CAPITOLO
II:
“Perfetto!
Siete
arrivati tutti.” esclamò entusiasta Sarutobi.
Oltre a loro tre c’era
una ragazzina che
sembrava più grande di
loro, sui sedici anni circa, che masticava volgarmente una big-babol, i
capelli
biondissimi tagliati alla maschietta; vicino a lei stava, invece, un
ragazzo
dall’aria annoiata e dai lineamenti quasi grotteschi, i
capelli color
liquirizia, scompigliati a donargli un’aria selvaggia.
“Iniziamo la nostra
prima lezione.”
E mentre il
sovraintendente ciarlava sull’ordine della polizia, sulle
loro regole e via
dicendo, il ragazzino di nome Orochimaru le si avvicinò.
“Ieri non abbiamo
avuto occasione di presentarci. Piacere, io sono Orochimaru
Kusanagi.” le tese la
mano mentre il volto si apriva in un sorriso allo stesso tempo subdolo
e
affascinante che stonava del tutto con il suo volto bello e fine.
“Io sono Tsunade
Senju.” gli rispose lei stringendo la sua mano.
“Hei, se fate la
riunione dei graziati voglio esserci anch’io.” si
intromise l’altro ragazzo dai
capelli bianchi. “Io sono Jiraya Myoko, piacere di
conoscervi!” Le sorrise
anche lui e, a differenza del moro, il volto di Myoko godeva del suo
riso:
sembrava splendere ora.
“Voi tre, li infondo.
Vedete di fare attenzione o vi rispedisco al vostro destino.”
li richiamo
Sarutobi.
I giorni si
alternavano in una monotona e triste ridondanza: scuola la mattina,
pranzo,
visita alle tombe del fratellino e dell’(ex)fidanzato,
lezione alla centrale,
cena e finalmente abbandonarsi al torpore del sonno. Sopravviveva,
niente di
più. La ferita della perdita era ancora aperta e sanguinante.
Osservò i poliziotti a
capo della retata forzare la porta della casa; si concentrò
per capire le
dinamiche ma all’improvviso, dopo aver vagato un
po’ con lo sguardo, la sua
attenzione fu catturata da due persone, al limitare della zona, che
osservavano
il tutto.
Fu come un pugno tra le
costole e un calcio nello stomaco, le si mozzò il fiato.
Aveva già visto quei
due bastardi e li avrebbe riconosciuti tra mille: il naso sporgente e
gli
occhi, neri, sfuggenti dell’uomo, la corporatura esile della
donna con una
cicatrice sullo zigomo destro che partiva dalla base del naso e
arrivava quasi
fino all’orecchio che Tsunade stessa le aveva,
orgogliosamente, provocato. In
un attimo i flashback di quel giorno le tornarono in mente e
sentì montare la
rabbia, fino a offuscarle gli occhi. Il pensiero volò
istintivamente alla
pistola di riserva poggiata sul sedile anteriore dell’auto, a
nemmeno un metro
da lei; si costrinse a non dare vita ai suoi pensieri mentre la mano
destra
bruciava dal desiderio di appropriarsi dell’arma.
Iniziò a tremare di
rabbia mentre cercava di darsi un contegno.
Gli altri avevano
iniziato a intuire che c’era qualcosa che non andava.
“Tsunade, tutto a
posto?” le chiese Jiiraya, preoccupato, avvicinandosi.
Iniziò a prendere
fiato, facendo dei respiri brevi e veloci.
“S..si, sto bene.”
Finalmente aveva
ripreso a respirare in maniera decente, la mano aveva smesso di tremare
e i due
erano spariti dalla sua visuale. Era tornato tutto normale…
circa.
Quella sera era
tornata a casa, si era preparata da mangiare in uno stato catatonico e
si era
fatta una doccia. Ora era seduta sul davanzale della finestra, i
capelli ancora
umidi che gocciolavano lungo la sua schiena, e guardava Tokyo,
illuminata dalle
luci, che si stagliava contro il cielo nero.
Era ancora turbata
dalla scena del pomeriggio: aveva sguazzato per anni nella sete di
vendetta e
nel rancore per poi riuscire ad uscirne con difficoltà una
volta per tutte.. o
almeno era quello che credeva. Se lo sentiva nelle ossa, glielo urlava il cervello:
se non fosse stata
in servizio, circondata da una trentina di persone, si sarebbe
comportata
esattamente come quel pomeriggio invernale di tre anni prima.
Che debole. Non
riusciva a credere di avere così poco autocontrollo.
Lo squillo del
cellulare la riscosse dai suoi pensieri; recuperò
l’apparecchio dal pavimento e
lesse il messaggio che le era appena arrivato.
Da: Orochimaru
A: Tsunade
Vieni e bere qualcosa?
Si diedero
appuntamento alla stazione di Shibuya di li a quindici minuti
–entrambi
abitavano relativamente vicino-; era in anticipo ma, nonostante questo,
Orochimaru era già li: appoggiato mollemente sul muro
accanto all’uscita
dell’edificio, nella sua aria distaccata e affascinante.
“Ciao.” lo salutò
avvicinandosi.
“Ciao.” le rispose
lui.
Poi scese un silenzio
imbarazzante che nessuno dei due si apprestava a rompere.
“Conosco un bar qua
vicino, gestito da un mio amico, che non è niente
male..” riprese quindi lui,
iniziando a camminare. “Te lo mostro.”
Come sempre non aveva
chiesto il suo parere: Orochimaru sceglieva e toccava agli altri
adattarsi.
“Dimmi, cos’è successo
questo pomeriggio?”
La frase era stata
formulata come domanda ma lei non mancò di notare il tono
deciso dell’ordine,
mascherato nell’interrogazione; non voleva rispondere, voleva
tenere per sé
quel segreto così gelosamente custodito, quelle ferite che
ogni volta che
venivano sfiorate rischiavano di sommergerla con ondate di dolore. Ma
poi
intercettò lo sguardo di Orochimaru, i suoi tratti fini che
l’adolescenza aveva
scolpito in maniera impeccabile, quel suo sorriso così
insopportabile e al
tempo stesso intrigante, quegli occhi di pece insondabili: in pochi
secondi
perse la sua determinazione. Cosa diavolo le provocava quel ragazzo?
Non
riusciva a capacitarsene, sembrava la ipnotizzasse: gli
raccontò tutto.
Finì il racconto e
Orochimaru continuò il suo silenzio; a quel punto si
arrischiò a domandare
anche lei.
“Te per cosa sei
finito in questo casino?”
Ancora silenzio.
Poi, dopo qualche
minuto, il ragazzo aprì di nuovo la bocca.
“Truffa.” rispose
laconico.
“Truffa?” esclamò lei,
incapace di capire come un tredicenne potesse essere indagato per un
tale
crimine.
“Mi sono affiancato ad
un’organizzazione non proprio lecita che stava organizzando
una truffa con
agguato ai danni della sua rivale.”
“Perché?”
Quel ragazzo
l’affascinava sempre di più. Insondabile e
imprevedibile.
“Perché
‘l’organizzazione rivale’ ha rapito i
miei genitori quando avevo sei anni.”
Calò di nuovo il
silenzio: Tsunade non sapeva cosa dire… non immaginava che
il movente fosse
quello.
“Mi dispiace, capisco
come ti puoi sentire a perdere le persone a te care..”
cercò di consolarlo a
suo modo: non era molto brava con le parole.
“Hai ragione. Io e te
riusciamo a capirci..siamo nella stessa barca” le disse,
strascicando le
parole, aprendosi in quel sorrisino che le procurava sempre brividi la
cui
origine non era ben specificata.. paura o eccitazione?
Ingollò il bicchiere
di vodka che Orochimaru aveva ordinato –era la sua prima
bevuta alcolica- e
considerò che il ragazzo aveva ragione, erano decisamente
nella stessa
situazione. Entrambi privati delle persone a cui tenevano di
più da terzi,
entrambi aveva cercato la vendetta, avevano tentato di colmare il vuoto
del
baratro che si apriva nel loro petto… non poteva negare
l’affinità che sentiva
con lui.
Perse il filo dei
pensieri, sentiva la testa girare e gli occhi farsi sempre
più pesanti.
Inquietante.
Si girò su un fianco e
scorse Orochimaru dormire accanto a lei, i capelli perfettamente
ordinati anche
nel sonno, le palpebre chiuse e a petto nudo. Improvvisamente i ricordi
della
notte precedente le piombarono addosso con la forza di un tifone.
Si alzò piano cercando
di non svegliare il ragazzo e, tenendo gli occhi lucidi ben aperti per
non
iniziare a piangere, recuperò la borsa e i vestiti per poi
attraversare la
stanza in punta di piedi e chiudersi in bagno.
Si sedette sulla tazza
e frugò alla ricerca del portafoglio; una volta trovato- sul
fondo della borsa-
lo aprì e tirò fuori una vecchia fototessera
spiegazzata: su uno sfondo bianco
un ragazzino dai capelli tinti di un blu cielo e con il sorriso furbo e
gentile
la salutava allegramente. La appoggiò sullo specchio e piano
una lacrime le
solcò il viso per poi cadere nel lavandino; subito ne segui
un’altra e poi
un’altra e ancora un’altra… in poco
tempo era scoppiata in un pianto,
silenzioso naturalmente –non
voleva
assolutamente farsi trovare da Orochimaru in quello stato-, che non
accennava a
diminuire. Il peso dei sensi di colpa le schiacciava il petto e le
mozzava il
respiro: osservava Dan guardarla allegramente dalla foto e
immaginò il
rimprovero e il disgusto che avrebbe avuto stampati in volto se
l’avesse
guardata in quel momento.
Dio, che mostro che
era! Aveva appena scopato con un ragazzo –per di
più sotto l’effetto
dell’alcol- che non era il suo
Dan,
aveva infangato la sua memoria in un modo talmente becero da darle il
voltastomaco.
Stupidastupidastupidastupida.
“Come puoi avermi
fatto una cosa del genere?” la voce seria e delusa di Dan le
risuonava nel
cervello ad un volume altissimo… come se glielo stesse
urlando nell’orecchio.
Si accasciò a terra,
rannicchiò le gambe al seno e pianse tutte le lacrime che
aveva in corpo.
Poi anche quelle
finirono e si asciugarono, si strofinò quindi gli occhi
irritati e si rivestì.
Si guardò allo
specchio: aveva un paio di pensanti occhiaie violacee sotto gli occhi
gonfi e
arrossati dal pianto, i capelli scarmigliati e annodati, il trucco
colato della
sera precedente e la tristezza stampata in volto. Uscì dal
bagno e gettò
un’occhiata a Orochimaru che dormiva ancora; si
infilò le scarpe e si chiuse
l’uscio alle spalle ripromettendosi che non sarebbe mai, mai,
mai più successo.
SPAZIO AUTRICE:
Eccoci qua con il sencondo capitolo! Bè, che dire? Spero che
questo capitolo riscutoi più successo del primo...
Ci tengo a precisare che questo è in corsivo e che quindi
è un luuuunghissimo flashback!
Detto questo: alla prossima! Sono ansiosa di ricevere i vostri commenti
e i responsi, quindi.. recensite e mi farete felice! ^^
Baci, Eikochan.