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Autore: KatherineGrey    21/06/2012    0 recensioni
Per chi, come me, ha molto amato il film Piramide di paura e vorrebbe nuovamente incontrare i collegiali Sherlock Holmes e John Watson, ecco una mia modesta idea su un sequel del film
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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In un quadrato di cielo e pietre dipinti, Macbeth e sua moglie erano impegnati in un drammatico confronto.
- Il mio spirito è stato avvelenato dalle profezie di quelle immonde e la maledizione della gloria ha stregato i miei passi verso un sentiero di sangue e violenza. Ed eccomi, un mostruoso assassino, non di nemici, ma di amici e bambini, in questo enorme patibolo di pietra e tenebre della mia torre. I fuochi e i canti di battaglia che si levano all’orizzonte mi stanno circondando. Oh, canaglia di moglie, infida tentatrice, è alla più tremenda disfatta che ci hai condannati.
- Nessuno potrà vincere colui che hanno designato le stelle come il grande re di Scozia. 
- Taci, quarta strega! Ah, è orribile annusare la fresca innocenza dell’aria notturna, essere immersi nell’immensa giara di stelle, e pensare che tutta questa purezza entra nei miei sensi, infettati dalle peggiori empietà. Non sono degno di avere sul mio castello il divino stendardo degli astri. Meriterei un’aria perennemente rossa e grumosa di nubi, guastata dal puzzo di una vallata di cadaveri. Questa sarebbe l’unica mia patria!
- No, Macbeth. Le stelle scintillano dov’è la grandezza, dov’è il coraggio di unirsi al proprio destino. Tutto il sangue che abbiamo versato era prestabilito. Ti arrenderai dunque a Malcolm, Barone di Cawdor?
- Cosa mi chiedi? Sai bene che le mie spade son affilate e pronte. Un combattente conosce un solo modo di morire.
- E sia, allora, combatti e mozza la regale testa di Malcolm! Allora la corona sarà tua!
- Come il suggello di sangue che mi legherà alla mia irrequieta coscienza. Hai fiele nel tuo corpo nella stessa dose della bellezza. Il sangue corrode anche te.
- Che vai dicendo? Non porto macchie sul candore della mia pelle.
- Sì, ti trafiggono come delle nere ferite.
- Non le vedo!
Così dicendo, Lady Macbeth si guardò i palmi delle mani e una vernice rossa, di sicuro effetto, scaturì tra le sue dita! 
 
- Che impressione!- esclamò Mrs Orwitt ripensando a quell’effetto speciale. – Ma secondo te era sangue? Voglio dire, sangue di un povero animale?
- No, era troppo rosso e brillante!- rispose il marito, mentre passeggiavano a braccetto nel cortile del Lyceum Theatre, dirigendosi verso lo spiazzo delle carrozze.
Il signor Orwitt e la sua consorte avevano seguito anche quel sabato sera un elegante programma: avevano cenato fuori, al ristorante del Bethram's Hotel, poi avevano partecipato a un breve incontro di beneficenza al The Law Club, dove l’avvocato aveva potuto stringere un paio di contatti di probabile rilievo professionale, e quindi si erano recati a teatro per la consueta conclusione culturale. La signora Orwitt ci teneva a fare quelle uscite mondane, soprattutto dopo la loro lunga permanenza in India, dove le serate scadevano in monotone partite a bridge tra i pochi vicini civili e il massimo del diversivo era osservare dalla finestra lo spettacolare alterco nel folto degli alberi, quando i monsoni arrivavano con le loro correnti di pioggia.
Erano sposati da poco e, molto giovani entrambi, non avevano ancora maturato l’idea di mettere su famiglia. Il signor Orwitt voleva affermarsi nella carriera e sua moglie, ormai compresa la natura sociale delle donne, cercava di fare del suo meglio per sostenerlo. Per questo, non si era mai lamentata della scomoda vita che avevano patito in India, né del fatto che il marito aveva sempre poco tempo da dedicarle. Le bastava avere quelle serate di evasione, nelle quali tornare a condividere con lui gli interessi culturali che li avevano subito uniti ai tempi dell’università.
Per fortuna il tempo si era rimesso bello, quasi provvidenzialmente. La coltre fumosa delle nubi, infatti, si era completamente dissolta nell’impetuosa tempesta del pomeriggio e il globo pallido della luna irradiava come un sentiero iridescente nella volta celeste, nonostante lo smog cancellasse molti dei puntini luminosi di quest’ultima.
Le strade però rimanevano cosparse di pozzanghere vitree in cui la luna si era disseminata in minuscole copie, spesso frammezzate in coriandoli luccicanti al passaggio veloce di qualche carrozza.
- Cara, tu rimani qui. Non vogliamo mica rovinare già gli stivaletti nuovi?
- Lo sai che non mi piace quando mi fai sentire impedita!- disse lei con un finto broncio.
- E tu, invece, non sai quanto sia merce rara e preziosa la galanteria del famoso avvocato Orwitt!- e dopo aver allungato lo sguardo verso l’asse del marciapiede per assicurarsi che i gruppetti di persone lì fermi fossero troppo impegnati a scambiarsi impressioni e giudizi sullo spettacolo per notarli, si avvicinò all’orecchio della moglie e lo inumidì con le labbra.
- Su, vai!- disse la moglie discostandosi all’istante e dedicandogli il suo amabile sorriso infantile.
Il signor Orwitt continuò a fissarla. Era compiaciuto della sua bellezza e, soprattutto, dell’effetto che questa produceva sugli altri gentiluomini. Anche la sua giovane consorte contribuiva a renderlo un uomo invidiabile e questo era per lui la qualità più importante della signora Orwitt.
Dopo aver scambiato un ultimo sguardo d’intesa con la sua signora, attraversò la strada, facendo attenzione alle pozzanghere, ed entrò nel posteggio delle carrozze. Queste erano in fila, sotto i padiglioni, formando con i loro telai scuri come una sorta di minaccioso sipario. Alcuni conducenti gli rivolsero un cenno di saluto, pensando che sarebbe salito sulla loro carrozza. L’avvocato, invece, continuò a muoversi accanto ai fianchi delle carrozze, in cerca della sua, fintanto che un’ ombra gli sbucò davanti, leggermente più chiara dello sportello da cui era scivolata. Il signor Orwitt non ebbe il tempo di dire nulla, neanche di comprendere quanto fosse pericolosa. Un velo nero cadde sui suoi occhi e sugli altri sensi.
 
Il signor Orwitt concluse che sarebbe morto presto. Perché il bollore alla testa, che continuava a schiacciargli ogni muscolo, nervo e lembo di cervello in essa racchiusi, era diventato ormai quasi intollerabile. Sentiva gli arti come residui estranei, dove a tratti tremava qualche nervo. I battiti cardiaci strepitavano con ostinazione nel nero calice del torace, investendolo di spasmi dolorosi. Il respiro stava iniziando a compromettersi e sempre meno aria riusciva a scivolargli dentro ai polmoni. La grezza benda annodata nella sua bocca, fradicia di saliva, sembrava graffiare con le sue pieghe l’indifesa arcata del palato e ormai scottava come fosse stata stesa su una brace.
Quanto poteva ancora tirare avanti? Era sicuramente questione di poco, ma quanti ancora dolorosissimi, insopportabili respiri?
Un sommesso ronzio gli girava attorno, prodotto dalle catene sospese che gli ammanettavano polsi e caviglie. Aste di torce sfavillavano come appese nel vuoto di quel grigio ammuffito ma non precisavano nessun dettaglio circostante, sovraccaricate dalle ombre che scendevano sulle pareti come spaventosi sudari.
Ad un certo punto udì dei passi, dietro di lui. Intravide un lungo scintillio argentato, vicino al suo orecchio. Allora la sua agonia sarebbe finita prima del previsto? Chiuse gli occhi, quasi grato.
Il suo ultimo pensiero non fu per la signora Orwitt, né  per la discendenza che non avrebbe potuto avere. Stranamente, la sua mente aveva rimuginato sul fatto che lì non ci fosse una finestra, da dove spiare un lembo di esterno o sentirsi benedire dai raggi di quella magnifica luna piena che stava splendendo sui lucidi tetti di Londra; come se avesse potuto avvertire la sua carezza, come se quell’astro avesse potuto essere un regale accompagnatore nel suo trapasso, o quel tuffo di città garantire un’ultima repentina passeggiata terrena alla sua anima! Immaginò quindi di volare libero e leggero, come diluito nell’inchiostro notturno, verso quella luna salvifica. Una sensazione di estatica bellezza inondò il suo spirito riassorbendo nel suo nobile spessore ogni paura, acquietando per il suo breve corso anche la percezione violenta del dolore.
Ma ecco che una punta di ferro fremette su un lato del suo collo, affiorando dura in quella sensazione fredda e piacevole, quasi consolatoria, prodotta dal suo materiale. E venne giù lo squarcio, disegnandosi sotto uno zampillio carminio in un rigo curvo e scuro contro la striscia pallida del collo. Il signor Orwitt riaprì gli occhi, bruscamente, li fece dondolare assieme a tutto il volto, mentre la sua voce vinceva il bavaglio e fuggiva via come un interminabile latrato.
La mano assassina attese quei pochi minuti di agonia, quindi iniziò ad operare sul corpo della sua povera vittima.
  
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