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Autore: margheritanikolaevna    22/05/2012    3 recensioni
Questa fic è stata scritta per il contest "Una fiaba anche per te" indetto da Alex J su efp. Quindi stavolta Neal, i suoi amici e i suoi nemici si muoveranno tra re, regine, principi, principesse da salvare, matrigne cattive, streghe, spiriti aiutanti, etc...Ma non temete, sono sempre loro e, anzi, sono certa che riconoscerete le somiglianze tra la favola e la "realtà" della serie tv.
La storia si è classificata al terzo posto e si è aggiudicata il premio speciale per la migliore fanfiction
Terza classificata al contest "Amore è..." indetto sa Yuma92 su efp.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ho pensato di dedicare questa fiaba alla dolce DeAnna perché (anche se non sono certa se la leggerà o meno, ma io ovviamente spero di si!) credo che il suo mood molto romantico le piacerebbe. Mi perdonino, invece, le utenti che detestano Kate, ma mi serviva una storia d’amore struggente.  La ff è ambientata in quella sorta di Medioevo fantastico nel quale si svolgono di solito le fiabe, mentre il dialogo tra Neal e Kate davanti al fuoco è una citazione delle battute di Miranda e Ferdinando di “La tempesta” di Shakespeare. Il titolo richiama quello del film su Robin Hood, “Il principe dei ladri”.
 

Infine: per Nike87, te l'avevo detto che prima o poi avrei scritto qualcosa in cui Mozzie ha un ruolo fondamentale...
Ovviamente questi personaggi non appartengono a me (e il loro creatore, sebbene sia persona di spirito, non tollererebbe di vederli conciati così...) ma a chi ne detiene tutti i diritti. Paghereste qualcosa per leggere questa fic? No, vero? Appunto, non è scritta a fini di lucro, ma grazie a chi leggerà e commenterà, dato che il vostro tempo e le vostre parole valgono molto di più.

 
 
Il principe dei truffatori
 
Capitolo primo
 
C’era una volta, in un paese lontano lontano, un piccolo regno governato da un re giusto e buono: il sovrano aveva nome Eduard e amava sopra ogni cosa la sua consorte, la dolce regina Lilian. Sarebbero stati una coppia felice e appagata se non fosse stato che gli Dei non avevano ancora voluto fare loro dono di un figlio; erano sposati da anni ormai e i consiglieri del re iniziavano a suggerirgli, in maniera sottile ma insistente, di ripudiare la sua diletta moglie - evidentemente incapace di dargli un erede -  e impalmare un’altra donna più giovane e sana.
Re Eduard amava profondamente la sua sposa e fino ad allora si era sempre rifiutato di cedere alle pressioni provenienti dai suoi uomini più fidati; tuttavia non poteva ignorare che in mancanza di un legittimo discendente di sangue si sarebbero posti, alla sua morte, gravi problemi di successione che avrebbero potuto condurre la sua gente e il suo regno alla rovina.
A sua volta la regina era straziata dall’angoscia e dal dolore: adorava il marito e sapeva che l’essere abbandonata l’avrebbe probabilmente uccisa, eppure era anche lei consapevole della necessità di dare al paese un erede che assicurasse la successione senza scossoni. Perciò le aveva tentate tutte, rivolgendosi a sedicenti medici stranieri dai nomi esotici, a stregoni dall’aspetto inquietante e ad astrologi che le avevano indicato, studiando la posizione delle stelle, il momento più propizio per concepire un bambino. Eppure niente: nessun consiglio, stratagemma o artificio era riuscito a regalarle la gioia di essere madre.
Sempre più preoccupata, la sovrana aveva, infine, deciso di recarsi in pellegrinaggio presso il santuario della Dea Bianca, divinità invocata dalle partorienti e protettrice delle madri e dei loro piccoli bimbi, che sorgeva in cima a una collina poco distante dalla capitale del regno di Daffodil. Accompagnata dalle sue dame di compagnia e da una scorta, ella era giunta al tempio e aveva eseguito scrupolosamente i riti di preghiera e purificazione che l’anziana sacerdotessa le aveva indicato, sperando con tutto il suo cuore che ciò l’aiutasse a ottenere quanto desiderava così ardentemente.
Al termine, non senza aver lasciato una munifica offerta in oro e pietre preziose, si era incamminata sulla via del ritorno con animo più sollevato: era un bel pomeriggio d’estate, l’aria era calda e le dame dopo aver percorso un po’ di strada le avevano chiesto di fermarsi a riposare e fare merenda.
La regina aveva acconsentito, scegliendo per la loro sosta un delizioso angolo nascosto tra le rocce bianche: lì il prato verde, trapunto di fiori colorati, era attraversato da un ruscello dalle limpide acque mormoranti e l’ombra di un grande frassino fronzuto avrebbe assicurato loro il desiderato refrigerio dall’afa pomeridiana.
Tuttavia, le cameriere al seguito avevano appena iniziato ad allestire il pic-nic quando d’improvviso si levò un vento impetuoso e insolitamente fresco per la stagione che sollevò gonne, scompigliò acconciature, rovesciò bottiglie e fece imbizzarrire i cavalli.
Le dame scattarono in piedi, le guardie strinsero istintivamente la mano sull’elsa della spada e le cameriere si lasciarono sfuggire un gridolino di sorpresa e spavento; come se non bastasse, il silenzio fu rotto da una voce esile ma perfettamente udibile che sembrava provenire dalle fronde dell’albero. Un mormorio che non era possibile confondere con il fruscio delle foglie al vento né con lo scorrere del quieto ruscello ai loro piedi e che non usciva da nessuna bocca mortale.
“Aiuto…nobili signore, vi supplico, aiuto…” disse la voce, sussurrante come uno zefiro.
Sebbene non fossero state pronunciate in un tono particolarmente spaventoso, quelle parole ebbero il potere di gettare nel panico non solo le donne del corteo regale, ma anche le stesse guardie: le prime, fossero dame di alto lignaggio o povere servette, se la diedero a gambe tenendo ben sollevate le sottane per correre via più in fretta e mormorando scongiuri, mentre i guerrieri avvezzi alle più rudi battaglie di fronte a quel prodigio soprannaturale lasciarono cadere le armi al suolo, fecero un gesto scaramantico e se la svignarono di corsa lasciando tutta sola, sotto l’albero, la regina Lilian. La sovrana, infatti, era più incuriosita che spaventata e al suo cuore pietoso non era sfuggita la nota di profonda sofferenza che quella voce sconosciuta rivelava; senza comprendere esattamente il motivo, sentiva dentro di sé e anzi sapeva che non le sarebbe accaduto nulla di brutto.
“Aiuto, vi prego, il dolore è insopportabile…” risuonarono di nuovo le sillabe ultraterrene.
Perciò la regina si avvicinò a una piccola spaccatura nel tronco nodoso del frassino, da dove le era parso fossero sgorgate quelle parole imploranti; pose l’orecchio sulla corteccia scabra e biancastra e ascoltò.
“Mia regina, perché tale dovete essere per nobiltà d’animo e coraggio se non avete avuto paura di me come il vostro seguito” proseguì la voce incorporea “… abbiate compassione della mia sofferenza e liberatemi dalla dolorosa prigione che mi serra ormai da cento anni…”.
“C-chi siete voi?” mormorò la sovrana, che era senza dubbio coraggiosa ma non abbastanza da riuscire a celare il tremito che le incrinava la voce.
“Ve lo dirò” rispose l’essere prigioniero nel tronco “Ma prima, vi imploro, liberatemi! Ve lo prometto, non vi farò alcun male…”.
La regina comprese che avrebbe dovuto fidarsi di quella strana creatura; sapeva di esporsi a un rischio senza nemmeno le sue guardie a proteggerla e non ignorava le leggende che circolavano sugli esseri fatati che abitavano quei paraggi, eppure ancora una volta scelse di seguire l’istinto.
“Come posso aiutarvi?” esclamò, senza allontanare l’orecchio dalla fessura del tronco.
“Allargate questo stretto passaggio in modo che io possa uscire” rispose la voce, finalmente speranzosa.
La sovrana si chinò a raccogliere la spada che il capo della sua scorta aveva lasciato cadere nell’impeto della fuga, ne infilò con cautela la lama all’interno della spaccatura nella corteccia e fece forza; ci volle un bel po’ di fatica (la regina non era avvezza ai lavori manuali e ben presto fu esausta e tutta sudata), ma alla fine l’apertura si allargò quel tanto da consentire al prigioniero di sgusciare fuori dalla sua angusta cella di legno. Infatti, all’improvviso soffiò una folata di vento così potente che la donna ne fu gettata a terra: con un fremito d’aria apparve, come una nuvola scesa sulla terra e palpitante, un essere fantastico. S’inchinò alla sovrana, che nel frattempo si era rialzata e lo fissava con evidente meraviglia, e la salutò con voce lieve e cantante facendo tintinnare i cimbali e i campanellini argentei attaccati al suo vestito color dell’aria.
Aveva l’aspetto di un uomo di mezza età, di bassa statura e con pochi capelli in testa: il suo corpo, la sua pelle e il suo abito erano cangianti nel colore - che andava dal grigio al bianco per tingersi a volte d’azzurro cupo - ondeggianti e  mutevoli come una brezza serotina. La sua figura era di secondo in secondo trasparente, traslucida, opaca, infine quasi solida e poi di nuovo sfuggente e incorporea.
Lilian sgranò gli occhi di fronte a quel prodigio, incapace di pronunziare una sola parola; per fortuna, però, fu la creatura a parlare.
“Mia pietosa regina” disse con voce incredibilmente dolce e sottile “Io mi chiamo Moz e sono uno spirito dell’aria: abitavo questa terra pacifica ed ero felice della mia vita solitaria e selvaggia, quando una strega crudele dagli occhi di nero cristallo vi giunse, ormai secoli fa. Grazie ai suoi poteri oscuri mi soggiogò e mi fece suo schiavo, ma io non potevo obbedire ai suoi comandi odiosi e malefici: così un giorno, al mio rifiuto di eseguire un suo ordine, lei, in preda a un furore immitigabile, mi rinchiuse nella cavità di questo albero. Questa tana fu per oltre cento anni la mia prigione di dolore; la strega alfine morì, lasciandomi rinchiuso a gridare i miei lamenti inestinguibili, così tristi che persino gli orsi e i lupi della foresta ne erano inteneriti. Era un supplizio atroce, che la sua creatrice non poteva più annullare…fino a che voi, mia buona signora, non vi avete pietosamente posto fine”.
“Ora io sono vostro debitore per sempre” proseguì lo spirito, ponendosi una mano sul petto e ripetendo un breve inchino “Non mi vedrete, ma quando avrete bisogno di me io accorrerò!”.
Con queste parole misteriose e prima che la sovrana riuscisse a riprendersi dalla sorpresa e ad articolare una risposta, l’essere celeste scomparve in una folata di vento.  
 
***
 
Il regno di Daffodil fu attraversato da una gioia immensa quando, tre mesi dopo, giunse l’annuncio che da anni tutti attendevano con ansia: la regina Lilian aspettava un bambino! Non si sarebbe potuto immaginare un uomo più euforico di re Eduard quando diede la notizia ai suoi sudditi; quel giorno lieto fu proclamato di festa in tutto il paese e in ogni casa, dalla più modesta baracca fino ai palazzi ornati di marmo dei dignitari di corte, si brindò alla salute del tanto sospirato erede e dei suoi genitori.
Infine il momento del parto arrivò: sfortunatamente la situazione si presentò da subito molto difficile e i medici di corte non tardarono a rendersi conto che la stessa vita della regina era in pericolo. Il travaglio fu lungo e dolorosissimo; le nobili stanze risuonavano delle grida strazianti della sovrana e il re, angosciato, temeva d’impazzire di rabbia impotente.
Quando finalmente il bimbo nacque e subito l’aria si riempì dei suoi strilli sonori, la levatrice lo sollevò con aria di trionfo e disse all’esausta regina che si trattava di un maschio e che era senza dubbio il bambino più bello e sano che avesse mai visto. Re Eduard accorse al capezzale della moglie, il cuore lacerato tra gioia e disperazione in egual misura mischiate come non avrebbe mai creduto possibile, e le prese le mani che già perdevano calore.
“Non siate triste, mio adorato” disse la sovrana, tentando di frenare il tremito che le attraversava la voce “Pensate a nostro figlio, promettetemi che avrete cura di lui, che lo amerete come avete amato me e anzi di più e che non gli negherete mai nulla…”.
L’uomo, con gli occhi pieni di lacrime e il respiro spezzato dai singhiozzi, riuscì solo ad annuire.
Lilian posò il capo sul cuscino, consapevole che le forze la stavano abbandonando e che non le rimaneva più molto da vivere; almeno - pensò, stirando le labbra esangui in un lieve sorriso - era riuscita a dare a suo marito ciò che desiderava, la sua esistenza era compiuta, il suo destino aveva raggiunto la meta alla quale tendeva. Ormai delirava ma, prima di perdere coscienza, vide o le parve di vedere chino su di lei un volto traslucido, ondeggiante come la fiamma di una candela; udì o le sembrò di udire la stessa voce che aveva attirato la sua attenzione sotto un albero di frassino un caldo pomeriggio di nove mesi prima.
“Non temete, mia augusta regina” mormorò lo spirito con evidente dolore “terrò fede alla mia promessa, veglierò su vostro figlio e lo proteggerò…”.
Durò appena un istante e fu un bisbiglio che soltanto la puerpera morente poté sentire nella confusione di quegli attimi convulsi.
A quelle parole, la sovrana comprese che davvero poteva lasciarsi andare e smise di lottare: spirò con il cuore pieno di gioia e l’anima traboccante di amore per quel bambino che non avrebbe mai visto crescere. Un cristallo grigio-azzurro, aria solidificata dalla sofferenza, rotolò lungo la guancia incorporea dello spirito e s’infranse sul pavimento; con dita trasparenti chiuse gli occhi della morta e, senza essere scorto da nessuno, svanì facendo ondeggiare in un soffio le pesanti cortine cremisi del letto.

  
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