Please, take me out of here di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Prologue › Central City, 1919 ] Uncomfortable Night ***
Capitolo 2: *** [ Cut #01 › Ishvar Area, 1908 ] Somewhere in Gunja District ***
Capitolo 3: *** [ Cut #02 › Ishvar Area, 1908 ] Memories and flames ***
Capitolo 4: *** [ Cut #03 › Ishvar Area, 1908 ] Fearless and sorrow ***
Capitolo 5: *** [ Epilogue › Central City, 1919 ] After the rain ***
Capitolo 1 *** [ Prologue › Central City, 1919 ] Uncomfortable Night ***
Please, take me out of here_1
[
Seconda classificata
e vincitrice del Premio Giuria al «Queen
Contest» indetto da Himechan84 ]
Titolo:
Please, take me out of here
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Citazione:
“In my defence”
Queen
Tipologia: One-shot
suddivisa in cinque sottosezioni [ 13.005
parole fiumidiparole ]
Genere: Generale,
Malinconico, Sentimentale, Guerra, Vagamente Introspettivo
Characters:
Roy Mustang, Edward Elric, Riza Hawkeye, Maes
Hughes, Un po’ tutti
Pairing:
Roy/Ed, HyuRoy e Royai ad interpretazione piuttosto
personale
Avvertimenti:
Shounen
ai, Probabilmente non per stomaci delicati, Spoiler del volume
quindici, del Gaiden Blue e del Character
Guide Book, What if?
Rating: Arancione
Introduzione:
Era
piombato nella mia vita come una vera e propria
tempesta, facendo sì che, con la sua strana esuberanza e il
suo temperamento
tutt’altro che mite, tornassi a poco a poco il Roy Mustang
sognatore che ero
stato all’età di sedici anni. Edward era stato
come una panacea, per me, una
panacea che aveva lenito le ferite della mia anima.
FULLMETAL
ALCHEMIST ©
2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.
In mia difesa, cosa
c’è da dire?
Tutti gli errori che
abbiamo fatto
devono essere
affrontati oggi.
Non è facile
ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
01.
PROLOGUE › CENTRAL CITY, 1919
UNCOMFORTABLE NIGHT
Era
una fredda sera d’inizio gennaio, una di quelle in cui si
preferiva restare a
casa sul divano con una tazza fumante di cioccolato caldo e un bel
libro
interessante come compagnia.
Ero tornato da lavoro da poco
più di
un’ora, lasciandomi alle spalle quella stressante giornata
passata a
firmare scartoffie per godermi quei pochi
momenti di
riposo che potevo permettermi. Mi ero munito di un bicchiere di latte
caldo -
con disappunto di un bisbetico fagiolino biondo, c’era da
aggiungere -
macchiato con del caffè e avevo recuperato uno di quei tomi
pesanti e
soporiferi che tenevo stipati nella mia biblioteca, andando in
soggiorno
per accomodarmi accanto al mio compagno; aveva
alzato
solo di poco il naso dalle pagine per degnarmi un’occhiata e,
nonostante
l’espressione disgustata che gli si era dipinta in viso alla
vista di quel liquido
biancastro, come tanto soleva chiamarlo lui, si era ritrovato a farsi
un
po’ più vicino per poggiarsi contro la mia spalla
e riprendere a
leggere come se nulla fosse. Avevo sbuffato ilare, concentrandomi a mia
volta sulla lettura e
godendo al
tempo stesso di quella calda vicinanza.
In realtà veniva quasi da
chiedere come io, il più grande donnaiolo
d’Amestris, mi affrettassi ogni
sacrosanta giornata a tornare il prima possibile da quel biondino che
avevo al
mio fianco: Edward Elric. Era stata una sorpresa anche per me, ad esser
sincero. Se prima di capire che quella bizzarra sensazione era amore,
mi avessero detto che avrei perso la testa per
un
ragazzo - un ragazzo, per
la miseria!
- alto un metro e un tappo, avrei
di
sicuro riso in faccia a quel malcapitato e avrei organizzato un
appuntamento con una bella donna avvenente e tutta curve. Eppure era
esattamente quello
che era
successo. Così, senza accorgercene pienamente nemmeno noi. E
questa cosa andava
avanti da quasi un anno e tre mesi. Avevamo sì i nostri alti
e bassi, le
tensioni comuni in tutte le coppie, e non mancavano di certo i momenti
in cui
l’uno voleva per forza avere la meglio sull’altro
in una discussione, ma in fin
dei conti, fino a quel momento, ce l’eravamo cavata
abbastanza bene. Forse
l’unica cosa che andava davvero a gonfie vele era proprio il
sesso, chi poteva
dirlo. Avevo scoperto che l’unico modo per farlo smettere di
strepitare,
durante un acceso dibattito, era proprio quello di tappargli la bocca
con un
bacio e sfruttare l’adrenalina della litigata per guidare
quell’energia in
tutt’altra direzione, e quel tipo di discussione lo trovavamo
piacevole entrambi, almeno.
«Certo che è
strano», disse
d’un tratto Acciaio, risvegliandomi dai miei pensieri e
interrompendo la
propria lettura. Quella era una cosa che succedeva raramente quando
un libro
lo appassionava davvero, così gli scoccai una rapida
occhiata prima di sollevare un sopracciglio, vedendo il suo viso
rivolto
verso di me.
«Che cosa?» domandai
di riflesso, e
forse anche per un motivo
abbastanza lecito. Magari su quel
vecchio libro aveva
letto qualcosa che l’aveva
fatto diventare
pensoso, ma per un qualche strano motivo ne
dubitavo.
Si allontanò da
me per mettersi seduto e, scrollando le spalle,
tornò a guardarmi
seriamente. «Di te non so quasi
nulla, ma tu, di
me, sai anche troppo».
Sbattei le
palpebre. «Non so come ti sia potuta venire in mente una cosa
del genere, ma dire che di me non sai niente è un
po’ come mentire, sai?»
lo presi in giro, ricevendo da lui
un’occhiataccia.
«So qual è il tuo
cibo
preferito, quale libro adori più di tutti gli altri, so
persino quanto tempo
stai al bagno - e, diavolo, ci stai un’eternità!
-, ma non so assolutamente niente del tuo passato o della
tua
famiglia», arrivò dritto al punto, senza girarci
intorno e lasciandomi
basito. Dato il suo passato, non era tipo da interessarsi a cose del
genere, anzi, fino a quel momento non era sembrato un argomento da
prendere
in considerazione a nessuno dei due. A me bastava quel che
già sapevo di lui,
giacché lo conoscevo quasi da nove anni. Era piombato nella
mia vita come una
vera e propria tempesta, facendo sì che, con la sua strana
esuberanza e il suo
temperamento tutt’altro che mite, tornassi a poco a poco il
Roy Mustang
sognatore che ero stato all’età di sedici anni.
Edward era stato come una
panacea, per me, una panacea che aveva lenito le ferite della mia
anima ed estirpato la grigia monotonia che era diventata la mia
esistenza dopo la guerra. Quella
sua curiosità di voler conoscere il mio passato, quindi, non
riuscivo proprio a
capirla.
Mi massaggiai una tempia
con due dita, abbandonando un braccio dietro lo schienale del divano.
«Non ne
vedo la necessità», replicai, non volendone
parlare. L’ultima cosa che volevo, in fin dei conti,
era che la mia infanzia potesse in qualche modo ricordargli in parte la
sua.
Non eravamo stati fortunati, su quel fronte.
«La vedo io»,
ribatté
immediatamente, cominciando a comportarsi proprio come quando
pretendeva
qualcosa. Quel suo lato infantile lo odiavo terribilmente, dovevo
ammetterlo.
«Chiamami
pure egoista, ma io la ritengo una cosa importante».
Sospirai pesantemente,
sentendomi intrappolato. In fin dei conti dirglielo non mi sarebbe
costato
nulla, ma non parlavo molto volentieri del mio passato. Non mi era mai
piaciuto
farlo, ma sapevo bene che, quando quel fagiolino si metteva in testa
qualcosa, faceva letteralmente di tutto per ottenerlo. «Non
c’è molto da
dire», confessai infine. «Sono andato a vivere con
mia
zia Christina all’età di quattro anni, esattamente
poco dopo la morte dei miei
genitori».
Cadde un sottile strato di
silenzio, dopo quelle mie parole. Uno di quei silenzi imbarazzanti che
non si
sapeva mai come poter rompere, sebbene quello fosse quasi carico
d’attesa,
ansia e d’un qualcosa che non riuscivo ancora a definire
bene. Sofferenza?
Compassione? O quella sensazione che sentivo era più la
consapevolezza di chi
aveva vissuto sulla propria pelle un’esperienza simile?
«Mi dispiace»,
sussurrò pochi
istanti dopo. «Non sapevo che... i tuoi
genitori...»
«Non importa», mi
affrettai a
bloccarlo, forse cogliendo la nota addolorata che si dipinse nei suoi
occhi
dorati. Esattamente come avevo immaginato, sapere che i miei genitori
non erano
più in vita gli aveva riportato alla mente la sua
famiglia. Sua madre
morta, il padre disperso chissà dove... chi gli restava,
almeno della sua famiglia di sangue,
era soltanto Alphonse.
«Nay, non avrei dovuto nemmeno
chiedertelo», insistette, abbassando lo sguardo sul proprio
libro come se
volesse provare a riconcentrarsi su di esso per
lasciarsi alle
spalle quella conversazione. Si vedeva lontano un miglio,
però, che faticava
parecchio a leggere.
«Acciaio», lo
richiamai,
utilizzando il suo nome d’alchimista più per
abitudine che per altro, dato il
momento. «Ti ho detto che non importa, davvero. Tu come mille
altri non potevi
saperlo. Non mi piace particolarmente parlare della mia infanzia, anche
perché
non sono molte le cose che ricordo con chiarezza e sono altrettanto
pochi gli oggetti che ho conservati. Non ho loro fotografie, quindi
ricordo vagamente il
volto di
mia madre... e, se cercassi di sforzarmi a rammentare la
sua voce,
non ci riuscirei. Per quanto riguarda mio padre, ricordo solo che
era sempre
di buon umore e mi portava continuamente sulle spalle, quando uscivamo
tutti e
tre insieme». Sorrisi con una punta di nostalgia, perdendomi
un
po’ nei ricordi. Mia zia Christina, più
comunemente conosciuta come Madame
Christmas, durante i primi anni di convivenza mi parlava di
continuo
dei miei genitori, come se volesse aiutarmi a non dimenticarli.
«Per la mia età non ero un
bambino molto alto, e quando mi prendeva in
braccio e mi
sistemava sulle sue spalle ero... felice.
Mi sentivo il re del
mondo [1]».
Restammo ancora una volta in
religioso silenzio, probabilmente ognuno perso nei propri reconditi
pensieri.
Ciò che avevo appena espresso a parole non l’avevo
mai confessato a nessuno,
come se fosse uno di quei pochi ricordi che conservavo gelosamente nel
mio
animo. Nemmeno a Maes ne avevo mai parlato, né tanto meno a
Riza, che conoscevo
da molto più tempo. Forse mi aveva spinto a farlo il
semplice fatto che, in
qualche modo, Edward ed io eravamo molto più simili di
quanto non sembrassimo; probabilmente la questione principale era
quella, oltre
il fatto che,
ormai, era divenuto il mio compagno, la persona con la quale aveva
deciso di
dividere il resto della mia vita. Se dunque non ero sincero con lui,
con chi
mai avrei potuto esserlo?
A rompere per primo quella
quiete che ci aveva avvolto, fu nuovamente Acciaio, il quale si stava
massaggiando distratto la spalla sinistra, come se fosse a disagio.
«Non
pensavo che anche la tua infanzia non fosse stata delle
migliori», disse,
evitando di guardarmi. «Conoscendoti, si fa quasi fatica a
crederlo,
specialmente con quella faccia da Colonnello di merda che ti
ritrovi». A quel
suo dire aprii la bocca per ribattere, ma lui sembrò
affrettarsi
a continuare
per non permettermi di dire qualcosa. «Mi spiace per i tuoi
genitori, ma forse
non è questo ciò che vorresti sentirti
dire». Mi fissò seriamente,
guardandomi con i suoi grandi occhi d’ambra. Vi scorsi il mio
riflesso e potei
benissimo intravedere la sfumatura nostalgica che mi si era dipinta in
viso. Avevo davvero quell’espressione
da cane bastonato? «Dev’essere
stato difficile».
Non seppi cosa dirgli e
si fece largo nella mia mente il pensiero di liquidare la faccenda con
un semplice “Il
passato è passato”, scrollando magari anche le
spalle. Con
mio grande stupore, però, annuii automaticamente.
«Lo è stato», ammisi. «Ma mia
zia mi era sempre vicino. Cercava di accontentarmi il più
possibile, seguendomi
anche quando non avrebbe potuto a causa del lavoro. Ed è
stata lei a spronarmi
affinché continuassi a coltivare la mia passione per
l’alchimia, visto che avevo quasi deciso di abbandonarla una
volta per tutte».
«Dov’è
tua zia?»
mi domandò, e nella sua voce colsi un velo di timore,
come se avesse
paura d’aver chiesto una cosa sbagliata, ma sorrisi e gli
diedi una pacca su
una spalla.
«Sta bene, se ti stai
chiedendo questo. Anzi,
direi che sta alla
grande. Forse sta persino meglio di me», lo rassicurai ilare
per
alleggerire la tensione che si
era creata fra noi, e mi parve di sentire un suo breve sospiro di
sollievo.
Non mi
domandò nient’altro su quell’argomento, ma il
modo in cui
tornò a fissarmi non prometteva nulla di
buono. «Te la sentiresti di parlarmi di Ishvar,
adesso?» mi chiese difatti senza
tanti giri di parole.
Socchiusi gli occhi e sbuffai
sonoramente, lasciandomi sfuggire un mezzo lamento. Sapevo che,
prima o poi
o in un modo o nell’altro, quel discorso sarebbe sbucato
fuori. Avevo sperato di scamparmela, ma non era stato per niente
così. «Mi sembrava
che il Tenente te ne avesse parlato abbastanza».
«So solo la sua versione dei
fatti», mi tenne presente, sollevando un
sopracciglio
prima di tornare a
squadrarmi con somma attenzione, come se pendesse dalle mie labbra
nonostante
non avessi ancora cominciato a parlare.
Lo guardai anch’io per un
lunghissimo istante, e fui quasi tentato di alzarmi dal divano e di
lasciarlo
lì per infilarmi sotto il piumone e sotterrare quel
discorso una volta per tutte, facendo bellamente finta di niente; ma
quel mio gesto sarebbe equivalso a scappare, e sapevo fin troppo bene
che quel
fagiolino biondo non si sarebbe mai arreso così facilmente.
Quando s’impuntava
su una cosa, difatti, era piuttosto difficile farlo smuovere.
Trassi un lungo sospiro e abbandonai il
libro sulle cosce,
guardando
dritto dinanzi a me, come se la cosa potesse aiutarmi ad addentrarmi
ancora una
volta in quelle settimane piene d’orrore. «Chiudi
anche tu quel libro e resta
ad ascoltare, allora. Sarà una storia piuttosto lunga, da
raccontare».
[1]
Anche
se
vista singolarmente quest’espressione può
apparentemente non avere nulla di
così eclatante, una volta spiegato il significato appare
chiaro anche il motivo
per cui l’ho scelta. Il nome “Roy” deriva
dal vecchio francese “Roi”, il cui
significato è per l’appunto
“Re”. Come quasi tutti i restanti militari del
manga, poi, il suo cognome è preso dal “North
American P-51 Mustang”, uno dei
più versatili caccia americani durante la Seconda Guerra
Mondiale.
Ricorda anche un termine militare slang con cui si indicherebbe un
soldato che ha velocemente fatto carriera sul campo di battaglia o che
ha guadagnato in fretta medaglie e onorificenze; si basa anche sul
Mustang, cavallo noto per la sua indole selvaggia anche dopo essere
stato domato e per la spiccata intelligenza e maggior istinto di
sopravvivenza. Indi per cui, Roy è un “mustang”
a tutti gli effetti.
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** [ Cut #01 › Ishvar Area, 1908 ] Somewhere in Gunja District ***
Please, take me out of here_2
In mia difesa, cosa
c’è da dire?
Tutti gli errori che
abbiamo fatto
devono essere
affrontati oggi.
Non è facile
ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
02. CUT #01 ›
ISHVAR AREA, 1908
SOMEWHERE IN GUNJA
DISTRICT
«Eravamo
lì al fronte da non più di pochi
giorni», cominciai, senza voler incrociare in
nessun modo lo sguardo di Edward. Sentivo che, se l’avessi
fatto, non sarei
riuscito ad
andare avanti, come se potessi turbarlo a
tal punto da
cambiare l’opinione che aveva di me. Era una paura stupida e
infondata, ma si era insidiata nella mia mente e non aveva la
benché minima intenzione di lasciarmi in
pace. «Durante la
notte, il silenzio era così assordante che
riuscivo a sentire distintamente il pulsare del sangue nelle orecchie,
ed era
una sensazione tutt’altro che gradevole, sebbene la
preferissi di gran
lunga alle continue esplosioni che più e più
volte mi ronzavano ancora nei
timpani anche ad ore di distanza. Sulle labbra, certe volte, mi
sembrava persino
di avvertire ancora il sapore appiccicoso del grasso umano che
bruciava, e il
puzzo di cadaveri e cenere che permeava l’aria diveniva
asfissiante man
mano che il tempo passava.
«Era la quarta sera o quinta
sera,
credo, e mi trovavo seduto sulle macerie di una delle tante case
diroccate, non
molto lontano dall’accampamento provvisorio che avevamo
allestito nel distretto
di Gunja, conquistato quel pomeriggio stesso». Mi
grattai una tempia con fare pensoso, aggrottando un po’
la fronte per sforzarmi di rammentare ogni particolare. «Tutto
taceva, questo lo ricordo bene, e quella quiete
così irreale rendeva quella tregua ancor
più ansiosa. L’attacco
sarebbe ricominciato alle prime luci dell’alba, non appena il
sole avrebbe
iniziato a far capolino oltre le dune di sabbia, e da dove mi trovavo
mi
sembrava che tutti, nessuno escluso, si stessero preparando
all’offensiva sin
da quel momento. E forse era proprio per quel motivo che mi ero
allontanato per cercare la solitudine, così da avere qualche
momento
per ripensare a quello che, in quei pochi miseri giorni in cui mi ero
ritrovato
al fronte, avevo fatto».
Mi fermai per riprendere fiato,
attendendo che Acciaio recepisse tutto ciò che avevo detto
fino
a quel
momento.
In realtà non avrei voluto per
niente ricordare quei giorni angoscianti, giorni in cui tutto quello
che avevo
fatto era stato bruciare qualsiasi persona vedessi ancora in vita, che
si trattasse di guerriglieri, donne, anziani o bambini. Ma,
man mano
che ne parlavo con lui, mi sembrava di rivedermi
ancora lì
seduto, con la testa fra le mani e le palpebre abbassate, mentre
dinanzi agli
occhi mi scorrevano tutte le vite che avevo spento con un semplice
schiocco di
dita.
«Non sapevo perché
mi
comportassi così, al principio», ripresi,
sentendo soltanto gli occhi di
Edward fissi su di me, come se aspettasse il termine del mio racconto
per poter
dire qualcosa. E non lo feci attendere molto, ricominciando non appena
mi
sentii io stesso pronto a farlo. «Ero consapevole del fatto
che ciò che stavamo
facendo era sbagliato, lo sapevo allora come lo so tutt’oggi,
però c’erano comunque quei
momenti in cui desideravo di farla finita da solo o
disertare, così da porre fine a tutto», ebbi il
coraggio di gettargli un’occhiata, sollevando le
labbra in un
falso sorriso prima di continuare. «Ma non fraintendermi, Ed,
non cercavo
affatto un modo per espiare le mie colpe, in quel modo. Non cercavo
nemmeno
commiserazione per me stesso. So fin
troppo bene che tutte le parole di
questo
mondo non sarebbero servite in mia difesa, date le numerose vite che ho
continuato a spegnere. Se avessi provato a
giustificare quel massacro o a tentare di rendere quei
miei
gesti confacenti ad un qualche bene superiore, sarei stato soltanto un
ipocrita,
ne sono consapevole. Sapevamo tutti che quella in cui
ci
eravamo ritrovati era una carneficina e non una guerra.
«Ogni qual volta mi guardavo
le
mani - aye, Ed, quelle stesse mani che stai fissando adesso»,
soggiunsi,
essendomi accorto dell’occhiata che mi aveva gettato di
sfuggita. Si
affrettò a distogliere
lo sguardo, come un bambino beccato dal padre a fare una
marachella.
«Scusa, continua»,
bofonchiò,
adagiando la schiena contro il divano prima di farmi un rapido cenno,
come se
volesse spronarmi a parlare ancora.
Potevo ben capire il suo lieve
ed impercettibile disagio, sebbene sapesse benissimo che parlarne era
difficile
anche per me. Non gli dissi dunque nulla, riprendendo semplicemente
come se
quella che stavano affrontando fosse una piacevole conversazione
dinanzi ad
una tazza di the. «Mi guardavo le mani, dicevo»,
ricominciai, abbassando lo sguardo sui palmi aperti, «e non
vedevo
più le mani di un
ragazzino sognatore che sperava di poter rendere il mondo un posto
migliore.
Vedevo solo le mani di un assassino. Nonostante non mi trovassi mai al
centro di un conflitto a fuoco e non fossi obbligato ad
utilizzare la
mia pistola, mi sembrava sempre che le mie mani fossero sporche di
sangue. E
forse, metaforicamente,
era davvero così.
Sollevai lo sguardo verso il soffitto,
fissando intensamente la piccola macchia di umidità che c’era tra lo
scaffale dei libri e la finestra all’angolo
della stanza, pensoso. «Sai, una volta Riza mi disse
che aveva deciso di adempiere al proprio dovere utilizzando
un’arma da fuoco
perché, diversamente da quelle bianche,
quest’ultima non lascia la sensazione
d’aver ucciso il nemico con le proprie mani [1].
Anche se in quel
modo sapeva
di mentire a se stessa, era la strada che aveva deciso di percorrere a
differenza di me. Potendo usufruire del potere del fuoco,
l’arma che utilizzavo
ero io stesso.
«E ogni volta che mi ritrovavo
a
fare i conti con quella consapevolezza, mi guardavo le mani, fissando
con
disappunto - nay, forse sarebbe più giusto dire con orrore -
i guanti ormai
logori e consumati che indossavo. Non puoi immaginare quante volte
avessi
l’impulso di toglierli e di gettarli via disgustato»,
confessai, storcendo il naso in una smorfia, «ma la
ragione prevaleva
sempre su quel mio malsano desiderio. Se
l’avessi fatto, non avrei avuto con me nessun’arma
abbastanza rapida per poter
affrontare un eventuale nemico che si fosse presentato. Ma anche
liberarmene
non sarebbe servito a lavar via le colpe di cui mi ero così
rapidamente
macchiato, quindi sarebbe stato pressoché inutile. Quando
avevo indossato la
divisa, avevo ben immaginato a cosa sarei andato incontro, e persino
uno
dei
tanti alchimisti lì presenti, Zolf J. Kimblee, non aveva
mancato di
ricordarmelo».
«Kimblee»,
ripeté Edward,
masticando quel nome come se non gli piacesse per niente. Lo conosceva,
aye, ma
non sapevo in quali occasioni l’avesse incontrato. Mi aveva
vagamente
raccontato di Briggs, di quando si era ritrovato nel Nord e aveva
scoperto
esserci anche lui e qualche cosa sporadica di quanto era successo, ma
nulla più.
Abbozzai una specie di sorriso,
traendo un altro lungo sospiro prima di ritrovarmi a volgere lo sguardo
verso
la finestra. Aveva cominciato a piovere, e le
gocce
picchiettavano insistentemente contro il vetro come dita frettolose di
visitatori improvvisi che cercavano riparo. «Lui era il
male minore,
credimi», ironizzai, concentrato sul ticchettio
ritmico della
pioggia. «Ma avercelo intorno era la cosa peggiore che
potesse mai capitarti,
sul campo di battaglia. Si divertiva a far esplodere la gente, quel
folle»,
soggiunsi con disprezzo, sentendo un epiteto ben poco cordiale rivolto
al suo
indirizzo da parte di Edward. «Non posso, però,
dire
di essere stato migliore di
lui, ad Ishvar. O uccidevi o venivi ucciso, e io non avevo intenzione
di
morire, anche se mi portavo dietro un sentore di morte che si avvertiva
sui
miei abiti. Persino sui miei guanti. Odoravano di fumo e sangue,
esattamente
come l’aria che respiravo. Prima di partire per la guerra li
avevo lavati con
del sapone, ma avevo cominciato a non avvertirne più il buon
profumo già dopo i
primi due giorni. Era stato invece sostituito da quel tanfo
insopportabile, e
mi sembrava persino di poterlo avvertire sul palato, di poterlo
assaporare come
se fosse stata una pietanza disgustosa.
«Ed era stato proprio per
riflettere su tutto quello che era accaduto in quei pochi giorni che mi
ero
allontanato, sebbene sapessi che fosse una stronzata. Ero difatti
così assorto
nei miei pensieri che ci avevo messo non poco ad accorgermi
dell’avvicinarsi di
un’altra persona. Avevo drizzato immediatamente
il capo e mi ero portato una mano all’altezza del cuore,
unendo pollice e medio
prima di scattare rapidamente in piedi per fronteggiare quel mio
inaspettato
avversario; ciò che vidi, però, mi
lasciò di stucco. Non era un nemico, bensì Maes,
e stava
imitando con due dita
la forma di una pistola, puntandomela contro.
“Bang”, mi disse, abbozzando
persino un sorriso sarcastico. “Se fossi stato un nemico, tu
saresti già
morto”.
«Non sai quanto ebbi davvero
la
voglia di abbrustolirlo, quell’idiota». A quel mio
stesso dire sorrisi, il
primo sorriso sincero di tutta la serata, probabilmente. Ricordare Maes
mi aveva sempre messo di buon umore, in un modo o
nell’altro, e spesso e volentieri non nascondevo che quello
scemo
mi mancasse tremendamente. Erano passati così tanti anni
dalla
sua morte che, a volte, stentavo persino a credere che fosse accaduto
davvero. Ma non era il momento di pensarci, ora come ora. «Mi
rilassai con una certa difficoltà e lo fissai con
nervosismo, non prima d’aver
abbandonato la posizione d’attacco che avevo assunto e aver
abbassato le
braccia. “Ti rendi conto che hai rischiato
d’essere arrostito sul serio,
razza d’idiota?” gli tenni
presente, ma lui si limitò
semplicemente a fare spallucce, come se la certezza di quel pericolo
non
l’avesse sfiorato nemmeno per un attimo.
«Si sedette al mio fianco,
sistemandosi di poco gli occhiali sul naso. “Starsene qui da
soli è pericoloso.
Lo sai, vero?” mi ricordò, fissandomi con
attenzione e grattandosi una ferita
che aveva sulla tempia, nascosta da un piccolo cerotto.
“Potrebbe sbucare
qualcuno all’improvviso e accopparti sul serio, amico
mio”.
«Quella sua premura mi fece
stranamente sorridere, ma invece di continuare a guardarlo volsi lo
sguardo
altrove, facendo vagare distrattamente gli occhi fra quelle rovine
desolate e
oltre, su verso il cielo cupo. “Se siamo fortunati, abbiamo
ancora un occhio
di falco a vegliare su di noi”, replicai, ed
ero più che certo che
quelle mie parole non fossero solo una speranza, bensì una
certezza.
«Con mia sorpresa,
però, Maes scosse il capo. “Tu prima o poi dovrai
spiegarmi in che rapporti
sei, con quella ragazza. Sembrava conoscerti molto bene”, mi
disse, e quasi mi
sembrò che il suo fosse un fare vagamente
sospettoso».
«Vorrei saperlo
anch’io in che
rapporti sei con il Tenente Hawkeye, ad esser sincero», mi
fece quasi il verso
Edward, interrompendo il flusso dei miei pensieri e anche il mio
racconto,
facendomi tornare alla realtà. Sarebbe stato stupido dirlo,
probabilmente, ma
mi ero quasi dimenticato che stavo raccontando quella storia proprio
perché era
stato lui a chiedermi di farlo. A quanto sembrava mi ero immerso un
po’ troppo
nei ricordi del passato.
Sbattei le palpebre,
abbassando lo sguardo su di lui prima di abbozzare un altro
mezzo
sorriso. «Adesso non mi dirai che sei geloso, voglio
sperare», lo presi in
giro, sporgendomi per abbandonare il libro sul tavolino dinanzi a me e
scivolare un po’ verso di lui sul divano, vedendolo
aggrottare la fronte.
Distolse lo sguardo e
incrociò
le braccia al petto, sbuffando. «Tsk, e
perché mai dovrei essere geloso»,
ribatté, ma qualcosa, nella sfumatura che aveva assunto la
sua voce, faceva ben
intendere che fosse esattamente così. «Non ho
alcun motivo di esserlo, la mia
era una costatazione dettata semplicemente dalla
curiosità».
Curiosità,
certo. Se la sua era
solo curiosità, io a diciassette anni ero ancora vergine. E
il mio era puro
sarcasmo, se non si fosse capito. «Ti parlerò in
modo approfondito anche di ciò
che mi lega a Riza, se mi vorrai ascoltare», gli promisi
ironicamente. «Ma per il momento non è molto
importante ai fini della storia»,
soggiunsi, giacché quella, in fin dei conti, era la pura e
semplice verità.
«Continua, allora»,
mi disse
subito, insistendo nel non guardarmi. Ce ne sarebbe voluto, di tempo,
prima che
quella sua stramba convinzione che ci fosse stato del tenero fra
me e
Riza crollasse.
Non gli diedi più
tanto peso, riprendendo da dove mi ero interrotto. «Tutto
ciò che mi limitai a
dire a Maes fu “Se vorrà che te ne parli, allora
lo farò”, liquidando in
quattro e quattr’otto quella faccenda.
«Lui non era però
sembrato
accontentarsi, tanto che lo sentii dire “Deve trattarsi di un
legame molto
serio, allora, se la metti così”.
«Non gli risposi,
provando in qualche modo a cambiare discorso. “Riguardo ai
tuoi di rapporti,
invece?” gli chiesi, fissandolo con attenzione. In
altri momenti avrei
trovato quelle argomentazioni di poco conto, futili chiacchiere da
salotto per
distrarsi un po’, ma lì, al confine fra la vita e
la morte, risultavano un
ottimo modo per non impazzire. Ritrovarsi a fare i conti con una
realtà come
quella mettevano a dura prova, ogni singolo giorno, la
mentalità di un essere
umano». Mi
strinsi un po’ nelle
spalle, forse a disagio, cominciando a sentire l’aria
abbastanza soffocante. Fortunatamente, però, la presenza di
Acciaio accanto a me riusciva in qualche modo a tranquillizzarmi. «Ho
sentito dire che quando una
persona si ritrova nel bel mezzo di continue esplosioni e proiettili
che piovono
da tutte le parti, la sua psiche va in stato di shock e il corpo rimane
paralizzato [2],
e posso confermarti con assoluta certezza che è davvero
così, Ed.
«In quanto soldati eravamo
costretti ad obbedire a qualsiasi ordine e a commettere quelle
brutalità, ma
non erano stati pochi coloro che si erano rifiutati di farlo, venendo
spediti a
Central City per aver disobbedito agli ordini. Anche il Maggiore
Armstrong
l’aveva fatto. E, Dio, quante volte mi ero ritrovato ad
accarezzare a mia volta
quella stessa e identica idea», sospirai,
scuotendo il capo prima di alzare ancora una volta lo sguardo verso il
soffitto.
Quella,
almeno per il momento, era una conversazione che avrei voluto in
qualche modo
evitare. Mi sentivo già abbastanza a disagio a confessargli
tutto ciò che avevo
fatto ad Ishvar.
«Dicevamo di quel discorso che
avevo messo su, comunque», mi affrettai ben presto ad
aggiungere, sperando così
di distrarmi a mia volta. «Aveva fatto passare degli attimi
interminabili, ma
alla fine Maes si era deciso a rispondermi. Non mi disse ciò
che mi aspettavo,
ma solo “Mi è arrivata questa” e lo vidi
infilarsi una mano nella tasca interna
del soprabito logoro che indossava, cacciandone una busta tenuta alla
bell’e
meglio.
«Ci avevo messo un
po’ a capire di
cosa si trattasse e, forse, mi ero ritrovato ad incupirmi mentre
osservavo quel
che mi mostrava. “Un’altra lettera della tua
donna?” gli chiesi però, e mi
stupii per il fatto che, stranamente, non si fosse lasciato andare ad
uno dei
suoi soliti gridolini di giubilo.
«Vidi fiorire sulle sue labbra
appena un piccolo sorriso, ma scomparve immediatamente per dar vita ad
una
lieve smorfia. “Già”, asserì
mesto, riabbassando la lettera per posarla
sulle proprie cosce.
Mi accigliai. “Beh, che fai? Non
la apri?” gli domandai, ma lui scosse semplicemente il capo.
“Nay, non
stavolta”, ribatté, guardando intensamente la
lettera prima di sistemarsi
appena gli occhiali sul naso “perché sono sicuro
che non resisterei qui un
giorno di più, se lo facessi”, soggiunse, e mi
scoccò subito dopo una rapida
occhiata. “Potremmo morire in qualsiasi momento, e saperla a
Central da sola mi
terrorizza”.
«Un po’ lo capivo,
in fin dei
conti. La prospettiva di lasciare da sola la donna che amava
l’aveva sempre
spaventato, ed era specialmente per quel motivo che continuava a
combattere. E
forse fu proprio per quello che mi sentii in dovere di rassicurarlo in
qualche
modo. “Non parlare così, stupido. Glacier attende
il tuo ritorno, giusto?” gli
dissi, battendogli una mano sulla spalla. “Anche se questo
non è lo splendido
futuro che avevamo immaginato, dobbiamo andare avanti e
far sì che lo
diventi. E poi non è per niente carino far aspettare troppo
a lungo una donna,
sai?”
«L’avevo detto per
provare a
sdrammatizzare e alleggerire così la tensione che si era
creata fra noi, e in
parte ci riuscii. Mi regalò un nuovo sorriso stiracchiato.
“Sei
sempre stato un sognatore”, ribatté, riabbassando
lo sguardo sulla lettera che
aveva abbandonato. “Dici che dovrei aprirla,
allora?”
«Per tutta risposta, mi
allungai
per afferrarla e strappargliela praticamente dalle mani, rigirandomela
fra le
dita. “Se non lo farai tu, lo farò io”.
«“Ma nemmeno per
sogno!”
s’infuriò
subito, sporgendosi per recuperarla. E mentre lottavamo scherzosamente
per quel
pezzo di carta così prezioso per lui, non potei fare a meno
di sorridere, forse con una punta di tristezza. E ancor più
quando
finalmente
recuperò la lettera, borbottando qualcosa fra sé
e sé. Dopo un po’ di
tentennamenti e un monologo, si decise infine ad aprirla con mani
tremanti,
quasi stesse maneggiando un ordigno che sarebbe potuto esplodere da un
momento
all’altro; baciò la lettera prima di spiegarla,
come se per lui fosse ormai
diventato un rituale di buon auspicio, e mi ritrovai ad assistere ad
una serie
di gridolini insensati degni di una tredicenne alla prima cotta quando
vedemmo
ciò che quella lettera conteneva. Una fotografia di Glacier,
accomodata su una
sedia di legno, con un gatto acciambellato sulle cosce. Indossava un
semplice
vestito chiaro ed uno scialle a fasciarle le spalle, ma risultava
incantevole,
ancor più con quel bel sorriso dipinto sulle labbra.
«Vedere Hughes così
felice mi
faceva sentire... strano,
come se in qualche modo fossi geloso di lui.
Non
saprei spiegarti il perché, Ed, era un qualcosa che non
riuscivo a comprendere
nemmeno io e che forse non avrei mai compreso, neanche adesso.
Forse la sua felicità, per quanto mi facesse sorridere, mi
ricordava dolorosamente che a casa ad aspettarmi non c’era
nessuno. Sarei potuto morire da un giorno all’altro
e forse nemmeno mia zia sarebbe stata avvertita della mia dipartita,
dato che erano in pochi a sapere del nostro legame di sangue».
A quel pensiero, scossi immediatamente
il capo, non volendo
pensarci. Dopo la morte di mio padre, zia Chris era sempre stata
particolarmente apprensiva nei miei confronti, e non era stata nemmeno
molto entusiasta della mia idea di iscrivermi all’accademia
militare, quando l’aveva
saputo. Aveva ceduto solo perché, a suo dire, la mia tenacia
le
aveva ricordato mio padre e aveva capito che nulla sarebbe riuscito a
smuovermi da quell’obiettivo
che mi ero prefissato.
«Comunque sia, ci misi un po’ a
far smuovere Maes da lì, ad esser sincero»,
ripresi, tornando sui miei passi. «Sembrava
che fosse
ormai sulle nuvole,
dato il modo in cui continuava a baciare quella lettera; ci
sarebbe mancato poco che si mettesse a piroettare
fra quelle rovine, conoscendolo. Fui
io stesso ad accompagnarlo nella sua tenda e a lasciarlo lì,
non prima di
avergli dato qualche consiglio ed essermi rassicurato io stesso in
qualche
modo. Non mi sarei dato pace se gli fosse successo qualcosa, e non solo
perché
era per me un amico fin troppo prezioso. Probabilmente era stato per un
po’
persino il fratello che non avevo mai avuto.
«Rientrai nella mia tenda con
quei pensieri e mi adagiai in terra, per poter riposare
anch’io. Mi
addormentai così, seduto su quel terreno freddo e con la
testa fra le mani,
sognando un mondo diverso da quello che, io e mille altri, stavamo
fronteggiando».
[1]
Citazione
tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo
sessantuno: “L’Eroe di Ishvar”.
[2]
Citazione
tratta dal
manga.
Volume nove, capitolo trentaquattro:
“Sulle tracce di un compagno d’armi”.
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** [ Cut #02 › Ishvar Area, 1908 ] Memories and flames ***
Please, take me out of here_3
In mia difesa, cosa
c’è da dire?
Tutti gli errori che
abbiamo fatto
devono essere
affrontati oggi.
Non è facile
ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
03. CUT #02 ›
ISHVAR AREA, 1908
MEMORIES AND FLAMES
Avevo
momentaneamente interrotto la mia narrazione per prendere da bere ad
entrambi,
senza nemmeno controllare che ore si fossero fatte. La mia meta era
stata solo
la credenza in cucina e il mobile bar nel soggiorno subito dopo, e
quando
tornai da Edward offrii a lui il primo bicchiere di liquore.
Allungò una mano per
afferrarlo
saldamente, facendo appena un piccolo cenno con il capo nella mia
direzione. «Grazie»,
bofonchiò, portandosi il bordo alle labbra per bere un
sorso. «Ci voleva
proprio».
«Ci puoi
scommettere», ribattei
con un sottile velo di sarcasmo, riprendendo posto e bevendo a mia
volta un po’
di whisky. Il latte macchiato giaceva ormai abbandonato da tempo sul
tavolino,
ma, se volevo arrivare alla fine, necessitavo io stesso di qualcosa di
molto più
forte.
A dir la verità, avevo ormai
imparato a convivere con tutti quegl’orrendi ricordi.
Nonostante non ne avessi
mai parlato con nessuno, ciò che mi aveva animato per tutti
quegl’anni, e che
era stato in grado di non farmi cadere vittima come molti altri di
quella che
veniva chiamata sindrome da shell shock [1],
era stato in qualche modo l’obiettivo
che mi ero prefissato alla fine di quella maledetta guerra, quando
avevo puntato lo sguardo su Bradley. Ed ero
sempre stato
sicuro che, con l’appoggio di Maes, sarei riuscito a
realizzare quel nostro
sogno e a porre fine a tutte le guerre che logoravano ormai il nostro
amato paese. “Voglio vedere sin dove i tuoi
immaturi ideali cambieranno il paese che ha costruito King Bradley,
colui che
non ha paura neanche di Dio [2]”,
mi disse poco prima che tornassimo finalmente a casa, e anche adesso
che
lui non c’era più
dovevo andare avanti e fare di tutto per rendere reale quel sogno, non
più
un’utopica fantasia.
Bevvi ancora un sorso per farmi
coraggio, riprendendo da dove mi ero precedentemente interrotto
mentre
sentivo lo sguardo di Acciaio su di me, come se mi stesse spronando in
silenzio
a continuare. «Quella fu l’unica conversazione
leggera che potemmo affrontare,
lì. Il giorno successivo ricominciammo l’attacco
e, più il tempo passava, più
il frastuono creato da urla ed esplosioni diventava sempre
più intenso. Il caos
imperversava, e persino il cielo sopra le nostre teste sembrava essersi
tinto
del colore del sangue nonostante il tramonto fosse ancora lontano.
«Non molto distante dalla
posizione assegnatami, riuscivo benissimo a distinguere più
di un corpo
lasciato a marcire su quei viottoli divenuti ormai un campo di
battaglia.
Quelle vie che, prima dell’inizio di quella guerra, donne e
uomini percorrevano
per dirigersi al mercato, erano diventate dei cimiteri dove quelle
stesse
persone erano riverse in terra, con espressioni spaventate e la muta
supplica
di venir risparmiati dipinta ancora in viso.
«Urla, sangue, dolore, morte.
Ovunque si guardasse, era questo ciò che si leggeva negli
occhi dei
sopravvissuti. Ed il più delle volte ero io stesso a causare
tutta quella
sofferenza, senza dar loro nemmeno il tempo di caricare gli Schmidt
Rubin [3]
di
cui erano provvisti. Per quanto la cosa mi disgustasse,
però, non dovevo
lasciarmi condizionare, altrimenti sarei morto al loro posto e sarei
stato a mia volta lasciato a marcire fra quelle strade.
«Quel giorno, in tutto
quell’orrore che mi
circondava, mi stupivo di come riuscissi a cogliere ogni singolo
cambiamento che avveniva intorno a me. Tra il caos composto da spari ed
esplosioni, fu proprio il grido allarmato di una donna a richiamarmi,
prima che
venisse smorzato anch’esso da un altro colpo di fucile. Ebbi
appena il tempo di
stornare lo sguardo per capire da dove provenisse, poi ciò
che vidi fu un volto
nascosto da una lunga capigliatura scura e un corpo riverso in una
pozza di
sangue. Quella donna stringeva a sé un bambino,
anch’egli privo di vita, e
riuscii persino ad intravedere un orsacchiotto insanguinato
spuntare
oltre quell’esile spalla».
A quel punto mi fermai,
socchiudendo ancora una
volta gli occhi.
Ne avevo viste così tante, in quel
massacro, che mi sembrava ancora difficile rivivere il tutto fotogramma
per
fotogramma. Sentii Edward trattenere il
fiato, o almeno così mi sembrò, e quando mi
ritrovai a scoccargli una
rapida occhiata per osservare l’espressione dipinta sul suo
viso, lo vidi con
la bocca contratta in una piccola smorfia. E, aye, potevo benissimo
capirlo.
«Quella guerra stava andando
oltre il limite umano, e la presenza di quegl’innocenti ne
era la prova più che
tangibile», ripresi, come se farlo potesse in qualche modo
aiutarmi a terminare
il più in fretta possibile quel mio racconto.
«Case che una volta erano state
popolate dalle risate dei bambini si erano ridotti a cumuli di macerie;
viottoli che collegavano i vari distretti della città erano
stati sbarrati da
trincee innalzate nel tentativo di difendersi dai nostri attacchi e,
ogni qual
volta avanzavo, vedevo la popolazione tentare di continuo di opporre
resistenza.
Ed era proprio in quei momenti
che dovevo intervenire io. Quando sembrava che quelli di Ishvar
potessero avere
in qualche modo la meglio, dovevo prestar soccorso alle truppe con la
mia alchimia. Era una scena agghiacciante che si ripeteva di continuo:
spianavo
la
strada ai miei commilitoni e gridavo ordini confusi, affrettando il
passo per
allontanarmi dalle strade deserte per raggiungere il nuovo punto di
raccolta, creando morte e orrore con un semplice schiocco di dita».
Fui costretto ad interrompermi un attimo
e mi passai una mano
sugli occhi, traendo un lungo sospiro mentre stringevo il bicchiere nel
palmo dell’altra;
arrivati ormai a quel punto, sarebbe stato inutile interrompersi.
«Mi sembra ancora di sentire lo
scalpiccio dei miei stivali su quel terreno incrostato di sangue, certe
volte»,
ammisi. «Quel
risucchio vischioso che producevano ogni qual volta ne pestavo una
pozza
durante quelle mie folli corse, un suono terribile e disgustoso.
Ovunque mi guardassi c’erano
polvere e macerie,
corpi distesi a terra e privi di vita. In lontananza riecheggiavano i
rumori
degli spari e delle grida, e spesso e volentieri mi ero ritrovato a
pensare di
volerla fare finita una volta per tutte. Il pensiero del suicidio era
alquanto allettante... sai?» Non continuai,
probabilmente a causa del ricordo che si era affacciato nella mia
mente.
La
facilità con cui il corpo
umano bruciava, ad ogni mio schiocco di dita, era sempre stata
allucinante.
Ricordai il primo uomo che mi ero ritrovato ad uccidere con
l’alchimia. Il
fuoco che attecchiva ai suoi vestiti, la carne che sfrigolava
disperdendo
nell’aria quell’odore acre e malsano di grasso che
bruciava, le sue urla di
dolore nel vano tentativo di spegnere le fiamme... si era accasciato a
terra in
un batter d’occhio, lo rammentavo bene. Si era accasciato con
le braccia rannicchiate,
come se, in quell’ultimo istante, avesse disperatamente
cercato di proteggersi.
Mi sembrava ancora di vedere la
scena dinanzi ai miei occhi: i suoi bulbi oculari completamente
scomparsi, la
bocca digrignata che lasciava intravedere le gengive annerite, e la
pelle del
viso, ormai incartapecorita, che rendeva irriconoscibile la faccia di
quell’uomo. Quel giorno avevo vomitato,
non potendone proprio fare a meno. Anche se avevo cercato in qualche
modo di
proteggere me stesso e di preservare la mia sanità mentale
dietro falsi ideali,
l’orrore che io stesso avevo creato mi aveva scosso
profondamente.
«Carbone
cristallizzato. Ecco a cosa somigliavano tutte quelle
persone... carbone cristallizzato. Uno spettacolo bello e terrificante
al tempo stesso, come le fiamme rese azzurre a causa del fosforo e
l'odore
putrido di sangue e grasso umano bruciato. E i
giorni successivi non
furono poi così diversi», continuai ancora una
volta per provare in qualche
modo a scacciare quei pensieri, rigirandomi distrattamente il bicchiere
fra le
mani prima di ritrovarmi a bere un altro lungo sorso, lasciando che,
per un
tempo indeterminato, il picchiettare delle gocce di pioggia fosse
l’unica cosa
udibile prima di ricominciare. «Avrei voluto che il
tempo si fermasse,
così da non dover affrontare un nuovo giorno tra polvere,
fumo e
detriti. Rammentavo
ancora i sogni e i progetti che avevo fatto con Hughes durante gli anni
dell’Accademia, e mi sembrava quasi impossibile che fosse
passato così poco
tempo da quando l’avevamo fatto.
«Sognavamo un futuro migliore,
un futuro in cui l’alchimia e l’esercito avrebbero
aiutato le persone, ed era
proprio per quel motivo che ero andato contro tutti gli insegnamenti
del mio
maestro e mi ero arruolato, conoscendo Maes. A quel tempo, volevamo
solo che il
mondo che amavamo entrasse in un’era migliore, ma non era
stato così. Quello
stesso mondo, ad Ishvar, si stava pian piano sbriciolando,
distruggendosi a
poco a poco. Ma avrei cercato di fare di tutto per salvarne almeno un
frammento, per tentare di rimediare in qualche modo agli errori che
stavamo
commettendo. E ad ogni sguardo che lanciavo fra quelle tende che
sorgevano fra
quelle macerie, quel pensiero s’intensificava e diveniva
più saldo. Avrei
ancora potuto fare qualcosa che non fosse incendiare, con quelle mie
mani.
«Immerso com’ero fra
quei miei
pensieri, quasi non mi accorsi che mi si era avvicinato qualcuno e,
quando mi
voltai, ti lascio indovinare chi vidi», dissi, quasi volessi
rendere anche
Edward partecipe della conversazione, visto che fino a quel momento non
avevo
fatto altro che parlare da solo, sebbene sapessi che mi aveva ascoltato
con
attenzione.
Con lo sguardo puntato su di me,
non ci mise più di qualche secondo a rispondere.
«Il Tenente Hawkeye?» domandò
con fare ovvio, e mi ritrovai ad abbozzare inconsapevolmente un piccolo
sorriso. O non era difficile capirlo, o ero io che per lui ero ormai
diventato
un libro aperto.
«Non sembrava più
la ragazza che
avevo conosciuto prima di quella guerra», replicai,
continuando
prima che Edward
potesse farmi una qualsiasi domanda. «Con quel fucile ben in
spalla e la faccia
sporca di terriccio, gli occhi arrossati dalla sabbia e le palpebre
socchiuse
che lasciavano
scorgere i segni della stanchezza, simbolo che erano probabilmente
giorni che
non dormiva decentemente, era ben lontana dal ricordo che avevo di lei.
I capelli, che a quel tempo
portava molto corti, erano arruffati e in disordine, sporchi di terra
quasi
quanto il viso. Non era più la ragazzina che spiava
timidamente i miei
progressi, sorreggendosi contro lo stipite della porta dello studio del
padre, ma...»
Avrei anche continuato, se non fosse
stata proprio la voce di Edward ad interrompermi e a richiamare la mia
attenzione. «Aspetta, cosa significa?» mi
domandò, e mi ritrovai ancora
una volta a lanciargli una rapida occhiata, abbassando lo
sguardo sul bicchiere che ancora reggevo.
Feci oscillare un po’ il
liquore
al suo interno, vedendolo lambire il bordo come se trovassi
quell’occupazione
estremamente interessante. «Berthold Hawkeye»,
risposi semplicemente. «Il mio
maestro e il padre di Riza».
Acciaio mi fissò con tanto
d’occhi.
«Il
padre del Tenente Hawkeye era il tuo maestro
d’alchimia?» mi
chiese ancora, forse persino incredulo. E come biasimarlo? Nessuno,
eccetto Riza stessa,
avrebbe
potuto sapere quelle cose. Era solo un’ennesima
parte del mio passato che conoscevano davvero in pochi.
Assaporai un altro piccolo sorso di
whisky, forse per scaldarmi o
forse per
occupare in qualche modo il tempo. «Aye», ammisi
infine con fare ovvio,
sporgendomi per abbandonare il bicchiere sul tavolino. «Mi ha
insegnato tutto
quello che so, lasciandomi questo potere distruttivo»,
continuai, abbassando lo
sguardo per fissarmi i palmi delle mani. «Usato nel modo
giusto avrebbe potuto
aiutare le persone. Ma se non avessi imparato a padroneggiarlo, avrebbe
potuto
distruggere anche me oltre a tutto ciò che mi circondava.
Sembra avere un po’
una vita a sé stante, il fuoco, non credi anche
tu?» soggiunsi, ritrovandomi a
dar vita ad un sorriso vagamente amaro.
Il mio maestro l’aveva
ripetuto fino allo stremo: il fuoco era un
elemento indomito
e per nulla facile da manovrare. Era dinamico, sottile e spirituale; si
diceva
quasi che avesse il potere di purificare qualunque cosa toccasse, ma
per quale scopo
l’avevo sempre
utilizzato io? Soltanto per uccidere gente innocente, nonostante
più volte mi
nascondessi dietro la falsa credenza che lo facessi per non morire a
mia volta [4].
Sentii un piccolo suono
provenire dalla gola di Edward, come se non avesse capito
perché, tutto d’un
tratto, avessi cominciato a farneticare in quel modo. «Quindi
conoscevi Riza
già a quei tempi, giusto?» ritornò su
quel discorso, forse anche per
richiamarmi in qualche modo all’ordine, così
annuii ancora una volta.
«Abitava
in una villetta insieme a suo padre. Ti confesso che quando lui
mi
aveva preso come allievo, mi ero sentito felice come non lo ero
più stato da
anni. Imparare l’alchimia da un uomo del suo calibro sarebbe
stato il sogno di
qualsiasi ragazzino voglioso di conoscere quell’arte, a quei
tempi». Mi alzai e passeggiai lì davanti,
aggirando il tavolino e
infilandomi le mani nelle tasche mentre guardavo altrove, sentendo
frattanto
gli occhi di Edward su di me. «Al solo pensarci, mi sembra
ancora di sentire il
brivido d’eccitazione che avevo provato quando avevo messo
piede in quella
casa.
«La collezione privata del
maestro Hawkeye era davvero formidabile, sono sicuro che sarebbe
piaciuto anche
a te passare ore ed ore chino sui libri che possedeva. Mettere le mani
su quei
tomi mi aveva entusiasmato a tal punto, quel primo giorno, che avevo
persino
saltato la cena, facendo andare il maestro su tutte le furie. La cosa
che
odiava di più in assoluto era il dover aspettare e i
ritardatari. Così, dopo essermi beccato
quella sgridata, ero stato spedito a riprendere i miei studi. Mi aveva
permesso
di mangiare soltanto un boccone di pane».
«Su questo punto di vista, mi
ricorda un po’ la maestra Izumi»,
ironizzò Edward, e fermai la mia camminata
solo per potermi voltare verso di lui e guardarlo in viso.
Abbozzai un altro sorriso,
scuotendo il capo. «Sono certo che sarebbero andati
d’accordo, allora, se il
maestro fosse ancora in vita», ripresi con sarcasmo.
«In realtà avevo quasi
temuto che mi cacciasse, dato che diventare suo allievo era un onore
che
spettava a ben pochi. Anzi, da quel che avevo capito, ero stato il
primo,
sebbene non ne fossi poi così sicuro. Non volevo peccare di
presunzione nel
crederlo.
Quindi cercai in tutti i modi
di essere all’altezza dei suoi insegnamenti, passando
l’intera nottata a
studiare. Peccato che mi addormentai senza nemmeno rendermene
conto», soggiunsi
con fare vagamente divertito, perdendomi in quei ricordi di scapestrato
sedicenne. «Il viaggio che avevo dovuto compiere per arrivare
fin lì era stato
lungo e stressante e, non avendo riposato abbastanza, avevo finito per
crollare
su quei tomi pesanti e polverosi.
«Forse fu una fortuna
l’essermi
svegliato prima che il maestro ritornasse. Non avrei voluto che si
arrabbiasse
di nuovo per due giorni di fila. Anche la pazienza aveva un limite, in
fin dei
conti.
Nonostante lo sguardo
assonnato, avevo dunque provato a raddrizzare la schiena, sentendo
però qualcosa
scivolare via. Abbassato lo sguardo per capire cosa fosse, avevo visto
una
coperta
che non ricordavo di aver preso, anche perché non avrei
nemmeno saputo dove
trovarla.
«Mi chinai per recuperarla, e
quando alzai lo sguardo mi specchiai in due grandi occhi marroni.
Quasi
non potei crederci, in effetti. Davanti a me c’era una
bambina che non poteva
avere più di undici, dodici anni, ma prima ancora che
potessi agitarmi per la
sua presenza, lei si poggiò un dito sulle labbra, come per
impormi silenzio.
«“Riza
Hawkeye”, si
presentò,
regalandomi appena un sorriso. E, diamine, anche se era soltanto una
bambina,
quel sorriso mi fece perdere un battito e arrossire».
Un piccolo colpo di tosse da
parte di Edward mi richiamò alla realtà, fermando
ancora una volta quella mia
traversata. «Adesso sì che avrei ragione ad essere
geloso», ironizzò ancora una
volta, sollevando un sopracciglio e fissandomi con attenzione.
Io, d’altro canto, mi limitai
semplicemente a scrollare le spalle. «Non puoi essere geloso
di una bambina»,
lo presi in giro. «A quel tempo lei aveva dodici anni e io
sedici».
«Non mi sembra che tu ti sia
mai fatto problemi d’età», fu il suo
turno di sbeffeggiarmi con fare
sarcastico, dando vita ad un’espressione così
allusiva che capii immediatamente
dove voleva andare a parare. Riza aveva solo quattro anni meno di me,
mentre erano ben quattordici quelli che mi separavano da Edward e...
aye, beh, effettivamente ci eravamo conosciuti proprio quando lui aveva
undici anni.
Scossi il capo, un
po’ divertito. «Non è come
può sembrare», precisai. «Mi piaceva, e
questo
non posso negarlo. Non chiedermi però in che modo mi
piacesse, perché non
saprei proprio cosa risponderti. Potrei dirti che aveva un bel viso e
che
quindi era
quella sua espressione da bambina a catturarmi, ma non so cosa potresti
pensare
di me se lo facessi. Più che altro, se ci rifletto adesso, a
quei tempi avrei
anche potuto vederla come una sorellina.
«Quando si presentò
mi venne
subito spontaneo farlo a mia volta, sebbene i miei modi sembrarono
insicuri e
impacciati. “Roy Mustang, piacere!”
farfugliai in preda al panico, scattando in piedi e chinando il
capo in segno di saluto prima di abbandonare le braccia lungo i
fianchi
nel vano tentativo di darmi un’aria composta e ordinata.
«Forse quel mio modo di fare
la
divertì, perché la sentii ridere con fare
sincero, come solo i bambini di
quell’età sanno fare. “Non
agitarti”, mi disse allegra, raccogliendo la coperta
che avevo fatto nuovamente cadere prima di porgermela con un sorriso.
“Ti ho
portato questa per non farti prendere freddo”, soggiunse.
“Se hai bisogno
d’altro, chiedi pure”.
«Tutta quella sua premura mi
scaldava il cuore, forse perché nessuno era stato
così gentile con me, se si
escludeva mia zia. Così aprii la bocca per ringraziarla, ma
quando sentimmo un
rumore dal piano di sotto lei mi precedette.
Guardandomi seria, aggrottò di
poco le sopracciglia. “Non dire a mio padre che sono stata
qui, ti prego”,
sussurrò, come timorosa che potesse in qualche modo
sentirla. “Se sapesse che
ti ho disturbato mentre studiavi, si arrabbierebbe”,
continuò, rivolgendomi un
breve saluto prima di sgattaiolare svelta fuori.
«In realtà non
potevo ancora
sapere né capire il vero motivo di quella sua strana paura.
Ogni giorno
controllava che il padre non fosse nei paraggi e veniva a spiare i miei
progressi, portandomi sempre da mangiare e da bere anche fuori orario,
pensando
lei stessa a coprirmi con qualcosa quando mi addormentavo su quei
pesanti
volumi d’alchimia dopo una stressante giornata passata a
studiare. Le cene con Hawkeye Sensei si
svolgevano poi in silenzio, a meno che non avessi qualche dubbio su
ciò che
imparavo. E se accadeva, eravamo capaci di parlare per ore ed ore,
anche fino
all’alba. E più i giorni passavano,
più
lui cominciava a mettermi al corrente delle sue ricerche. Quando compii
la
maggiore età, mi parlò infine di quel grande
segreto che rappresentava
tutto ciò che aveva tenuto nascosto nella sua lunga vita:
l’alchimia del
fuoco.
Mi disse che me l’avrebbe insegnata, ma quando tornai da lui
dopo essermi
arruolato, cominciò a farneticare che non ero ancora pronto
e che diventando un
cane dell’esercito avrei disonorato me stesso».
Guardai la pioggia che continuava a
cadere fuori dalla finestra, ravvivandomi i capelli all’indietro.
«Quel giorno non lo
dimenticherò mai»,
sussurrai con un groppo in gola, tossendo per schiarirmi la
voce. «Lo
vidi morire dinanzi
ai miei occhi. Già malato da
tempo, le sue condizioni si erano aggravate e non aveva resistito
oltre. Non avevo potuto fare
niente per
lui, ma avrei cercato di fare qualcosa per sua figlia.
E fu dopo la morte del maestro
che capii qual era sempre stato il compito di Riza e quale fosse il suo
rapporto con l’alchimia. Per volere di suo padre era stata la
custode dell’alchimia
del fuoco, e in seguito, per sua stessa decisione, mia guardia del
corpo [5]».
[1]
Chiamato
anche trauma da
bombardamento, “scemo di
guerra” o più comunemente sindrome da stress
post-traumatico, lo shell shock è
una malattia che colpiva - e colpisce tuttora - parecchi soldati che
sopravvivevano ad una guerra. Ai tempi della prima guerra mondiale
questa
malattia era quasi del tutto sconosciuta, dunque era difficile capire
perché
gli ufficiali mostrassero la maggior parte delle volte segni di
squilibrio
mentale.
[2]
Citazione
tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo
sessantuno: “L’Eroe di Ishvar”.
[3]
Il modello a cui si accenna è del
1889, ed utilizzava
della polvere
semi-infume (Polvere nera con il nitrato al posto del salnitro e zolfo
maggiormente raffinato) per un diametro di palla da 303, reso di 304
grazie ad
un sottile strato di carta impregnato di lubrificante. La lunghezza
complessiva
è di 131 centimetri, ed è possibile vedere tale
arma cliccando qui.
[4]
Ho
voluto segnare questa frase per spiegare il significato esoterico del
fuoco per
mio puro capriccio personale e per curiosità.
Nell’esoterismo, difatti, esso
purifica tutte le cose elevandole ad un livello di perfezione
superiore. Giacché è un agente
di relazione tra il microcosmo e il macrocosmo, il fuoco racchiude in
sé un
principio maschile che inciterebbe ad azioni distruttrici se non fosse
moderato
dagli altri elementi. Il simbolo sui guanti di Roy e sulla schiena di
Riza, che
si può vedere qui,
richiama vagamente il simbolo stesso dell’unione tra quello
del fuoco (Un
triangolo con una punta in su) e quello dell’acqua (Un
triangolo con la punta
in giù), ovvero una stella a sei punte, unione stessa tra
energia e materia. Le
scritte in latino che compongono la parte superiore del simbolo
dell’alchimia
del fuoco tatuato sulla schiena di Riza, poi, recitano una cosa tipo
“La natura
del fuoco si rinnova, nella fiamma d’una candela ti vedo
insegnarmi a capire la
violenza del fuoco”, mentre la parte inferiore recita al
principio “Luce e
legge, luce e verità”. Sono anni che non faccio
latino dunque non sono del
tutto certa, ma il succo, in fin dei conti, è quello.
[5]
Anche
questa frase
potrebbe non significare nulla di importante se vista singolarmente, ma
in
realtà nello stesso nome di Riza viene spiegato cosa voglia
intendere Roy con
quelle parole. Il nome Riza, infatti, è la versione
ungherese di “Thereza”, e
il suo significato è “Guardiana”. Non
è chiaro se sia una cosa voluta
dall’autrice per indicare il fatto che lei sia la custode
dell’alchimia del
fuoco e al tempo stesso la “guardia del corpo” di
Mustang. Così come il cognome
di quest’ultimo, poi, anche quello di Riza, ovvero
“Occhio di Falco”, è il nome
di un veicolo militare, precisamente un portaerei-tattico Airbone Early
Warning
utilizzato dalla US Navy. Il nome completo è
“Grumman E-2 Hawkeye”, e forse è
stato scelto proprio per indicare il grado di parentela fra lei e il
Generale
Grumman, che sembra essere suo nonno materno.
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** [ Cut #03 › Ishvar Area, 1908 ] Fearless and sorrow ***
Please, take me out of here_4
In mia difesa, cosa
c’è da dire?
Tutti gli errori che
abbiamo fatto
devono essere
affrontati oggi.
Non è facile
ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
04. CUT #03
› ISHVAR AREA, 1908
FEARLESS AND SORROW
Mi
ero ritrovato nuovamente ad interrompere la mia storia, forse proprio
perché
avevo cominciato a parlare di quella parte del mio passato. Scossi
la
testa, riattraversando il salotto per tornare ad
accomodarmi
accanto a Edward come se nulla fosse. «Sto divagando,
scusami», mi
sentii in dovere di dirgli,
guadagnandoci appena una pacca dietro la schiena.
«Era comunque una parte
importante
del tuo passato», mi diede manforte, capendo quanto
in realtà ci
tenessi profondamente a quei ricordi. «E poi, adesso, so
anche perché tu e il
Tenente Hawkeye sembrate avere un’intesa del
genere».
Mi limitai solo ad annuire,
guardando distrattamente i due bicchieri abbandonati sul tavolino.
«Dov’eravamo
rimasti?» cambiai discorso, non volendo pensarci oltre. In
fin dei conti avevo raccontato
abbastanza, anche se dovevo ammettere che parlare dei momenti del mio
apprendistato da alchimista lo trovavo molto più piacevole
del continuare a
raccontare ad Acciaio di Ishvar. Ma chi non l’avrebbe pensata
così? Non si
potevano mettere a confronto due avvenimenti così diversi,
dato che l’unica
connessione che avevano entrambi era l’uso che era stato
fatto di quell’alchimia
distruttiva che avevo imparato a manovrare.
«Prima che cominciassi a
parlare
dei tuoi studi, intendi?» mi domandò Edward,
richiamandomi.
«Aye, esattamente».
«Al tuo incontro con il
Tenente lì
ad Ishvar, se non sbaglio», mi rispose semplicemente, e persi
anch’io un po’ di
tempo per rammentarlo prima di ritrovare finalmente il punto. A quanto
sembrava, mi toccava davvero ricominciare. Per quanto mi sarebbe
piaciuto, non
potevo abbandonare quel racconto a metà.
«Non era più la
ragazzina che
conoscevo», ripresi ancora una volta, esattamente dove mi ero
interrotto prima
che cominciassi a parlare del tempo trascorso a casa Hawkeye.
«Ma un cadetto
troppo giovane a cui era stata sbattuta troppo violentemente in faccia
la
realtà della guerra. Ventidue anni
erano davvero pochi per essere
spediti in quel massacro, però diciannove ne erano anche
meno.
«“Riza”,
riuscii a dire
solamente
quello, come se fino a quel momento il suo nome fosse
rimasto
bloccato nel fondo della mia gola e avesse faticato non poco ad uscire.
Se fosse stata la sua postura, o
semplicemente l’espressione che aveva assunto il suo viso,
non lo sapevo.
L’unica cosa razionale che ero riuscito a pensare la prima
volta che l’avevo
vista lì, però, era stata “Anche questa
ragazza ha gli occhi di un assassino [1]”,
e mai come quella volta avrei preferito sbagliarmi.
«“Ho avuto modo di
vederla
all’opera, Maggiore”, mi disse lei con una
semplicità inaudita, sistemandosi
meglio il fucile in spalla e lasciando trapelare
dall’espressione sul suo viso
quanto quella rivelazione la turbasse.
«Avrei voluto dirle mille
cose, in
quel momento. Avrei voluto dirle che mi dispiaceva, che non era questo
ciò che avevo promesso a suo padre, che davanti a quella
tomba
avevo pensato ad un futuro diverso e che non avrei mai
voluto
vederla lì su quel campo di battaglia, con il rischio che
non potesse fare mai
più ritorno. Ma anche lei non aveva più nessuno
ad aspettarla, a casa,
esattamente come me. Aveva dei parenti da parte di sua madre, da
qualche parte,
ma non li aveva mai conosciuti, poiché i genitori avevano
tagliato i ponti con tutti dopo essersi sposati. Così,
quando mi
disse quelle
parole, accusai il colpo come se mi avesse
schiaffeggiato,
socchiudendo le palpebre prima di darle le spalle. “Non era
di certo questo
l’uso che tuo padre avrebbe voluto per le sue
ricerche”, tentai di
giustificarmi, come se fosse dovuto.
«Lei, però, contro
ogni mia
aspettativa, mi disse “Non la sto accusando”, ma
non
sai quanto avessi voluto
che lo facesse, Ed», soggiunsi in un mormorio sconnesso,
ritrovandomi
involontariamente ad interrompermi
e sospirare.
Sentii l'auto-mail di Acciaio
poggiarsi sulla mia spalla, come se in qualche modo volesse darmi
conforto e
aiutarmi a rituffarmi in quei momenti che, per me, erano stati
più duri di
quanto non dimostrassi mai. Mi ritrovai ad allungare una
mano per
afferrare la sua, stringendola forte prima di socchiudere gli
occhi
e riprendere il mio racconto. «“Se
le ho affidato la mia
schiena e quelle ricerche” continuò poi,
“è perché credevo in lei, Maggiore.
Credevo nei suoi sogni, in un futuro dove tutti avrebbero potuto vivere
felicemente. Ho continuato a crederci anche se siamo dovuti arrivare a
questo [2]”,
soggiunse rattristata, chinando lo sguardo per osservare la punta dei
suoi stivali, anch’essi sporchi di fango e terriccio.
“Nessuno di noi due
poteva sapere a cosa saremmo andati incontro. Io stessa non avrei mai
pensato
di arruolarmi e di diventare un soldato”.
E a quel suo dire, spinto anche
dall’affetto che ci legava e dalla promessa che avevo fatto a
me stesso dopo la
morte del maestro, non potei non preoccuparmi per lei. Avevo paura.
Avevo paura
che potesse morire».
«Era tua amica. É
più che
normale che ti sentissi così», si intromise ancora
una volta Acciaio, e lo vidi fissarmi con estrema attenzione. La lieve
gelosia che
l’aveva
animato al principio era del tutto scomparsa, lasciando invece spazio
ad una
strana consapevolezza che non gli avevo mai visto. «Ricordi
quando cercarono di
tenermi in pugno prendendo di mira Winry?» mi
domandò, abbandonando entrambe le
braccia oltre lo schienale del divano. «Mi infuriai proprio
perché era mia
amica. Non potevo permettere che le facessero del male o che le
succedesse qualcosa
a causa mia».
Sollevai un angolo della bocca in un
sorriso amaro, scoccandogli
un’altra rapida occhiata
prima di abbassare per l’ennesima volta lo sguardo. Ricordavo
benissimo quel
giorno. C’ero anch’io, in quella sala. E forse
dirgli che l’aver visto il modo
in cui si era agitato per quella ragazza mi aveva reso geloso, mi
avrebbe
fatto apparire ai suoi occhi come un moccioso dal comportamento
infantile.
«Già, forse è per questo che
ero terrorizzato all’idea di saperla
lì», mi affrettai ad aggiungere,
probabilmente anche per cercare di scacciare quei miei assurdi pensieri
di
gelosia. «Così, senza nemmeno rifletterci, le
dissi solo “Saresti dovuta
restare al sicuro, Riza. Non c’era assolutamente nulla che ti
spingesse a percorrere
questa strada”.
«Peccato che lei non
sembrò capire
le mie preoccupazioni, o forse non volle nemmeno prenderle in
considerazione.
“Avevo e ho tuttora le mie buone ragioni, Maggiore”
mi rispose, alzando
lo sguardo per osservarmi negli occhi, almeno per quanto le fosse
concesso data
la scarsa, se non nulla, illuminazione. “Ma lei riesce a
dormire, la notte, nel
pensare a tutte le persone che abbiamo ucciso e che
uccideremo?”
«Avrei voluto dirle che non ci
riuscivo affatto, che passavo notti insonni seduto sul terreno nella
mia tenda
ad aspettare il sole sorgere, ma non lo feci e strinsi i pugni lungo i
fianchi,
ostinandomi a guardare dritto dinanzi a me, forse per evitare gli
occhi di
Riza. Se mi fosse specchiato in essi, con molta probabilità
sarei capitolato
del tutto e le avrei confessato ogni cosa. “Dire che stiamo
sbagliando e continuare a farlo
è da ipocriti,
Riza, anche se la penso esattamente così”, le
risposi dopo attimi
d’esitazione. “Non c’è nulla
che possa essere sfruttato,
eppure stanno facendo di tutto per far sì che ogni singolo
abitante muoia. E
siamo noi a dover adempiere a questo compito”.
«“Anche se la gente
che ammazziamo
appartiene al nostro stesso paese?” insistette, e a quel
punto cercai di fare
di tutto pur di eludere quella domanda. Che cosa avrei mai potuto
risponderle?
Io stesso ero disgustato da ciò che facevamo, ma sapevo che
non avrei potuto
fare nulla per cambiare le cose data la posizione che, a quei tempi,
detenevo.
Ero soltanto un Maggiore, in confronto ad altri alt’ufficiali
lì presenti ero
considerato alla stregua di un insetto, solo della misera spazzatura
che poteva
benissimo essere lasciata a marcire sul campo di battaglia.
Così, pur non essendone del tutto convinto,
l’unica cosa sensata che riuscii a fare fu
annuire prima di
prendere il coraggio di voltarmi verso di lei per osservarla in viso.
“Precisamente”, affermai. “Per quanto la
cosa ci disgusti, questo è l’ordine
che dobbiamo eseguire [3]”.
«Quelle sue parole mi fecero
però
riflettere, qualche ora dopo. Avevo passato ancora
una volta una notte insonne, seduto
come mio
solito sul terreno intorno al quale era stata allestita la mia tenda.
Mi ero
coperto il capo con il cappuccio del giaccone che avevamo indossato
tutti
all’inizio di quella guerra, nascondendomi così
metà viso come se volessi
celarmi al resto del mondo. Sorreggevo persino una borraccia
d’acqua, ma non ne
avevo bevuto nemmeno un sorso.
Non avevo fatto altro che
ripensare alle parole di Riza, che in qualche modo erano riuscite a
minare
il mio già precario equilibrio fisico e psichico. Per quanto
mi fossi sforzato,
non ero riuscito ad allontanarle dalla mia mente, come se si fossero
insidiare
nelle pareti del mio cervello come un serpente infido.
«Quando l’avevo
incontrata la
prima volta, lì in quell’inferno, avevamo avuto
una conversazione piuttosto
simile, lo ricordavo fin troppo bene. “Perché i
soldati, che
dovrebbero proteggere i
cittadini, invece li uccidono? [4]”
mi aveva chiesto in tono basso e, in un
primo momento, non
avevo saputo cosa risponderle. “Perché
l’alchimia, che dovrebbe portare
felicità alla gente, viene invece usata per
ucciderla? [5]”
aveva poi soggiunto,
esigendo da me una risposta che sarebbe potuta anche solo lontanamente
sembrare
esauriente.
«Riuscivo a comprendere cosa
turbasse il suo animo, ma qualsiasi risposta le avessi mai dato non
sarebbe
servita ad alleggerire il peso che noi tutti ci portavamo nel cuore,
peso che
si accumulava giorno dopo giorno.
Cosa avrei potuto dirle, in fin dei conti? Che quelli erano gli ordini
e noi tutti, in quanto soldati, dovevamo obbedire e basta? Non sarebbe
stata una risposta esauriente e non avrebbe dato a nessuno di noi due
il conforto di cui, probabilmente, necessitavamo. Nemmeno mi accorsi
del tempo che
passò, perso com’ero in quelle mie riflessioni.
Venne a richiamarmi Maes stesso
poco prima delle otto del mattino. Mi informò
sull’orario del nuovo attacco e
sulla nostra destinazione, rivelandomi persino che si vociferava di una
mia
possibile promozione.
Una promozione per aver ridotto ad ammassi di carne bruciata delle
persone, ti rendi conto? Alquanto ironico, se la vogliamo mettere
così.
«Mi disse anche che i
capoccioni contavano sulle mie
capacità, e l’unica cosa davvero sensata
che riuscii a pensare in
quel momento fu “Sono tutti degli aguzzini”. Lo
tenni presente persino a Maes,
e lui riattaccò con la storia che si aspettavano molto da
me. Forse, a quei
tempi, prendermi meriti e riconoscimenti per l’aver ucciso
delle persone mi lasciava
più scosso di quanto non lo faccia adesso, non so dirtelo.
«Di certo c’era una
bella
differenza tra il Roy Mustang di allora e quello di oggi, ma farsi
divorare dal
rimorso dopo tutti questi anni non servirebbe a nulla»,
replicai, fissandomi i piedi. Acciaio aveva forse cominciato a provare
disgusto? Se così fosse stato, non l’avrei
biasimato. «Il
senso di
colpa non se
ne andrà mai, ne sono consapevole; però, starmene
qui a colpevolizzarmi e
commiserarmi senza agire, mi farebbe apparire debole.
E non avevo avuto intenzione di
farlo nemmeno su quel campo di battaglia, non ce ne sarebbe stato
motivo. Se
avessi cominciato anche solo a pensare di farlo, forse non sarei seduto
qui in
questo salotto e non avrei mai conosciuto te», e nel dirlo
stornai bruscamente
lo sguardo verso Edward, fissandolo con estrema attenzione.
«Se avessi lasciato
che la colpa mi assalisse, non sarei più riuscito a
schioccare le dita. Sarei
morto».
Edward mi squadrò
attentamente a
sua volta, forse comprendendo come mi fossi sentito e come tuttora mi
sentissi.
Ma prima ancora che potesse dirmi qualcosa, continuai, forse anche per
timore
che provasse in qualche modo a consolarmi con i suoi soliti modi di
fare. «Maes
quel mattino aveva cercato di tirarmi su il morale, sai?»
ripresi il discorso,
vedendo il mio compagno aprir bocca per provare a dire qualcosa,
rinunciandoci
però subito dopo per lasciarmi stare. «Riflettendo
sulle parole di Riza,
che erano tornate proprio in quel mentre a farsi prepotentemente spazio
fra i
miei pensieri, alzai lo sguardo e, osservando Hughes con
attenzione, gli
avevo domandato “Perché devo uccidere persone del
mio stesso paese?”, e lui,
semplicemente, aveva socchiuso le palpebre e sospirato,
rispondendomi
“Gli Ishvariani hanno minato l’ordine pubblico
della nazione. I superiori a
Central City hanno dato ordine di eliminarli”.
«“Eliminarli,
eh?” mi ero
ritrovato a ripetere con una punta di amarezza, storcendo persino il
naso per
far capire quanto quella cosa mi disgustasse. “Che parole
convenienti per
mascherare questo massacro”.
E lui, anche se non pronunciò ad
alta voce quel suo assenso, pensava esattamente la stessa e identica
cosa.
Forse fu per quel motivo che decise di cambiare discorso ad una
velocità
pazzesca, per tentare di distrarmi, con la scusa che stessimo parlando
proprio
di Central.
Mi disse che gli era arrivata
un’altra lettera da Glacier, e cercò in tutti i
modi di farmi vedere l’ennesima
fotografia che quella santa donna gli aveva spedito. Ma non ero davvero
in vena
di sopportare il suo buon umore. Non quella volta, almeno.
«Continuavano a tornarmi
insistentemente in mente le parole di Riza e, forse per quello stesso
strano
sentimento che avevo provato giorni addietro, o forse perché
ero semplicemente
stanco di tutta quella storia, quando sentii Hughes parlare di
matrimonio, del
suo volermi invitare e cose del genere, senza nemmeno riflettere gli
dissi
“Quindi abbraccerai la donna che ami con quelle mani sporche
di sangue”.
«Lui divenne una vera e
propria
furia, quando recepì il messaggio. Interruppe bruscamente il
suo sproloquio e,
voltandosi verso di me con il viso stravolto dalla rabbia, mi
afferrò per il
giaccone che indossavo e mi scosse violentemente. “Questo ti
crea qualche
problema?!” urlò fuori di sé, e io ebbi
soltanto il tempo di aggrottare le
sopracciglia e distogliere lo sguardo dai suoi occhi, quasi non potessi
sopportare di guardarli. “L’ho capito mentre ero
qui. Possedere una casa con la
donna che ami e vivere normalmente è una felicità
che può esistere ovunque, ma
è la felicità più grande!
Farò qualsiasi cosa per avere quella felicità! Io
sopravvivrò! Ciò che è successo qui...
me lo terrò dentro e sorriderò quando
sarò dinanzi a lei! La farò felice!”
«Non seppi cosa
rispondergli, nel vedere la rabbia che le mie parole avevamo provocato.
Dentro
di me, però, sapevo che Maes aveva ragione. Avremmo dovuto
tenere dentro noi
stessi tutti i momenti vissuti ad Ishvar, altrimenti non avremmo mai
avuto una
vita normale. Knox lo capì a sue spese, ad esempio. Credo
che vi abbia
raccontato perché sua moglie se ne andò portando
con sé il figlio, no? Aveva di
continuo gli incubi, e la convivenza fra di loro era diventata
insostenibile».
Mi allungai per riprendere il
bicchiere di liquore, ma poi ci ripensai, limitandomi semplicemente a
gettare
un’altra occhiata a Edward prima di fissare con fare
piuttosto distratto la
libreria, quasi volessi leggere i titoli dei tomi che la occupavano.
«Quando
era preda degl’incubi e veniva svegliato dalla moglie,
non era raro che in
quel momento di intorpidimento mentale la scambiasse per un nemico e
tentasse
d’ucciderla. É una cosa che succede abbastanza
frequentemente, ai soldati che
hanno vissuto una guerra come quella», ripresi.
«Al principio
capitava abbastanza spesso persino a me. Mi svegliavo nel cuore della
notte, sudato da capo a piedi, con le lenzuola convulsamente strette
fra le dita e il respiro velocizzato; ottenebrato dagli incubi, mi
alzavo di scatto e mi infilavo i guanti che tenevo stipati sotto il
cuscino, standomene di guardia dinanzi alla porta del mio appartamento
come se attendessi l'arrivo del nemico; a volte camminavo per strada e,
per qualche frazione di
secondo,
mi sembrava di vedere le persone che superavo ridotte ad ammassi di
carne sanguinolenta o membra
carbonizzate.
In quei momenti credevo davvero d’essere
impazzito», mi guardai giusto una
mano, subito dopo, sorridendo un po’ amaramente. «E
spesso ho tuttora
l’impressione di esserlo. Ho paura che gli incubi possano
tornare anche dopo
anni di distanza e che una sera, svegliandomi d’improvviso
con quelle immagini
nella mente, io...» deglutii, quasi non riuscissi a
pronunciare quelle parole.
Ma, socchiudendo gli occhi, mi feci forza, raschiandomi con i denti il
labbro inferiore. «...possa farti del male».
Tra noi cadde nuovamente il
silenzio, dopo quelle mie parole. Nessuno dei due aprì
bocca, come se temesse
di infastidire in qualche modo le elucubrazioni mentali
dell’altro. C’eravamo
solo noi, il picchiettare della pioggia, e quella strana quiete che
nascondeva
più parole di quante non si potessero mai pronunciare.
«Non mi farai mai del
male», si
fece sentire infine Acciaio, con un tono basso e gorgogliante che non
mi
sembrava d’aver mai sentito uscire dalle sue labbra.
«Prima che tu possa anche
solo provarci, ti avrò già rifilato un bel
diretto d’acciaio su quel naso
perfetto che ti ritrovi».
Stornai lo sguardo verso di lui e,
sbattendo di continuo le palpebre, lo fissai con attenzione in viso. Lo
vidi
ricambiare quella mia occhiata, notando i cambiamenti della mia
espressione
quando mi specchiai nei suoi occhi. Scoppiai a ridere senza poterne
fare a meno,
meravigliandomi di come quel ragazzo alto un metro e un tappo riuscisse
a
mettermi senza volerlo di buon umore. Ero più che sicuro,
infatti, che avesse
detto quelle cose con tutta la serietà di cui disponeva.
«Sentirò mai una parola affettuosa
uscire da quelle belle
labbra che possiedi?» lo presi in
giro, lieto che, in
quel modo, quel fagiolino fosse riuscito ad alleviare almeno in parte
la
tensione accumulata fino a quel momento.
Mi rifilò
un’occhiataccia, forse
in reazione alla risata liberatoria in cui mi ero gettato.
«Solo se tu la
smetterai di sparare cazzate del genere», ribatté
immediatamente, con lo stesso
tono serio utilizzato poco prima. «Sono adulto e vaccinato,
difendermi da un
erotomane come te sarebbe una bazzecola. Ricorda che sono pur sempre
l’Alchimista d’Acciaio, io», ci
tenne
a soggiungere, quasi volesse
precisarlo, enfatizzando soprattutto sull’ultima parola.
E non potei fare a meno di sorridere
maggiormente, nel sentirlo. Era l’Alchimista
d’Acciaio, vero. Era il ragazzo
che aveva superato l’esame d’Alchimista di Stato a
soli dodici anni, il genio
dell’alchimia. Ed era solo mio.
«Non ho nulla di
cui preoccuparmi, allora, dato
che ho sempre confidato nelle tue capacità», mi
ritrovai a replicare, e
stavolta ero sincero. Non avevo mai dubitato di lui o del modo in cui
adoperava
l’alchimia, anche se non gliel'avevo mai detto apertamente.
Non fino a quel momento, almeno.
Forse arrossì, non ne fui
realmente sicuro, ma si ritrovò a borbottare qualche parola
incomprensibile
prima di guardare altrove, incrociando le braccia al petto.
«Mi stavi
raccontando del Generale Hughes, comunque», fu il suo turno
di cambiare
discorso, simbolo che quel mio velato complimento l’aveva in
qualche strambo
modo conquistato; da quando stavamo insieme le cose
erano diventate un
tantino diverse, anche a causa dell’intimità
conquistata così faticosamente. O
almeno da parte mia, dato che per lui l’assetato di sesso ero
io. Come se lo
facessimo spesso, poi! Dovevo ritenermi un uomo fortunato
già se riuscivo a
rubargli un bacio e a prenderlo alla sprovvista senza che mi prendesse
a pugni per il mio cosiddetto pessimo
tempismo, figurarsi.
Non ci pensai oltre,
scuotendo il capo. Anche perché, altrimenti, mi sarei
avvilito
per la nostra vita sessuale disastrosamente castrata dal lavoro.
«Raccontavo di Maes,
già», dissi in tono vagamente
nostalgico, dando vita ad un altro piccolo sorriso prima di decidermi
una volta
per tutte a riprendere. «Quando si fu calmato, o almeno
così sembrò voler far
credere, mi disse semplicemente “Abbiamo del lavoro da fare,
sbrigati ad
alzarti”, ma io ero rimasto fermo nella stessa e identica
posizione in cui ero
stato per ore ed ore, restio dal voler obbedire. Non ci sarei riuscito,
probabilmente, però ben sapevo che non sarei potuto restare
lì. Per quanto mi
sarebbe piaciuto abbandonare quella guerra, essendo un semplice
Alchimista di
Stato non potevo
permettermi di
prendere decisioni che non spettavano a me, avendo un semplice grado
equivalente appena a Maggiore.
«Con la testa fra le mani e lo
sguardo basso, non degnandolo nemmeno
d’un’occhiata, mi limitai dunque a
chiedere “Puoi aspettare trenta secondi?”
«Era un desiderio abbastanza
sciocco dopo tutto ciò che avevamo passato fino a quel
momento, ma lo sentii
dire “Solo trenta secondi”, e li fece passare
davvero. Per quanto quella mia
richiesta potesse sembrare assurda, lui prese
l’orologio dal taschino e
controllò attentamente la lancetta, attendendo che quei
trenta secondi che
avevo richiesto passassero.
«Quel mezzo minuto che ero
riuscito a farmi concedere mi sembrò il più lungo
che avessi mai vissuto, in
quell’istante. L’ansia che provai mentre
riflettevo fu così sottile che
fui quasi certo di poterla toccare, di carezzarla con le dita senza
poterla stringere davvero, di sentirla scivolare con lentezza
lungo la
pelle mentre lo sguardo si perdeva verso punti remoti che in
realtà non vedevo.
Cercavo di farmi forza, di provare a convincere me stesso che compivo
quelle
azioni per una pura e semplice ragione, come Maes stesso aveva
affermato
pochissimi giorni addietro. Quando gli avevo chiesto il motivo per cui
combatteva, sai cosa mi rispose? “É semplice: non
voglio morire. Ecco perché.
La ragione è sempre semplice, Roy [6]”.
E forse, a
rifletterci adesso, a quei tempi
non aveva tutti i torti.
«I miei pensieri furono
interrotti
proprio dalla voce di Hughes “I trenta secondi sono
passati”, si fece sentire, e, anche se non alzai lo sguardo,
io sentii i suoi occhi verdi
su di me, divenuti in quel momento un peso insostenibile.
“Alzati,
Alchimista di Fuoco. É
tempo di lavorare”.
«Socchiusi gli occhi, come
se mi stessi ancora preparando psicologicamente a quel nuovo giorno che
avremmo
affrontato, riaprendoli immediatamente prima di decidermi a
rialzarmi in
piedi. Indossai i miei guanti spinto solo dalla consapevolezza che, se
non fossi
stato io ad attaccare per primo, sarei semplicemente morto.
“É
l’ora della
guerra”».
[1]
Citazione tratta dal
manga.
Volume quindici, capitolo
cinquantanove: “Gli Alchimisti corrotti”.
[2]
La
frase
reciterebbe “Posso credere in un futuro dove tutti vivono
felicemente?” e “Anche
se ho continuato a crederci... perché siamo dovuti arrivare
a questo?”,
entrambe citazioni tratte dal manga.
Volume quindici, capitolo
sessanta: “Assenza di Dio”.
[3]
La
frase in realtà
reciterebbe “Perché quello è
l’ordine che devono eseguire”, ed è una
citazione
tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo
sessanta: “Assenza di Dio”.
[4]
Citazione
tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo
cinquantanove e capitolo sessanta: “Gli Alchimisti
corrotti” e “Assenza di Dio”.
[5]
Citazione
tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo
cinquantanove: “Gli Alchimisti corrotti”.
[6]
Citazione
tratta
dal manga.
Volume quindici, capitolo
sessanta: “Assenza di Dio”.
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** [ Epilogue › Central City, 1919 ] After the rain ***
Please, take me out of here_5
In mia difesa, cosa
c’è da dire?
Tutti gli errori che
abbiamo fatto
devono essere
affrontati oggi.
Non è facile
ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
05. EPILOGUE
› CENTRAL
CITY, 1919
AFTER THE
RAIN
«Il
resto credo che tu lo sappia», conclusi, sentendo
sempre più debole il
ticchettio delle gocce di pioggia contro la finestra, sopraffatto
da
quello dell’orologio a pendolo appeso sulla parete dietro di
noi, accanto ad
una delle librerie.
Edward appariva un po’ rigido,
lì seduto sul divano, ma fu con una certa compostezza che
tornò a fissarmi dritto negli occhi. «Dai racconti
del Tenente
Hawkeye ero preparato
ad una cosa simile, ma... sentirlo fa comunque un certo
effetto», ammise, e
dovetti fargliene atto. Se era scosso quasi quanto me che avevo
raccontato, lo
dava a vedere ben poco. Quel che era certo, era che non era un ragazzo
che
restava impassibile dinanzi a cose del genere, dato ciò che
aveva vissuto sin
da bambino. «Mi parlò dell’obiettivo che
ti
eri prefissato, delle tue intenzioni, persino del tuo voler mettere
fine a
tutte le guerre che logoravano e logorano tuttora Amestris»,
continuò, serrando
i pugni sulle cosce. «Mi ha persino posto il caso che, se il
potere tornasse in
mano al parlamento, le cose non sarebbero più come adesso e
l’istituzione degli
Alchimisti di Stato verrebbe abolita». Si interruppe per una
frazione di
secondo, come se stesse riprendendo fiato; quando
ricominciò, il suo tono
cambiò
e mi sembrò che fosse divenuto basso e sconnesso.
«Se dovesse succedere,
voi non verrete più considerati eroi di guerra, ma dei
comuni assassini di
massa».
Mi meravigliai che Riza
gli avesse detto quelle cose, ma tutto ciò che feci fu
semplicemente annuire. «Questo
lo so».
«E nonostante tu lo sappia...
vuoi
comunque cercare di diventare Comandante Supremo, conscio che
ciò sarebbe
come
suicidarsi? [1]»
mi domandò senza tanti giri di parole
o peli sulla lingua, e non
seppi cosa mi diede la forza di continuare ad osservare quei suoi occhi
dorati,
così infervorati che sembravano ardere come la prima volta
che ci incontrammo.
Potevo benissimo avvertire la
tensione che si era impossessata dei suoi arti, la rabbia che ribolliva
per la
consapevolezza che non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo; vedevo
l’agitazione che lo animava, e mi sembrava di poter
sentire il battito
furioso del suo cuore contro la sua gabbia toracica. Ma per quanti
sforzi facessi per cercare le
parole
adatte, in modo che potessi rassicurarlo, non riuscivo a trovarne
nemmeno una.
«La mia vita non vale
più di
quella delle persone che ho ingiustamente ucciso, Acciaio»,
dissi
infine con un
sospiro; gli sfiorai appena un braccio, sentendolo irrigidirsi prima di
allontanarsi.
«Ma non è neanche
giusto che tu
la sacrifichi in questo modo!» esclamò fuori di
sé, e dovetti sporgermi verso
di lui per poggiargli un dito sulle labbra, nel vano tentativo di
calmarlo ed evitare che le sue urla svegliassero qualche vicino. Me
lo allontanò di scatto, come se non volesse sentir
ragioni, e io sospirai.
«Morire nel tentativo
di rendere Amestris una Nazione pacifica non servirebbe ad espiare le
mie
colpe, questo lo so bene», rimbeccai, vedendo il suo petto
alzarsi ed
abbassarsi a ritmi irregolari, quasi stesse cercando di
tranquillizzarsi
senza successo. «Ma starmene con le mani in mano mentre
queste guerre
continuano, crogiolandomi nelle onorificenze che mi hanno conferito per
quello
che è stato solo un massacro, sarebbe anche peggio. Non
voglio mai più che ciò
che è successo ad Ishvar si ripeta. Mai
più», mi feci un po’
più
vicino a lui,
poggiandogli entrambe le mani sulle spalle prima di farle scivolare
lungo i
suoi
avambracci, fermandomi in prossimità dei polsi e carezzando
appena quello
d’acciaio. «Men che mai voglio che sia tu a
ritrovarti in una carneficina del
genere. Forse potrà sembrarti ingiusto, ma non posso
calpestare l’unico vero
ideale che è rimasto del Roy Mustang che ero stato prima di
quella guerra», ciò
detto, lo lasciai andare, non sentendo necessario aggiungere
qualcos’altro.
Avevo detto ciò che mi ero
sentito di dire, stava a lui, adesso, comportarsi da persona matura e
comprenderlo. Non agivo per un mio tornaconto personale e mai
l’avrei fatto,
e, pur sapendo a cosa andavo incontro, avrei continuato a camminare su
quella strada che io stesso mi ero scelto.
«Sei uno stupido»,
pigolò Acciaio a sguardo chino, come se in quel momento
trovasse molto
più
interessante il pavimento del salotto. «Uno stupido idealista
figlio di puttana»,
soggiunse con lo stesso tono basso ed incrinato, e capii che si
stava
agitando proprio dal modo in cui aveva cominciato a parlare.
«Vedi di
raggiungere il tuo obiettivo senza farti ammazzare e riporta il culo in
salvo, se
non vuoi che sia io a farti fuori».
Nonostante tutto, non potei
fare a meno di sorridere sincero. Anche se il
più delle volte i
suoi modi di fare erano
rozzi e
senza tatto, quello era il suo modo per
far capire quanto
in realtà ci tenesse a me e alla mia incolumità.
Bizzarro, forse, ma non
sarebbe stato Edward Elric, altrimenti. Mi avvicinai ancora un
po’ e gli passai un braccio intorno alle spalle con fare
rassicurante,
poggiandogli un lieve bacio sul capo. Quella era una delle poche -
anzi,
pochissime - cose che potevo permettermi senza che cominciasse a
strepitare, a
ben pensarci. «Farò del mio meglio
perché questo accada», risposi, e mai come
in quel momento le mie parole furono sincere e veritiere.
Edward alzò lo
sguardo per incrociare ancora una volta i miei occhi, ed ebbi appena il
tempo
di scorgere all’interno di quelle polle dorate lo scintillio
di qualcosa prima
che mi fissasse con rabbia, atta a mascherare la sua
preoccupazione. «Lo
spero per te», volle avere l’ultima parola,
concedendosi il lusso di
poggiare il capo contro la mia spalla. In altri momenti non
l’avrebbe mai
fatto, dunque la conversazione l’aveva scosso
particolarmente. Ma non gli
chiesi nulla né dissi niente, lasciando solo che il tempo
facesse il suo corso.
Quando sembrò un po’
più calmo e rassicurato, Acciaio si allontanò,
senza che io lo costringessi a
tornare al mio fianco. Ognuno dei due aveva i suoi spazi e sapevamo
quando
potevamo invaderli. E a me stava bene così.
Controllai distrattamente
l’ora, picchiettandomi le mani sulle cosce prima di alzarmi
in piedi e scoccare
una rapida occhiata al mio compagno. «Si è fatto
abbastanza tardi, ci conviene
andare a riposare».
Acciaio ricambiò il mio
sguardo e adocchiò a propria volta il quadrante
dell’orologio, tornando a guardare me.
«Se vogliamo
arrivare svegli a lavoro ci converrebbe, già»,
sembrò ironizzare,
alzandosi. Mi fece giusto segno di seguirlo con un breve
cenno del
capo, cominciando ad avviarsi da solo verso quella che era ormai
diventata la
nostra camera da letto.
Io mi intrattenni ancora un
po’
lì in salotto, ficcandomi le mani nelle tasche. Abbassai lo
sguardo sui tomi
che avevamo abbandonato sul divano prima che cominciassi quel mio
racconto,
traendo un lungo sospiro e scuotendo subito dopo il capo.
Forse
parlarne con lui era stato come togliersi un peso, ancora non riuscivo
a capire
con certezza come mi sentissi. Probabilmente, la verità era
che
dentro di me sentivo che quella guerra non era finita e mai lo sarebbe
stata.
Ma dovevo solo attendere, ogni singolo giorno,
l’approssimarsi di una nuova alba.
«Non importa quanto
in alto dovrò salire per proteggere le persone che amo.
Con queste mie stesse
mani, seppellendo il passato e tutti i suoi errori, proverò
a costruire il
futuro».
PLEASE, TAKE ME OUT OF HERE
FINE
_Note
conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
In
realtà
non avrei voluto postare questa storia qui su EFP, visto il mio
abbandono del fandom su questo sito. Sto difatti scrivendo per conto
mio, da un po' di tempo, ma questo è un discorso a parte. Ho
deciso di pubblicare soltanto perché ha
partecipato ad un contest, e devo dire che, sebbene non la consideri
uno dei miei lavori migliori, scriverla è stata davvero un
piacere. C'erano momenti in cui restavo incollata al Pc fin quando non
arrivavo ad un punto abbastanza significativo, ed è proprio
per
questo motivo che mi sento piuttosto attaccata a questa storia, quasi
quanto lo fui per la cara e vecchia Stand
by me.
Bando alle ciance e via con le precisazioni, adesso, visto che
è più che doveroso farle: questa storia
è stata
scritta per il contest indetto da Himechan84,
“Queen
Contest”,
e si è classificata, con
mio grandissimo stupore, Seconda
vincendo il Premio
Giuria. Non doveva nemmeno essere
così, lo ammetto
spudoratamente.
Al principio lo svolgimento che avrebbe dovuto seguire era ben altro,
ma non mi convinceva per niente e ogni volta che aprivo il file che
conteneva quell'orrore mi veniva voglia di cestinarlo. E'
così, dunque, che è nata la versione che avete
appena
finito di leggere. E, ad essere sincera, mi convince molto di
più della prima stesura.
Passiamo adesso a qualche spiegazione: il
titolo della storia trae origine da una doujinshi di
Ninekoks che adoro, il cui nome completo è “Hana
to Tekka”, ovvero “Fiori
e spari”. Ho scelto poi di stendere
la
storia in questo modo perché in un momento di follia, dovuto
forse al trenta
dicembre - momento in cui mi sono resa conto che la storia poteva dare
di più e
che sarebbe dunque stato meglio ripartire da zero - mi è
tornata in mente la
stesura di “Intervista con vampiro” di Anne Rice.
Ho dunque fatto in modo che
la storia venisse raccontata da Roy, senza che si trattasse di uno
svolgimento
sul momento ma più che altro di una specie di flashback.
La narrazione di Roy si
colloca durante il volume quindici, dove viene raccontato il massacro
di
Ishvar, per l'appunto, e nel capitolo quattro si
chiude poi, più o meno, con la
side story non
presente nel manga, “His battlefield continue”.
Come fosse iniziata la
relazione fra Edward e Roy non l'ho ritenuto importante ai fini della
storia
ma, in tal caso, potrebbe anche collocarsi in un momento indefinito tra
“One
day, who knows [For now, nothing else matters]” o
dopo “Strange
Love
Story [Il nostro inizio]” presente nella raccolta
“Heart
Burst
Into Fire”.
Non ho altro da dire, adesso, dato che credo d'aver detto tutto
ciò che era necessario. Grazie infinite ai commentatori, a
chiunque abbia letto o solo seguito,
e grazie ad Hime per aver indetto il contest. ♥
Qui di seguito il commento della giudice:
- Grammatica e
sintassi: 10/10
- Originalità: 9,5/10
- Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
- Stile: 10/10
- Gradimento personale: 5/5
- Utilizzo della citazione: 5/5
- Totale: 49,5/50
Punto primo: io odio il pc. Voglio dire, ti avevo
scritto una
recensione-valutazione-papiro, entusiasta, scritta a caldo subito dopo
aver letto sia la tua fic per il contest, sia Zankyou,
Kieru Made, per
capire di più sul massacro di Ishvar, la salvo tutta
soddisfatta, e quando oggi vado a riaprire il documento…
puff
scomparsa nel nulla. Cercherò
allora di
rimettere in fila le sensazioni che la tua splendida storia mi ha dato,
ma non sarà semplice. Innanzitutto è stato molto
toccante
leggere di un Roy così intimo, privato, nel suo rievocare
quella
che in realtà non è stata una guerra, ma un vero
e
proprio massacro civile, un racconto intenso, incalzante, anche se
fortunatamente la tensione a tratti viene smorzata da quel fagiolino
biondo (termine che ho letteralmente adorato, e a proposito, non so
perché ma le chiacchierate tra Roy e Ed hanno qualcosa di
così pacifico e rilassante che danno davvero un senso di
quiete
e tranquillità). Un racconto dalle tinte drammatiche, ben
documentato e ben scritto, straordinariamente universale purtroppo per
qualunque conflitto: hai descritto un Roy splendido, profondamente
tormentato dal dover eseguire gli ordini ad ogni costo, dal rimorso
dell’Alchimista di Fuoco di utilizzare il proprio potere per
uno
scopo nefando, e nonostante tutto la speranza e il conforto che Ed gli
da e che gli permettono, malgrado gli errori terribili del passato di
cui si è macchiato, di costruire il proprio futuro,
nonostante
la sua guerra personale, la guerra con il proprio animo con i propri
tormenti interiori e con le proprie angosce non si sia mai placata.
Inutile che ti dica quanto il tuo stile mi piace: in ogni cosa che
scrivi si sente la cura dei dettagli, dei particolari, e ogni
personaggio è vivo e reale. Sono contenta che in un certo
senso
questo contest ti abbia spronato a tornare a scrivere, credo che tu sia
una delle autrici più in gamba che abbia letto in Efp.
I miei complimenti cara!
SECONDA CLASSIFICATA CON PREMIO
GIURIA
[1]
Questa non
è esattamente una citazione tratta dal manga,
ma è il richiamo
ad un discorso avvenuto in esso tra Edward e Riza.
Più precisamente si tratta
del volume sedici, capitolo sessantadue: “Al di là
del sogno”.
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=641265
|