Hogwarts
Horror Story
- Part 1: Fall –
7.
Of Tears And Blood
“Sono salito sulla
cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da
angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti?
Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere
qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva.”
(L’attimo fuggente)
Sedevano tutti e otto al
tavolo più appartato della biblioteca, vicino a una finestra nella sezione di
Aritmanzia, che di solito non aveva il coraggio di frequentare nessuno, a parte
Hermione Granger e pochi altri. Harry stava quietamente seduto accanto a Ron,
che aveva il ginocchio fasciato e aveva poggiato accanto a sé le stampelle che
avrebbe dovuto portare per almeno una settimana. Hermione aveva preso un libro
a caso da uno scaffale e aveva iniziato a sfogliarlo distrattamente, così come
Anthony che s’era avvicinato a lei alla ricerca di un modo per ammazzare il
tempo mentre attendevano l’arrivo di Twycross. Morag sedeva da sola, distante
da tutti e in silenzio, con i lunghi capelli bruni sciolti che le coprivano
parte del viso. Draco giocherellava con la sua bacchetta, un’abitudine
rischiosa che Hermione gli aveva più volte rimproverato senza successo.
Zacharias era l’unico che stava in piedi, con le mani in tasca, scrutando
sospettoso Barry che, a gambe incrociate sul pavimento, muoveva la testa a
ritmo di una musica che solo lui poteva sentire con una specie di strano
paraorecchie.
Harry e Ron si guardavano attorno a disagio per quel lugubre silenzio, che venne interrotto solo non appena Barry, a occhi socchiusi e battendo il ritmo con un piede calzato in un babbanissimo e plebeo paio di converse rosse, si mise a canticchiare a voce bassa.
«Nightclubbing, we're nightclubbing, we're what's
happening…»
In un conato di solidarietà, Malfoy e
Smith si guardarono perplessi.
«Ehi» borbottò Zacharias, chiamando Barry
che continuava a canticchiare a occhi semichiusi. «Ehi!»
«We
see people, brand new people, they're something to see…»
Il ragazzo non lo ascoltava. Così Smith
gli tolse d’improvviso le cuffie dalle orecchie.
«Ehi, cazzo fai?» esclamò subito Barry,
raffinato come al solito, togliendo immediatamente di mano a Zacharias le
cuffie e anche l’iPod che si era tirato dietro.
«Come fai a farlo funzionare?»
s’incuriosì Hermione, mentre Barry riponeva l’oggetto nella tasca della felpa.
«Non so se hai letto Storia di Hogwarts, ma dovresti comunque sapere che
la tecnologia babbana non funziona qui» spiegò lei.
Barry la guardò disgustato, mentre si
calava il cappuccio rosso sulla testa ricciuta.
«Leggere?»
ripeté. Da come lo disse sembrava un’offesa. «No, è stato un amico di Boston a
insegnarmi qualche trucco, un tizio in gamba, quello, aveva un bel tatuaggio
che gli copriva tutto l’avambraccio sinistro.»
«Un Mangiamorte?» fece nauseato Ron,
allibito di fronte alla leggerezza con cui Barry trattava l’argomento.
«No» ribatté quello, tranquillo. «Solo
un tizio con un tatuaggio sul braccio.»
L’orologio sulla parete scoccò le
cinque esatte quando Twycross sembrò quasi materializzarsi di fronte a loro,
senza che nessuno l’avesse visto arrivare. Con un gesto secco della bacchetta
il professore tolse da sotto il naso il libro a Hermione e Anthony, riprese
Malfoy che continuava a lanciare e acchiappare la sua bacchetta e fece segno a Barry
e Zacharias di sedersi compostamente.
Quando tutti e otto furono seduti e a
braccia conserte, Twycross distribuì loro un foglio di pergamena ciascuno, che
andò a srotolarsi e a dispiegarsi sul tavolo.
Ron prese il suo figlio e corrugò la
fronte mentre leggeva.
«“Chi
sono io?”» lesse perplesso. Gli altri non fiatarono, ma guardarono
altrettanto confusi la faccia allungata e inespressiva di Twycross.
«Ho notato» cominciò il professore,
cominciando a camminare avanti e indietro di fronte al loro tavolo, «che alcuni
di voi in particolare sono stati puniti svariate volte nel corso di questi
anni, ma, evidentemente, con ben scarsi risultati.»
Fece una pausa, mentre i ragazzi si
scambiavano occhiate curiose l’un l’altro.
«La professoressa McGranitt ha
convenuto con me che, considerata l’inefficacia delle scorse punizioni, questa
volta sarebbe stato più utile qualcosa di diverso. Non credo che lucidare
trofei e rispolverare vecchi archivi potrebbe insegnarvi qualcosa.»
Diede un altro colpo di bacchetta, e
otto rispettive boccette d’inchiostro e piume d’aquila si posarono di fronte a
ciascuno di loro.
«La vostra punizione è la seguente:
voglio che riempiate quel foglio di pergamena con un tema, una considerazione,
un racconto, una riflessione, una barzelletta, un aneddoto, una poesia, quel
che volete, purché esprima chi siete voi» annunciò, lasciando basiti gli
altri, perfino Morag che di solito era molto composta e discreta e che adesso
invece lo fissava con occhi increduli e scettici.
«Una poesia?» ripeté
disorientata. «E’ uno scherzo?»
Wilkie Twycross si fece ancora più
severo, ma ciò non tolse nulla alla placidità della sua espressione.
«No, signorina MacDougal» replicò
atono. «Se una guerra intera non è riuscita a insegnarvi qualcosa riguardo
l’estrema pericolosità dei pregiudizi e del covare rancore contro qualcuno di
cui non volete neanche cercare di comprendere il punto di vista, dubito che un
solo tema possa aiutarvi su questa strada, ma ritengo che possa essere un buon
punto di partenza.»
«Cioè lei vuole che noi riempiamo un foglio di pergamena
con la storia della nostra vita?» riassunse Zacharias, poco convinto. Si
rigirava tra le dita la piuma d’aquila. «Tutto qui?»
«Voglio che facciate lo sforzo di
imparare a conoscervi, signor Smith. Di accettarvi e comprendervi l’un l’altro.
Mi sono spiegato?»
Hermione e Anthony, diligenti, furono
gli unici a dare un abbozzo di assenso. Malfoy guardava disgustato ora il suo
foglio ora il professore, chiedendosi chi diavolo avesse assegnato la cattedra
a quello spostato. Barry sembrava sereno, anzi quasi contento; gli avevano
parlato di punizioni corporali e altre atrocità, quella gli sembrò una
passeggiata. Senza contare che Twycross non avrebbe potuto trovare per lui
nulla di più facile: aveva un’intera autobiografia su cui basarsi.
«Non uscirete di qui fin quando non
avrete finito. Madama Pince vi controllerà di tanto in tanto per assicurarsi
che voi non combiniate alcun danno. Compilerete la vostra relazione e dopo ne
discuterete con gli altri, mantenendo un atteggiamento di apertura e confronto
verso i vostri compagni. Sarà Madama Pince stessa ad avvertirvi quando potrete
andare, e sarà sempre lei a riferirmi come è proceduto il pomeriggio. Domande?»
Hermione alzò timidamente la mano.
«Quello che scriveremo lo leggerà
qualcuno? A parte noi, voglio dire.»
«No» la rassicurò il professore.
«Voglio che siate sinceri e che vi sentiate liberi di esprimere quel che volete
senza timore di essere giudicati o rimproverati da un professore. Altro?»
Nessuno fece obiezioni.
«Bene» concluse Twycross. «Buon
lavoro.»
Se ne andò via in un frusciare di
mantelli.
«E’ la più grossa stronzata che io
abbia mi sentito da quando ho messo piede qui dentro» decretò lugubremente
Draco.
«Concordo» convenne Zacharias.
«Ha senso, invece» li contraddisse
lesta Hermione. «Io trovo che Twycross abbia ragione.»
«Io trovo che Twycross sia un po’
fuori» borbottò Ron. «Scusa, Malferret, se non m’interessa sapere quand’è il
tuo compleanno e qual è il tuo colore preferito» aggiunse, all’indirizzo di
Draco che rispose con un’occhiata in tralice.
«Beh, comunque poteva capitarci
qualcosa di peggio, dopotutto, no?» tentò Morag, fissando il suo rotolo di
pergamena come un insetto molesto.
«Sì, ma qualcosa adesso dovremo pur scrivercela»
borbottò Harry, impugnando la penna. «Che accidenti scriviamo?»
«Se non hai tu qualcosa da
scriverci, Harry…» ridacchiò Anthony, lasciando in sospeso la frase.
«La mezzasega sta scrivendo» bofonchiò
Morag.
«Datti pace, Morticia, se ho una vita più
interessante della tua» ringhiò Barry. «Comunque, Drake, a me interessa sapere
qual è il tuo colore preferito.»
«Ah, menomale, ero proprio in pensiero
perché credevo che non volessi saperlo.»
«Io credo che scriverò una barzelletta»
borbottò Ron.
«Tu sei una barzelletta,
Weasel.»
«Vuoi un altro pugno, Malfoy?»
«Ron, ti prego, lascia perdere.»
«E’ il viola, Drakie?»
«Ti consiglio di moderare i toni quando
ti rivolgi a un tuo superiore, Weasley. E’ una cosa che quelli della tua
famiglia dovrebbero tenere bene a mente.»
«Sai cosa dovrebbero tenere invece a
mente quelli della tua di famiglia?»
«Magenta? Terra di Siena? Verde
speranza? Rosa salmone? Nero di seppia?»
«Illuminami.»
«Dovrebbero tenere a mente che non è
buona abitudine parlare a sproposito, soprattutto se tuo padre è sotto processo
e con la prospettiva di una vita intera da passare ad Azkaban!»
«Ron» sospirò anche Harry, mettendo una
mano sul braccio dell’amico.
Ron e Draco non si staccavano gli occhi
furenti di dosso; Harry aveva una mezza idea che se non fosse stato per quel
ginocchio fasciato il suo amico sarebbe saltato addosso a Malfoy già da un bel
pezzo.
«Bene» fece perentoria Hermione.
«Adesso, se non vi spiace, che ne dite di riempire quel foglio che avete
davanti? Prima finiamo, meglio è.»
Ron non ebbe nulla da ribattere, e
Harry mollò la presa sul suo braccio. I tre Grifondoro si sedettero, Ron al
centro, e di fronte a loro Barry si sporse un poco verso l’orecchio di Draco.
«Fucsia bordesto lillato?» suggerì
ancora, mentre Malfoy lo guardava scocciato.
Lo liquidò con qualche cattiva parola,
intinse la punta della sua penna d’aquila nell’inchiostro e, come gli altri,
cominciò a scrivere.
***
Impiegarono poco meno di un’ora a
comprendere che gettare qualche frase su quel foglio sarebbe stato meno noioso
che rigirarsi i pollici e guardarsi di sottecchi.
Hermione, ovviamente, fu la prima a
finire, seguita curiosamente da Draco e Morag, che pure erano stati restii di
fronte alla consegna di quell’assurda punizione. Anthony aveva messo da parte il
suo foglio, limitandosi a tirare fuori dallo zaino che aveva lasciato in un
angolo un diario consunto che, diceva, sarebbe stata la sua storia. Ron aveva
gettato in fretta poche rabbiose righe, così come Harry che sembrava in
difficoltà. Zacharias era rimasto a braccia conserte tutto il tempo, e anche
adesso presentava agli altri con arroganza il suo foglio bianco. Rappresentava
tutto ciò che era, disse. Barry si affrettava a ultimare il suo papiro a cui si
era dedicato per un’ora intera tanto alacremente.
«Abbiamo finito?» chiese Anthony, dando
il via ai giochi. Gli altri posarono le penne d’aquila.
«Non ho intenzione di leggere niente a
nessuno» mise subito in chiaro Malfoy.
«Neanch’io» lo appoggiò Ron. «Al
massimo, sentirò il punto di vista di Harry.»
«Ma così non serve a niente» obiettò
ragionevolmente Anthony. «Conosci già Harry.»
«E chi se ne frega» replicò anche
Draco, che arrotolò il suo foglio di pergamena impedendo a Barry, al suo
fianco, di sbirciare.
Zacharias non si pronunciò nemmeno, a
testimonianza di quanto poco lo toccasse la discussione.
Hermione e Anthony si guardarono,
sapendo di essere gli unici ad aver preso con un minimo di serietà la faccenda.
Allora Hermione decise di prendere l’iniziativa e dare il buon esempio.
Arrotolò la sua pergamena, si alzò dal suo posto, con gli occhi di Harry e Ron
puntati curiosi addosso. Fece il giro del tavolo e acciuffò per un braccio
Malfoy, che non avendole prestato la minima attenzione, non si era accorto di
lei. Sobbalzò.
«Che diavolo vuoi?» protestò, quando
lei lo tirò per un braccio per farlo alzare. Dovette mollare subito la presa
perché lui la allontanò bruscamente, dando a Ron un motivo in più per alzarsi e
prenderlo a pugni di nuovo. «Non provare più a toccarmi, piccola sudicia
Mezzosangue!»
«Ehi» lo riprese Harry. «Non rivolgerti
così a lei.»
Hermione, comunque, non si lasciò
intimidire. Costrinse Draco a tirarsi in piedi e lui dovette cedere, un po’
perché non voleva essere toccato ancora un po’ perché la faccia arcigna della
Pince era sbucata da dietro lo scaffale di Storia, e quindi dovette tacere. Per
dare il suo appoggio, Anthony si alzò e andò da Harry.
Tra le proteste generali di Malfoy,
Hermione riuscì a trascinarlo fino al tavolo vuoto più vicino, dove si sedette
invitando il Serpeverde a fare lo stesso. Passandosi una mano all’altezza del
maglione, dove lei lo aveva toccato, come a voler cacciare via la polvere, alla
fine fu costretto a sedersi.
«Non aspettarti la mia collaborazione»
sibilò deciso.
«Vuoi che cominci io?» propose lei.
«Non voglio ascoltare le tue stupide
lagne.»
«Allora comincia tu. Sei stato uno dei
primi a cominciare e a finire. Suppongo che tu abbia qualcosa di ben preciso da
dire, se l’hai scritto con tanta sicurezza.»
Draco la guardò per un po’. Lui teneva
le braccia incrociate e il suo rotolo di pergamena ben stretto tra le lunghe
dita. Si guardò attorno, vedendo Barry pronto a intrattenere gli altri con un
estratto della sua autobiografia. Tornò a fissare la Granger.
Lei lo guardava imperiosa e severa, il
suo sguardo non aveva nulla da invidiare a quello della McGranitt. Era una
delle tante cose che odiava di lei, il fatto che fosse pronta a mettere in moto
quel suo scalpitante cervello per arrivare a mille conclusioni diverse. La
detestò profondamente. Non aveva mai mostrato tanta intraprendenza con lui,
prima. Adesso prendeva in prestito libri per lui dalla biblioteca, lo seguiva
fino al campo da Quidditch, si permetteva di costringerlo a fare cose
che non voleva. Il fasto della gloria che lei e i suoi compari si erano tanto
valorosamente guadagnati le aveva montato la testa, come quello sfigato di
Paciock che ora girava per i corridoi con aria da re.
La Granger era supponente, arrogante,
saccente. Ostentava una sicurezza che prima non aveva. Prima lo teneva alla
larga, lo cacciava via con poche battute mirate quando ce l’aveva tra i piedi,
faceva di tutto per evitarlo. Cosa voleva da lui?
Draco pensò a quello che aveva scritto
su quel foglio, a com’era stato facile gettare su carta quella fantasia che lo
ossessionava da un po’. Non aveva avuto dubbi su cosa scrivere, una volta messa
mano alla penna, non aveva strazianti apologie da proporre né agghiaccianti
resoconti su quanto quegli ultimi anni fossero stati terribili anche per lui:
l’arresto di suo padre, la missione affidatagli dal Signore Oscuro, la morte di
Silente, il regime dei Mangiamorte… No, era altro quello che gli andava di
sputare in faccia a quegli inutili, vittoriosi Grifondoro al momento. La sua
collera.
«Vuoi davvero leggere quello che ho
scritto?» domandò allora con sarcasmo, cominciando a srotolare con lentezza il
suo foglio.
Hermione si strinse nelle spalle. «E’
quel che la punizione richiede.»
Draco dispiegò intermente la sua
pergamena al centro del tavolo, come un guanto di offesa gettato a terra in
attesa che qualcuno accettasse quella sfida. Si fissarono a vicenda, mentre
Malfoy si abbandonava mollemente contro il suo schienale, dondolandosi sulle
gambe posteriori della sedia.
Hermione guardò il foglio appena di
striscio.
«Leggi tu» ordinò.
Dopo un attimo di attesa – Malfoy
era chiaramente innervosito da quei toni perentori – il ragazzo si sporse
e rimettendosi composto afferrò il foglio tra le mani. Lei lo guardava, non
sembrava volerlo mostrare, ma a Draco parve di riconoscere un guizzo di curiosità
nei suoi occhi scuri. La fissò ancora. Pregustò già il suo silenzio inorridito
quando lui avrebbe finito. Cominciò a leggere.
«Mi preparo per la nobile guerra…»
***
Mi preparo per la nobile guerra.
Sono a scuola, è l’ora di Trasfigurazione.
Quella vecchia pazza di Frigida McGranitt è ancora professoressa e normalmente
se la prenderebbe con me perché sono in ritardo e non sono ancora entrato in
aula.
Ma non oggi.
Sono calmo. Mi sono lasciato tutto alle
spalle, compreso Blaise che ridacchiava dietro di me e Pansy che mi implorava
di qualcosa, ma non riuscivo a sentire cosa dicesse, perché lei mi parla spesso
ma io non sto mai a sentire. Solo Theodore mi guardava e capiva; lui sapeva
cosa sarebbe successo, lo sa sempre. E’ l’unico amico che io abbia qui dentro.
Tiro fuori il mio mantello e lucido la mia
bacchetta. Sono di nuovo io il suo padrone, adesso, non risponde più a Potter.
Avrei ucciso chiunque avessi incrociato sul
mio cammino, fosse stato Mezzosangue o Mangiamorte o Grifondoro, non avrebbe
avuto importanza. Li avrei uccisi tutti.
M’incammino per i Sotterranei del castello.
Sono vuoti, la gente ha paura. Ha paura di me. Lo leggo nei loro occhi quando
mi squadrano di sottecchi e subito dopo distolgono lo sguardo, temono che io
possa far loro del male perché appartengo alla schiera dell’Oscuro Signore. Il
Marchio Nero con il teschio dalla cui bocca esce un serpente pulsa sul mio
braccio, e fa male, fa male da morire.
Indosso le vesti da Mangiamorte.
La tunica nera mi sfiora i piedi e ho una
maschera scheletrica che mi nasconde il viso. Sembro un’ombra, sono un’ombra.
Nessuno può vedermi davvero ma tutti mi temono.
Esco dai Sotterranei, come un’anima che
risorge. Cammino per i corridoi, sono implacabile, sono invincibile; ho la
bacchetta in mano.
Alcuni si girano a guardarmi, altri fanno
finta di non vedermi. Qualcuno mi indica col dito, la maggior parte si arresta
o scappa. Vedono il mio Marchio, vedono la mia maschera, ma nessuno intuisce
cosa sta per succedere.
Mi avvicino all’aula di Trasfigurazione.
Spalanco la porta, entro di soppiatto, non la richiudo. Voglio che tutti vedano
cosa sono capace di fare.
La McGranitt scrive qualcosa alla lavagna.
Si volta a guardarmi, tutti lo fanno. Alzano i loro occhietti insipidi su di
me, che sono forte, sono imponente. Sto per ucciderli.
La vecchia mi rimprovera per il ritardo. Io
alzo la bacchetta, gliela punto al cuore. Avada Kedavra e la McGranitt non c’è più.
Allora gli
altri vogliono fuggire, ma io non glielo permetto. Weasley è il primo che
ammazzo. Le sue cervella gli schizzano fuori dal cranio ancora prima che possa
accorgersi che il getto rosso della mia bacchetta è diretto contro di lui. Si
schianta sul banco, il suo sangue ricopre i libri, qualcuno urla.
Paciock lo
faccio fuori senza pensarci, un lampo di luce verde ed è finita. Corre a fare
compagnia al buon vecchio Weasel, non gli do nemmeno il tempo di chiedermi
pietà.
E’ il turno di Potter. Lui mi sta davanti,
vuole affrontarmi. La sua cicatrice è più viva che mai, sanguina ancora sulla
sua fronte e so che gli fa male, gli fa male come il mio Marchio che mi stringe
le vene e il sangue in una morsa, ma io non mi arrendo, non oggi. Questa è la
mia guerra.
Il sangue abbandona il corpo morto di Potter
che si accascia su quello dei suoi amici di sempre. Alcuni corrono a cercare
aiuto, ma a me non importa, non m’importa di essere ucciso, non mi importa più
di niente.
Lascio la Mezzosangue per ultima. Ha
condiviso con me i minuti più strazianti della sua vita, l’ho guardata
contorcersi e soffrire sotto l’effetto di un Cruciatus, le stavo di fronte mentre lei silenziosamente m’implorava.
M’implora anche adesso. Si inginocchia, mi
prega di risparmiarle la vita. Il sangue che scorre dalla testa di Weasley le
macchia le ginocchia e l’orlo della gonna, piange e mi sussurra preghiere. E com’è
patetica, com’è fragile nel supplicarmi di non ucciderla, di lasciarla viva.
Ha le mani sporche del sangue dei suoi amici
morti, le lacrime scendono sulle sue guance e si mischiano al sangue, lacrime e
sangue, lacrime e sangue, non c’è nient’altro per noi, solo lacrime e sangue.
Siamo solo uomini, è di questo che siamo fatti.
La lascio per ultima perché voglio che anche
lei stia con me fino alla fine nel momento peggiore. Esplode in un lamento
atroce quando nonostante le sue suppliche la mia bacchetta sfiora la sua
fronte.
Prega ancora, mi promette di tutto, tra i
singhiozzi sussurra il mio nome, crede davvero che io possa risparmiarla.
Ma non oggi. Oggi sono implacabile, oggi
sono forte, sono spietato, sono crudele. Non ho pietà.
Avada Kedavra.
***
Barry terminò la sua oratoria nello
sbigottimento generale.
Zacharias prese perplesso il foglio che Barrett
aveva abbandonato sul tavolo, intento ad asciugarsi con un dito una lacrima di
melodrammatica commozione che giunse ai suoi occhi. Ron lo guardò perplesso.
«Una sporca vicenda di droga con tanto di stereotipato
patrigno cattivo, fratello scappato di casa e sorella malmenata annessi?» disse
asciutto Smith, riepilogando l’epopea di Barry. «La storia dei gangster era più
credibile.»
Barry lo squadrò con supponenza.
«Almeno io qualcosa l’ho scritta»
sbottò, facendo riferimento alla pergamena intatta di Zacharias, il quale non
si scompose minimamente. Il Tassorosso cominciò a guardarsi intorno, guardando
le facce dei compagni a uno a uno. Si soffermò sul viso teso di Morag.
«Morag MacDougal, la donna con più
scheletri che vestiti nell’armadio» esordì teatrale il ragazzo, mentre lei gli
rivolgeva uno sguardo carico di sottintesi. «Cos’hai da proporci tu? Torbidi
racconti di vita metropolitana all’insegna di guerre di bande e prostituzione
minorile? O hai seguito il suggerimento di Twycross e hai deciso di poetare?»
«Non sei divertente» borbottò Anthony,
guardando l’amico.
Morag si esibì in un mezzo sorriso,
accogliendo senza remore l’invito di Smith.
«Ho qualcosa di meglio di un lamento in
versi» disse, aprendo il suo foglio di pergamena. A differenza degli altri,
aveva riempito entrambe le facciate.
«Ti racconto una storia» continuò,
guardando Zacharias che sogghignava al suo indirizzo.
«Prego, fai pure» replicò il Tassorosso.
«Ti ascoltiamo.»
***
C’era una volta una bambina piccola di nome
Katrina. Viveva in un ombroso castello sulle cime dei monti scozzesi, con la
sua mamma, il suo papà e la sua scatola giocattolo con il clown a molla
parlante. Era una bambina fortunata, aveva genitori che la riempivano di
giocattoli e bei vestiti e non le facevano mancare mai nulla, se non un po’
d’attenzioni. Ma lei era sempre così presa dai suoi giocattoli e dalle sue
belle cose che non se ne preoccupava affatto.
Un giorno sua mamma, che era una donnina
serena con i capelli bruni che disegnava fate e orchi e le leggeva libri di
fiabe prima di andare a dormire, ordinò al loro Elfo Domestico di portare via i
vecchi giochi di Katrina, per far spazio ai libri e alle bambole nuove. Così
l’Elfo eseguì, e il giorno dopo il clown a molla era finito nel seminterrato insieme
ai trenini di legno e al rattoppato orsetto di pezza.
A Katrina i nuovi giochi non piacevano.
C’era una bambola di porcellana dalle lunghe
trecce corvine, con ciglia lunghe e ben curvate e un vezzoso abitino da
principessa a balze bianche e lilla. Katrina l’aveva chiamata Joceline, come la
più antipatica e fastidiosa tra le sue compagne di giochi. Oltre la principessa
Joceline, c’era anche un bisbetico folletto di peluche il cui nome era
Trickster, e che aveva, tra le tante, pessime qualità, l’abitudine di
riprenderla quando faceva qualcosa che non andava – se rovesciava il
bicchiere del latte per terra e non chiamava nessuno per ripulirlo, o quando
sferruzzava con le tendine della sua finestra per fabbricare una sciarpa calda
per il suo Tony, il rammendato orsacchiotto di pezza con un solo nero occhio di
bottone.
Quando la compagnia di Trickster e della
principessa Joceline cominciò a infastidirla – il folletto non faceva che
rimproverarla anche per le cose più futili, e la bambola la guardava superba e
altera dalla cima della mensola più alta – Katrina decise di organizzare
una spedizione nel seminterrato per recuperare l’orsacchiotto Tony e il clown a
molla.
Il papà di Katrina, un uomo scuro e
altissimo, le aveva severamente proibito di andare nel seminterrato, fin da
quando era piccola.
«Nel seminterrato» le spiegava lui quando la
bambina faceva domande, «si annidano i rancori e i cattivi pensieri di tutte le
cose che sono state messe da parte, come i vecchi acquerelli della mamma e il
tuo orsacchiotto senza un occhio. Lì sotto le cose non sono mai quello che
erano prima; non andarci mai, o cercheranno di catturarti e intrappolarti nel
loro abbandono.»
Ma Katrina era sempre stata una bambina un
po’ discola, come si premurava costantemente di ricordarle il folletto
Trickster. Così, una notte, mentre il papà e la mamma erano a letto, Katrina
scese nel seminterrato di nascosto.
Purtroppo, Katrina non era grande abbastanza
per avere una bacchetta sua, e anche se fosse riuscita a rubare quella della
mamma non avrebbe saputo pronunciare la formula di un solo incantesimo; così,
dovette accontentarsi di una semplice candela, anche se – Katrina questo
lo sapeva bene – ci sono giorni in cui una fiammella sola non basta a
vincere le tenebre.
In punta di piedi e senza fare rumore, per
evitare di svegliare il folletto Trickster, Katrina scese lungo le scale del
suo enorme castello, rabbrividendo al contatto del pavimento freddo e lucido
con i suoi piedi scalzi.
Raggiunse la porticina d’ingresso del
seminterrato, che la bambina riuscì ad aprire dopo diversi sforzi. Quando fu
riuscita nell’intento, raccolse la candela che aveva momentaneamente poggiato
per terra e si avventurò in quel luogo oscuro.
Katrina sapeva che il suo papà non aveva
mentito quando l’aveva avvertita di stare alla larga dal seminterrato. Infatti,
oltre ad essere universalmente noto che i sotterranei sono luoghi assai
pericolosi dove scendere a fare due passi, soprattutto se si è solo dei bambini
e se è piena notte, Katrina avvertiva nell’aria un puzzo strano e nauseante che
doveva sicuramente essere l’odore del rancore.
La bambina cominciò a scendere cautamente la
piccola rampa di scale, tenendo alta la candela davanti a sé. Per un attimo la
colse la paura e la voglia di tornare al caldo delle sue coperte, ma poi le
tornarono in mente il sogghigno cattivo del folletto Trickster e i boccoli di
pece della principessa Joceline, così si fece coraggio.
Come da prassi, le scale cigolavano
sinistramente. Katrina lo prese come un buon presagio: era sulla strada giusta.
«Tony?» bisbigliò, sperando che lui la
sentisse e si facesse avanti per primo. Nel buio, intravedeva solo sagome alte
e squadrate di scatoloni o statue ricoperte da pesanti coltri, non aveva voglia
di addentrarsi in quelle tenebre. «Signor Clown a molla?»
Le tremava un po’ la voce e sentiva le spire
delle cose abbandonate che cercavano di trascinarla un po’ più in basso nel
loro oblio. Ma lei non aveva scelta: doveva riportare Tony e il signor Clown in
salvo.
La fiamma della candela illuminò debolmente
l’ambiente; Katrina si accorse di aver trattenuto il respiro.
«Tony…» sussurrò ancora. «Signor Clown a
molla… vi prego, dove siete?»
A un certo punto Katrina sentì dei rumori;
trasalì e si guardò paurosamente intorno, sentendo rumori di scatoloni e
perfino un gemito. Il primo impulso fu di scappare. Katrina cominciò a
precipitarsi verso le scale, ma nel farlo inciampò e cadde lunga distesa per
terra. La candela le scivolò di mano e cozzando contro la pietra gelida del
pavimento si spezzò e si spense, lasciando Katrina nelle tenebre.
Quando la situazione stava per farsi più
pericolosa, Katrina avvertì un rumore familiare e uno strano rimbalzo… come di
una molla.
«Accidenti…» borbottò una voce da lontano.
«Oh, accidenti. E’ troppo in alto. Accidenti.»
«T-Tony?» mormorò la bambina tra i
singhiozzi, che ne aveva riconosciuto la voce.
«Accidenti… accidenti… signor Clown, le
dispiacerebbe rimbalzare un po’ verso su? Quella scatolina lì in alto, sì?»
Ci furono una serie di rumori, come di una
molla e qualcosa che cadeva.
Katrina stette all’erta.
«Sì… sì, ecco, signor Clown, quella lì. La
ringrazio, messere. Ci siamo, ecco: Kat?»
Una fiamma flebile squarciò il buio come una
spada e, per quel che la riguardava, l’orsacchiotto Tony era il suo cavaliere.
Tony, con l’aiuto del clown a molla, aveva
recuperato dal fondo di uno scatolo una confezione di fiammiferi, che aveva
usato per accendere la candela rotta di Katrina che, rotolando, era giunta fino
a lui. Tony la sollevò goffamente tra le sue zampe scucite, illuminando il
signor Clown e il profilo ossuto di Katrina.
«Oh, Tony!» esclamò la bambina, rialzandosi
in un balzo e correndo a recuperare l’amico. Il signor Clown le sorrideva
sornione dalla sua scatola rossa, silenzioso ma vigile come sempre.
«Ahia» si lagnò l’orsetto. «Ahia, Kat,
attenta alle cuciture!»
«Scusa, scusa» si precipitò a dire lei,
accorgendosi di starlo stritolando troppo forte. «Oh, Tony, sono così felice di
averti ritrovato! Porterò te e il signor Clown in salvo, vi nasconderò sotto il
letto così la mamma non saprà mai che siete lì!»
«Bel piano, madamigella» scherzò
l’orsacchiotto, mentre si lasciava sollevare sulla spalla di Katrina, dove si
appollaiò saldamente.
«Gradisce adagiarsi tra le mie braccia,
messere?» domandò cortesemente la bambina al signor Clown, che sapeva quanto ci
tenesse a che gli si usasse un certo riguardo.
«Volentieri, madamigella, volentieri» trillò
quello, scuotendo tutti i suoi campanelli e pennacchi. Katrina prese in braccio
anche il clown a molla con la sua scatola.
«Ma, un momento!» tuonò d’un colpo il signor
Clown, facendo sobbalzare la bambina e anche Tony, che sulla sua spalla
traballò leggermente e rischiò quasi di far cadere nuovamente la candela. «Che
mi venga un colpo, sergente! Abbiamo dimenticato il nostro ospite!» continuò il
clown, molleggiandosi nella sua scatola tra le braccia di Katrina, rivolgendosi
all’orsetto che trattenne un’esclamazione di sorpresa.
«Oh, già, è vero» convenne sbadatamente
quello.
«Di chi parlate?» s’informò educatamente
Katrina.
Tony e il signor Clown si scambiarono
un’occhiata.
«Ma del gentiluomo che ci ha tenuto
compagnia in questa settimana, naturalmente» spiegò il clown a molla.
«E che ci sembra assai scortese abbandonare
qui sotto dopo che è stato tanto gentile e beneducato con noialtri» continuò
Tony.
«Oh» Katrina sembrava sorpresa.
«Dovremmo aiutarlo» insistette il signor
Clown. «Non lo senti come geme?»
Katrina aggrottò le sopracciglia sottili.
«Io non-»
Silenzio. Poi un lamento riempì il
seminterrato, lo stesso gemito di dolore che aveva sentito la bambina scendendo
lì e che aveva attribuito a qualcos’altro.
Un brivido di terrore le percorse la spina
dorsale.
Col signor Clown in braccio e l’orsacchiotto
Tony che illuminava il buio tenendo alta la candela, Katrina avanzò a piccoli
passi, con le gambe molli e il cuore in gola.
«Un po’ più avanti, madamigella» la esortò
messer Clown.
Katrina mosse un altro, minuscolo passo. Il
pavimento sotto i suoi piedi era sempre più freddo.
«Avanti» la incitò anche Tony, reggendosi
con una zampa tozza l’occhio di bottone che stava quasi per cadergli. «Vai
avanti, Kat.»
Katrina si mosse ancora, i gemiti erano più
vicini, così come il puzzo nauseante del rancore.
«Avanti» ripeté imperioso messer Clown,
quando la bambina esitò.
Katrina fece un altro passo. Al suo
orecchio, l’orsacchiotto Tony, col filo nero che gli cuciva addosso un sorriso
a metà, le sussurrò: «Avanti.»
Avanti.
Vai avanti, Kat.
Si sbrighi, madamigella.
Katrina…
L’ospite giaceva imbavagliato per terra. Il
sangue raggrumato dava una nuova forma al suo volto pieno di ferite e lividi,
un grumo di sangue secco gli impediva quasi totalmente la vista da un occhio,
che forse era stato fatto saltar via. I suoi piedi legati si agitavano inquieti
tra la polvere del seminterrato, con l’occhio buono guardava disperato attorno
a sé e mugugnava qualcosa che con la bocca e con la lingua tagliata non
riusciva a formulare.
Katrina urlò.
***
Hermione osservò Draco alzare gli occhi dal foglio e guardarla mentre pronunciava le ultime due parole. Poi abbandonò il rotolo di pergamena sul tavolo, come uno schiaffo, mentre incrociava le mani e tornava a dondolarsi sulla sedia con un ghigno serafico.
La Granger era chiaramente colpita; non aveva fiatato, fatto domande, obiettato nulla. Anche adesso lo guardava come se si aspettasse che fosse lui a prendere parola per primo, perché lei evidentemente non avrebbe saputo come commentare.
«Allora?» la esortò dopo alcuni secondi Draco. «Ti è piaciuta la mia storia?»
Hermione sostenne il suo sguardo. Sembrava pensierosa, sì, ma non inorridita da quelle sue fantasie.
«E’…» Hermione esitò. Prese un bel respiro. «E’ quello che fantastichi di fare? Sterminarci tutti?»
Draco si strinse nelle spalle, godendo della sua faccia ammutolita e sorpresa.
«E’ solo un sogno che faccio spesso, ultimamente» spiegò con noncuranza. «Si ripete sempre uguale, e finisce sempre nello stesso modo.»
«Con me che ti supplico e tu che fai saltare le cervella a Harry» ricordò Hermione. «Carino.» Fece una smorfia.
«Sì, trovo anch’io» convenne ironicamente lui. «Sei contenta ora che ci siamo aperti a questo simpatico e inutile confronto, come voleva Twycross? Credi che adesso mi alzerò e andrò a chiedere scusa a Weasley e che domani pranzeremo al tavolo insieme?»
Hermione sostenne quello sguardo di piombo.
«Credo che sia arrivato il momento di dare un senso a tutte le cose che sono successe» ribatté. «Se continuiamo a comportarci come se nulla fosse successo, se continuiamo a odiarci come facevamo prima… tutto quello che per cui tutta quella gente è morta non sarà servito a niente» terminò in un sussurro. «E’ tempo di finirla, Malfoy.»
Lui la ascoltò attentamente, mentre a qualche metro da loro gli altri ridevano per qualcosa che aveva detto Barry. Draco mise su un ghigno inquietante e scosse la testa, tenendo gli occhi bassi. Hermione si chiese perché Malfoy si stesse osservando le mani, poi si accorse che stringeva la mano destra come a voler trattenere qualcosa sull’altro avambraccio.
«Granger, io non ti odio come facevo prima» le disse lui, con uno strano sorriso. «Io ti odio in una maniera che prima non avrei neanche creduto possibile» le sussurrò.
Hermione tacque.
«Vedi…» riprese Malfoy, sporgendosi sul tavolo per farsi più vicino al suo viso. Parlava a bassa voce, forse per non farsi sentire dagli altri, e istintivamente anche Hermione si avvicinò. «Te l’ho già detto quella volta al campo di Quidditch. Non importa se sei una Sanguesporco. Una volta potevo anche odiarti per questo, ma adesso devi capire, Granger, che non mi importa assolutamente nulla del tuo putrido sangue.»
Qualcosa in quelle parole innervosì Hermione. Non solo la cattiveria con cui Malfoy pronunciò quella parola – Sanguesporco – ma quel sorriso che gli increspava le labbra in una smorfia di compiacimento.
«Odio Potter perché era con me la notte in cui ho quasi ucciso Silente» disse Malfoy, e ogni traccia di quel sorriso cattivo svanì all’istante dalla sua bocca. Hermione si voltò per un istante a guardare Harry, che seduto all’altro tavolo discuteva sommessamente con Anthony.
«Odio Weasley» riprese Malfoy, riportando l’attenzione di Hermione su di sé, «perché quella volta, nella Stanza delle Necessità, è tornato indietro a prendere me e Goyle nonostante i nostri gli avessero appena fatto fuori il fratello.»
Fred.
Hermione fece per dire qualcosa, scosse la testa, ma lui la bloccò alzando un indice e facendole segno di tacere.
«Odio te» sibilò infine, e Hermione trasalì, «perché ero in quella stanza mentre mia zia ti torturava» concluse infine, tirando fuori a voce qualcosa che lei si era impegnata con costanza a seppellire nella parte più profonda di sé. Qualcosa, in Hermione, in quel momento si strappò.
Come le era accaduto raramente in vita sua, per una volta Hermione non seppe cosa dire; ma nello sguardo di Malfoy, non appena trovò la forza di alzare il mento e guardarlo, trovò qualcosa che in tutti quegli anni di battibecchi e insulti non c’era mai stato.
Vergogna.
«Sai cosa vorrei?» sussurrò ancora Malfoy, sempre più vicino.
Vergogna perché loro erano lì a guardare mentre lui mandava miseramente in pezzi la sua vita.
«Vorrei non dover vedere ogni giorno le vostre stupide, vittoriose facce.»
Vergogna perché loro lo odiavano mentre lui si odiava a sua volta, per ogni suo respiro, per ogni suo gesto.
«Vorrei che la piantaste di mettervi contro di me, vorrei che una volta per tutte mi lasciaste in pace.»
Vergogna perché lui era un sottomesso, un succube, piegato alle minacce di qualcuno a cui non aveva avuto la forza di ribellarsi; vergogna perché aveva perso, perché aveva fallito. E il mondo gli sbatteva continuamente in faccia quel fallimento così grande.
«Malfoy, lasciami» mormorò Hermione, e solo allora lui si accorse di averle afferrato il braccio all’altezza del gomito, serrandoglielo con forza sulla stoffa del maglione. Non mollò la presa, strinse più forte.
«Vorrei che non esisteste» sputò fuori infine. «Vorrei non conoscervi. Vorrei che non ve ne andaste in giro con quell’aria da pavoni per i corridoi con quello stuolo di seguaci al seguito.»
«Mi stai facendo male» gli sussurrò ancora, cercando di mantenersi controllata e ferma.
«Vorrei che spariste.» Aumentò la presa sul suo braccio. «Vorrei potervi togliere di mezzo come in quel sogno, vorrei che mi imploraste, vorrei che…»
Fu costretto a mollare la presa e voltare il capo di lato quando lei lo colpì con uno schiaffo. Hermione si alzò in fretta, mentre lui si premeva una mano sul viso a coprirsi parte della bocca e guancia.
«Che succede?»
Ron e Harry le furono subito alle spalle, così come gli altri che destati dal rumore si avvicinarono al loro tavolo.
«Ti ha fatto qualcosa?» le chiese premuroso Ron, sfiorandole per un attimo il volto con una mano. Ma Hermione non rispose, anche se sembrava un po’ strana, guardava il palmo della mano con cui aveva colpito Malfoy, sentendo addosso uno strano presagio.
Ron si voltò a guardare il Serpeverde, pronto a urlargli contro qualcosa.
Draco se ne stava ancora piegato su quel banco, cercando di dar loro le spalle, la mano gli tremava leggermente mentre la premeva ancora sul suo viso.
Morag fu la prima a superare gli altri e ad affiancare Malfoy, poi con un gesto secco cercò di afferrargli il polso per scoprirgli la faccia, ma lui la allontanò violentemente mandandola quasi a sbattere contro la sedia.
«Che cazzo mi hai fatto?» urlò Malfoy, girandosi all’improvviso e fissando Hermione dritto negli occhi. Lei boccheggiò, sembrava confusa, tremava. Non riuscì a dire nulla.
«Che cazzo mi hai fatto?» strillò ancora Draco, le urla soffocate da quelle mani sulla bocca, la voce incrinata per la paura.
Quando Morag si fece di nuovo avanti per scoprirgli il viso, questa volta con più cautela, Draco non la fermò.
Anthony era già corso a chiamare qualcuno mentre gli altri guardavano inorriditi una sottile crepa nera allargarsi come una ragnatela sulla pelle di Draco, distorcendo la sua bocca in un macabro sorriso.
***
N/A
Comincio
scusandomi per il ritardo, ma non è questo un periodo in cui sono dell’umore
giusto. Prometto anche di finire di rispondere al più presto alla recensioni dello scorso capitolo, perdonatemi. Siete sempre comunque gentilissimi.
Ora, con
ordine: l’idea della punizione scelta da Twycross deriva chiaramente da The
Breakfast Club, film del 1985 di John Hughes dove, similmente a quanto
succede in questo capitolo, un gruppo di ragazzi viene costretto a passare un
pomeriggio in biblioteca a compilare un tema dal titolo Chi sono io? Ho
sempre desiderato adattare l’idea al fandom di HP e finalmente ne ho avuto
l’occasione.
La canzone
che Barry sta ascoltando è ovviamente Nightclubbing di Iggy Pop.
Katrina è
il primo nome che JK aveva pensato per Morag, poi sostituito da Isabel e infine
definitivamente rimpiazzato con Morag. Mi piacerebbe prendermi la libertà di
pensarlo come il secondo nome della ragazza.
Infine, se
qualcuno ha seguito American Horror Story saprà sicuramente che “Mi preparo per la nobile guerra” è la
frase con cui Tate Langdon comincia a raccontare a Ben Harmon
delle fantasie che lo tormentano. Tate si immagina mentre cammina per i
corridoi della sua scuola, con un cappotto scuro e con la faccia truccata come
uno scheletro. Riflettendoci su, ho pensato che l’insieme poteva ricordare un
poco i Mangiamorte, e per quanto Draco non abbia niente a che vedere con Tate,
l’idea di associare le due cose mi piaceva. Anche il discorso e lo stile del
racconto di Draco sono simili a quelli di Tate (Sono calmo, conosco il
segreto. So cosa sta per succedere, so che nessuno può fermarmi, neanche me
stesso. Uccido chi mi piace. C'è chi prega di non essere ucciso ma non mi fa
pena, non provo niente).
Credo proprio di aver detto tutto.
A presto!