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Autore: Douglas    13/05/2012    1 recensioni
Rivistazione della storia della BBC. Dopo aver perso l'aereo John Watson decide di tornare a casa dalla sua famiglia invece di recarsi direttamente a Londra. Scherlock intanto si impegnerà al massimo per cacciare ogni conquilino che il fratello gli procura finchè un giorno, durante una rapina in banca, incontra un soldato che gli salva la vita.
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3- Il futuro non esiste, è qualcosa che noi rincorriamo e quando lo raggiungiamo subito diventa presente e poi passato.

 

John Watson

 

L'aereoporto di Kabul mi sembra più affollato e caotico di quando l'ho lasciato 8 anni fa: sono state apportate alcune migliorie qua e là e le postazioni dei check-in sono state spostate di qualche metro.

Questo non fa altro che aggravare ulteriormente la mia situazione.

Trascino la gamba come farei se una parte del corpo fosse andata in cancrena: sto zoppicando vistosamente e attiro sguardi non troppo cordiali su di me.

Per qualche strano motivo a me ignoto, anche se sto indossando normalissimi abiti da civile, la gente del posto mi scruta ancora con lo sguardo torvo e accusatorio che sfoggiavano i cittadini quando passavamo tra le strette stradine strette e affollate, con divise e armi ben in vista.

Sarà per il passo ancora un po' rigido o per il taglio di capelli pratico e quasi geometrico oppure solo per il semplice fatto che, in un periodo di guerra come questo, la maggior parte degli europei è composta per lo più da militari o giornalisti: entrambe categorie molto disprezzate dagli abitanti locali oppressi ormai da anni dalla tirannia occidentale.

É come se durante il periodo di permanenza nell'esercito, la divisa militare mi si fosse gradualmente cucita sulla pelle: punto per punto, pallottola dopo pallottola, missione dopo missione...

Non sono un ingrato e per questo ringrazio Dio ogni giorno per avermi salvato questa pelle su cui è stata cucita la mia triste carriera militare, eppure so che non sarà facile strapparsela di dosso: dovrò scucire ogni punto in maniera calma e razionale per evitare che un pezzo di pelle si stacchi e venga via.

Certe volte questi punti possiedono dei nomi come Adam, Louis, Pedro o Ian e altre volte sono solo visi sconosciuti e irriconoscibili di bambini, donne e ragazzi di tutte le età, gente del posto che stava semplicemente vivendo la propria vita.

Dio, quanto odio la guerra.

Quanto mi vergogno di essere stato uno dei suoi seguaci.

Mi vergogno di essere il bersaglio di quegli sguardi accusatori ma giustificati.

Mi vergogno di aver prestato soccorso a qualcuno che l'indomani avrebbe freddato decine di persone innocenti.

Mi sento come una massa informe di vergogna, che si trascina dietro di sé colpe proprie e altrui, e che si vergognerebbe della propria ombra se questa oscurerebbe la vista a qualche povero malcapitato.

Ora però sto tornando a casa è proverò a ripartire da zero, da una città in cui nessuno ha il coraggio di guardarti in faccia e giudicarti.

A Londra il mio passato può essere addirittura cancellato e, John Watson, potrebbe essere uno avvocato come un imbianchino, o più semplicemente un medico di provincia che vuole provare la frenetica vita di città.

Posso essere chi voglio, come voglio e quanto voglio.

Nessuno potrebbe mai conoscere il mio passato a meno che non sia io a rivelarlo.

Quando la voce metallica dell'interfono dell'aeroporto si propaga in tutta la struttura, mi riscuoto allarmato dai miei pensieri.

Perderò l'aereo se continuo a fare questi pensieri troppo sentimentali.

Senza perder altro tempo, individuo velocemente il check-in dove consegno il biglietto aereo comprato qualche giorno fa su Internet e il mio unico bagaglio contenente quel poco che rimane della mia vita: abiti, beni per l'igiene personale e libri ma anche fotografie, lettere e persino un regalo da portare a mia madre il giorno di Natale: le avrebbe fatto sicuramente molto piacere anche se mi sentivo più come un alunno di ritorno da una gita scolastica che un soldato che ritorna in patria dopo una terribile esperienza pre-morte.

Glielo devo dopo quello che ha passato da quando ha saputo della mia ferita...

Ci impiegano ben 15 minuti a farmi spogliare qualsiasi oggetto metallico e quando, con un gesto rapido, mi tolgo che piastrine di riconoscimento dell'esercito britannico, il controllo mi sembra farsi molto più leggero.

Terminato il controllo, non mi lascio nemmeno il tempo di allacciare completamente la cintura e parto di corsa accompagnato dal clangore metallico della stampella che colpisce il terreno producendo un rumore simile ad uno schiaffo su una guancia.

Tento di ignorare il dolore lancinante alla gamba, anche se la vista mi si annebbia leggermente per le lacrime di dolore che mi si annidano sotto le palpebre e fra le pieghe degli occhi: fa quasi male quanto la volta in cui mi hanno sparato.

Incasso quei colpi e vado avanti nella mia corsa disperata.

Mancano solo 15 minuti e l'aereo per Londra sarebbe partito: con me o senza di me.

Ho appena schivato una grossa signora dalla valigia altrettanto voluminosa quando la tasca dei pantaloni vibra a intervalli regolari.

Sono talmente sorpreso di questo fatto che quasi involontariamente mi blocco sul posto e qualcuno o qualcosa di poco definito sbatte contro la mia schiena.

L'impatto è talmente forte che il cellulare, forse per uno scherzo del destino, mi scivola fuori dalla tasca e, ruotando su se stesso come una trottola, struscia lentamente sul pavimento granitico, sbattendo contro piedi e ruote di ogni genere come la pallina di un enorme flipper umano. Fortunatamente la sua corsa si ferma non molto lontano dal mio viso, anch'esso finito a terra con il resto del corpo e con la voluminosa stampella.

Il mio tempo di reazione è rapido e dopo nemmeno qualche secondo, riapro gli occhi e mi accorgo di aver investito non qualcos'altro ma qualcuno: una bella donna, dalla lucida e brillante come il pavimento su cui è caduta.

Mi rialzo in fretta e senza fatica e imbarazzato, mi scuso apertamente e le offro la mano per aiutarla.

Forse non me ne sto rendendo conto e le concedo qualche sorriso in più del dovuto.

Diamine, sono un uomo anche io e so riconoscere una bella donna quando la vedo.

Lei la scansa velocemente e imprecando, mi squadra in malo modo, come se fossi uno squilibrato che le sta proponendo delle avances indesiderate: eppure io, per intanto, mi sto limitando a scusarmi e non a farle una proposta d'eterno amore.

Qualcuno alle mie spalle mi da dell'idiota, e quando lei si fa aiutare da un suo giovane amico a rialzarsi, vedo in lui lo stesso sguardo che un giovane rivolge ad un anziano per fargli capire che quello che sta facendo è inappropriato per la sua età.

Maledizione, ho solo trentanni non cinquanta!

Questa volta lei accetta con un sorriso civettuolo e compiaciuto e, senza degnarmi di uno sguardo, si allontana trascinando dietro di sé una minuscola valigia.

Noto solo ora, quando oramai sono lontani, la divisa accuratamente stirata e i pass ben in vista che mostrano alla donnina a guardia dell'imbarco.

Altre hostess mi sfilano accanto come un interminabile processione e ben presto capisco che sono quelli che lavoreranno sull'areo che dovrò prendere.

Fantastico, mi sono già fatto la reputazione da maniaco.

Il vibrare incessante del telefonino mi fa tornare sulla terra e quando lo prendo fra le mani noto con piacere che dopo ben 8 anni di guerra è riuscito a superare anche questa botta.

Sullo schermo minuscolo appare, illuminata ad intervalli irregolari di luce, la scritta Home.

-Casa?- scruto lo schermo perplesso per qualche secondo in più del necessario, mentre la gente mi scivola accanto come la corrente di un fiume in piena.

Rivolgo uno sguardo disperato al grosso orologio analogico dell'aeroporto, quando schiaccio per ben due volte il pulsante verde prima che io possa rispondere alla chiamata.

Non mi faccio domande, è quasi scontato chi ci possa essere dall'altro capo del telefono.

-Pronto- esclamo portandomi il telefono all'orecchio e voltandomi indispettito verso i campi brulli che si alternano alle piste d'atterraggio mi impongo di far terminare al più presto la telefonata. Dall'altro capo, a Sheffield, sento solo un respiro leggero e dei bisbiglii confusi ma familiari.

-Pronto? John, sei tu?- domanda improvvisamente la voce melodica di mia madre: è da Ferragosto che non la sento e mi è mancata quasi quanto l'aria nei polmoni.

É stupido pensarlo ma la sua voce mi ricorda la patria: è chiara e tersa come il cielo inglese nelle rare giornate estive in cui anche le nuvole sembrano essersi prese anch'esse una vacanza, è sonante come il rintocco del Big Ben, scrosciante come il Tamigi e melodica o coinvolgente come una buona canzone dei Beatles.

Ok, forse sto diventando degenerando perché paragonare la voce di mia madre a quelle di John Lennon è una cosa totalmente ridicola.

-Mamma?- domando riprendendo il filo logico dei miei discorsi.

-John, tesoro, come stai? Non hai idea di quanto mi sia sentita in ansia in questi giorni. Ho quasi fatto impazzire l'ambasciata inglese per avere qualche tua notizia. Harry, Mike! Venite! ha risposto – il suo discorso è caotico e le urla per richiamare il marito e la figlia vicino a sé non aiutano la conversazione.

Sento che il borbottio di sottofondo, che prima poteva essere benissimo scambiato per un interferenza telefonica, si tramuta nella voce profonda di mio padre.

Tipico di papà: suggerire alla mamma le frasi da riferirgli.

Non adora stare al telefono.

È quasi allergico alla tecnologia, anche se non è poi vecchio come lo si immagini.

É buffo ma preferisce starsene in disparte e ascoltare a pezzi un discorso ed interpretarlo a modo suo che avere una corretta conversazione.

-Sto bene, mamma. Gli ospedali qui, sono quasi più efficienti di quelli inglesi.- le dico tentando di tranquillizzarla ma la mia interpretazione risulta un po' zoppicante.

Forse il mio stato di salute si sta propagando anche a livello celebrare.

-Oh John! Tutti queste settimane senza uno straccio di telefonata. Usavi sempre quelle diavolo di e-mail che solo Harry sa utilizzare, quindi noi due poveri disgraziati dovevamo aspettare fino a domenica prima di avere tue notizie.- mi rimprovera lei, come faceva durante il mio periodo adolescenziale in cui i miei genitori mi opprimevano di attenzioni.

-Harry mi diceva che eri diventata una maga del computer e che sapevi navigare il rete anche da sola per trovare le tue ricette di cucina- esclamo sorridendo fra me e me e tirando in ballo la mania di mia sorella di gonfiare i fatti.

-Harry dice solo scempiaggini in questo periodo. Quell'aggeggio infernale mi farà venire un esaurimento nervoso.- sbuffa lei con quel tono che mi risulta davvero troppo da anziana.

Altri brontolii coprono quasi l'intera frase e parole sconnesse mi arrivano alle orecchie senza che abbiano vero e proprio senso.

Sfortunatamente per mia madre, ad Harry sono state trasmessi non solo l'impulsività e l'irrazionalità tipica degli Watson ma anche la buffa abitudine di utilizzare gli altri come intermediari nelle conversazioni telefoniche senza parlare direttamente con l'altra parte.

-Vi ricordo che non siamo a teatro e voi non siete due suggeritori. Suggerisco caldamente ad entrambi di attendere il proprio turno di parola se non volete rimanere senza pranzo.- esclama minacciosa rivolta agli altri due brontoloni.

Se chiudo gli occhi riesco persino a vederli: papà è seduto sulla poltrona, con il Times in mano e le orecchie ben tese mentre Harry ha avvicinato la sedia alla madre e se ne stava con le gambe aperte e i gomiti appoggiati sulla spalliera.

I brontolii non si quietano del tutto anche questa volta sento svettare nettamente la voce di mio padre, come se si fosse avvicinato alla cornetta per sentire meglio.

-Chiedigli se gli fa male la gamba- esclama rivolgendosi a mia madre con tono sommesso.

Anche lui è preoccupato anche non lo da a vedere: la sua voce mi sembra persino più vibrante di quella della mamma.

Papà ha sempre fatto più fatica ad incassare i duri colpi rispetto alla mamma.

Come molte volte accade, il figlio maschio assomiglia sempre più alla madre mentre la femmina al padre: per questo motivo Harry e papà, anche se si mostrano forti al mondo intero, sono realmente persone molto fragili.

Mamma ed io, invece, anche se siamo più premurosi e razionali, affrontiamo bene le situazioni difficili: pazienza e una buona dose di coraggio sono nostre virtù.

-Come va la gamba? Zoppichi ancora?- mi domanda lei troppo abituata a quella stramba mania di mio padre per ribattere ancora.

-I medici mi hanno detto che è in fase di miglioramento. Prima di partire, ho fatto riabilitazione per due settimane di seguito e questo mi ha permesso di ristabilire l'equilibrio fra le due gambe. Ora cammino anche senza stampelle ma per non stancarla eccessivamente ho comprato una stampella medica.- tralascio volutamente termini tecnici e semplifico eccessivamente la mia guarigione: credo che non sappiano delle notti insonni, dei dolori lancinanti e dell'umiliazione che provo nello zoppicare come un vecchio di appena 35 anni.

Non gli sto nascondendo le cose: sapranno giudicare benissimo da soli quando mi vedranno.

Quando mi vedranno?

Bella domanda. Credo a Natale o forse prima... se riesco ha trovare un posto di lavoro decente potrei persino tornare per le vacanze di Halloween.

Sono un figlio ingrato?

Una voce poderosa rompe il brusio indistinto nella mia testa.

I passeggeri del volo per Londra sono pregati di recarsi immediatamente all'imbarco 9.

Io ci sono proprio davanti all'imbarco nove, due passi e potrei consegnare il biglietto alla donnina che mi squadra con aria annoiata proprio davanti all'imbarco.

Ma una frase mi blocca.

-A che ora hai il volo, tesoro?- domanda mia madre dall'altro capo del telefono con la stessa ingenuità che la caratterizza.

Io rimango immobile e fisso per qualche secondo la porta in acciaio che chiude l'imbarco, affollato dagli ultimi ritardatari che fanno la fila davanti al gate.

Tra un mese li rivedrò, perché devo fare tutte queste storie...

Il futuro è li davanti a me ma io rimango impantanato ancora nel passato.

Improvvisamente sento il bisogno di parlare con qualcuno che abbia più esperienze di me sugli addii e sulle partenze.

-Posso parlare con Harry?- domando ricordandomi della sua fuga di casa all'età di 18 anni: non era la stessa sera in cui aveva dichiarato di essere lesbica ma una delle tante in cui papà la rimproverava per l'odore di gin che le impregnava tutti i vestiti.

Era arrivata a casa alle cinque di mattina, Dio solo sa come, visto che non si reggeva nemmeno su due piedi per tutto l'alcol che aveva in corpo.

Mi ricordo che ci aveva messo meno di cinque minuti per prepararsi la valigia e scappare di casa nel cuore della notte.

Dopo la sfuriata di papà, aveva finto di tornarsene a letto e, passata una buona mezz'ora, aveva preso la grossa valigia che teneva sotto il suo letto e l'aveva riempita di tutti suoi averi poi era scappata via dalla porta sul retro lasciando un bigliettino sul tavolo della cucina.

Ero stato io ad inseguirla, munito solo di tanta pazienza e di un pigiama leggero, e a riportarla a casa prima che si rifugiasse in qualche bar malfamato supplicandola di rimanere ancora un po' con loro.

-Se vuoi fuggire almeno non farlo da codarda! Affrontali e digli quello che hai intenzione di fare e poi fuggi, ma fuggi senza guardarti indietro!- mi ricordo di avergli detto mentre la pioggia scrosciante riempiva le mie ciabatte in plastica come dei piccoli secchielli.

-Ehi Johnny! Come sta il mio fratellino preferito?- urla euforica alla cornetta come faceva quando aveva vent'anni ma ormai, sia lei che io, siamo troppo grandi per giocare a fare gli adolescenti.

-Non c'è male... Dovrei parlarti in privato, è urgente- esclamo rimarcando la parola privato e la mia stessa voce mi risulta patetica.

Non mi risponde nemmeno e senza parlare, la sento camminare allontanandosi dalle voci lontane dei miei, forse ha fatto un cenno ai miei che risulta ad entrambi più adatto di mille parole.

Ha raggiunto le scale che conducono al piano di sopra e ha chiuso saldamente la porta dietro di se quando ha inizia a parlare.

-Siamo soli. Ora, spiegami perché non vuoi tornare a casa- esclama perentoria mentre me la immagino sedersi sul penultimo gradino della scala, quello che scricchiola sinistramente come se si stesse per rompere da un momento all'altro.

-Tu, come...?- domando sorpreso sbattendo le palpebre un paio di volte: la mia voce deve risultarle davvero idiota perché la sua risata fragorosa quasi mi spacca il timpano attaccato alla cornetta.

-Sei la persona più trasparente che conosca. Se nelle lettere non specifichi a che ora sarà il tuo volo ed al telefono eviti di rispondere alle domande di mamma è evidente che tu sia indeciso. Se hai voluto parlarmi perché sia io a prendere una decisione al posto tuo, ti stai sbagliando di grosso. John, non sono nemmeno capace di prendere decisioni importanti sulla mia di vita, figurarsi su quella del mio adorato fratellino...- esclama lei con la tutta franchezza di cui è munita: secondo carattere ereditato dalla lunghissima generazione degli Watson a cui io, questa volta, so di farne parte.

-No, ovviamente.- dico piegando il capo in direzione delle miei scarpe lucide come farebbe un fratello appena rimproverato dalla sorella maggiore: una pressante sensazione di incertezza mi preme alla base dello stomaco e, quando distrattamente le domando come procedano le sue sedute degli alcolisti anonimi capisco che forse mi sto comportando da egoista.

Perché la Mia vita, il Mio futuro e la Mia indipendenza dovrebbero essere più importanti della salute di papà dopo il suo infarto, della dipendenza di Harry o del cuore fragile e stanco di mamma che, dopo tutto quello che le è accaduto, avrebbe bisogno di un po' di riposo?

Mentre Harry mi racconta la sua difficile battaglia con l'alcolismo, mi avvicino silenziosamente alla donnina dell'imbarco e con un gesto secco e immediato appallottolo il biglietto che ho in tasca e lo getto del cestino.

Le sto dando le spalle, quando la porta d'acciaio si chiude con uno schiocco sonoro.

Quello schiocco sarà uno tra fra i tanti suoni che non dimenticherò mai nella vita insieme ad un colpo di pistola, ai brontolii telefonici della mia famiglia ed una melodia di un violino.

 

Angolo autori:

visto che questo capitolo l'ho pubblicato il giorno della festa della mamma, mi è sembrato giusto aggiungere un capitolo dedicato alla famiglia di John che però riflette sulla decisione che renderà la mia fanfic diversa dalla storia della bbc.

Ovviamente, tutto ciò che ho scritto è basato su una storia che non possiede e che ciò che scrivo non è fatto a scopo di lucro.

Volevo precisare che, l'ultima frase è quasi un anticipazione di ciò che accadrà in futuro e non una parte del discorso di John nel presente. Inoltre le frasi utilizzate dei titoli sono tutti aforismi dell'inimitabile Jim Morrison che secondo me, contengono la risposta adatta ad ogni interrogativo.

Spero che qualcuno abbia anche capito che la storia di John e Sherlock viaggia su “binari” paralleli: nei capitoli precedenti i fili conduttori erano il sonno e una partenza. Nei prossimi saranno una telefonata, il rapporto con la propria famiglia e una donna.

Recensite e dite la vostra e ringrazio tutti quelli che mi seguono pazientemente e che lasciano bellissime recensioni

  
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