uccellino –ma d’altra parte la scienza va condivisa. Questa è una nostra ferma convinzione, non avremmo fondato quella che ora è la più antica università del mondo occidentale, altrimenti! Non sei forse d’accordo, Joham?
Lui era cupo, digrignava i denti.
-E le mie figlie?
-Le tue figlie avranno la possibilità di starti al fianco. Serena, ti piacerebbe assistere tuo padre, giusto? E continuare a occuparti della piccola Jennifer, alla quale verrà fornita un’istruzione di prim’ordine in attesa che decida cosa vuole fare della sua, ne sono certo, lunghissima vita. Allora, Joham, cosa rispondi?
-Sta bene. Anche perché non ho alternativa.
-No, Joham, non ce l’hai. Chi infrange la legge deve essere punito.
-Un momento, Signore. Io non ho infranto la legge, però.
-Maysun!-, trillò Aro, quasi contento di averla sentita parlare. Lei sostenne il suo sguardo, le sopracciglia scure aggrottate.
-Signore. Non intendo fare da assistente a Joham. Ditemi, ho qualche scelta per caso?
Aro si mostrò genuinamente sorpreso.
-Ma naturalmente sì, tesoruccio! Certo che hai scelta!
Maysun, che era convinta di avere fatto una domanda retorica, per un attimo non seppe come replicare.
-Tu non hai colpe, al contrario di tuo padre. Noi siamo severi, ma siamo giusti. Tuttavia, penso che troverai interessante la mia proposta. Dimmi, Maysun, tu sai quanti anni ho io? Quanti ne hanno i miei fratelli?
Lei aveva recuperato controllo.
-Mi spiace, Signore, ma non ne sono a conoscenza.
Aro rise. –E come potresti, infatti? Tuo padre è stato così villano a non presentarci prima… ne abbiamo tremila e trecento. Decennio più, decennio meno.
Lasciò che l’informazione si depositasse nella mente della ragazza. Quella che su Serena sembrava un’informazione di un certo effetto e poco più fece dilatare le pupille di Maysun.
-Quante cose abbiamo visto, in questi secoli… quante risposte potremmo dare a domande che ti stai ponendo da tanto. Abbiamo visto cadere imperi, abbiamo fondato civiltà… dimmi, ti piacerebbe avere tra le mani autentiche pergamene etrusche? O forse preferiresti i Romani… sai, una nostra carissima amica, Antonia Caenis, è stata segretaria di Antonia Minore e in seguito concubina di Vespasiano, e dovresti proprio parlarle… ha una memoria prodigiosa, ricorda davvero ogni cosa, senza contare che è una donna assolutamente deliziosa! E se lo desideri, nella mia collezione ho qualche oggettino precolombiano interessante che sto ancora studiando, potresti aiutarmi a farlo. Inoltre sai, purtroppo ho tante incombenze, non posso permettermi di viaggiare quanto vorrei... Ma tu potresti andare per mio conto in luoghi inesplorati, finanzierei le tue spedizioni e mi informeresti delle tue scoperte. Cosa ne pensi, carina?
Maysun manteneva un’espressione impassibile, ma il battito del suo cuore risuonava come impazzito, a tradire i suoi desideri.
-Come fate a…
-Sapere, adorabile Maysun? Si impara a sapere tante cose, in tremila e trecento anni! Oh, non permetterò a tuo padre di studiarti, se non lo vorrai. Né sarai costretta a fargli da cavia. Dunque puoi contattare il tuo compagno e dirgli di raggiungerci qui, gradirei davvero conoscerlo di persona!
Maysun impallidì visibilmente. Joham si voltò verso di lei con gli occhi spalancati. Anche Serena e Jenny la fissavano a bocca aperta.
-Oh, è una sorpresa! Che meraviglia, io adoro le sorprese! Vedi, Joham, tua figlia è… come si dice oggi? In una relazione stabile con un vampiro. Suppongo non te l’abbia detto perché non ti venisse in mente di provare a… incrociarli, dico bene, tesoruccio?
Maysun non provò neppure a negare. Aveva gli occhi di una tigre in gabbia.
-E voi proverete a incrociarmi, Signore? Non sareste curioso di vedere cosa sarebbe dell’unione tra una mezzosangue e un vampiro?
Di nuovo Aro si esibì in un’espressione stupefatta. Ci aggiunse anche una buona dose di sguardo offeso.
-Tesoruccio, davvero! Certo che sarei curioso, ma non ti forzerei mai a una cosa del genere! Vedi, carina…
Fece un largo gesto barocco, a comprendere tutta la guardia.
-Tutti quelli che sono qui, ci sono perché è il luogo in cui vogliono essere. Tutto ciò che fanno per noi, lo fanno perché è ciò che vogliono fare. Non abbiamo mai trattenuto persone contro il loro volere, perlomeno finché rispettavano le leggi. Non cominceremo certo con te, trovi, adorabile Maysun?
Lei non seppe cosa ribattere. Davanti al sorriso affabile di quell’essere, non poté che annuire.
-Lavorerò per voi, Signore.
-Eccellente!-, trillò Aro, unendo le punte delle dita. –E ora, tesorucci, qualcuno di voi accompagni i nostri nuovi ospiti da Gianna, affinché gli mostri i loro alloggi e gli procuri ciò di cui hanno bisogno!
Fu una vampira con lunghi riccioli biondi e un bel sorriso, a fare strada. Maysun si sentiva strana; quella gente le stava già cominciando ad andare a genio.


Cominciarono ad andarsene tutti, commentando gli sviluppi, compresi i tre Signori. Felix, che non si era mosso, chiamò Santiago a voce alta.
-Ho una cosa per te, Tiago. Da parte di Maria.
Lui, che stava uscendo, si bloccò sulla porta.
-Avete visto Maria?
-Sì, cazzo. Lo sapevi che si è sposata, quella zoccola?
Santiago tacque. –Cosa devi darmi, Felix?
Lui si frugò nelle tasche dei pantaloni, e tirò fuori un anello d’oro. Glielo lanciò, lui lo prese al volo per poi rimanere impietrito appena si rese conto di cosa si trattava.
-Mi stai dicendo che mi ami?
Maria scoppia a ridere rovesciando la testa all’indietro. Poi lo guarda, lo guarda con gli occhi del diavolo.
-Ma certo che no, mariachi. Quando vorrò dirti che ti amo ti regalerò un anello.
-Hija de puta-, ringhiò Santiago. Poi andò via senza parlare con nessuno, sbattendosi la porta alle spalle.
Felix rimase fermo, scrutando Renata che si accingeva a seguirlo. Nella stanza erano rimasti solo loro due.
-Renata. Vieni qui, fatina. Avanti.
Lei guardò la porta con la coda dell’occhio, biascicando qualcosa su Aro. A Felix non sfuggì.
-Non ci provare, Bambi. Tanto ci metto un secondo. Guardami.
-Felix, cosa devo…
-Guardami!
Lei lo fissò. Era grosso, serio e incazzato. Sapeva che non sarebbe riuscito a toccarla, ma le faceva paura.
-Ti sembro per caso uno spagnolo del cazzo? Vedi delle nacchere, dei tori o una fottuta chitarra da qualche parte? Mi senti dire “olè” alla fine delle frasi?
Renata rimase a bocca aperta, senza sapere cosa rispondere.
-Felix, ma che razza di domanda…
-Porca puttana, Renata, rispondimi!
Sembrava davvero furibondo. Lei deglutì.
-No…-, balbettò.
-Come? Non ho sentito bene. Allora?
-No. No, non mi sembri spagnolo, Felix.
-Bene. E allora, se non ti sembro spagnolo, non mi trattare come se lo fossi.
Detto questo girò i tacchi e si diresse fuori dalla stanza; Renata rimase lì, con i pugni serrati, e scoppiò in singhiozzi senza lacrime.
Durò all’incirca tre secondi. Poi Felix spalancò la porta scardinandola e, quasi stupito che lei l’avesse lasciato fare, la stritolò in un abbraccio spaccaossa.


-Così ora abbiamo un dottore al nostro servizio… non lo trovate eccellente?
-Trovo eccellente che almeno questo non si faccia scrupoli, Aro. E che potremmo sorvegliarlo da vicino.
-Quindi alla fine devi darmi ragione, ho fatto bene a insistere affinché tu non lo giustiziassi subito, sulla via del ritorno da Forks!
Caius rise.
-Posso ancora giustiziarlo, se non mi piace quello che fa. Con comodo, da casa mia.
-Va bene lo scienziato. Ma le tre mezzosangue? La piccola è… chiassosa, Aro. Ritieni indispensabile tenerle qui?
-Marcus, vedremo di fare in modo che la deliziosa Jenny non ti sia di disturbo. Ma davvero le terrei qui… interesse scientifico, sapete. E inoltre…
Il sorriso di Aro divenne inquietante, simile a una mezzaluna. Il sorriso di un gatto, se i gatti sapessero sorridere.
-La graziosa Alice Cullen, il piccolo oracolo, pare abbia dei seri problemi nel vedere il futuro se sono coinvolti mutaforma e mezzosangue. E sarete d’accordo con me nel considerare la nostra privacy estremamente preziosa; rispetto ai mutaforma, queste tre fanciulle sono una curiosità mai studiata prima e, dato affatto insignificante, non puzzano. Non le ritenete due ottime ragioni?
-Ottime, Aro-, mormorò Marcus. Caius fischiò e scoppiò a ridere.
-Ma piuttosto! Ora possiamo cominciare a concretizzare ciò che abbiamo appreso là a Forks, finalmente. Sarò sincero, cominciavo a stancarmi di tutte queste idee che mi volavano in testa senza che potessi fermarle… cominciavano a diventare irritanti, come fossi disturbato da un nugolo di zanzare, capite cosa intendo?
-Capisco, Aro-, rise Caius. –Sei ancora deciso a non disturbare il clan di Carlisle, almeno finché la mezzosangue non si sarà incrociata con il mutaforma?
-Decisissimo, fratello. Il clan di Carlisle sarà… come si dice? Oasi protetta. Dovremo solo farli sorvegliare, o eventualmente proteggere se li minaccerà qualcuno più forte di loro.
 -Sono in tanti, sono pacifici, hanno talenti e hanno i mutaforma, Aro. Potranno difendersi da soli, per quanto riguarda la maggior parte dei pericoli che potrebbero minacciarli. Piuttosto, se permettete, c’è una cosa che farei subito-, intervenne Marcus
Caius stava per dire qualcosa, stupefatto. Aro lo fermò stringendogli appena il braccio.
-Cosa suggerisci, fratello?
-I Rumeni. Li abbiamo lasciati vivi, cinquecento anni fa, e li abbiamo ritrovati a Forks in cerca di vendetta. Tu stesso, Aro, hai detto che non hanno fatto segreto delle loro intenzioni belligeranti. A questo punto, non vedo nessun motivo per lasciarli in vita. L’ideale sarebbe che fosse Caius a guidare una spedizione per eliminarli, meglio ancora se accompagnato da te, Aro. In quanto a me, penso di essere in grado almeno di tenere Volterra mentre voi siete assenti.
Ora l’espressione di Caius era palesemente stupefatta. Aro sorrideva, sorrideva col sorriso dello stregatto, il sorriso consapevole e soddisfatto di chi sapeva che prima o poi sarebbe accaduto esattamente quello che stava accadendo.
-Sono assolutamente favorevole, Marcus. Metteremo a punto i dettagli domani stesso. Ma ora, fratelli, perdonatemi: devo recarmi da Demetri e Santiago per annunciargli che anche questa volta ho vinto una scommessa!
Caius lo guardò incuriosito.
-Che scommessa, Aro?
-Entro la fine dell’anno, nella stanza di lei, per nessun motivo apparente!- proclamò Aro, trionfante.
Caius spalancò gli occhi.
-Felix con Renata? Ma se non mi ha detto niente!
-Dubiti di me, Caius? L’ha detto solo ad Afton… almeno finora. E lei non l’ha detto a nessuno, anche perché credo debbano girarci ancora un po’ attorno… ad ogni modo, come sempre ho vinto!
Caius sbuffò.
-Ne resta aperta ancora una.
-Già…- sospirò Aro. –Se solo tu volessi metterci una buona parola, Marcus…
-Non intercederò presso Afton perché sposi Chelsea solo per farti vincere una scommessa, Aro. Non è compito mio.
Aro si esibì nella più oltraggiata espressione del suo repertorio.
-Ma come puoi davvero pensare, fratello, che il mio scopo sia meramente vincere una scommessa! È per Chelsea che lo faresti, per la sua felicità!
Caius scoppiò in una risata sprezzante. Marcus inarcò appena un sopracciglio.
-La felicità è stare al fianco della persona amata, non una cerimonia di matrimonio. Questo, ti assicuro, sia io che lei lo sappiamo fin troppo bene.
I tre tacquero. L’accenno a Didyme spezzò l’atmosfera giocosa in un solo istante. Aro sospirò lievemente, ma non interruppe il silenzio. Lasciò che fosse Marcus a spezzarlo.
-Perdonatemi, fratelli. Rattristo tutti e in particolare te, Aro, che sai perfettamente cosa provo.
Gli sfiorò una mano.
-Appena me la sentirò farò qualcosa per Chelsea. Datemi solo un po’ di tempo.
Caius sorrise.
-Non è il tempo a mancarci. Ci manchi tu, Marcus.
Marcus sospirò lievemente. Stavolta fu Aro a spezzare il silenzio, con un frullo di mani, come a voler scacciare i pensieri tristi.
-Marcus tornerà, e ora abbiamo da fare, fratelli. Abbiamo un regno da governare.


-E un’altra cosa che non mi piace, capitano, lo sa qual è?
-Mmh?
Il Capitano Condorelli si rigirò tra le dita il cartoncino pregiato, con il messaggio scritto in grafia elegante.
-Che ogni maledetta volta ci mandino le istruzioni in queste buste. Non potrebbero comunicarcele telefonicamente, o via mail, non so, come tutti?
Non vedeva il suo co-pilota dal viaggio di ritorno Rio de Janeiro-Pisa. Non gli era mancato granché; quel suo polemizzare continuo lo innervosiva.
-Beppe, se non te la senti più di volare con loro, lascia stare. Rifiuta l’incarico. Secondo me quelli ti scrivono anche una lettera di raccomandazione per una buona compagnia; non sei obbligato.
-Ma che scherza, capitano? Sono obbligato sì. Ha visto quanto pagano? A me i soldi servono!
Il capitano sospirò.
-Non dirmi che hai già finito quelli di Rio.
-Le donne costano. Due poi costano il doppio di una.
Beppe guardò il cartoncino, assorto.
-E poi stavolta è un viaggio corto, insomma, ce la caviamo in un paio d’ore… cosa vuole che siano un paio d’ore?
Il capitano sospirò. –Quindi ci sei anche stavolta?
Beppe annuì.
- È la Romania, capitano. C’è pieno di figa, in Romania.














Note: alè, seconda parte pubblicata, storia finita, mi sento sollevata. Spero vi sia piaciuta!
Per prima cosa devo ringraziare di nuovo vannagio e OttoNoveTre, beta insostituibili, amiche, madrine della mia creatività. Aro saprà ricompensarvi adeguatamente, miei gioielli!

“O amore, figlia di delizie, un re è rimasto preso dalla tua treccia” è un verso del “Cantico dei Cantici”.
L’arma che usa Caius è quel bagaglio che usa alla fine di Breaking Dawn. Io lo chiamo amichevolmente “lo zippo”.
Il nome, l’età e la provenienza delle tre figlie di Joham (ok, qui età e provenienza non le ho dette, ma le so) sono prese pari pari dalla guida della Meyer. Quindi non prendetevela con me se una norvegese del 1810 si chiama Serena (ebbene…). Non è colpa mia. Per fortuna mia, delle tre sorelle mezzosangue, a parte questi sconcertanti dati anagrafici, non si sa nulla, quindi le loro passioni e caratteri sono farina del mio sacco. Oddio, a dire la verità alcune cose di Serena sono ispirate a una persona che conosco e che forse passerà qui a leggere, e nel caso spero tanto che si faccia due risate! Harrison l’archeologo, ovviamente, è l’ennesima smaccata citazione. Elena, Stefan e Damon sono i protagonisti di un telefilm, “The vampire diaries”.
Il "contratto tra sovrani" di cui parla Aro è una citazione del "contratto tra coinquilini" di cui parla sempre Sheldon Cooper nel telefilm "The big bang theory".
Qui l’immagine dell’angelo gotico della cattedrale di Reims. Così, perché a me personalmente fa impazzire.
Antonia Caenis è un personaggio storico realmente esistito che mi sono trovata in un esame e della quale mi sono innamorata, tanto da decidere di trasformarla in vampiro e parlare della sua caratterizzazione con le mie amikette. Chi volesse vederla in azione, può farlo grazie a vannagio che l’ha fatta comparire qui in tutto il suo splendore.

Bene, gente… adesso ho una guardia con una nuova coppia e tre presenze in più. Qui la famigghia si allarga!
Per ora, vi ringrazio tutti tantissimo. Anche se non riesco a ringraziarvi come vorrei, ma fate finta che l’abbia fatto. Perché davvero, posso conoscervi o non avervi mai visto, ma sono davvero contenta e lusingata che siate qui. Grazie!


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Capitolo 41
*** Spagna-Olanda 2014 [Felix] ***


SPAGNA-OLANDA 2014

Dell’inizio dei mondiali del 2014, Felix ricordava particolarmente due cose.
I cinque gol agli spagnoli di merda, che avevano rischiato di diventare anche sei.
E l’abitino a fiori di Renata, strano, perché appena veniva il caldo lei metteva sempre vestiti con i fiori, ma quello se lo ricordava proprio bene.
I cinque gol perché alla fine della partita si era voltato verso i suoi compagni urlando “E adesso vi sborro in faccia a tutti, stronzi!”, dimenticandosi che tra gli stronzi c’era anche Caius.
E il vestitino a fiori perché non era mai stato sfilato dal corpo di Renata: era da quattro anni che aspettava questo momento.







Note: Pochissimo da dire, anzi, una sola frase: è bello tornare a casa.

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