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Autore: Nykyo    02/11/2006    7 recensioni
Quale rapporto lega Albus Silente e Severus Piton? Qual è la vera natura di Silente: è solo un abile stratega, un condottiero che muove le sue pedine sulla scacchiera della guerra, o è anche un uomo, capace di paterno affetto? La vicenda dei diciassette anni trascorsi da Piton e Silente, fianco a fianco, raccontata dal punto di vista di chi, come il Preside, ha fiducia in Severus Piton.
Questo racconto ha vinto il primo premio al concorso "Piton e la Giustizia" del Sotterraneo di Piton
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Grazie ragazze per i commenti.

 

Astry e Sella, siete due tesori come sempre e mi fate arrossire.

 

Alexia, le tue recensioni non rasentano il geniale, sono geniali ;) E io ti adoro. Spero che questo capitolo ti piaccia.

 

A tutti buona lettura.

 

Nykyo

 

 

 

2. Il Pensatoio.

 

 

Severus si arrese. Del resto, chi se non se stesso poteva biasimare se la sua memoria era già divenuta, nonostante la giovane età, un desolato luogo di supplizio?

Anticipò il Preside, che gli si era accostato con la bacchetta levata, e sfoderando la propria se la poggiò su una tempia.

Aveva solamente letto nei libri il corretto metodo di estrazione dei ricordi, ma non fu quella la difficoltà che rese lenti i suoi movimenti, mentre un sottile filo di sostanza, né liquida né gassosa, simile a chiaro vapore filaccioso si annodava strettamente al legno scuro.

Poco dopo, il primo dei suoi tanti errori, l’iniziazione, la notte in cui gli era stato imposto il Marchio che avrebbe segnato per sempre la sua carne e la sua anima, bruciandole entrambe, vorticava nel Pensatoio e lui v’immerse le dita esitante, come se stesse per tuffare la mano nell’acqua bollente o in un liquido corrosivo.

 

 

Il primo pensiero di Severus Piton, quando fu di nuovo nella grande stanza circolare del Preside, fu che, a vedersi dall’esterno, ad osservare se stesso, mentre si lasciava marchiare come un animale o uno schiavo, si sentiva ancora più piccolo, sciocco e colpevole.

Come ho potuto credere, anche solo per un minuto che avesse senso seguire un mentore capace di umiliare così i suoi allievi?

Come ho potuto pensare che la conoscenza o il potere valessero il prezzo della mia dignità e del mio orgoglio?

Si sentiva disgustato di sé e privo di speranza. Patetico e inutile.

Meritavo di essere disprezzato dagli altri, se realmente sono stato così meschino da vendere la mia integrità e libertà al miglior offerente. E in cambio di cosa, dannazione? Cos’ho mai ottenuto in cambio? Quale contropartita avrebbe mai potuto valere davvero me stesso e la mia anima. Non sono nemmeno degno di definirmi un bambino immaturo. Sono solo scuse puerili.

Incontrare lo sguardo del vecchio mago lo fece sentire ancora peggio, perché vi lesse i suoi stessi pensieri.

“Hai avuto dignità a sufficienza per domandare aiuto, Severus” – disse Silente, rispondendo con gentile solennità alle sue domande inespresse, poi indicò nuovamente il Pensatoio.

La bacchetta di Piton si mosse con estrema lentezza, estraendo un nuovo filamento grigiastro.

Le labbra gli tremavano, ma non si sottrasse.

 

 

Il suo primo vero, incancellabile, peccato: la prima vita recisa in nome di un padrone che non conosceva pietà, nemmeno per i suoi servi.

Due sole parole, un lampo verde, crudele e vibrante, ad illuminare la notte, il tonfo sordo di un corpo che cadeva inerme, due paia d’occhi sbarrati sull’incubo, e non una ma ben due vite erano state spente, inesorabilmente.

Quella della vittima innocente e quella del carnefice, doppiamente colpevole. Reo di aver ucciso e di possedere una coscienza pronta a rinfacciarglielo atrocemente.

Senza più vita quel povero corpo scompostamente accasciato al suolo e morto dentro il ragazzo incappucciato con la bacchetta ancora puntata davanti a sé; l’espressione dell’orrore congelata e imprigionata dietro l’argento della maschera che gli copriva il volto.

Morto il giovane studente Serpeverde che desiderava essere rispettato, forse ammirato, di sicuro trattato con dignità dai propri coetanei. Perduto, quel magro infaticabile allievo assetato di sapere, di calore, d’amicizia ed amore. Condannato da due misere oscure parole, che non erano conoscenza e potere, come aveva stupidamente creduto, ma solo fuoco che bruciava l’anima e imperdonabile, arrogante delitto.

Ritto accanto a Silente, nel proprio ricordo, Severus sentì risuonare uno stridulo grido disperato, un istante prima che il suo doppio pronunciasse l’Avada Kedavra – “NO, NO, NON FARLO!”.

Ma gli ci volle il tempo di qualche respiro per comprendere che non era stata la vittima ad urlare; che quelle parole erano sfuggite alle sue stesse labbra.

Oh, se solo fosse bastato questo a fermarmi… ora so perché li chiamano Incantesimi senza Perdono. Ed io ho ripetuto quelle orrende parole e quel gesto, ancora e ancora…

Poi anche i pensieri si fecero troppo dolorosi e confusi.

Il Preside lo trascinò via per un braccio, fuori dal Pensatoio, scuotendo il capo con amarezza.

Ma non gli diede che pochi attimi per riprendersi un po’, prima di tornare ad esigere un’altra rata del prezzo che aveva deciso di imporgli.

La punta fremente della bacchetta di Piton si accostò ancora una volta alla tempia.

 

 

Un'altra vittima, un’altra morte ingiusta inferta da un veleno da lui distillato, o dalla sua scura bacchetta, oppure dalla lama affilata del pugnale d’argento: lo stesso che usava per preparare gli ingredienti per le sue pozioni; quel filo tagliente che non avrebbe mai dovuto utilizzare per altro se non per sminuzzare erbe e radici.

Ancora e ancora, inesorabilmente i ricordi si susseguirono nel bacile di pietra e lui vi entrò, sempre più tremante, impotente e nauseato, anche quando non era stato lui il carnefice, limitandosi ad essere spettatore, inchiodato dall’incubo delle efferatezze dei suoi compagni, disposti in un macabro cerchio.

E io non li ho fermati, mai, mai, mai! Non ho avuto il coraggio. Sono un patetico vigliacco che ha temuto per la sua inutile vita, nonostante non valga più niente, perché io stesso l’ho buttata via.

Sono colpevole quanto loro, sono solo un animale, un mostro.

Silente gli stava accanto muto. Le prime volte, come un medico che spietatamente fa sorbire una medicina amarissima al proprio paziente solo per salvarlo, lo costrinse a voltarsi, quando, tormentato dal disgusto e dal rimorso, tentava di girare le spalle al se stesso della memoria.

Poi smise di forzarlo e finse di non vedere le lacrime che avevano preso a rigargli il viso ancora troppo giovane, eppure desolantemente invecchiato dalla sofferenza.

Finse di non vedere il sangue che macchiava le labbra lacerate da un ennesimo morso troppo impietoso e feroce ed il fremito di quel corpo esile e spigoloso.

Lo fece per profonda compassione, comprendendo che l’umiliazione del giovane mago era già troppo profonda per aggiungervi anche la propria aperta pietà.

Ma fu anche sordo alle suppliche che, dopo un po’, Severus, ormai sconvolto dal suo stesso incubo, non riuscì più a trattenere, nonostante l’orgoglio.

“La prego, basta, smettiamo. Che senso ha?” – rochi rantoli soffocati dai singhiozzi – “Basta, è insopportabile, non ce la faccio più, fa troppo male. Vorrei tornare indietro, cambiare il passato… la prego, non un’altra volta… “.

Silente gli poggiava delicatamente una mano su una spalla, ma poi tornava sempre ad indicare il Pensatoio e la punta della bacchetta di Severus tremava ogni volta di più fra le dita sottili, anche se continuava ad obbedire.

Non ne poteva più, ma, in fondo, sentiva anche che era giusto soffrire atrocemente per ogni vita arbitrariamente rubata, per ogni giovinezza accorciata, per ogni strazio inflitto od osservato senza far nulla per impedirlo.

Il prezzo dei suoi gesti lo stava lentamente schiacciando, col trascorrere dei minuti, delle ore, o forse dei secoli, ed il susseguirsi implacabile dei ricordi, eppure una parte di lui voleva solo pagare, fosse anche stato fino allo strazio totale di sé.

Gli pareva impossibile che le gambe lo reggessero ancora in piedi e si sentiva ardere il volto, come se avesse la febbre alta, e probabilmente l’aveva davvero. Forse il suo corpo si stava ribellando a tanto dolore dell’anima.

La mente stessa gli si annebbiò al punto che, ad un tratto, scordò di nuovo di non poter interagire con il suo doppio e, sfuggendo alla salda presa di Silente sul suo braccio, si slanciò in avanti, in quel cerchio solo rammentato, ma così reale, per tentare di afferrare una spalla del nero e snello figuro incappucciato intento a pronunciare un’interminabile maledizione cruciatus. Provò, contro ogni logica, a far cessare il supplizio, ma si ritrovò a stringere solo l’aria, mentre la tortura continuava, tanto per la misera vittima di quella barbarie, quanto per lui che ne era stato il carnefice.

Dimentico di ogni cosa, perfino della deferenza dovuta all’alto mago canuto che lo osservava con occhi velati, gridò, senza potersi trattenere – “E’ tutta colpa mia, colpa mia. Ti prego fallo smettere, so che ho sbagliato, oh, ti prego fallo smettere e io mai, mai più…[1] “.

Il Preside lo raggiunse e lo strattonò. Un attimo dopo erano di nuovo nello studio, ingombro di ritratti e strani strumenti d’argento, che ronzavano sommessi come misteriosi insetti luccicanti.

I Presidi del passato li fissavano attoniti dalle pareti, senza osare fiatare, dinnanzi a quello che era chiaramente un profondo dramma.

“Mi spiace, ragazzo” – gli disse Silente, forzandolo a sedersi – “Né tu né io possiamo farlo smettere. E’ accaduto ormai. Ma non succederà più, lo sappiamo entrambi. Mai più, perché tu non vuoi che un simile crimine si ripeta. Non puoi cancellare ciò che è stato, ma vuoi e puoi cambiare strada e non commettere più colpe così terribili”.

Guardò l’ex allievo, raggomitolato su se stesso, atrocemente provato, la schiena curva scossa da conati e singhiozzi, poi spostò lo sguardo sul Pensatoio e decise: Hai pagato abbastanza, Severus e l’hai fatto con onestà, anche se non ti reputi più un uomo retto.

Non hai tentato alcuna scappatoia, né sottratto nulla al prezzo che ti ho imposto. Potevi conservare solo per te le memorie più dolorose, quelle più degradanti o che più fortemente ti accusano, ma sento che non l’hai fatto, per quanto ciò ti sia costato e anche se ti sarebbe stato facile cedere alla tentazione.

Questa è onestà, che tu ci creda o no, ragazzo.

La luce che speravo è ancora là, devi solo lasciarla uscire ad illuminarti il cammino.

E non sarà un sentiero facile, Severus, mi dispiace. Non posso permettermi eccessiva pietà.

Non posso per il tuo bene e perché sei un dono per me, un inaspettato regalo del fato che sarebbe peccato sprecare per sentimentalismo.

Tornò a fissare il mago bruno che aveva alzato a sua volta gli occhi velati e traboccanti di sofferenza verso di lui, come a rivolgergli un’ulteriore muta preghiera.

Non soffermò la sua attenzione sulle iridi d’onice incrinate dal rimorso, ma volontariamente andò oltre, cercando l’ultima conferma, solo per scrupolo, anche se non reputava di averne realmente bisogno.

S’immerse nelle profondità della mente sconvolta del giovane, e sorrise dolcemente nel trovarla spalancata, senza alcun tentativo o volontà di difesa e nello scorgervi subito il chiarore desiderato. Severus Piton ancora non poteva vederla, quella scintilla che era sentore di un’anima lisa, ma ancora viva e tenacemente desiderosa di riscatto, però al vecchio apparve perfettamente nitida e non ebbe bisogno d’altro.

Ripose rapido il catino istoriato e fece comparire un calice di cristallo, ricolmo di un liquido scuro dal forte aroma d’erbe e alcool, ficcandolo a forza tra le dita contratte dell’altro mago.

“E’ finita, ragazzo. Ora bevi questo, ne hai bisogno e ti aiuterà a calmarti” – lo invitò, paterno.

Severus lo fissava stupito.

“Come può trattarmi con gentilezza?” – sussurrò sfinito e incredulo – “Ha visto cosa sono. Ha visto!... “.

Silente non smise di sorridergli e allungò le mani a circondare le sue, troppo incerte, perché non lasciasse cadere il bicchiere.

Sostenendole, gli fece avvicinare il calice alle labbra e lo costrinse a bere.

“Calmati, ora” – ripeté pacato – “Calmati”.

Hai ancora una confessione in serbo, lo so, e ti ci vorrà altro coraggio, Severus.

 

 

 

 

 

 



[1] Le parole dell’intera frase sono tratte da Harry Potter e il Principe Mezzosangue (capitolo 26; pag. 519). Silente le pronuncia nella caverna, dinnanzi a Harry, mentre beve la pozione posta a difesa dell’Horcrux. Ovviamente, non sappiamo a chi sono realmente riferite; se siano ricordi di Silente stesso, illusione o memorie altrui, però le trovo perfettamente calzanti per il mio giovane Severus travolto dal rimorso, che vorrebbe fermare se stesso e modificare il passato. Consideratela una licenza poetica.

   
 
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