Please, take me out of here

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Prologue › Central City, 1919 ] Uncomfortable Night ***
Capitolo 2: *** [ Cut #01 › Ishvar Area, 1908 ] Somewhere in Gunja District ***
Capitolo 3: *** [ Cut #02 › Ishvar Area, 1908 ] Memories and flames ***
Capitolo 4: *** [ Cut #03 › Ishvar Area, 1908 ] Fearless and sorrow ***
Capitolo 5: *** [ Epilogue › Central City, 1919 ] After the rain ***



Capitolo 1
*** [ Prologue › Central City, 1919 ] Uncomfortable Night ***


Please, take me out of here_1
[ Seconda classificata e vincitrice del Premio Giuria al «Queen Contest» indetto da Himechan84 ]

Titolo:
Please, take me out of here
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Citazione:In my defence” Queen
Tipologia: One-shot suddivisa in cinque sottosezioni
[ 13.005 parole [info]fiumidiparole ]
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale, Guerra, Vagamente Introspettivo
Characters: Roy Mustang, Edward Elric, Riza Hawkeye, Maes Hughes, Un po’ tutti
Pairing: Roy/Ed, HyuRoy e Royai ad interpretazione piuttosto personale
Avvertimenti: Shounen ai, Probabilmente non per stomaci delicati, Spoiler del volume quindici, del Gaiden Blue e del Character Guide Book, What if?
Rating: Arancione 
Introduzione: Era piombato nella mia vita come una vera e propria tempesta, facendo sì che, con la sua strana esuberanza e il suo temperamento tutt’altro che mite, tornassi a poco a poco il Roy Mustang sognatore che ero stato all’età di sedici anni. Edward era stato come una panacea, per me, una panacea che aveva lenito le ferite della mia anima.


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved. 

In mia difesa, cosa c’è da dire?
Tutti gli errori che abbiamo fatto devono essere affrontati oggi.
Non è facile ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
 

01. PROLOGUE › CENTRAL CITY, 1919
UNCOMFORTABLE NIGHT
 
    Era una fredda sera d’inizio gennaio, una di quelle in cui si preferiva restare a casa sul divano con una tazza fumante di cioccolato caldo e un bel libro interessante come compagnia.
    Ero tornato da lavoro da poco più di un’ora, lasciandomi alle spalle quella stressante giornata passata a firmare scartoffie per godermi quei pochi momenti di riposo che potevo permettermi. Mi ero munito di un bicchiere di latte caldo - con disappunto di un bisbetico fagiolino biondo, c’era da aggiungere - macchiato con del caffè e avevo recuperato uno di quei tomi pesanti e soporiferi che tenevo stipati nella mia biblioteca, andando in soggiorno per accomodarmi accanto al mio compagno; aveva alzato solo di poco il naso dalle pagine per degnarmi un’occhiata e, nonostante l’espressione disgustata che gli si era dipinta in viso alla vista di quel liquido biancastro, come tanto soleva chiamarlo lui, si era ritrovato a farsi un po’ più vicino per poggiarsi contro la mia spalla e riprendere a leggere come se nulla fosse. Avevo sbuffato ilare, concentrandomi a mia volta sulla lettura e godendo al tempo stesso di quella calda vicinanza.
    In realtà veniva quasi da chiedere come io, il più grande donnaiolo d’Amestris, mi affrettassi ogni sacrosanta giornata a tornare il prima possibile da quel biondino che avevo al mio fianco: Edward Elric. Era stata una sorpresa anche per me, ad esser sincero. Se prima di capire che quella bizzarra sensazione era amore, mi avessero detto che avrei perso la testa per un ragazzo - un ragazzo, per la miseria! - alto un metro e un tappo, avrei di sicuro riso in faccia a quel malcapitato e avrei organizzato un appuntamento con una bella donna avvenente e tutta curve. Eppure era esattamente quello che era successo. Così, senza accorgercene pienamente nemmeno noi. E questa cosa andava avanti da quasi un anno e tre mesi. Avevamo sì i nostri alti e bassi, le tensioni comuni in tutte le coppie, e non mancavano di certo i momenti in cui l’uno voleva per forza avere la meglio sull’altro in una discussione, ma in fin dei conti, fino a quel momento, ce l’eravamo cavata abbastanza bene. Forse l’unica cosa che andava davvero a gonfie vele era proprio il sesso, chi poteva dirlo. Avevo scoperto che l’unico modo per farlo smettere di strepitare, durante un acceso dibattito, era proprio quello di tappargli la bocca con un bacio e sfruttare l’adrenalina della litigata per guidare quell’energia in tutt’altra direzione, e quel tipo di discussione lo trovavamo piacevole entrambi, almeno.
    «Certo che è strano», disse d’un tratto Acciaio, risvegliandomi dai miei pensieri e interrompendo la propria lettura. Quella era una cosa che succedeva raramente quando un libro lo appassionava davvero, così gli scoccai una rapida occhiata prima di sollevare un sopracciglio, vedendo il suo viso rivolto verso di me.
    «Che cosa?» domandai di riflesso, e forse anche per un motivo abbastanza lecito. Magari
su quel vecchio libro aveva letto qualcosa che l’aveva fatto diventare pensoso, ma per un qualche strano motivo ne dubitavo.
    Si allontanò da me per mettersi seduto e, scrollando le spalle, tornò a guardarmi seriamente. «Di te non so quasi nulla, ma tu, di me, sai anche troppo».
    Sbattei le palpebre. «Non so come ti sia potuta venire in mente una cosa del genere, ma dire che di me non sai niente è un po’ come mentire, sai?» lo presi in giro, ricevendo da lui un’occhiataccia.
    «So qual è il tuo cibo preferito, quale libro adori più di tutti gli altri, so persino quanto tempo stai al bagno - e, diavolo, ci stai un
eternità! -, ma non so assolutamente niente del tuo passato o della tua famiglia», arrivò dritto al punto, senza girarci intorno e lasciandomi basito. Dato il suo passato, non era tipo da interessarsi a cose del genere, anzi, fino a quel momento non era sembrato un argomento da prendere in considerazione a nessuno dei due. A me bastava quel che già sapevo di lui, giacché lo conoscevo quasi da nove anni. Era piombato nella mia vita come una vera e propria tempesta, facendo sì che, con la sua strana esuberanza e il suo temperamento tutt’altro che mite, tornassi a poco a poco il Roy Mustang sognatore che ero stato all’età di sedici anni. Edward era stato come una panacea, per me, una panacea che aveva lenito le ferite della mia anima ed estirpato la grigia monotonia che era diventata la mia esistenza dopo la guerra. Quella sua curiosità di voler conoscere il mio passato, quindi, non riuscivo proprio a capirla.
    Mi massaggiai una tempia con due dita, abbandonando un braccio dietro lo schienale del divano. «Non ne vedo la necessità», replicai, non volendone parlare. L’ultima cosa che volevo, in fin dei conti, era che la mia infanzia potesse in qualche modo ricordargli in parte la sua. Non eravamo stati fortunati, su quel fronte.
    «La vedo io», ribatté immediatamente, cominciando a comportarsi proprio come quando pretendeva qualcosa. Quel suo lato infantile lo odiavo terribilmente, dovevo ammetterlo. «Chiamami pure egoista, ma io la ritengo una cosa importante».
    Sospirai pesantemente, sentendomi intrappolato. In fin dei conti dirglielo non mi sarebbe costato nulla, ma non parlavo molto volentieri del mio passato. Non mi era mai piaciuto farlo, ma sapevo bene che, quando quel fagiolino si metteva in testa qualcosa, faceva letteralmente di tutto per ottenerlo. «Non c’è molto da dire», confessai infine. «Sono andato a vivere con mia zia Christina all’età di quattro anni, esattamente poco dopo la morte dei miei genitori».
    Cadde un sottile strato di silenzio, dopo quelle mie parole. Uno di quei silenzi imbarazzanti che non si sapeva mai come poter rompere, sebbene quello fosse quasi carico d’attesa, ansia e d’un qualcosa che non riuscivo ancora a definire bene. Sofferenza? Compassione? O quella sensazione che sentivo era più la consapevolezza di chi aveva vissuto sulla propria pelle un’esperienza simile?
    «Mi dispiace», sussurrò pochi istanti dopo. «Non sapevo che... i tuoi genitori...»
    «Non importa», mi affrettai a bloccarlo, forse cogliendo la nota addolorata che si dipinse nei suoi occhi dorati. Esattamente come avevo immaginato, sapere che i miei genitori non erano più in vita gli aveva riportato alla mente la sua famiglia. Sua madre morta, il padre disperso chissà dove... chi gli restava, almeno della sua famiglia di sangue, era soltanto Alphonse.
    «Nay, non avrei dovuto nemmeno chiedertelo», insistette, abbassando lo sguardo sul proprio libro come se volesse provare a riconcentrarsi su di esso per lasciarsi alle spalle quella conversazione. Si vedeva lontano un miglio, però, che faticava parecchio a leggere.
    «Acciaio», lo richiamai, utilizzando il suo nome d’alchimista più per abitudine che per altro, dato il momento. «Ti ho detto che non importa, davvero. Tu come mille altri non potevi saperlo. Non mi piace particolarmente parlare della mia infanzia, anche perché non sono molte le cose che ricordo con chiarezza e sono altrettanto pochi gli oggetti che ho conservati. Non ho loro fotografie, quindi ricordo vagamente il volto di mia madre... e, se cercassi di sforzarmi a rammentare la sua voce, non ci riuscirei. Per quanto riguarda mio padre, ricordo solo che era sempre di buon umore e mi portava continuamente sulle spalle, quando uscivamo tutti e tre insieme». Sorrisi con una punta di nostalgia, perdendomi un po’ nei ricordi. Mia zia Christina, più comunemente conosciuta come Madame Christmas, durante i primi anni di convivenza mi parlava di continuo dei miei genitori, come se volesse aiutarmi a non dimenticarli. «Per la mia età non ero un bambino molto alto, e quando mi prendeva in braccio e mi sistemava sulle sue spalle ero... felice. Mi sentivo il re del mondo
 [1]».
    Restammo ancora una volta in religioso silenzio, probabilmente ognuno perso nei propri reconditi pensieri. Ciò che avevo appena espresso a parole non l’avevo mai confessato a nessuno, come se fosse uno di quei pochi ricordi che conservavo gelosamente nel mio animo. Nemmeno a Maes ne avevo mai parlato, né tanto meno a Riza, che conoscevo da molto più tempo. Forse mi aveva spinto a farlo il semplice fatto che, in qualche modo, Edward ed io eravamo molto più simili di quanto non sembrassimo; probabilmente la questione principale era quella, oltre il fatto che, ormai, era divenuto il mio compagno, la persona con la quale aveva deciso di dividere il resto della mia vita. Se dunque non ero sincero con lui, con chi mai avrei potuto esserlo?
    A rompere per primo quella quiete che ci aveva avvolto, fu nuovamente Acciaio, il quale si stava massaggiando distratto la spalla sinistra, come se fosse a disagio. «Non pensavo che anche la tua infanzia non fosse stata delle migliori», disse, evitando di guardarmi. «Conoscendoti, si fa quasi fatica a crederlo, specialmente con quella faccia da Colonnello di merda che ti ritrovi». A quel suo dire aprii la bocca per ribattere, ma lui sembrò affrettarsi a continuare per non permettermi di dire qualcosa. «Mi spiace per i tuoi genitori, ma forse non è questo ciò che vorresti sentirti dire». Mi fissò seriamente, guardandomi con i suoi grandi occhi d’ambra. Vi scorsi il mio riflesso e potei benissimo intravedere la sfumatura nostalgica che mi si era dipinta in viso. Avevo davvero quell
espressione da cane bastonato? «Dev’essere stato difficile».
    Non seppi cosa dirgli e si fece largo nella mia mente il pensiero di liquidare la faccenda con un semplice “Il passato è passato”, scrollando magari anche le spalle. Con mio grande stupore, però, annuii automaticamente. «Lo è stato», ammisi. «Ma mia zia mi era sempre vicino. Cercava di accontentarmi il più possibile, seguendomi anche quando non avrebbe potuto a causa del lavoro. Ed è stata lei a spronarmi affinché continuassi a coltivare la mia passione per l’alchimia, visto che avevo quasi deciso di abbandonarla una volta per tutte».
    «Dov’è tua zia?» mi domandò, e nella sua voce colsi un velo di timore, come se avesse paura d’aver chiesto una cosa sbagliata, ma sorrisi e gli diedi una pacca su una spalla.
    «Sta bene, se ti stai chiedendo questo. Anzi, direi che sta alla grande. Forse sta persino meglio di me», lo rassicurai ilare per alleggerire la tensione che si era creata fra noi, e mi parve di sentire un suo breve sospiro di sollievo.
    Non mi domandò nient’altro su quell
’argomento, ma il modo in cui tornò a fissarmi non prometteva nulla di buono. «Te la sentiresti di parlarmi di Ishvar, adesso?» mi chiese difatti senza tanti giri di parole.
    Socchiusi gli occhi e sbuffai sonoramente, lasciandomi sfuggire un mezzo lamento. Sapevo che, prima o poi o in un modo o nell’altro, quel discorso sarebbe sbucato fuori. Avevo sperato di scamparmela, ma non era stato per niente così. «Mi sembrava che il Tenente te ne avesse parlato abbastanza».
    «So solo la sua versione dei fatti», mi tenne presente, sollevando un sopracciglio prima di tornare a squadrarmi con somma attenzione, come se pendesse dalle mie labbra nonostante non avessi ancora cominciato a parlare.
    Lo guardai anch’io per un lunghissimo istante, e fui quasi tentato di alzarmi dal divano e di lasciarlo lì per infilarmi sotto il piumone e sotterrare quel discorso una volta per tutte, facendo bellamente finta di niente; ma quel mio gesto sarebbe equivalso a scappare, e sapevo fin troppo bene che quel fagiolino biondo non si sarebbe mai arreso così facilmente. Quando s’impuntava su una cosa, difatti, era piuttosto difficile farlo smuovere.
    Trassi un lungo sospiro e abbandonai il libro sulle cosce, guardando dritto dinanzi a me, come se la cosa potesse aiutarmi ad addentrarmi ancora una volta in quelle settimane piene d’orrore. «Chiudi anche tu quel libro e resta ad ascoltare, allora. Sarà una storia piuttosto lunga, da raccontare».





[1] Anche se vista singolarmente quest’espressione può apparentemente non avere nulla di così eclatante, una volta spiegato il significato appare chiaro anche il motivo per cui l’ho scelta. Il nome “Roy” deriva dal vecchio francese “Roi”, il cui significato è per l’appunto “Re”. Come quasi tutti i restanti militari del manga, poi, il suo cognome è preso dal “North American P-51 Mustang”, uno dei più versatili caccia americani durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ricorda anche un termine militare slang con cui si indicherebbe un soldato che ha velocemente fatto carriera sul campo di battaglia o che ha guadagnato in fretta medaglie e onorificenze; si basa anche sul Mustang, cavallo noto per la sua indole selvaggia anche dopo essere stato domato e per la spiccata intelligenza e maggior istinto di sopravvivenza. Indi per cui, Roy è un
mustang a tutti gli effetti.



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Capitolo 2
*** [ Cut #01 › Ishvar Area, 1908 ] Somewhere in Gunja District ***


Please, take me out of here_2
In mia difesa, cosa c’è da dire?
Tutti gli errori che abbiamo fatto devono essere affrontati oggi.
Non è facile ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
 

02. CUT #01 › ISHVAR AREA, 1908
SOMEWHERE IN GUNJA DISTRICT
 
    «Eravamo lì al fronte da non più di pochi giorni», cominciai, senza voler incrociare in nessun modo lo sguardo di Edward. Sentivo che, se l
avessi fatto, non sarei riuscito ad andare avanti, come se potessi turbarlo a tal punto da cambiare l’opinione che aveva di me. Era una paura stupida e infondata, ma si era insidiata nella mia mente e non aveva la benché minima intenzione di lasciarmi in pace. «Durante la notte, il silenzio era così assordante che riuscivo a sentire distintamente il pulsare del sangue nelle orecchie, ed era una sensazione tutt’altro che gradevole, sebbene la preferissi di gran lunga alle continue esplosioni che più e più volte mi ronzavano ancora nei timpani anche ad ore di distanza. Sulle labbra, certe volte, mi sembrava persino di avvertire ancora il sapore appiccicoso del grasso umano che bruciava, e il puzzo di cadaveri e cenere che permeava l’aria diveniva asfissiante man mano che il tempo passava.
    «Era la quarta sera o quinta sera, credo, e mi trovavo seduto sulle macerie di una delle tante case diroccate, non molto lontano dall’accampamento provvisorio che avevamo allestito nel distretto di Gunja, conquistato quel pomeriggio stesso
». Mi grattai una tempia con fare pensoso, aggrottando un po’ la fronte per sforzarmi di rammentare ogni particolare. «Tutto taceva, questo lo ricordo bene, e quella quiete così irreale rendeva quella tregua ancor più ansiosa. L’attacco sarebbe ricominciato alle prime luci dell’alba, non appena il sole avrebbe iniziato a far capolino oltre le dune di sabbia, e da dove mi trovavo mi sembrava che tutti, nessuno escluso, si stessero preparando all’offensiva sin da quel momento. E forse era proprio per quel motivo che mi ero allontanato per cercare la solitudine, così da avere qualche momento per ripensare a quello che, in quei pochi miseri giorni in cui mi ero ritrovato al fronte, avevo fatto».
    Mi fermai per riprendere fiato, attendendo che Acciaio recepisse tutto ciò che avevo detto fino a quel momento. In realtà non avrei voluto per niente ricordare quei giorni angoscianti, giorni in cui tutto quello che avevo fatto era stato bruciare qualsiasi persona vedessi ancora in vita, che si trattasse di guerriglieri, donne, anziani o bambini. Ma, man mano che ne parlavo con lui, mi sembrava di rivedermi ancora lì seduto, con la testa fra le mani e le palpebre abbassate, mentre dinanzi agli occhi mi scorrevano tutte le vite che avevo spento con un semplice schiocco di dita.
    «Non sapevo perché mi comportassi così, al principio», ripresi, sentendo soltanto gli occhi di Edward fissi su di me, come se aspettasse il termine del mio racconto per poter dire qualcosa. E non lo feci attendere molto, ricominciando non appena mi sentii io stesso pronto a farlo. «Ero consapevole del fatto che ciò che stavamo facendo era sbagliato, lo sapevo allora come lo so tutt’oggi, però c’erano comunque quei momenti in cui desideravo di farla finita da solo o disertare, così da porre fine a tutto», ebbi il coraggio di gettargli un’occhiata, sollevando le labbra in un falso sorriso prima di continuare. «Ma non fraintendermi, Ed, non cercavo affatto un modo per espiare le mie colpe, in quel modo. Non cercavo nemmeno commiserazione per me stesso.
So fin troppo bene che tutte le parole di questo mondo non sarebbero servite in mia difesa, date le numerose vite che ho continuato a spegnere. Se avessi provato a giustificare quel massacro o a tentare di rendere quei miei gesti confacenti ad un qualche bene superiore, sarei stato soltanto un ipocrita, ne sono consapevole. Sapevamo tutti che quella in cui ci eravamo ritrovati era una carneficina e non una guerra.
    «Ogni qual volta mi guardavo le mani - aye, Ed, quelle stesse mani che stai fissando adesso», soggiunsi, essendomi accorto dell’occhiata che mi aveva gettato di sfuggita. Si affrettò a distogliere lo sguardo, come un bambino beccato dal padre a fare una marachella.
    «Scusa, continua», bofonchiò, adagiando la schiena contro il divano prima di farmi un rapido cenno, come se volesse spronarmi a parlare ancora.
    Potevo ben capire il suo lieve ed impercettibile disagio, sebbene sapesse benissimo che parlarne era difficile anche per me. Non gli dissi dunque nulla, riprendendo semplicemente come se quella che stavano affrontando fosse una piacevole conversazione dinanzi ad una tazza di the. «Mi guardavo le mani, dicevo
», ricominciai, abbassando lo sguardo sui palmi aperti, «e non vedevo più le mani di un ragazzino sognatore che sperava di poter rendere il mondo un posto migliore. Vedevo solo le mani di un assassino. Nonostante non mi trovassi mai al centro di un conflitto a fuoco e non fossi obbligato ad utilizzare la mia pistola, mi sembrava sempre che le mie mani fossero sporche di sangue. E forse, metaforicamente, era davvero così.
    Sollevai lo sguardo verso il soffitto, fissando intensamente la piccola macchia di umidità che c
era tra lo scaffale dei libri e la finestra allangolo della stanza, pensoso. «Sai, una volta Riza mi disse che aveva deciso di adempiere al proprio dovere utilizzando un’arma da fuoco perché, diversamente da quelle bianche, quest’ultima non lascia la sensazione d’aver ucciso il nemico con le proprie mani [1]. Anche se in quel modo sapeva di mentire a se stessa, era la strada che aveva deciso di percorrere a differenza di me. Potendo usufruire del potere del fuoco, l’arma che utilizzavo ero io stesso.
    «E ogni volta che mi ritrovavo a fare i conti con quella consapevolezza, mi guardavo le mani, fissando con disappunto - nay, forse sarebbe più giusto dire con orrore - i guanti ormai logori e consumati che indossavo. Non puoi immaginare quante volte avessi l’impulso di toglierli e di gettarli via disgustato
», confessai, storcendo il naso in una smorfia, «ma la ragione prevaleva sempre su quel mio malsano desiderio. Se l’avessi fatto, non avrei avuto con me nessun’arma abbastanza rapida per poter affrontare un eventuale nemico che si fosse presentato. Ma anche liberarmene non sarebbe servito a lavar via le colpe di cui mi ero così rapidamente macchiato, quindi sarebbe stato pressoché inutile. Quando avevo indossato la divisa, avevo ben immaginato a cosa sarei andato incontro, e persino uno dei tanti alchimisti lì presenti, Zolf J. Kimblee, non aveva mancato di ricordarmelo».
    «Kimblee», ripeté Edward, masticando quel nome come se non gli piacesse per niente. Lo conosceva, aye, ma non sapevo in quali occasioni l’avesse incontrato. Mi aveva vagamente raccontato di Briggs, di quando si era ritrovato nel Nord e aveva scoperto esserci anche lui e qualche cosa sporadica di quanto era successo, ma nulla più.
    Abbozzai una specie di sorriso, traendo un altro lungo sospiro prima di ritrovarmi a volgere lo sguardo verso la finestra. Aveva cominciato a piovere, e le gocce picchiettavano insistentemente contro il vetro come dita frettolose di visitatori improvvisi che cercavano riparo. «Lui era il male minore, credimi», ironizzai, concentrato sul ticchettio ritmico della pioggia. «Ma avercelo intorno era la cosa peggiore che potesse mai capitarti, sul campo di battaglia. Si divertiva a far esplodere la gente, quel folle», soggiunsi con disprezzo, sentendo un epiteto ben poco cordiale rivolto al suo indirizzo da parte di Edward. «Non posso, però, dire di essere stato migliore di lui, ad Ishvar. O uccidevi o venivi ucciso, e io non avevo intenzione di morire, anche se mi portavo dietro un sentore di morte che si avvertiva sui miei abiti. Persino sui miei guanti. Odoravano di fumo e sangue, esattamente come l’aria che respiravo. Prima di partire per la guerra li avevo lavati con del sapone, ma avevo cominciato a non avvertirne più il buon profumo già dopo i primi due giorni. Era stato invece sostituito da quel tanfo insopportabile, e mi sembrava persino di poterlo avvertire sul palato, di poterlo assaporare come se fosse stata una pietanza disgustosa.
    «Ed era stato proprio per riflettere su tutto quello che era accaduto in quei pochi giorni che mi ero allontanato, sebbene sapessi che fosse una stronzata. Ero difatti così assorto nei miei pensieri che ci avevo messo non poco ad accorgermi dell’avvicinarsi di un’altra persona. Avevo drizzato immediatamente il capo e mi ero portato una mano all’altezza del cuore, unendo pollice e medio prima di scattare rapidamente in piedi per fronteggiare quel mio inaspettato avversario; ciò che vidi, però, mi lasciò di stucco. Non era un nemico, bensì Maes, e stava imitando con due dita la forma di una pistola, puntandomela contro. “Bang”, mi disse, abbozzando persino un sorriso sarcastico. “Se fossi stato un nemico, tu saresti già morto”.
    «Non sai quanto ebbi davvero la voglia di abbrustolirlo, quell’idiota». A quel mio stesso dire sorrisi, il primo sorriso sincero di tutta la serata, probabilmente. Ricordare Maes mi aveva sempre messo di buon umore, in un modo o nell’altro, e spesso e volentieri non nascondevo che quello scemo mi mancasse tremendamente. Erano passati così tanti anni dalla sua morte che, a volte, stentavo persino a credere che fosse accaduto davvero. Ma non era il momento di pensarci, ora come ora. «Mi rilassai con una certa difficoltà e lo fissai con nervosismo, non prima d’aver abbandonato la posizione d’attacco che avevo assunto e aver abbassato le braccia. “Ti rendi conto che hai rischiato d’essere arrostito sul serio, razza d’idiota?” gli tenni presente, ma lui si limitò semplicemente a fare spallucce, come se la certezza di quel pericolo non l’avesse sfiorato nemmeno per un attimo.
    «Si sedette al mio fianco, sistemandosi di poco gli occhiali sul naso. “Starsene qui da soli è pericoloso. Lo sai, vero?” mi ricordò, fissandomi con attenzione e grattandosi una ferita che aveva sulla tempia, nascosta da un piccolo cerotto. “Potrebbe sbucare qualcuno all’improvviso e accopparti sul serio, amico mio”.
    «Quella sua premura mi fece stranamente sorridere, ma invece di continuare a guardarlo volsi lo sguardo altrove, facendo vagare distrattamente gli occhi fra quelle rovine desolate e oltre, su verso il cielo cupo. “Se siamo fortunati, abbiamo ancora un occhio di falco a vegliare su di noi”, replicai, ed ero più che certo che quelle mie parole non fossero solo una speranza, bensì una certezza.
    «Con mia sorpresa, però, Maes scosse il capo. “Tu prima o poi dovrai spiegarmi in che rapporti sei, con quella ragazza. Sembrava conoscerti molto bene”, mi disse, e quasi mi sembrò che il suo fosse un fare vagamente sospettoso».
    «Vorrei saperlo anch’io in che rapporti sei con il Tenente Hawkeye, ad esser sincero», mi fece quasi il verso Edward, interrompendo il flusso dei miei pensieri e anche il mio racconto, facendomi tornare alla realtà. Sarebbe stato stupido dirlo, probabilmente, ma mi ero quasi dimenticato che stavo raccontando quella storia proprio perché era stato lui a chiedermi di farlo. A quanto sembrava mi ero immerso un po’ troppo nei ricordi del passato.
    Sbattei le palpebre, abbassando  lo sguardo su di lui prima di abbozzare un altro mezzo sorriso. «Adesso non mi dirai che sei geloso, voglio sperare», lo presi in giro, sporgendomi per abbandonare il libro sul tavolino dinanzi a me e scivolare un po’ verso di lui sul divano, vedendolo aggrottare la fronte.
    Distolse lo sguardo e incrociò le braccia al petto, sbuffando. «Tsk, e perché mai dovrei essere geloso», ribatté, ma qualcosa, nella sfumatura che aveva assunto la sua voce, faceva ben intendere che fosse esattamente così. «Non ho alcun motivo di esserlo, la mia era una costatazione dettata semplicemente dalla curiosità».
    Curiosità, certo. Se la sua era solo curiosità, io a diciassette anni ero ancora vergine. E il mio era puro sarcasmo, se non si fosse capito. «Ti parlerò in modo approfondito anche di ciò che mi lega a Riza, se mi vorrai ascoltare», gli promisi ironicamente. «Ma per il momento non è molto importante ai fini della storia», soggiunsi, giacché quella, in fin dei conti, era la pura e semplice verità.
    «Continua, allora», mi disse subito, insistendo nel non guardarmi. Ce ne sarebbe voluto, di tempo, prima che quella sua stramba convinzione che ci fosse stato del tenero fra me e Riza crollasse.
    Non gli diedi più tanto peso, riprendendo da dove mi ero interrotto. «Tutto ciò che mi limitai a dire a Maes fu “Se vorrà che te ne parli, allora lo farò”, liquidando in quattro e quattr’otto quella faccenda.
    «Lui non era però sembrato accontentarsi, tanto che lo sentii dire “Deve trattarsi di un legame molto serio, allora, se la metti così”.
    «Non gli risposi, provando in qualche modo a cambiare discorso. “Riguardo ai tuoi di rapporti, invece?” gli chiesi, fissandolo con attenzione. In altri momenti avrei trovato quelle argomentazioni di poco conto, futili chiacchiere da salotto per distrarsi un po’, ma lì, al confine fra la vita e la morte, risultavano un ottimo modo per non impazzire. Ritrovarsi a fare i conti con una realtà come quella mettevano a dura prova, ogni singolo giorno, la mentalità di un essere umano
». Mi strinsi un po nelle spalle, forse a disagio, cominciando a sentire l’aria abbastanza soffocante. Fortunatamente, però, la presenza di Acciaio accanto a me riusciva in qualche modo a tranquillizzarmi. «Ho sentito dire che quando una persona si ritrova nel bel mezzo di continue esplosioni e proiettili che piovono da tutte le parti, la sua psiche va in stato di shock e il corpo rimane paralizzato [2], e posso confermarti con assoluta certezza che è davvero così, Ed.
    «In quanto soldati eravamo costretti ad obbedire a qualsiasi ordine e a commettere quelle brutalità, ma non erano stati pochi coloro che si erano rifiutati di farlo, venendo spediti a Central City per aver disobbedito agli ordini. Anche il Maggiore Armstrong l’aveva fatto. E, Dio, quante volte mi ero ritrovato ad accarezzare a mia volta quella stessa e identica idea», sospirai, scuotendo il capo prima di alzare ancora una volta lo sguardo verso il soffitto. Quella, almeno per il momento, era una conversazione che avrei voluto in qualche modo evitare. Mi sentivo già abbastanza a disagio a confessargli tutto ciò che avevo fatto ad Ishvar. «Dicevamo di quel discorso che avevo messo su, comunque», mi affrettai ben presto ad aggiungere, sperando così di distrarmi a mia volta. «Aveva fatto passare degli attimi interminabili, ma alla fine Maes si era deciso a rispondermi. Non mi disse ciò che mi aspettavo, ma solo “Mi è arrivata questa” e lo vidi infilarsi una mano nella tasca interna del soprabito logoro che indossava, cacciandone una busta tenuta alla bell’e meglio.
    «Ci avevo messo un po’ a capire di cosa si trattasse e, forse, mi ero ritrovato ad incupirmi mentre osservavo quel che mi mostrava. “Un’altra lettera della tua donna?” gli chiesi però, e mi stupii per il fatto che, stranamente, non si fosse lasciato andare ad uno dei suoi soliti gridolini di giubilo.
    «Vidi fiorire sulle sue labbra appena un piccolo sorriso, ma scomparve immediatamente per dar vita ad una lieve smorfia. “Già”, asserì mesto, riabbassando la lettera per posarla sulle proprie cosce. Mi accigliai. “Beh, che fai? Non la apri?” gli domandai, ma lui scosse semplicemente il capo. “Nay, non stavolta”, ribatté, guardando intensamente la lettera prima di sistemarsi appena gli occhiali sul naso “perché sono sicuro che non resisterei qui un giorno di più, se lo facessi”, soggiunse, e mi scoccò subito dopo una rapida occhiata. “Potremmo morire in qualsiasi momento, e saperla a Central da sola mi terrorizza”.
    «Un po’ lo capivo, in fin dei conti. La prospettiva di lasciare da sola la donna che amava l’aveva sempre spaventato, ed era specialmente per quel motivo che continuava a combattere. E forse fu proprio per quello che mi sentii in dovere di rassicurarlo in qualche modo. “Non parlare così, stupido. Glacier attende il tuo ritorno, giusto?” gli dissi, battendogli una mano sulla spalla. “Anche se questo non è lo splendido futuro che avevamo immaginato, dobbiamo andare avanti e far sì che lo diventi. E poi non è per niente carino far aspettare troppo a lungo una donna, sai?”
    «L’avevo detto per provare a sdrammatizzare e alleggerire così la tensione che si era creata fra noi, e in parte ci riuscii. Mi regalò un nuovo sorriso stiracchiato. “Sei sempre stato un sognatore”, ribatté, riabbassando lo sguardo sulla lettera che aveva abbandonato. “Dici che dovrei aprirla, allora?”
    «Per tutta risposta, mi allungai per afferrarla e strappargliela praticamente dalle mani, rigirandomela fra le dita. “Se non lo farai tu, lo farò io”.
    «“Ma nemmeno per sogno!” s’infuriò subito, sporgendosi per recuperarla. E mentre lottavamo scherzosamente per quel pezzo di carta così prezioso per lui, non potei fare a meno di sorridere, forse con una punta di tristezza. E ancor più quando finalmente recuperò la lettera, borbottando qualcosa fra sé e sé. Dopo un po’ di tentennamenti e un monologo, si decise infine ad aprirla con mani tremanti, quasi stesse maneggiando un ordigno che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro; baciò la lettera prima di spiegarla, come se per lui fosse ormai diventato un rituale di buon auspicio, e mi ritrovai ad assistere ad una serie di gridolini insensati degni di una tredicenne alla prima cotta quando vedemmo ciò che quella lettera conteneva. Una fotografia di Glacier, accomodata su una sedia di legno, con un gatto acciambellato sulle cosce. Indossava un semplice vestito chiaro ed uno scialle a fasciarle le spalle, ma risultava incantevole, ancor più con quel bel sorriso dipinto sulle labbra.
    «Vedere Hughes così felice mi faceva sentire... strano, come se in qualche modo fossi geloso di lui. Non saprei spiegarti il perché, Ed, era un qualcosa che non riuscivo a comprendere nemmeno io e che forse non avrei mai compreso, neanche adesso. Forse la sua felicità, per quanto mi facesse sorridere, mi ricordava dolorosamente che a casa ad aspettarmi non c
era nessuno. Sarei potuto morire da un giorno all’altro e forse nemmeno mia zia sarebbe stata avvertita della mia dipartita, dato che erano in pochi a sapere del nostro legame di sangue».
    A quel pensiero, scossi immediatamente il capo, non volendo pensarci. Dopo la morte di mio padre, zia Chris era sempre stata particolarmente apprensiva nei miei confronti, e non era stata nemmeno molto entusiasta della mia idea di iscrivermi all
’accademia militare, quando l’aveva saputo. Aveva ceduto solo perché, a suo dire, la mia tenacia le aveva ricordato mio padre e aveva capito che nulla sarebbe riuscito a smuovermi da quell’obiettivo che mi ero prefissato.
    «Comunque sia, ci misi un po’ a far smuovere Maes da lì, ad esser sincero», ripresi, tornando sui miei passi. «Sembrava che fosse ormai sulle nuvole, dato il modo in cui continuava a baciare quella lettera; ci sarebbe mancato poco che si mettesse a piroettare fra quelle rovine, conoscendolo. Fui io stesso ad accompagnarlo nella sua tenda e a lasciarlo lì, non prima di avergli dato qualche consiglio ed essermi rassicurato io stesso in qualche modo. Non mi sarei dato pace se gli fosse successo qualcosa, e non solo perché era per me un amico fin troppo prezioso. Probabilmente era stato per un po’ persino il fratello che non avevo mai avuto.
    «Rientrai nella mia tenda con quei pensieri e mi adagiai in terra, per poter riposare anch’io. Mi addormentai così, seduto su quel terreno freddo e con la testa fra le mani, sognando un mondo diverso da quello che, io e mille altri, stavamo fronteggiando».




[1] Citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo sessantuno: “L’Eroe di Ishvar”.

[2] Citazione tratta dal manga.
Volume nove, capitolo trentaquattro: “Sulle tracce di un compagno d’armi”.



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Capitolo 3
*** [ Cut #02 › Ishvar Area, 1908 ] Memories and flames ***


Please, take me out of here_3
In mia difesa, cosa c’è da dire?
Tutti gli errori che abbiamo fatto devono essere affrontati oggi.
Non è facile ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
 

03. CUT #02 › ISHVAR AREA, 1908
MEMORIES AND FLAMES
 
    Avevo momentaneamente interrotto la mia narrazione per prendere da bere ad entrambi, senza nemmeno controllare che ore si fossero fatte. La mia meta era stata solo la credenza in cucina e il mobile bar nel soggiorno subito dopo, e quando tornai da Edward offrii a lui il primo bicchiere di liquore.
    Allungò una mano per afferrarlo saldamente, facendo appena un piccolo cenno con il capo nella mia direzione. «Grazie», bofonchiò, portandosi il bordo alle labbra per bere un sorso. «Ci voleva proprio».
    «Ci puoi scommettere», ribattei con un sottile velo di sarcasmo, riprendendo posto e bevendo a mia volta un po’ di whisky. Il latte macchiato giaceva ormai abbandonato da tempo sul tavolino, ma, se volevo arrivare alla fine, necessitavo io stesso di qualcosa di molto più forte.
    A dir la verità, avevo ormai imparato a convivere con tutti quegl’orrendi ricordi. Nonostante non ne avessi mai parlato con nessuno, ciò che mi aveva animato per tutti quegl’anni, e che era stato in grado di non farmi cadere vittima come molti altri di quella che veniva chiamata sindrome da shell shock
 [1], era stato in qualche modo l’obiettivo che mi ero prefissato alla fine di quella maledetta guerra, quando avevo puntato lo sguardo su Bradley. Ed ero sempre stato sicuro che, con l’appoggio di Maes, sarei riuscito a realizzare quel nostro sogno e a porre fine a tutte le guerre che logoravano ormai il nostro amato paese. “Voglio vedere sin dove i tuoi immaturi ideali cambieranno il paese che ha costruito King Bradley, colui che non ha paura neanche di Dio [2]”, mi disse poco prima che tornassimo finalmente a casa, e anche adesso che lui non c’era più dovevo andare avanti e fare di tutto per rendere reale quel sogno, non più un’utopica fantasia.
    Bevvi ancora un sorso per farmi coraggio, riprendendo da dove mi ero precedentemente interrotto mentre sentivo lo sguardo di Acciaio su di me, come se mi stesse spronando in silenzio a continuare. «Quella fu l’unica conversazione leggera che potemmo affrontare, lì. Il giorno successivo ricominciammo l’attacco e, più il tempo passava, più il frastuono creato da urla ed esplosioni diventava sempre più intenso. Il caos imperversava, e persino il cielo sopra le nostre teste sembrava essersi tinto del colore del sangue nonostante il tramonto fosse ancora lontano.
    «Non molto distante dalla posizione assegnatami, riuscivo benissimo a distinguere più di un corpo lasciato a marcire su quei viottoli divenuti ormai un campo di battaglia. Quelle vie che, prima dell’inizio di quella guerra, donne e uomini percorrevano per dirigersi al mercato, erano diventate dei cimiteri dove quelle stesse persone erano riverse in terra, con espressioni spaventate e la muta supplica di venir risparmiati dipinta ancora in viso.
    «Urla, sangue, dolore, morte. Ovunque si guardasse, era questo ciò che si leggeva negli occhi dei sopravvissuti. Ed il più delle volte ero io stesso a causare tutta quella sofferenza, senza dar loro nemmeno il tempo di caricare gli Schmidt Rubin
 [3] di cui erano provvisti. Per quanto la cosa mi disgustasse, però, non dovevo lasciarmi condizionare, altrimenti sarei morto al loro posto e sarei stato a mia volta lasciato a marcire fra quelle strade.
    «Quel giorno, in tutto quell’orrore che mi circondava, mi stupivo di come riuscissi a cogliere ogni singolo cambiamento che avveniva intorno a me. Tra il caos composto da spari ed esplosioni, fu proprio il grido allarmato di una donna a richiamarmi, prima che venisse smorzato anch’esso da un altro colpo di fucile. Ebbi appena il tempo di stornare lo sguardo per capire da dove provenisse, poi ciò che vidi fu un volto nascosto da una lunga capigliatura scura e un corpo riverso in una pozza di sangue. Quella donna stringeva a sé un bambino, anch’egli privo di vita, e riuscii persino ad intravedere un orsacchiotto insanguinato spuntare oltre quell’esile spalla».
    A quel punto mi fermai, socchiudendo ancora una volta gli occhi. Ne avevo viste così tante, in quel massacro, che mi sembrava ancora difficile rivivere il tutto fotogramma per fotogramma. Sentii Edward trattenere il fiato, o almeno così mi sembrò, e quando mi ritrovai a scoccargli una rapida occhiata per osservare l’espressione dipinta sul suo viso, lo vidi con la bocca contratta in una piccola smorfia. E, aye, potevo benissimo capirlo.
    «Quella guerra stava andando oltre il limite umano, e la presenza di quegl’innocenti ne era la prova più che tangibile», ripresi, come se farlo potesse in qualche modo aiutarmi a terminare il più in fretta possibile quel mio racconto. «Case che una volta erano state popolate dalle risate dei bambini si erano ridotti a cumuli di macerie; viottoli che collegavano i vari distretti della città erano stati sbarrati da trincee innalzate nel tentativo di difendersi dai nostri attacchi e, ogni qual volta avanzavo, vedevo la popolazione tentare di continuo di opporre resistenza. Ed era proprio in quei momenti che dovevo intervenire io. Quando sembrava che quelli di Ishvar potessero avere in qualche modo la meglio, dovevo prestar soccorso alle truppe con la mia alchimia. Era una scena agghiacciante che si ripeteva di continuo: spianavo la strada ai miei commilitoni e gridavo ordini confusi, affrettando il passo per allontanarmi dalle strade deserte per raggiungere il nuovo punto di raccolta, creando morte e orrore con un semplice schiocco di dita
».
    Fui costretto ad interrompermi un attimo e mi passai una mano sugli occhi, traendo un lungo sospiro mentre stringevo il bicchiere nel palmo dell
altra; arrivati ormai a quel punto, sarebbe stato inutile interrompersi. «Mi sembra ancora di sentire lo scalpiccio dei miei stivali su quel terreno incrostato di sangue, certe volte», ammisi. «Quel risucchio vischioso che producevano ogni qual volta ne pestavo una pozza durante quelle mie folli corse, un suono terribile e disgustoso. Ovunque mi guardassi c’erano polvere e macerie, corpi distesi a terra e privi di vita. In lontananza riecheggiavano i rumori degli spari e delle grida, e spesso e volentieri mi ero ritrovato a pensare di volerla fare finita una volta per tutte. Il pensiero del suicidio era alquanto allettante... sai?» Non continuai, probabilmente a causa del ricordo che si era affacciato nella mia mente.
   
La facilità con cui il corpo umano bruciava, ad ogni mio schiocco di dita, era sempre stata allucinante. Ricordai il primo uomo che mi ero ritrovato ad uccidere con l’alchimia. Il fuoco che attecchiva ai suoi vestiti, la carne che sfrigolava disperdendo nell’aria quell’odore acre e malsano di grasso che bruciava, le sue urla di dolore nel vano tentativo di spegnere le fiamme... si era accasciato a terra in un batter d’occhio, lo rammentavo bene. Si era accasciato con le braccia rannicchiate, come se, in quell’ultimo istante, avesse disperatamente cercato di proteggersi. Mi sembrava ancora di vedere la scena dinanzi ai miei occhi: i suoi bulbi oculari completamente scomparsi, la bocca digrignata che lasciava intravedere le gengive annerite, e la pelle del viso, ormai incartapecorita, che rendeva irriconoscibile la faccia di quell’uomo. Quel giorno avevo vomitato, non potendone proprio fare a meno. Anche se avevo cercato in qualche modo di proteggere me stesso e di preservare la mia sanità mentale dietro falsi ideali, l’orrore che io stesso avevo creato mi aveva scosso profondamente.
    «Carbone cristallizzato. Ecco a cosa somigliavano tutte quelle persone... carbone cristallizzato. Uno spettacolo bello e terrificante al tempo stesso, come le fiamme rese azzurre a causa del fosforo e l'odore putrido di sangue e grasso umano bruciato. E i giorni successivi non furono poi così diversi», continuai ancora una volta per provare in qualche modo a scacciare quei pensieri, rigirandomi distrattamente il bicchiere fra le mani prima di ritrovarmi a bere un altro lungo sorso, lasciando che, per un tempo indeterminato, il picchiettare delle gocce di pioggia fosse l’unica cosa udibile prima di ricominciare. «Avrei voluto che il tempo si fermasse, così da non dover affrontare un nuovo giorno tra polvere, fumo e detriti. Rammentavo ancora i sogni e i progetti che avevo fatto con Hughes durante gli anni dell’Accademia, e mi sembrava quasi impossibile che fosse passato così poco tempo da quando l’avevamo fatto.
    «Sognavamo un futuro migliore, un futuro in cui l’alchimia e l’esercito avrebbero aiutato le persone, ed era proprio per quel motivo che ero andato contro tutti gli insegnamenti del mio maestro e mi ero arruolato, conoscendo Maes. A quel tempo, volevamo solo che il mondo che amavamo entrasse in un’era migliore, ma non era stato così. Quello stesso mondo, ad Ishvar, si stava pian piano sbriciolando, distruggendosi a poco a poco. Ma avrei cercato di fare di tutto per salvarne almeno un frammento, per tentare di rimediare in qualche modo agli errori che stavamo commettendo. E ad ogni sguardo che lanciavo fra quelle tende che sorgevano fra quelle macerie, quel pensiero s’intensificava e diveniva più saldo. Avrei ancora potuto fare qualcosa che non fosse incendiare, con quelle mie mani.
    «Immerso com’ero fra quei miei pensieri, quasi non mi accorsi che mi si era avvicinato qualcuno e, quando mi voltai, ti lascio indovinare chi vidi», dissi, quasi volessi rendere anche Edward partecipe della conversazione, visto che fino a quel momento non avevo fatto altro che parlare da solo, sebbene sapessi che mi aveva ascoltato con attenzione.
    Con lo sguardo puntato su di me, non ci mise più di qualche secondo a rispondere. «Il Tenente Hawkeye?» domandò con fare ovvio, e mi ritrovai ad abbozzare inconsapevolmente un piccolo sorriso. O non era difficile capirlo, o ero io che per lui ero ormai diventato un libro aperto.
    «Non sembrava più la ragazza che avevo conosciuto prima di quella guerra», replicai, continuando prima che Edward potesse farmi una qualsiasi domanda. «Con quel fucile ben in spalla e la faccia sporca di terriccio, gli occhi arrossati dalla sabbia e le palpebre socchiuse che lasciavano scorgere i segni della stanchezza, simbolo che erano probabilmente giorni che non dormiva decentemente, era ben lontana dal ricordo che avevo di lei. I capelli, che a quel tempo portava molto corti, erano arruffati e in disordine, sporchi di terra quasi quanto il viso. Non era più la ragazzina che spiava timidamente i miei progressi, sorreggendosi contro lo stipite della porta dello studio del padre, ma...»
    Avrei anche continuato, se non fosse stata proprio la voce di Edward ad interrompermi e a richiamare la mia attenzione. «Aspetta, cosa significa?» mi domandò, e mi ritrovai ancora una volta a lanciargli una rapida occhiata, abbassando lo sguardo sul bicchiere che ancora reggevo.
    Feci oscillare un po’ il liquore al suo interno, vedendolo lambire il bordo come se trovassi quell’occupazione estremamente interessante. «Berthold Hawkeye», risposi semplicemente. «Il mio maestro e il padre di Riza».
    Acciaio mi fissò con tanto d’occhi. «Il padre del Tenente Hawkeye era il tuo maestro d’alchimia?» mi chiese ancora, forse persino incredulo. E come biasimarlo? Nessuno, eccetto Riza stessa, avrebbe potuto sapere quelle cose. Era solo un
ennesima parte del mio passato che conoscevano davvero in pochi.
    Assaporai un altro piccolo sorso di whisky, forse per scaldarmi o forse per occupare in qualche modo il tempo. «Aye», ammisi infine con fare ovvio, sporgendomi per abbandonare il bicchiere sul tavolino. «Mi ha insegnato tutto quello che so, lasciandomi questo potere distruttivo», continuai, abbassando lo sguardo per fissarmi i palmi delle mani. «Usato nel modo giusto avrebbe potuto aiutare le persone. Ma se non avessi imparato a padroneggiarlo, avrebbe potuto distruggere anche me oltre a tutto ciò che mi circondava. Sembra avere un po’ una vita a sé stante, il fuoco, non credi anche tu?» soggiunsi, ritrovandomi a dar vita ad un sorriso vagamente amaro.
    Il mio maestro l
’aveva ripetuto fino allo stremo: il fuoco era un elemento indomito e per nulla facile da manovrare. Era dinamico, sottile e spirituale; si diceva quasi che avesse il potere di purificare qualunque cosa toccasse, ma per quale scopo l’avevo sempre utilizzato io? Soltanto per uccidere gente innocente, nonostante più volte mi nascondessi dietro la falsa credenza che lo facessi per non morire a mia volta [4].
    Sentii un piccolo suono provenire dalla gola di Edward, come se non avesse capito perché, tutto d’un tratto, avessi cominciato a farneticare in quel modo. «Quindi conoscevi Riza già a quei tempi, giusto?» ritornò su quel discorso, forse anche per richiamarmi in qualche modo all’ordine, così annuii ancora una volta.
    «Abitava in una villetta insieme a suo padre. Ti confesso che quando lui mi aveva preso come allievo, mi ero sentito felice come non lo ero più stato da anni. Imparare l’alchimia da un uomo del suo calibro sarebbe stato il sogno di qualsiasi ragazzino voglioso di conoscere quell’arte, a quei tempi». Mi alzai e passeggiai lì davanti, aggirando il tavolino e infilandomi le mani nelle tasche mentre guardavo altrove, sentendo frattanto gli occhi di Edward su di me. «Al solo pensarci, mi sembra ancora di sentire il brivido d’eccitazione che avevo provato quando avevo messo piede in quella casa.
    «La collezione privata del maestro Hawkeye era davvero formidabile, sono sicuro che sarebbe piaciuto anche a te passare ore ed ore chino sui libri che possedeva. Mettere le mani su quei tomi mi aveva entusiasmato a tal punto, quel primo giorno, che avevo persino saltato la cena, facendo andare il maestro su tutte le furie. La cosa che odiava di più in assoluto era il dover aspettare e i ritardatari. Così, dopo essermi beccato quella sgridata, ero stato spedito a riprendere i miei studi. Mi aveva permesso di mangiare soltanto un boccone di pane».
    «Su questo punto di vista, mi ricorda un po’ la maestra Izumi», ironizzò Edward, e fermai la mia camminata solo per potermi voltare verso di lui e guardarlo in viso.
    Abbozzai un altro sorriso, scuotendo il capo. «Sono certo che sarebbero andati d’accordo, allora, se il maestro fosse ancora in vita», ripresi con sarcasmo. «In realtà avevo quasi temuto che mi cacciasse, dato che diventare suo allievo era un onore che spettava a ben pochi. Anzi, da quel che avevo capito, ero stato il primo, sebbene non ne fossi poi così sicuro. Non volevo peccare di presunzione nel crederlo. Quindi cercai in tutti i modi di essere all’altezza dei suoi insegnamenti, passando l’intera nottata a studiare. Peccato che mi addormentai senza nemmeno rendermene conto», soggiunsi con fare vagamente divertito, perdendomi in quei ricordi di scapestrato sedicenne. «Il viaggio che avevo dovuto compiere per arrivare fin lì era stato lungo e stressante e, non avendo riposato abbastanza, avevo finito per crollare su quei tomi pesanti e polverosi.
    «Forse fu una fortuna l’essermi svegliato prima che il maestro ritornasse. Non avrei voluto che si arrabbiasse di nuovo per due giorni di fila. Anche la pazienza aveva un limite, in fin dei conti. Nonostante lo sguardo assonnato, avevo dunque provato a raddrizzare la schiena, sentendo però qualcosa scivolare via. Abbassato lo sguardo per capire cosa fosse, avevo visto una coperta che non ricordavo di aver preso, anche perché non avrei nemmeno saputo dove trovarla.
    «Mi chinai per recuperarla, e quando alzai lo sguardo mi specchiai in due grandi occhi marroni. Quasi non potei crederci, in effetti. Davanti a me c’era una bambina che non poteva avere più di undici, dodici anni, ma prima ancora che potessi agitarmi per la sua presenza, lei si poggiò un dito sulle labbra, come per impormi silenzio.
    «“Riza Hawkeye”, si presentò, regalandomi appena un sorriso. E, diamine, anche se era soltanto una bambina, quel sorriso mi fece perdere un battito e arrossire».
    Un piccolo colpo di tosse da parte di Edward mi richiamò alla realtà, fermando ancora una volta quella mia traversata. «Adesso sì che avrei ragione ad essere geloso», ironizzò ancora una volta, sollevando un sopracciglio e fissandomi con attenzione.
    Io, d’altro canto, mi limitai semplicemente a scrollare le spalle. «Non puoi essere geloso di una bambina», lo presi in giro. «A quel tempo lei aveva dodici anni e io sedici».
    «Non mi sembra che tu ti sia mai fatto problemi d’età», fu il suo turno di sbeffeggiarmi con fare sarcastico, dando vita ad un’espressione così allusiva che capii immediatamente dove voleva andare a parare. Riza aveva solo quattro anni meno di me, mentre erano ben quattordici quelli che mi separavano da Edward e... aye, beh, effettivamente ci eravamo conosciuti proprio quando lui aveva undici anni.
    Scossi il capo, un po’ divertito. «Non è come può sembrare», precisai. «Mi piaceva, e questo non posso negarlo. Non chiedermi però in che modo mi piacesse, perché non saprei proprio cosa risponderti. Potrei dirti che aveva un bel viso e che quindi era quella sua espressione da bambina a catturarmi, ma non so cosa potresti pensare di me se lo facessi. Più che altro, se ci rifletto adesso, a quei tempi avrei anche potuto vederla come una sorellina.
    «Quando si presentò mi venne subito spontaneo farlo a mia volta, sebbene i miei modi sembrarono insicuri e impacciati. “Roy Mustang, piacere!” farfugliai in preda al panico, scattando in piedi e chinando il capo in segno di saluto prima di abbandonare le braccia lungo i fianchi nel vano tentativo di darmi un’aria composta e ordinata.
    «Forse quel mio modo di fare la divertì, perché la sentii ridere con fare sincero, come solo i bambini di quell’età sanno fare. “Non agitarti”, mi disse allegra, raccogliendo la coperta che avevo fatto nuovamente cadere prima di porgermela con un sorriso. “Ti ho portato questa per non farti prendere freddo”, soggiunse. “Se hai bisogno d’altro, chiedi pure”.
    «Tutta quella sua premura mi scaldava il cuore, forse perché nessuno era stato così gentile con me, se si escludeva mia zia. Così aprii la bocca per ringraziarla, ma quando sentimmo un rumore dal piano di sotto lei mi precedette. Guardandomi seria, aggrottò di poco le sopracciglia. “Non dire a mio padre che sono stata qui, ti prego”, sussurrò, come timorosa che potesse in qualche modo sentirla. “Se sapesse che ti ho disturbato mentre studiavi, si arrabbierebbe”, continuò, rivolgendomi un breve saluto prima di sgattaiolare svelta fuori.
    «In realtà non potevo ancora sapere né capire il vero motivo di quella sua strana paura. Ogni giorno controllava che il padre non fosse nei paraggi e veniva a spiare i miei progressi, portandomi sempre da mangiare e da bere anche fuori orario, pensando lei stessa a coprirmi con qualcosa quando mi addormentavo su quei pesanti volumi d’alchimia dopo una stressante giornata passata a studiare. Le cene con Hawkeye Sensei si svolgevano poi in silenzio, a meno che non avessi qualche dubbio su ciò che imparavo. E se accadeva, eravamo capaci di parlare per ore ed ore, anche fino all’alba. E più i giorni passavano, più lui cominciava a mettermi al corrente delle sue ricerche. Quando compii la maggiore età, mi parlò infine di quel grande segreto che rappresentava tutto ciò che aveva tenuto nascosto nella sua lunga vita: l’alchimia del fuoco. Mi disse che me l’avrebbe insegnata, ma quando tornai da lui dopo essermi arruolato, cominciò a farneticare che non ero ancora pronto e che diventando un cane dell’esercito avrei disonorato me stesso
».
    Guardai la pioggia che continuava a cadere fuori dalla finestra, ravvivandomi i capelli all
indietro. «Quel giorno non lo dimenticherò mai», sussurrai con un groppo in gola, tossendo per schiarirmi la voce. «Lo vidi morire dinanzi ai miei occhi. Già malato da tempo, le sue condizioni si erano aggravate e non aveva resistito oltre. Non avevo potuto fare niente per lui, ma avrei cercato di fare qualcosa per sua figlia. E fu dopo la morte del maestro che capii qual era sempre stato il compito di Riza e quale fosse il suo rapporto con l’alchimia. Per volere di suo padre era stata la custode dell’alchimia del fuoco, e in seguito, per sua stessa decisione, mia guardia del corpo [5]».




[1] Chiamato anche trauma da bombardamento, “scemo di guerra” o più comunemente sindrome da stress post-traumatico, lo shell shock è una malattia che colpiva - e colpisce tuttora - parecchi soldati che sopravvivevano ad una guerra. Ai tempi della prima guerra mondiale questa malattia era quasi del tutto sconosciuta, dunque era difficile capire perché gli ufficiali mostrassero la maggior parte delle volte segni di squilibrio mentale.

[2] Citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo sessantuno: “L’Eroe di Ishvar”.

[3] Il modello a cui si accenna è del 1889, ed utilizzava della polvere semi-infume (Polvere nera con il nitrato al posto del salnitro e zolfo maggiormente raffinato) per un diametro di palla da 303, reso di 304 grazie ad un sottile strato di carta impregnato di lubrificante. La lunghezza complessiva è di 131 centimetri, ed è possibile vedere tale arma cliccando qui.

[4] Ho voluto segnare questa frase per spiegare il significato esoterico del fuoco per mio puro capriccio personale e per curiosità. Nell’esoterismo, difatti, esso purifica tutte le cose elevandole ad un livello di perfezione superiore. Giacché è un agente di relazione tra il microcosmo e il macrocosmo, il fuoco racchiude in sé un principio maschile che inciterebbe ad azioni distruttrici se non fosse moderato dagli altri elementi. Il simbolo sui guanti di Roy e sulla schiena di Riza, che si può vedere qui, richiama vagamente il simbolo stesso dell’unione tra quello del fuoco (Un triangolo con una punta in su) e quello dell’acqua (Un triangolo con la punta in giù), ovvero una stella a sei punte, unione stessa tra energia e materia. Le scritte in latino che compongono la parte superiore del simbolo dell’alchimia del fuoco tatuato sulla schiena di Riza, poi, recitano una cosa tipo “La natura del fuoco si rinnova, nella fiamma d’una candela ti vedo insegnarmi a capire la violenza del fuoco”, mentre la parte inferiore recita al principio “Luce e legge, luce e verità”. Sono anni che non faccio latino dunque non sono del tutto certa, ma il succo, in fin dei conti, è quello.

[5] Anche questa frase potrebbe non significare nulla di importante se vista singolarmente, ma in realtà nello stesso nome di Riza viene spiegato cosa voglia intendere Roy con quelle parole. Il nome Riza, infatti, è la versione ungherese di “Thereza”, e il suo significato è “Guardiana”. Non è chiaro se sia una cosa voluta dall’autrice per indicare il fatto che lei sia la custode dell’alchimia del fuoco e al tempo stesso la “guardia del corpo” di Mustang. Così come il cognome di quest’ultimo, poi, anche quello di Riza, ovvero “Occhio di Falco”, è il nome di un veicolo militare, precisamente un portaerei-tattico Airbone Early Warning utilizzato dalla US Navy. Il nome completo è “Grumman E-2 Hawkeye”, e forse è stato scelto proprio per indicare il grado di parentela fra lei e il Generale Grumman, che sembra essere suo nonno materno.



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Capitolo 4
*** [ Cut #03 › Ishvar Area, 1908 ] Fearless and sorrow ***


Please, take me out of here_4
In mia difesa, cosa c’è da dire?
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04. CUT #03 › ISHVAR AREA, 1908
FEARLESS AND SORROW
 
    Mi ero ritrovato nuovamente ad interrompere la mia storia, forse proprio perché avevo cominciato a parlare di quella parte del mio passato. Scossi la testa, riattraversando il salotto per tornare ad accomodarmi accanto a Edward come se nulla fosse. «Sto divagando, scusami», mi sentii in dovere di dirgli, guadagnandoci appena una pacca dietro la schiena.
    «Era comunque una parte importante del tuo passato», mi diede manforte, capendo quanto in realtà ci tenessi profondamente a quei ricordi. «E poi, adesso, so anche perché tu e il Tenente Hawkeye sembrate avere un’intesa del genere».
    Mi limitai solo ad annuire, guardando distrattamente i due bicchieri abbandonati sul tavolino. «Dov’eravamo rimasti?» cambiai discorso, non volendo pensarci oltre. In fin dei conti avevo raccontato abbastanza, anche se dovevo ammettere che parlare dei momenti del mio apprendistato da alchimista lo trovavo molto più piacevole del continuare a raccontare ad Acciaio di Ishvar. Ma chi non l’avrebbe pensata così? Non si potevano mettere a confronto due avvenimenti così diversi, dato che l’unica connessione che avevano entrambi era l’uso che era stato fatto di quell’alchimia distruttiva che avevo imparato a manovrare.
    «Prima che cominciassi a parlare dei tuoi studi, intendi?» mi domandò Edward, richiamandomi.
    «Aye, esattamente».
    «Al tuo incontro con il Tenente lì ad Ishvar, se non sbaglio», mi rispose semplicemente, e persi anch’io un po’ di tempo per rammentarlo prima di ritrovare finalmente il punto. A quanto sembrava, mi toccava davvero ricominciare. Per quanto mi sarebbe piaciuto, non potevo abbandonare quel racconto a metà.
    «Non era più la ragazzina che conoscevo», ripresi ancora una volta, esattamente dove mi ero interrotto prima che cominciassi a parlare del tempo trascorso a casa Hawkeye. «Ma un cadetto troppo giovane a cui era stata sbattuta troppo violentemente in faccia la realtà della guerra. Ventidue anni erano davvero pochi per essere spediti in quel massacro, però diciannove ne erano anche meno.
    «“Riza”, riuscii a dire solamente quello, come se fino a quel momento il suo nome fosse rimasto bloccato nel fondo della mia gola e avesse faticato non poco ad uscire. Se fosse stata la sua postura, o semplicemente l’espressione che aveva assunto il suo viso, non lo sapevo. L’unica cosa razionale che ero riuscito a pensare la prima volta che l’avevo vista lì, però, era stata “Anche questa ragazza ha gli occhi di un assassino
 [1]”, e mai come quella volta avrei preferito sbagliarmi.
    «“Ho avuto modo di vederla all’opera, Maggiore”, mi disse lei con una semplicità inaudita, sistemandosi meglio il fucile in spalla e lasciando trapelare dall’espressione sul suo viso quanto quella rivelazione la turbasse.
    «Avrei voluto dirle mille cose, in quel momento. Avrei voluto dirle che mi dispiaceva, che non era questo ciò che avevo promesso a suo padre, che davanti a quella tomba avevo pensato ad un futuro diverso e che non avrei mai voluto vederla lì su quel campo di battaglia, con il rischio che non potesse fare mai più ritorno. Ma anche lei non aveva più nessuno ad aspettarla, a casa, esattamente come me. Aveva dei parenti da parte di sua madre, da qualche parte, ma non li aveva mai conosciuti, poiché i genitori avevano tagliato i ponti con tutti dopo essersi sposati. Così, quando mi disse quelle parole, accusai il colpo come se mi avesse schiaffeggiato, socchiudendo le palpebre prima di darle le spalle. “Non era di certo questo l’uso che tuo padre avrebbe voluto per le sue ricerche”, tentai di giustificarmi, come se fosse dovuto.
    «Lei, però, contro ogni mia aspettativa, mi disse “Non la sto accusando”, ma non sai quanto avessi voluto che lo facesse, Ed», soggiunsi in un mormorio sconnesso, ritrovandomi involontariamente ad interrompermi e sospirare.
    Sentii l'auto-mail di Acciaio poggiarsi sulla mia spalla, come se in qualche modo volesse darmi conforto e aiutarmi a rituffarmi in quei momenti che, per me, erano stati più duri di quanto non dimostrassi mai. Mi ritrovai ad allungare una mano per afferrare la sua, stringendola forte prima di socchiudere gli occhi e riprendere il mio racconto. «“Se le ho affidato la mia schiena e quelle ricerche” continuò poi, “è perché credevo in lei, Maggiore. Credevo nei suoi sogni, in un futuro dove tutti avrebbero potuto vivere felicemente. Ho continuato a crederci anche se siamo dovuti arrivare a questo
 [2]”, soggiunse rattristata, chinando lo sguardo per osservare la punta dei suoi stivali, anch’essi sporchi di fango e terriccio. “Nessuno di noi due poteva sapere a cosa saremmo andati incontro. Io stessa non avrei mai pensato di arruolarmi e di diventare un soldato”. E a quel suo dire, spinto anche dall’affetto che ci legava e dalla promessa che avevo fatto a me stesso dopo la morte del maestro, non potei non preoccuparmi per lei. Avevo paura. Avevo paura che potesse morire».
    «Era tua amica. É più che normale che ti sentissi così», si intromise ancora una volta Acciaio, e lo vidi fissarmi con estrema attenzione. La lieve gelosia che l’aveva animato al principio era del tutto scomparsa, lasciando invece spazio ad una strana consapevolezza che non gli avevo mai visto. «Ricordi quando cercarono di tenermi in pugno prendendo di mira Winry?» mi domandò, abbandonando entrambe le braccia oltre lo schienale del divano. «Mi infuriai proprio perché era mia amica. Non potevo permettere che le facessero del male o che le succedesse qualcosa a causa mia».
    Sollevai un angolo della bocca in un sorriso amaro, scoccandogli un’altra rapida occhiata prima di abbassare per l’ennesima volta lo sguardo. Ricordavo benissimo quel giorno. C’ero anch’io, in quella sala. E forse dirgli che l’aver visto il modo in cui si era agitato per quella ragazza mi aveva reso geloso, mi avrebbe fatto apparire ai suoi occhi come un moccioso dal comportamento infantile. «Già, forse è per questo che ero terrorizzato all’idea di saperla lì», mi affrettai ad aggiungere, probabilmente anche per cercare di scacciare quei miei assurdi pensieri di gelosia. «Così, senza nemmeno rifletterci, le dissi solo “Saresti dovuta restare al sicuro, Riza. Non c’era assolutamente nulla che ti spingesse a percorrere questa strada”.
    «Peccato che lei non sembrò capire le mie preoccupazioni, o forse non volle nemmeno prenderle in considerazione. “Avevo e ho tuttora le mie buone ragioni, Maggiore” mi rispose, alzando lo sguardo per osservarmi negli occhi, almeno per quanto le fosse concesso data la scarsa, se non nulla, illuminazione. “Ma lei riesce a dormire, la notte, nel pensare a tutte le persone che abbiamo ucciso e che uccideremo?”
    «Avrei voluto dirle che non ci riuscivo affatto, che passavo notti insonni seduto sul terreno nella mia tenda ad aspettare il sole sorgere, ma non lo feci e strinsi i pugni lungo i fianchi, ostinandomi a guardare dritto dinanzi a me, forse per evitare gli occhi di Riza. Se mi fosse specchiato in essi, con molta probabilità sarei capitolato del tutto e le avrei confessato ogni cosa. “Dire che stiamo sbagliando e continuare a farlo è da ipocriti, Riza, anche se la penso esattamente così”, le risposi dopo attimi d’esitazione. “Non c’è nulla che possa essere sfruttato, eppure stanno facendo di tutto per far sì che ogni singolo abitante muoia. E siamo noi a dover adempiere a questo compito”.
    «“Anche se la gente che ammazziamo appartiene al nostro stesso paese?” insistette, e a quel punto cercai di fare di tutto pur di eludere quella domanda. Che cosa avrei mai potuto risponderle? Io stesso ero disgustato da ciò che facevamo, ma sapevo che non avrei potuto fare nulla per cambiare le cose data la posizione che, a quei tempi, detenevo. Ero soltanto un Maggiore, in confronto ad altri alt’ufficiali lì presenti ero considerato alla stregua di un insetto, solo della misera spazzatura che poteva benissimo essere lasciata a marcire sul campo di battaglia. Così, pur non essendone del tutto convinto, l’unica cosa sensata che riuscii a fare fu annuire prima di prendere il coraggio di voltarmi verso di lei per osservarla in viso. “Precisamente”, affermai. “Per quanto la cosa ci disgusti, questo è l’ordine che dobbiamo eseguire
 [3]”.
    «Quelle sue parole mi fecero però riflettere, qualche ora dopo. Avevo passato 
ancora una volta una notte insonne, seduto come mio solito sul terreno intorno al quale era stata allestita la mia tenda. Mi ero coperto il capo con il cappuccio del giaccone che avevamo indossato tutti all’inizio di quella guerra, nascondendomi così metà viso come se volessi celarmi al resto del mondo. Sorreggevo persino una borraccia d’acqua, ma non ne avevo bevuto nemmeno un sorso. Non avevo fatto altro che ripensare alle parole di Riza, che in qualche modo erano riuscite a minare il mio già precario equilibrio fisico e psichico. Per quanto mi fossi sforzato, non ero riuscito ad allontanarle dalla mia mente, come se si fossero insidiare nelle pareti del mio cervello come un serpente infido.
    «Quando l’avevo incontrata la prima volta, lì in quell’inferno, avevamo avuto una conversazione piuttosto simile, lo ricordavo fin troppo bene. “Perché i soldati, che dovrebbero proteggere i cittadini, invece li uccidono?
 [4]” mi aveva chiesto in tono basso e, in un primo momento, non avevo saputo cosa risponderle. “Perché l’alchimia, che dovrebbe portare felicità alla gente, viene invece usata per ucciderla? [5]” aveva poi soggiunto, esigendo da me una risposta che sarebbe potuta anche solo lontanamente sembrare esauriente.
    «Riuscivo a comprendere cosa turbasse il suo animo, ma qualsiasi risposta le avessi mai dato non sarebbe servita ad alleggerire il peso che noi tutti ci portavamo nel cuore, peso che si accumulava giorno dopo giorno. Cosa avrei potuto dirle, in fin dei conti? Che quelli erano gli ordini e noi tutti, in quanto soldati, dovevamo obbedire e basta? Non sarebbe stata una risposta esauriente e non avrebbe dato a nessuno di noi due il conforto di cui, probabilmente, necessitavamo. Nemmeno mi accorsi del tempo che passò, perso com’ero in quelle mie riflessioni. Venne a richiamarmi Maes stesso poco prima delle otto del mattino. Mi informò sull’orario del nuovo attacco e sulla nostra destinazione, rivelandomi persino che si vociferava di una mia possibile promozione. Una promozione per aver ridotto ad ammassi di carne bruciata delle persone, ti rendi conto? Alquanto ironico, se la vogliamo mettere così.
    «Mi disse anche che i capoccioni contavano sulle mie capacità, e l’unica cosa davvero sensata che riuscii a pensare in quel momento fu “Sono tutti degli aguzzini”. Lo tenni presente persino a Maes, e lui riattaccò con la storia che si aspettavano molto da me. Forse, a quei tempi, prendermi meriti e riconoscimenti per l’aver ucciso delle persone mi lasciava più scosso di quanto non lo faccia adesso, non so dirtelo.
    «Di certo c’era una bella differenza tra il Roy Mustang di allora e quello di oggi, ma farsi divorare dal rimorso dopo tutti questi anni non servirebbe a nulla
», replicai, fissandomi i piedi. Acciaio aveva forse cominciato a provare disgusto? Se così fosse stato, non lavrei biasimato. «Il senso di colpa non se ne andrà mai, ne sono consapevole; però, starmene qui a colpevolizzarmi e commiserarmi senza agire, mi farebbe apparire debole. E non avevo avuto intenzione di farlo nemmeno su quel campo di battaglia, non ce ne sarebbe stato motivo. Se avessi cominciato anche solo a pensare di farlo, forse non sarei seduto qui in questo salotto e non avrei mai conosciuto te», e nel dirlo stornai bruscamente lo sguardo verso Edward, fissandolo con estrema attenzione. «Se avessi lasciato che la colpa mi assalisse, non sarei più riuscito a schioccare le dita. Sarei morto».
    Edward mi squadrò attentamente a sua volta, forse comprendendo come mi fossi sentito e come tuttora mi sentissi. Ma prima ancora che potesse dirmi qualcosa, continuai, forse anche per timore che provasse in qualche modo a consolarmi con i suoi soliti modi di fare. «Maes quel mattino aveva cercato di tirarmi su il morale, sai?» ripresi il discorso, vedendo il mio compagno aprir bocca per provare a dire qualcosa, rinunciandoci però subito dopo per lasciarmi stare. «Riflettendo sulle parole di Riza, che erano tornate proprio in quel mentre a farsi prepotentemente spazio fra i miei pensieri, alzai lo sguardo e, osservando Hughes con attenzione, gli avevo domandato “Perché devo uccidere persone del mio stesso paese?”, e lui, semplicemente, aveva socchiuso le palpebre e sospirato, rispondendomi “Gli Ishvariani hanno minato l’ordine pubblico della nazione. I superiori a Central City hanno dato ordine di eliminarli”.
    «“Eliminarli, eh?” mi ero ritrovato a ripetere con una punta di amarezza, storcendo persino il naso per far capire quanto quella cosa mi disgustasse. “Che parole convenienti per mascherare questo massacro”. E lui, anche se non pronunciò ad alta voce quel suo assenso, pensava esattamente la stessa e identica cosa. Forse fu per quel motivo che decise di cambiare discorso ad una velocità pazzesca, per tentare di distrarmi, con la scusa che stessimo parlando proprio di Central. Mi disse che gli era arrivata un’altra lettera da Glacier, e cercò in tutti i modi di farmi vedere l’ennesima fotografia che quella santa donna gli aveva spedito. Ma non ero davvero in vena di sopportare il suo buon umore. Non quella volta, almeno.
    «Continuavano a tornarmi insistentemente in mente le parole di Riza e, forse per quello stesso strano sentimento che avevo provato giorni addietro, o forse perché ero semplicemente stanco di tutta quella storia, quando sentii Hughes parlare di matrimonio, del suo volermi invitare e cose del genere, senza nemmeno riflettere gli dissi “Quindi abbraccerai la donna che ami con quelle mani sporche di sangue”.
    «Lui divenne una vera e propria furia, quando recepì il messaggio. Interruppe bruscamente il suo sproloquio e, voltandosi verso di me con il viso stravolto dalla rabbia, mi afferrò per il giaccone che indossavo e mi scosse violentemente. “Questo ti crea qualche problema?!” urlò fuori di sé, e io ebbi soltanto il tempo di aggrottare le sopracciglia e distogliere lo sguardo dai suoi occhi, quasi non potessi sopportare di guardarli. “L’ho capito mentre ero qui. Possedere una casa con la donna che ami e vivere normalmente è una felicità che può esistere ovunque, ma è la felicità più grande! Farò qualsiasi cosa per avere quella felicità! Io sopravvivrò! Ciò che è successo qui... me lo terrò dentro e sorriderò quando sarò dinanzi a lei! La farò felice!”
    «Non seppi cosa rispondergli, nel vedere la rabbia che le mie parole avevamo provocato. Dentro di me, però, sapevo che Maes aveva ragione. Avremmo dovuto tenere dentro noi stessi tutti i momenti vissuti ad Ishvar, altrimenti non avremmo mai avuto una vita normale. Knox lo capì a sue spese, ad esempio. Credo che vi abbia raccontato perché sua moglie se ne andò portando con sé il figlio, no? Aveva di continuo gli incubi, e la convivenza fra di loro era diventata insostenibile».
    Mi allungai per riprendere il bicchiere di liquore, ma poi ci ripensai, limitandomi semplicemente a gettare un’altra occhiata a Edward prima di fissare con fare piuttosto distratto la libreria, quasi volessi leggere i titoli dei tomi che la occupavano. «Quando era preda degl’incubi e veniva svegliato dalla moglie, non era raro che in quel momento di intorpidimento mentale la scambiasse per un nemico e tentasse d’ucciderla. É una cosa che succede abbastanza frequentemente, ai soldati che hanno vissuto una guerra come quella», ripresi. «Al principio capitava abbastanza spesso persino a me. Mi svegliavo nel cuore della notte, sudato da capo a piedi, con le lenzuola convulsamente strette fra le dita e il respiro velocizzato; ottenebrato dagli incubi, mi alzavo di scatto e mi infilavo i guanti che tenevo stipati sotto il cuscino, standomene di guardia dinanzi alla porta del mio appartamento come se attendessi l'arrivo del nemico; a volte camminavo per strada e, per qualche frazione di secondo, mi sembrava di vedere le persone che superavo ridotte ad ammassi di carne sanguinolenta o membra carbonizzate. In quei momenti credevo davvero d’essere impazzito», mi guardai giusto una mano, subito dopo, sorridendo un po’ amaramente. «E spesso ho tuttora l’impressione di esserlo. Ho paura che gli incubi possano tornare anche dopo anni di distanza e che una sera, svegliandomi d’improvviso con quelle immagini nella mente, io...» deglutii, quasi non riuscissi a pronunciare quelle parole. Ma, socchiudendo gli occhi, mi feci forza, raschiandomi con i denti il labbro inferiore. «...possa farti del male».
    Tra noi cadde nuovamente il silenzio, dopo quelle mie parole. Nessuno dei due aprì bocca, come se temesse di infastidire in qualche modo le elucubrazioni mentali dell’altro. C’eravamo solo noi, il picchiettare della pioggia, e quella strana quiete che nascondeva più parole di quante non si potessero mai pronunciare.
    «Non mi farai mai del male», si fece sentire infine Acciaio, con un tono basso e gorgogliante che non mi sembrava d’aver mai sentito uscire dalle sue labbra. «Prima che tu possa anche solo provarci, ti avrò già rifilato un bel diretto d’acciaio su quel naso perfetto che ti ritrovi».
    Stornai lo sguardo verso di lui e, sbattendo di continuo le palpebre, lo fissai con attenzione in viso. Lo vidi ricambiare quella mia occhiata, notando i cambiamenti della mia espressione quando mi specchiai nei suoi occhi. Scoppiai a ridere senza poterne fare a meno, meravigliandomi di come quel ragazzo alto un metro e un tappo riuscisse a mettermi senza volerlo di buon umore. Ero più che sicuro, infatti, che avesse detto quelle cose con tutta la serietà di cui disponeva. «Sentirò mai una parola affettuosa uscire da quelle belle labbra che possiedi?» lo presi in giro, lieto che, in quel modo, quel fagiolino fosse riuscito ad alleviare almeno in parte la tensione accumulata fino a quel momento.
    Mi rifilò un’occhiataccia, forse in reazione alla risata liberatoria in cui mi ero gettato. «Solo se tu la smetterai di sparare cazzate del genere», ribatté immediatamente, con lo stesso tono serio utilizzato poco prima. «Sono adulto e vaccinato, difendermi da un erotomane come te sarebbe una bazzecola. Ricorda che sono pur sempre l’Alchimista d’Acciaio, io», ci tenne a soggiungere, quasi volesse precisarlo, enfatizzando soprattutto sull’ultima parola. E non potei fare a meno di sorridere maggiormente, nel sentirlo. Era l’Alchimista d’Acciaio, vero. Era il ragazzo che aveva superato l’esame d’Alchimista di Stato a soli dodici anni, il genio dell’alchimia. Ed era solo mio.
    «Non ho nulla di cui preoccuparmi, allora, dato che ho sempre confidato nelle tue capacità», mi ritrovai a replicare, e stavolta ero sincero. Non avevo mai dubitato di lui o del modo in cui adoperava l’alchimia, anche se non gliel'avevo mai detto apertamente. Non fino a quel momento, almeno.
    Forse arrossì, non ne fui realmente sicuro, ma si ritrovò a borbottare qualche parola incomprensibile prima di guardare altrove, incrociando le braccia al petto. «Mi stavi raccontando del Generale Hughes, comunque», fu il suo turno di cambiare discorso, simbolo che quel mio velato complimento l’aveva in qualche strambo modo conquistato; da quando stavamo insieme le cose erano diventate un tantino diverse, anche a causa dell’intimità conquistata così faticosamente. O almeno da parte mia, dato che per lui l’assetato di sesso ero io. Come se lo facessimo spesso, poi! Dovevo ritenermi un uomo fortunato già se riuscivo a rubargli un bacio e a prenderlo alla sprovvista senza che mi prendesse a pugni per il mio cosiddetto pessimo tempismo, figurarsi.
    Non ci pensai oltre, scuotendo il capo. Anche perché, altrimenti, mi sarei avvilito per la nostra vita sessuale disastrosamente castrata dal lavoro. «Raccontavo di Maes, già», dissi in tono vagamente nostalgico, dando vita ad un altro piccolo sorriso prima di decidermi una volta per tutte a riprendere. «Quando si fu calmato, o almeno così sembrò voler far credere, mi disse semplicemente “Abbiamo del lavoro da fare, sbrigati ad alzarti”, ma io ero rimasto fermo nella stessa e identica posizione in cui ero stato per ore ed ore, restio dal voler obbedire. Non ci sarei riuscito, probabilmente, però ben sapevo che non sarei potuto restare lì. Per quanto mi sarebbe piaciuto abbandonare quella guerra, essendo un semplice Alchimista di Stato non potevo permettermi di prendere decisioni che non spettavano a me, avendo un semplice grado equivalente appena a Maggiore.
    «Con la testa fra le mani e lo sguardo basso, non degnandolo nemmeno d’un’occhiata, mi limitai dunque a chiedere “Puoi aspettare trenta secondi?”
    «Era un desiderio abbastanza sciocco dopo tutto ciò che avevamo passato fino a quel momento, ma lo sentii dire “Solo trenta secondi”, e li fece passare davvero. Per quanto quella mia richiesta potesse sembrare assurda, lui prese l’orologio dal taschino e controllò attentamente la lancetta, attendendo che quei trenta secondi che avevo richiesto passassero.
    «Quel mezzo minuto che ero riuscito a farmi concedere mi sembrò il più lungo che avessi mai vissuto, in quell’istante. L’ansia che provai mentre riflettevo fu così sottile che fui quasi certo di poterla toccare, di carezzarla con le dita senza poterla stringere davvero, di sentirla scivolare con lentezza lungo la pelle mentre lo sguardo si perdeva verso punti remoti che in realtà non vedevo. Cercavo di farmi forza, di provare a convincere me stesso che compivo quelle azioni per una pura e semplice ragione, come Maes stesso aveva affermato pochissimi giorni addietro. Quando gli avevo chiesto il motivo per cui combatteva, sai cosa mi rispose? “É semplice: non voglio morire. Ecco perché. La ragione è sempre semplice, Roy
 [6]”. E forse, a rifletterci adesso, a quei tempi non aveva tutti i torti.
    «I miei pensieri furono interrotti proprio dalla voce di Hughes “I trenta secondi sono passati”, si fece sentire, e, anche se non alzai lo sguardo, io sentii i suoi occhi verdi su di me, divenuti in quel momento un peso insostenibile. “Alzati, Alchimista di Fuoco. 
É tempo di lavorare”.
    «Socchiusi gli occhi, come se mi stessi ancora preparando psicologicamente a quel nuovo giorno che avremmo affrontato, riaprendoli immediatamente prima di decidermi a rialzarmi in piedi. Indossai i miei guanti spinto solo dalla consapevolezza che, se non fossi stato io ad attaccare per primo, sarei semplicemente morto. “
É l’ora della guerra”».




[1] Citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo cinquantanove: “Gli Alchimisti corrotti”.

[2] La frase reciterebbe “Posso credere in un futuro dove tutti vivono felicemente?” e “Anche se ho continuato a crederci... perché siamo dovuti arrivare a questo?”, entrambe citazioni tratte dal manga.
Volume quindici, capitolo sessanta: “Assenza di Dio”.

[3] La frase in realtà reciterebbe “Perché quello è l’ordine che devono eseguire”, ed è una citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo sessanta: “Assenza di Dio”.

[4] Citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo cinquantanove e capitolo sessanta: “Gli Alchimisti corrotti” e “Assenza di Dio”.

[5] Citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo cinquantanove: “Gli Alchimisti corrotti”.

[6] Citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo sessanta: “Assenza di Dio”
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Capitolo 5
*** [ Epilogue › Central City, 1919 ] After the rain ***


Please, take me out of here_5
In mia difesa, cosa c’è da dire?
Tutti gli errori che abbiamo fatto devono essere affrontati oggi.
Non è facile ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
 

05. EPILOGUE › CENTRAL CITY, 1919
AFTER THE RAIN
 
    «Il resto credo che tu lo sappia», conclusi, sentendo sempre più debole il ticchettio delle gocce di pioggia contro la finestra, sopraffatto da quello dell’orologio a pendolo appeso sulla parete dietro di noi, accanto ad una delle librerie.
    Edward appariva un po’ rigido, lì seduto sul divano, ma fu con una certa compostezza che tornò a fissarmi dritto negli occhi. «Dai racconti del Tenente Hawkeye ero preparato ad una cosa simile, ma... sentirlo fa comunque un certo effetto», ammise, e dovetti fargliene atto. Se era scosso quasi quanto me che avevo raccontato, lo dava a vedere ben poco. Quel che era certo, era che non era un ragazzo che restava impassibile dinanzi a cose del genere, dato ciò che aveva vissuto sin da bambino. «Mi parlò dell’obiettivo che ti eri prefissato, delle tue intenzioni, persino del tuo voler mettere fine a tutte le guerre che logoravano e logorano tuttora Amestris», continuò, serrando i pugni sulle cosce. «Mi ha persino posto il caso che, se il potere tornasse in mano al parlamento, le cose non sarebbero più come adesso e l’istituzione degli Alchimisti di Stato verrebbe abolita». Si interruppe per una frazione di secondo, come se stesse riprendendo fiato; quando ricominciò, il suo tono cambiò e mi sembrò che fosse divenuto basso e sconnesso. «Se dovesse succedere, voi non verrete più considerati eroi di guerra, ma dei comuni assassini di massa».
    Mi meravigliai che Riza gli avesse detto quelle cose, ma tutto ciò che feci fu semplicemente annuire. «Questo lo so».
    «E nonostante tu lo sappia... vuoi comunque cercare di diventare Comandante Supremo, conscio che ciò sarebbe come suicidarsi?
 [1]» mi domandò senza tanti giri di parole o peli sulla lingua, e non seppi cosa mi diede la forza di continuare ad osservare quei suoi occhi dorati, così infervorati che sembravano ardere come la prima volta che ci incontrammo. Potevo benissimo avvertire la tensione che si era impossessata dei suoi arti, la rabbia che ribolliva per la consapevolezza che non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo; vedevo l’agitazione che lo animava, e mi sembrava di poter sentire il battito furioso del suo cuore contro la sua gabbia toracica. Ma per quanti sforzi facessi per cercare le parole adatte, in modo che potessi rassicurarlo, non riuscivo a trovarne nemmeno una.
    «La mia vita non vale più di quella delle persone che ho ingiustamente ucciso, Acciaio», dissi infine con un sospiro; gli sfiorai appena un braccio, sentendolo irrigidirsi prima di allontanarsi.
    «Ma non è neanche giusto che tu la sacrifichi in questo modo!» esclamò fuori di sé, e dovetti sporgermi verso di lui per poggiargli un dito sulle labbra, nel vano tentativo di calmarlo ed evitare che le sue urla svegliassero qualche vicino. Me lo allontanò di scatto, come se non volesse sentir ragioni, e io sospirai.
    «Morire nel tentativo di rendere Amestris una Nazione pacifica non servirebbe ad espiare le mie colpe, questo lo so bene», rimbeccai, vedendo il suo petto alzarsi ed abbassarsi a ritmi irregolari, quasi stesse cercando di tranquillizzarsi senza successo. «Ma starmene con le mani in mano mentre queste guerre continuano, crogiolandomi nelle onorificenze che mi hanno conferito per quello che è stato solo un massacro, sarebbe anche peggio. Non voglio mai più che ciò che è successo ad Ishvar si ripeta. Mai più», mi feci un po’ più vicino a lui, poggiandogli entrambe le mani sulle spalle prima di farle scivolare lungo i suoi avambracci, fermandomi in prossimità dei polsi e carezzando appena quello d’acciaio. «Men che mai voglio che sia tu a ritrovarti in una carneficina del genere. Forse potrà sembrarti ingiusto, ma non posso calpestare l’unico vero ideale che è rimasto del Roy Mustang che ero stato prima di quella guerra», ciò detto, lo lasciai andare, non sentendo necessario aggiungere qualcos’altro. Avevo detto ciò che mi ero sentito di dire, stava a lui, adesso, comportarsi da persona matura e comprenderlo. Non agivo per un mio tornaconto personale e mai l’avrei fatto, e, pur sapendo a cosa andavo incontro, avrei continuato a camminare su quella strada che io stesso mi ero scelto.
    «Sei uno stupido», pigolò Acciaio a sguardo chino, come se in quel momento trovasse molto più interessante il pavimento del salotto. «Uno stupido idealista figlio di puttana», soggiunse con lo stesso tono basso ed incrinato, e capii che si stava agitando proprio dal modo in cui aveva cominciato a parlare. «Vedi di raggiungere il tuo obiettivo senza farti ammazzare e riporta il culo in salvo, se non vuoi che sia io a farti fuori».
    Nonostante tutto, non potei fare a meno di sorridere sincero. Anche se
il più delle volte i suoi modi di fare erano rozzi e senza tatto, quello era il suo modo per far capire quanto in realtà ci tenesse a me e alla mia incolumità. Bizzarro, forse, ma non sarebbe stato Edward Elric, altrimenti. Mi avvicinai ancora un po’ e gli passai un braccio intorno alle spalle con fare rassicurante, poggiandogli un lieve bacio sul capo. Quella era una delle poche - anzi, pochissime - cose che potevo permettermi senza che cominciasse a strepitare, a ben pensarci. «Farò del mio meglio perché questo accada», risposi, e mai come in quel momento le mie parole furono sincere e veritiere.
    Edward alzò lo sguardo per incrociare ancora una volta i miei occhi, ed ebbi appena il tempo di scorgere all’interno di quelle polle dorate lo scintillio di qualcosa prima che mi fissasse con rabbia, atta a mascherare la sua preoccupazione. «Lo spero per te», volle avere l’ultima parola, concedendosi il lusso di poggiare il capo contro la mia spalla. In altri momenti non l’avrebbe mai fatto, dunque la conversazione l’aveva scosso particolarmente. Ma non gli chiesi nulla né dissi niente, lasciando solo che il tempo facesse il suo corso. Quando sembrò un po’ più calmo e rassicurato, Acciaio si allontanò, senza che io lo costringessi a tornare al mio fianco. Ognuno dei due aveva i suoi spazi e sapevamo quando potevamo invaderli. E a me stava bene così.
    Controllai distrattamente l’ora, picchiettandomi le mani sulle cosce prima di alzarmi in piedi e scoccare una rapida occhiata al mio compagno. «Si è fatto abbastanza tardi, ci conviene andare a riposare».
    Acciaio ricambiò il mio sguardo e adocchiò a propria volta il quadrante dell’orologio, tornando a guardare me. «Se vogliamo arrivare svegli a lavoro ci converrebbe, già», sembrò ironizzare, alzandosi. Mi fece giusto segno di seguirlo con un breve cenno del capo, cominciando ad avviarsi da solo verso quella che era ormai diventata la nostra camera da letto.
    Io mi intrattenni ancora un po’ lì in salotto, ficcandomi le mani nelle tasche. Abbassai lo sguardo sui tomi che avevamo abbandonato sul divano prima che cominciassi quel mio racconto, traendo un lungo sospiro e scuotendo subito dopo il capo. Forse parlarne con lui era stato come togliersi un peso, ancora non riuscivo a capire con certezza come mi sentissi. Probabilmente, la verità era che dentro di me sentivo che quella guerra non era finita e mai lo sarebbe stata. Ma dovevo solo attendere, ogni singolo giorno, l’approssimarsi di una nuova alba.
 
 
 
«Non importa quanto in alto dovrò salire per proteggere le persone che amo.
Con queste mie stesse mani, seppellendo il passato e tutti i suoi errori, proverò a costruire il futuro».
 
 
 
 
 
PLEASE, TAKE ME OUT OF HERE
FINE









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
In realtà non avrei voluto postare questa storia qui su EFP, visto il mio abbandono del fandom su questo sito. Sto difatti scrivendo per conto mio, da un po' di tempo, ma questo è un discorso a parte. Ho deciso di pubblicare soltanto perché ha partecipato ad un contest, e devo dire che, sebbene non la consideri uno dei miei lavori migliori, scriverla è stata davvero un piacere. C'erano momenti in cui restavo incollata al Pc fin quando non arrivavo ad un punto abbastanza significativo, ed è proprio per questo motivo che mi sento piuttosto attaccata a questa storia, quasi quanto lo fui per la cara e vecchia Stand by me.
Bando alle ciance e via con le precisazioni, adesso, visto che è più che doveroso farle: questa storia è stata scritta per il contest indetto da Himechan84, Queen Contest, e si è classificata, con mio grandissimo stupore, Seconda vincendo il Premio Giuria.
Non doveva nemmeno essere così, lo ammetto spudoratamente. Al principio lo svolgimento che avrebbe dovuto seguire era ben altro, ma non mi convinceva per niente e ogni volta che aprivo il file che conteneva quell'orrore mi veniva voglia di cestinarlo. E' così, dunque, che è nata la versione che avete appena finito di leggere. E, ad essere sincera, mi convince molto di più della prima stesura.
Passiamo adesso a qualche spiegazione:
il titolo della storia trae origine da una doujinshi di Ninekoks che adoro, il cui nome completo è “Hana to Tekka”, ovvero “Fiori e spari”. Ho scelto poi di stendere la storia in questo modo perché in un momento di follia, dovuto forse al trenta dicembre - momento in cui mi sono resa conto che la storia poteva dare di più e che sarebbe dunque stato meglio ripartire da zero - mi è tornata in mente la stesura di “Intervista con vampiro” di Anne Rice. Ho dunque fatto in modo che la storia venisse raccontata da Roy, senza che si trattasse di uno svolgimento sul momento ma più che altro di una specie di flashback.
La narrazione di Roy si colloca durante il volume quindici, dove viene raccontato il massacro di Ishvar, per l'appunto, e nel capitolo quattro si chiude poi, più o meno, con la side story non presente nel manga, “His battlefield continue”.
Come fosse iniziata la relazione fra Edward e Roy non l'ho ritenuto importante ai fini della storia ma, in tal caso, potrebbe anche collocarsi in un momento indefinito tra “One day, who knows [For now, nothing else matters]” o dopo “Strange Love Story [Il nostro inizio]” presente nella raccolta “Heart Burst Into Fire”.
Non ho altro da dire, adesso, dato che credo d'aver detto tutto ciò che era necessario. Grazie infinite ai commentatori, a chiunque abbia letto o solo seguito, e grazie ad Hime per aver indetto il contest.

Qui di seguito il commento della giudice:
  • Grammatica e sintassi: 10/10
  • Originalità: 9,5/10
  • Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
  • Stile: 10/10
  • Gradimento personale: 5/5
  • Utilizzo della citazione: 5/5
  • Totale: 49,5/50
Punto primo: io odio il pc. Voglio dire, ti avevo scritto una recensione-valutazione-papiro, entusiasta, scritta a caldo subito dopo aver letto sia la tua fic per il contest, sia Zankyou, Kieru Made, per capire di più sul massacro di Ishvar, la salvo tutta soddisfatta, e quando oggi vado a riaprire il documento… puff scomparsa nel nulla. Cercherò allora di rimettere in fila le sensazioni che la tua splendida storia mi ha dato, ma non sarà semplice. Innanzitutto è stato molto toccante leggere di un Roy così intimo, privato, nel suo rievocare quella che in realtà non è stata una guerra, ma un vero e proprio massacro civile, un racconto intenso, incalzante, anche se fortunatamente la tensione a tratti viene smorzata da quel fagiolino biondo (termine che ho letteralmente adorato, e a proposito, non so perché ma le chiacchierate tra Roy e Ed hanno qualcosa di così pacifico e rilassante che danno davvero un senso di quiete e tranquillità). Un racconto dalle tinte drammatiche, ben documentato e ben scritto, straordinariamente universale purtroppo per qualunque conflitto: hai descritto un Roy splendido, profondamente tormentato dal dover eseguire gli ordini ad ogni costo, dal rimorso dell’Alchimista di Fuoco di utilizzare il proprio potere per uno scopo nefando, e nonostante tutto la speranza e il conforto che Ed gli da e che gli permettono, malgrado gli errori terribili del passato di cui si è macchiato, di costruire il proprio futuro, nonostante la sua guerra personale, la guerra con il proprio animo con i propri tormenti interiori e con le proprie angosce non si sia mai placata. Inutile che ti dica quanto il tuo stile mi piace: in ogni cosa che scrivi si sente la cura dei dettagli, dei particolari, e ogni personaggio è vivo e reale. Sono contenta che in un certo senso questo contest ti abbia spronato a tornare a scrivere, credo che tu sia una delle autrici più in gamba che abbia letto in Efp.
I miei complimenti cara!

SECONDA CLASSIFICATA CON PREMIO GIURIA


[1] Questa non è esattamente una citazione tratta dal manga, ma è il richiamo ad un discorso avvenuto in esso tra Edward e Riza.
Più precisamente si tratta del volume sedici, capitolo sessantadue: “Al di là del sogno”.



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