Grazie ragazze per i commenti.
Astry e Sella, siete due tesori come sempre e mi fate arrossire.
Alexia, le tue recensioni non rasentano il geniale, sono geniali ;) E io ti adoro. Spero che questo capitolo ti piaccia.
A tutti buona lettura.
Nykyo
2. Il
Pensatoio.
Severus si arrese. Del
resto, chi se non se stesso poteva biasimare se la sua memoria era già divenuta,
nonostante la giovane età, un desolato luogo di
supplizio?
Anticipò il Preside, che
gli si era accostato con la bacchetta levata, e sfoderando la propria se la
poggiò su una tempia.
Aveva solamente letto nei
libri il corretto metodo di estrazione dei ricordi, ma non fu quella la
difficoltà che rese lenti i suoi movimenti, mentre un sottile filo di sostanza,
né liquida né gassosa, simile a chiaro vapore filaccioso si annodava
strettamente al legno scuro.
Poco dopo, il primo dei
suoi tanti errori, l’iniziazione, la notte in cui gli era stato imposto il
Marchio che avrebbe segnato per sempre la sua carne e la sua anima, bruciandole
entrambe, vorticava nel Pensatoio e lui v’immerse le dita esitante, come se
stesse per tuffare la mano nell’acqua bollente o in un liquido
corrosivo.
Il primo pensiero di
Severus Piton, quando fu di nuovo nella grande stanza circolare del Preside, fu
che, a vedersi dall’esterno, ad osservare se stesso, mentre si lasciava
marchiare come un animale o uno schiavo, si sentiva ancora più piccolo, sciocco
e colpevole.
Come ho potuto credere,
anche solo per un minuto che avesse senso seguire un mentore capace di umiliare
così i suoi allievi?
Come ho potuto pensare
che la conoscenza o il potere valessero il prezzo della mia dignità e del mio
orgoglio?
Si sentiva disgustato di
sé e privo di speranza. Patetico e inutile.
Meritavo di essere
disprezzato dagli altri, se realmente sono stato così meschino da vendere la mia
integrità e libertà al miglior offerente. E in cambio di cosa, dannazione?
Cos’ho mai ottenuto in cambio? Quale contropartita avrebbe mai potuto valere
davvero me stesso e la mia anima. Non sono nemmeno degno di definirmi un bambino
immaturo. Sono solo scuse puerili.
Incontrare lo sguardo del
vecchio mago lo fece sentire ancora peggio, perché vi lesse i suoi stessi
pensieri.
“Hai avuto dignità a
sufficienza per domandare aiuto, Severus” – disse Silente, rispondendo con
gentile solennità alle sue domande inespresse, poi indicò nuovamente il
Pensatoio.
La bacchetta di Piton si
mosse con estrema lentezza, estraendo un nuovo filamento
grigiastro.
Le labbra gli tremavano,
ma non si sottrasse.
Il suo primo vero,
incancellabile, peccato: la prima vita recisa in nome di un padrone che non
conosceva pietà, nemmeno per i suoi servi.
Due sole parole, un lampo
verde, crudele e vibrante, ad illuminare la notte, il tonfo sordo di un corpo
che cadeva inerme, due paia d’occhi sbarrati sull’incubo, e non una ma ben due
vite erano state spente, inesorabilmente.
Quella della vittima
innocente e quella del carnefice, doppiamente colpevole. Reo di aver ucciso e di
possedere una coscienza pronta a rinfacciarglielo
atrocemente.
Senza più vita quel
povero corpo scompostamente accasciato al suolo e morto dentro il ragazzo
incappucciato con la bacchetta ancora puntata davanti a sé; l’espressione
dell’orrore congelata e imprigionata dietro l’argento della maschera che gli
copriva il volto.
Morto il giovane studente
Serpeverde che desiderava essere rispettato, forse ammirato, di sicuro trattato
con dignità dai propri coetanei. Perduto, quel magro infaticabile allievo
assetato di sapere, di calore, d’amicizia ed amore. Condannato da due misere
oscure parole, che non erano conoscenza e potere, come aveva stupidamente
creduto, ma solo fuoco che bruciava l’anima e imperdonabile, arrogante
delitto.
Ritto accanto a Silente,
nel proprio ricordo, Severus sentì risuonare uno stridulo grido disperato, un
istante prima che il suo doppio pronunciasse l’Avada Kedavra – “NO, NO, NON
FARLO!”.
Ma gli ci volle il tempo
di qualche respiro per comprendere che non era stata la vittima ad urlare; che
quelle parole erano sfuggite alle sue stesse
labbra.
Oh, se solo fosse bastato questo a fermarmi…
ora so perché li chiamano Incantesimi senza Perdono. Ed
io ho ripetuto quelle orrende parole e quel gesto, ancora e ancora…
Poi anche i pensieri si
fecero troppo dolorosi e confusi.
Il Preside lo trascinò
via per un braccio, fuori dal Pensatoio, scuotendo il capo con
amarezza.
Ma non gli diede che
pochi attimi per riprendersi un po’, prima di tornare ad esigere un’altra rata
del prezzo che aveva deciso di imporgli.
La punta fremente della
bacchetta di Piton si accostò ancora una volta alla
tempia.
Un'altra vittima,
un’altra morte ingiusta inferta da un veleno da lui distillato, o dalla sua
scura bacchetta, oppure dalla lama affilata del pugnale d’argento: lo stesso che
usava per preparare gli ingredienti per le sue pozioni; quel filo tagliente che
non avrebbe mai dovuto utilizzare per altro se non per sminuzzare erbe e
radici.
Ancora e ancora,
inesorabilmente i ricordi si susseguirono nel bacile di pietra e lui vi entrò,
sempre più tremante, impotente e nauseato, anche quando non era stato lui il
carnefice, limitandosi ad essere spettatore, inchiodato dall’incubo delle
efferatezze dei suoi compagni, disposti in un macabro
cerchio.
E io non li ho fermati,
mai, mai, mai! Non ho avuto il coraggio. Sono un patetico vigliacco che ha
temuto per la sua inutile vita, nonostante non valga più niente, perché io
stesso l’ho buttata via.
Sono colpevole quanto
loro, sono solo un animale, un mostro.
Silente gli stava accanto
muto. Le prime volte, come un medico che spietatamente fa sorbire una medicina
amarissima al proprio paziente solo per salvarlo, lo costrinse a voltarsi,
quando, tormentato dal disgusto e dal rimorso, tentava di girare le spalle al se
stesso della memoria.
Poi smise di forzarlo e
finse di non vedere le lacrime che avevano preso a rigargli il viso ancora
troppo giovane, eppure desolantemente invecchiato dalla
sofferenza.
Finse di non vedere il
sangue che macchiava le labbra lacerate da un ennesimo morso troppo impietoso e
feroce ed il fremito di quel corpo esile e
spigoloso.
Lo fece per profonda
compassione, comprendendo che l’umiliazione del giovane mago era già troppo
profonda per aggiungervi anche la propria aperta
pietà.
Ma fu anche sordo alle
suppliche che, dopo un po’, Severus, ormai sconvolto dal suo stesso incubo, non
riuscì più a trattenere, nonostante l’orgoglio.
“La prego, basta,
smettiamo. Che senso ha?” – rochi rantoli soffocati dai singhiozzi – “Basta, è
insopportabile, non ce la faccio più, fa troppo male. Vorrei tornare indietro,
cambiare il passato… la prego, non un’altra volta…
“.
Silente gli poggiava
delicatamente una mano su una spalla, ma poi tornava sempre ad indicare il
Pensatoio e la punta della bacchetta di Severus tremava ogni volta di più fra le
dita sottili, anche se continuava ad obbedire.
Non ne poteva più, ma, in
fondo, sentiva anche che era giusto soffrire atrocemente per ogni vita
arbitrariamente rubata, per ogni giovinezza accorciata, per ogni strazio
inflitto od osservato senza far nulla per
impedirlo.
Il prezzo dei suoi gesti
lo stava lentamente schiacciando, col trascorrere dei minuti, delle ore, o forse
dei secoli, ed il susseguirsi implacabile dei ricordi, eppure una parte di lui
voleva solo pagare, fosse anche stato fino allo strazio totale di
sé.
Gli pareva impossibile
che le gambe lo reggessero ancora in piedi e si sentiva ardere il volto, come se
avesse la febbre alta, e probabilmente l’aveva davvero. Forse il suo corpo si
stava ribellando a tanto dolore dell’anima.
La mente stessa gli si
annebbiò al punto che, ad un tratto, scordò di nuovo di non poter interagire con
il suo doppio e, sfuggendo alla salda presa di Silente sul suo braccio, si
slanciò in avanti, in quel cerchio solo rammentato, ma così reale, per tentare
di afferrare una spalla del nero e snello figuro incappucciato intento a
pronunciare un’interminabile maledizione cruciatus. Provò, contro ogni logica, a
far cessare il supplizio, ma si ritrovò a stringere solo l’aria, mentre la
tortura continuava, tanto per la misera vittima di quella barbarie, quanto per
lui che ne era stato il carnefice.
Dimentico di ogni cosa,
perfino della deferenza dovuta all’alto mago canuto che lo osservava con occhi
velati, gridò, senza potersi trattenere – “E’ tutta colpa mia, colpa mia. Ti
prego fallo smettere, so che ho sbagliato, oh, ti prego fallo smettere e io mai,
mai più…[1] “.
Il Preside lo raggiunse e
lo strattonò. Un attimo dopo erano di nuovo nello studio, ingombro di ritratti e
strani strumenti d’argento, che ronzavano sommessi come misteriosi insetti
luccicanti.
I Presidi del passato li
fissavano attoniti dalle pareti, senza osare fiatare, dinnanzi a quello che era
chiaramente un profondo dramma.
“Mi spiace, ragazzo” –
gli disse Silente, forzandolo a sedersi – “Né tu né io possiamo farlo smettere.
E’ accaduto ormai. Ma non succederà più, lo sappiamo entrambi. Mai più, perché
tu non vuoi che un simile crimine si ripeta. Non puoi cancellare ciò che è
stato, ma vuoi e puoi cambiare strada e non commettere più colpe così
terribili”.
Guardò l’ex allievo,
raggomitolato su se stesso, atrocemente provato, la schiena curva scossa da
conati e singhiozzi, poi spostò lo sguardo sul Pensatoio e decise: Hai pagato abbastanza, Severus e l’hai fatto
con onestà, anche se non ti reputi più un uomo retto.
Non hai tentato alcuna
scappatoia, né sottratto nulla al prezzo che ti ho imposto. Potevi conservare
solo per te le memorie più dolorose, quelle più degradanti o che più fortemente
ti accusano, ma sento che non l’hai fatto, per quanto ciò ti sia costato e anche
se ti sarebbe stato facile cedere alla
tentazione.
Questa è onestà, che tu
ci creda o no, ragazzo.
La luce che speravo è
ancora là, devi solo lasciarla uscire ad illuminarti il
cammino.
E non sarà un sentiero
facile, Severus, mi dispiace. Non posso permettermi eccessiva
pietà.
Non posso per il tuo bene
e perché sei un dono per me, un inaspettato regalo del fato che sarebbe peccato
sprecare per sentimentalismo.
Tornò a fissare il mago
bruno che aveva alzato a sua volta gli occhi velati e traboccanti di sofferenza
verso di lui, come a rivolgergli un’ulteriore muta
preghiera.
Non soffermò la sua
attenzione sulle iridi d’onice incrinate dal rimorso, ma volontariamente andò
oltre, cercando l’ultima conferma, solo per scrupolo, anche se non reputava di
averne realmente bisogno.
S’immerse nelle
profondità della mente sconvolta del giovane, e sorrise dolcemente nel trovarla
spalancata, senza alcun tentativo o volontà di difesa e nello scorgervi subito
il chiarore desiderato. Severus Piton ancora non poteva vederla, quella
scintilla che era sentore di un’anima lisa, ma ancora viva e tenacemente
desiderosa di riscatto, però al vecchio apparve perfettamente nitida e non ebbe
bisogno d’altro.
Ripose rapido il catino
istoriato e fece comparire un calice di cristallo, ricolmo di un liquido scuro
dal forte aroma d’erbe e alcool, ficcandolo a forza tra le dita contratte
dell’altro mago.
“E’ finita, ragazzo. Ora
bevi questo, ne hai bisogno e ti aiuterà a calmarti” – lo invitò,
paterno.
Severus lo fissava
stupito.
“Come può trattarmi con
gentilezza?” – sussurrò sfinito e incredulo – “Ha visto cosa sono. Ha visto!...
“.
Silente non smise di
sorridergli e allungò le mani a circondare le sue, troppo incerte, perché non
lasciasse cadere il bicchiere.
Sostenendole, gli fece
avvicinare il calice alle labbra e lo costrinse a
bere.
“Calmati, ora” – ripeté
pacato – “Calmati”.
Hai ancora una
confessione in serbo, lo so, e ti ci vorrà altro coraggio,
Severus.
[1] Le parole dell’intera frase sono tratte
da Harry Potter e il Principe Mezzosangue (capitolo 26; pag. 519). Silente le
pronuncia nella caverna, dinnanzi a Harry, mentre beve la pozione posta a difesa
dell’Horcrux. Ovviamente, non sappiamo a chi sono realmente riferite; se siano
ricordi di Silente stesso, illusione o memorie altrui, però le trovo
perfettamente calzanti per il mio giovane Severus travolto dal rimorso, che
vorrebbe fermare se stesso e modificare il passato. Consideratela una licenza
poetica.