Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Segui la storia  |       
Autore: kenjina    24/06/2012    5 recensioni
Non fu il dolore fisico che gli procurò quello strazio assordante, né la carezzevole consapevolezza che sarebbe morto in pochi minuti. Morire significava liberarsi dal peso opprimente di un fardello che non era riuscito a sopportare e che ora lo stava schiacciando, per lasciarlo finalmente libero dalle angosce e dai tormenti. Aveva sempre immaginato la sua morte e sapeva che sarebbe stato in battaglia. Sarebbe caduto da soldato, davanti le mura della sua amata città, per difendere con onore il suo popolo dalle armate nemiche che giungevano come un'ombra da Est. La sua morte sarebbe servita per salvare le terre che lo avevano visto crescere, per dare una possibilità alle future generazioni di vivere una vita lontana dalle tenebre e dalle paure.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

E dopo quattro intensi giorni passati a calcolare strutture in calcestruzzo armato, rieccomi qui a respirare un poco di libertà.

Vi avviso che questo capitolo è parecchio pesante - la guerra è infine giunta. È stato difficile scriverlo e ho ancora il magone di tristezza.

Grazie, grazie a tutti coloro che stanno seguendo, preferendo e ricordando, o anche solo leggendo. Lo apprezzo tantissimo, davvero.

Buona lettura,

Marta.

 

Betulla


10.

13 Marzo 3019 T. E. - Minas Tirith

 

Quando Pipino era corso da loro per avvisarli della partenza improvvisa di Gandalf verso i Campi del Pelennor, Boromir e Brethil capirono che quello fosse solo l'inizio delle cattive notizie. Si diceva che il passaggio sull'Anduin fosse sotto il controllo di Mordor e Faramir avesse ordinato la ritirata verso la muraglia, inseguiti da un'orda di nemici di gran lunga superiore al suo numero di soldati. E il messaggero giunto trafelato dalla battaglia e dagli orrori che aveva veduto solo qualche ora prima aveva parlato del Capitano Nero, che conduceva le armate dell'Oscuro Signore preceduto dalla paura. Era ovvio che non fosse un nemico da sconfiggere con la spada o le frecce, ma che ci fosse bisogno di una forza superiore come quella di Gandalf. La sua sola rassicurante presenza regalava un senso di sicurezza e l'idea di averlo lontano, sul fronte della battaglia, gettava un po' tutti nella demoralizzazione totale.

Ma quando altre nuove giunsero il giorno dopo, con informazioni ben peggiori, il silenzio e lo sconforto regnarono per la città. Lo Stregone aveva infatti fatto ritorno e ciò che aveva raccontato a Denethor ebbe l'effetto di farli rabbrividire tutti, lo Hobbit in particolar modo. Il primo dei Nove, infatti, a capo degli eserciti di Sauron, aveva spinto le armate fino alle mura del Rammas, distruggendole e sorpassandole come un'onda su un castello di sabbia. Quelle che erano le ultime difese di Minas Tirith erano ora in mano al Nemico e non c'era speranza di rallentare quella violenta marcia che seminava morte e distruzione di ora in ora.

Ma ciò che più premeva Boromir era sapere come stesse Faramir e quando ebbe conferma che fosse ancora vivo si tranquillizzò non poco. Poteva ancora rimanere lucido per organizzare le difese della città, sapendolo sulle proprie gambe. I suoi soldati, infatti, stavano avanzando ordinati e uniti, ma non solo l'esercito da Osgiliath stava marciando verso la sua città, tanti punti rossi che brillavano nella sera, luci di abitazioni e campi in fuoco alle loro spalle, bensì un gruppo corposo da Cair Andros, isola che era caduta in mano al nemico, e un altro esercito proveniente dal Cancello Nero, da nord-est. Erano accerchiati e la loro unica speranza di aiuto non era ancora giunta.

Ma quando dalle tenebre improvvisamente arrivarono grida violente e terribili e le fiaccole degli Orchetti si duplicarono a vista d'occhio, la ritirata si trasformò in una corsa disordinata, resa ancor più caotica dall'arrivo dei Nazgûl, che terrorizzarono chiunque li vide e li udì nel raggio di miglia. I selvaggi Sudroni attaccarono da ogni parte, urlando e sventolando i loro stendardi, e gli Uomini di Gondor si diedero alla fuga, alla disperata ricerca della salvezza.

Brethil, nascosta sotto il suo mantello e cappuccio grigio, poteva solo immaginare ciò che stava accadendo oltre le mura di Minas Tirith, ferma sul suo cavallo accanto a tutti i cavalieri della Città e del Principe di Dol Amroth, in attesa di un segnale. Boromir, che era al fianco dello zio, scalpitava più del suo destriero pur di andare alla battaglia e far allontanare quei sudici piedi che sporcavano la sua terra. Fu solo quando la tromba della Cittadella risuonò, per volere di Denethor, che il Capitano della Torre Bianca sollevò la spada e gridò l'ordine di muoversi.

«Amroth per Gondor! Amroth per Faramir!» gridò Imrahil, sollevando lo stendardo, e imitato dai suoi soldati. Lanciarono al galoppo i loro cavalli e s'infransero sul Pelennor con forza e caparbietà. La difesa giunse da entrambi i lati e il Nemico fu preso alla sprovvista da quell'improvvisa apparizione. I Nazgûl si allontanarono velocemente quando la luce bianca di Gandalf, in sella al suo veloce Ombromanto, li raggiunse per sfidarli, e quel nuovo momento di sollievo si tramutò in gioia e grida di battaglia. La situazione venne ribaltata improvvisamente e i predatori si trasformarono in prede. La Celeboglinn di Brethil uccise numerosi nemici, sventurati che si trovavano davanti la furia del cavallo di Rohan e il suo cavaliere incappucciato e letale. Non vi era gioia nell'uccidere persino un Orco, per Brethil, ma solo la soddisfazione di sapere che stesse facendo la cosa giusta per il bene della Terra di Mezzo. In un momento di calma, quando il segnale della ritirata del nemico risuonò per il Pelennor, si guardò intorno, tra la desolazione di quel campo di battaglia, e cercò tra i cavalieri uno in particolare, che non trovò subito. Il cuore perse qualche battito finché non intravide l'armatura lucente di Boromir a qualche decina di metri più avanti. Spronò Nerian e si avvicinò all'Uomo, che stava impartendo l'ordine di ricompattarsi velocemente per tornare in sicurezza verso Minas Tirith.

Anche lui cercava qualcuno, ma ciò che vide non gli piacque. Boromir sbiancò e scese da cavallo, verso il corpo apparentemente senza vita del fratello, che giaceva accanto al suo destriero con una profonda ferita sulla spalla.

«Faramir!» gridò, infuriato e addolorato, prendendolo tra le braccia e scrollandolo per farlo rinvenire. «Faramir...» ripeté, ora più dolcemente, mentre un groppo al petto quasi gli strozzava il nome in gola. Il minore dei due perdeva molto sangue, ma respirava ancora e qualche lieve lamento fuoriusciva dalle labbra. Forse c'era ancora speranza. Del resto, lui stesso non era forse tornato alla vita dopo esser stato colpito da numerose frecce e dal duro schiaffo inferto dall'Anello? Così Faramir avrebbe continuato a vivere. Così sarebbe dovuto essere.

«Mio signore, Capitano, dobbiamo tornare alla Città e medicarlo immediatamente. E il Nemico, per quanto in fuga momentanea, potrebbe tornare presto sui suoi passi. È meglio non indugiare.» disse Imrahil, ridestando il nipote, che sollevò lo sguardo e annuì.

Boromir, aiutato dallo zio, prese il fratello in braccio, prestando molta attenzione a non procurargli più dolore di quanto già non provasse, e lo caricò sul suo cavallo, muovendosi e non guardando altro se non il Cancello di Minas Tirith, la sua prossima meta.

Brethil non voleva pensare a tutto ciò che stesse passando per la mente dell'Uomo in quel momento. Aveva provato troppe volte l'assurda e tremenda sensazione di essere in bilico lungo un baratro, la vita di qualcuno a lei fin troppo caro che poteva precipitare da un momento all'altro al minimo errore. Ci si sentiva fragili ed incapaci di fare qualsiasi cosa per la persona in pericolo di vita, eppure anche determinati a fare l'impossibile, se necessario.

Nonostante le numerose perdite subite dai cavalieri di Gondor, i soldati rientrarono in Città a testa alta e fieri nelle loro armature ormai sporche di sangue e della battaglia. Ricevettero i canti e le ovazioni della loro gente, che li applaudiva e li salutava, omaggiando sia i vivi che i caduti. Eppure quello non era che l'inizio della guerra e molte vite ancora sarebbero state spezzate prima che tutto potesse finire, un giorno.

Quando Boromir portò il fratello fin sulla Torre Bianca, dove sire Denethor attendeva inquieto, Imrahil prese la parola, interrompendo il pesante silenzio angoscioso che si era levato nella sala, spiegando cosa fosse successo sul campo di battaglia e come Faramir fosse rimasto ferito da una freccia.

Denethor osservò il volto del figlio minore, come se lo vedesse per la prima volta, e ne rimase impressionato.

«Padre...»

«Fai preparare un letto di sopra e lasciami solo con lui.»

«Ha bisogno di cure, padre.» tentò Boromir, ma l'uomo non lo ascoltava già più. Chinò il capo, stringendo le labbra in una sottile linea di contrarietà, ma annuì e fece come richiesto. Quando uscì dalla stanza era livido di rabbia e frustrazione. Conosceva suo padre e sapeva alla perfezione che se anche avesse ordinato alla vecchia Ioreth di curare suo fratello, l'Uomo l'avrebbe cacciata senza troppi problemi. Ma valeva la pena tentare e sperava che la saggia e petulante donna riuscisse ad avere la meglio su un uomo corroso dalle preoccupazioni. Trovò Pipino in attesa di ordini in un angolo, e gli si avvicinò a grandi passi. Gli posò una mano sulla spalla, che pareva così grande rispetto allo Hobbit da poterlo sollevare con due dita, e puntò i suoi occhi chiari in quelli del piccolo amico. «Devo chiederti un favore, piccoletto.»

Quello annuì, indovinando già la richiesta dell'Uomo.

«Devi correre alle Case di Guarigione, cercare Ioreth e spiegarle la situazione. Voglio che la faccia entrare per medicare mio fratello, accerchiata dalle guardie se necessario.»

Pipino sembrò confuso. «Ma se sire Denethor si accorge della mia assenza...»

«Non se ne accorgerà. Guardalo.»

Lo Hobbit seguì il consiglio dell'amico e davvero sembrava che il Sovrintendente di Gondor stesse combattendo contro il demone più pericoloso. Era più chino del solito e l'espressione vacua e rugosa lo rendevano ancor più vecchio di quanto non fosse. Provò pena per quell'uomo sopraffatto dalle preoccupazioni e annuì con vigore. «Lo farò, Boromir. Anche se lui dovesse rifiutare qualsiasi aiuto. Lo farò per te, per tuo fratello e per tuo padre.»

«E anche io darò il mio contributo, mio signore.» fece Beregond, della Terza Compagnia della Cittadella.

Il Capitano della Torre Bianca annuì e sorrise, regalando un bacio tra i capelli riccioluti dello Hobbit. «Ora andate, non c'è tempo da perdere. Non so se ci rivedremo ancora, perché ormai la guerra è alle porte. Ma sappi, Peregrino Tuc, che ti devo molto e che se supereremo anche questo momento farò di tutto per ripagare te e la tua gente. Dovrebbero esserci molti più Hobbit per la Terra di Mezzo se tutti sono come i quattro che ho avuto la fortuna di conoscere.»

Pipino sorrise tra le lacrime e lo abbracciò con forza, piangendo per la commozione e per la tristezza. Mai avrebbe pensato di trovarsi nel bel mezzo di una guerra, né mai avrebbe pensato di poter perdere qualcuno di così importante a causa di quel Male remoto di cui non giungevano che leggende tra le verdi colline della Contea. Frodo e Sam erano dispersi nella Terra Nera, vivi o morti che fossero; aveva lasciato Merry a Rohan e probabilmente ora era in marcia verso la più grande battaglia di tutti i tempi; e ora aveva davanti a sé un uomo che aveva imparato ad apprezzare ed amare con il tempo, probabilmente in piedi per l'ultima volta. Come poteva il cuore di una persona sopportare tutto quel disastro?

Ma non ebbe tempo di indugiare ulteriormente in lacrime e disperazione. Boromir lo seguì correre verso le Case di Guarigione e appena sparì dalla sua vista si recò immediatamente al Primo Livello dai suoi uomini, per impartire i primi ordini di difesa. Con essi trovò anche Brethil, sebbene fosse in disparte e con il cappuccio ancora sul capo. Nessuno osava avvicinarla, non per via delle cicatrici sul suo volto, né per il fatto che fosse una donna; ma chiunque vedesse un Ramingo del Nord avvolto nel proprio mantello grigio pensava bene di stargli alla larga. Persino Boromir si rese conto della particolare aura di profondo rispetto e timore riverenziale che i suoi uomini avevano nei confronti della sua Salvezza, e ricordò di quando aveva veduto per le prime volte Aragorn, che si faceva chiamare Grampasso, quasi sempre lontano dal resto dei presenti, perso nelle sue profonde riflessioni e in chissà quali ricordi. In quelle occasioni ricordava solo di aver visto gli occhi grigi del Ramingo scintillare sotto il cappuccio, e mai aveva avuto l'ardire di avvicinarlo.

Boromir interrogò i soldati di rientro dall'ultima retroguardia che aveva fatto in tempo a rientrare in Città, prima che il Cancello venisse sprangato, ma ciò che udì non furono buone notizie. Non vi era infatti alcuna traccia che potesse dar loro la vaga speranza dell'arrivo dei Rohirrim. I Campi del Pelennor erano completamente in mano nemica, trincee infuocate e canti di guerra s'innalzavano in quelle terre fino a poco tempo fa immacolate e coltivate, e il Rammas era distrutto e inutilizzabile. Ordinò a tutti gli arcieri della città e di Duinhir di posizionarsi lungo le mura del Primo Cerchio e di colpire chiunque si avvicinasse.

«Stanno erigendo torri d'assedio ben corazzate.» stava spiegando. «Trovate il punto debole tra il ferro e bruciate il legno che sta sotto. L'esercito del Nemico sarà illimitato, ma nessuno varcherà le nostre mura finché saremo vivi.»

«Ma quanto a lungo potremo resistere all'assedio, Capitano?» domandò Ingold. «Non vi è possibilità di entrare e uscire dai nostri confini, finché l'esercito di Mordor ci circonda, e abbiamo scorte di cibo per un mese al massimo, razionandolo con dovizia.»

«In un mese saremo già morti, amico mio.» commentò con scetticismo Derufin, uno dei due figli di Duinhir. «Rohan non arriverà per tempo e se anche dovesse riuscire a raggiungerci sarà troppo tardi. Non sono giunte notizie di numerose battaglie combattute entro i suoi confini? Re Théoden sarà stanco e i suoi uomini dimezzati. Nessun esercito è in grado di sottomettere quello che ci assedia.»

«Bada a come parli, fratello.» s'intromise Duilin. «Non nego che anche io nutro ben poche speranze di riuscire a sopravvivere, questa volta, ma non siamo forse stati tra i primi a rispondere alla richiesta di aiuto di sire Denethor? Non siamo giunti per combattere fino alla fame e alla morte per salvare la nostra bella terra? Ebbene, se anche Rohan ha subìto delle perdite, come dama Brethil ci ha informato, così penso che non si tirerà indietro davanti all'amicizia che lo lega a Gondor. Non avremo un esercito pari a quello del Nemico, ma la speranza e la sorpresa sono dalla nostra parte.»

«Parli bene, figlio mio, ma dobbiamo agire, ora.» esclamò Duinhir, sollevando l'arco al cielo. «Uomini di Morthond, prestate fede ai vostri giuramenti e mostrate al Nemico cosa significhino precisione e spietatezza!»

Un coro di Morthond per Gondor! fu udibile per quasi tutti i livelli della Città Bianca e Brethil si avvicinò a Boromir, una volta che tutti gli arcieri si fossero allontanati verso le loro postazioni di difesa.

«Cosa comandi, mio signore?» gli domandò, una mano fermamente stretta sull'elsa della sua spada.

L'Uomo parve ricordarsi di lei in quel momento e un'espressione angosciata gli attraversò il volto. «Non è un luogo sicuro, questo, Brethil.»

Lei corrugò la fronte e la pelle le si raggrinzì vistosamente attorno alle cicatrici. «Lo so bene, siamo in guerra.»

Boromir mosse qualche passo, fermandosi ad una spanna dalla donna. «Non posso permetterti di morire così, Brethil.» disse gravemente. «Sei giovane, e bella, e---»

«Aragorn è in guerra. Halbarad è in guerra. Elladan ed Elrohir sono in guerra. Tutte le persone più importanti della mia vita rischiano di morire, oggi, tu compreso. Dovrei forse rintanarmi in un angolo nascosto dalla visuale dei Nazgûl o dalle asce degli Orchi? Sono stata una codarda con i fantasmi del mio passato, ma non mi tirerò indietro se c'è bisogno anche della mia spada.»

Boromir sospirò pesantemente. «Non c'è proprio niente che io possa fare per farti cambiare idea?»

Lei scosse il capo, risoluta. «Solo la Morte stessa può fermarmi, ora.»

«Allora seguimi, dato che è questo il motivo per cui sei giunta qualche giorno fa. Stai al mio fianco e combatti con me. Verso la morte o verso la vittoria.»

«Ti ringrazio.» gli disse, abbozzando un sorriso. Abbassò lo sguardo verso la mano di Boromir, che stringeva con forza la sua, ma prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa lui la precedette in parola.

«Quando quest'Ombra sarà passata, tornerai a sorridere, Brethil figlia di Aeglos?»

La Dùnadan strinse le labbra, senza accorgersene. «Dipende se sarà rimasto qualcosa o qualcuno per cui valga la pena provare sollievo e gioia.»

Boromir scosse il capo. «Promettimi che tornerai a sorridere. Giuralo sull'amicizia che ci lega.»

«Lo giuro sulla mia vita. Lo farò, solo se anche tu supererai con me questa guerra. Non vi sarà pace per il mio cuore se Mordor mi porterà via te, o Aragorn.»

Non ottenne risposta dall'Uomo, che era ben consapevole del fatto che non sarebbe sopravvissuto, non se il sogno della donna avesse avuto un minimo di fondamento. Tuttavia sorrise e si chinò per darle un leggero bacio sulla fronte. Fu per pochi secondi, in cui Brethil chiuse gli occhi ed assaporò ogni singolo istante di quel momento, prima che le labbra dell'uomo lasciassero la sua pelle martoriata.

Quando li riaprì, Boromir le dava le spalle e si avviava verso le mura, per impartire ordini. Lei, d'altro canto, raggiunse una postazione libera, accanto a lui ed estrasse una freccia, incoccata sull'arco finemente intagliato dagli Elfi. Quando la scoccò, diretta verso un enorme troll che spingeva una torre d'assedio, la sua guerra iniziò ufficialmente.

 

 

13 Marzo 3019 T. E. - Pelargir

 

Sopra la città portuale di Pelargir, a circa ottanta miglia dalla foce dell'Anduin, galleggiavano molteplici colonne di fumo. I Corsari di Umbar avevano messo a ferro e fuoco l'intero centro abitato, punto fondamentale per i traffici marittimi e per la difesa del fiume di Gondor, e i pochi sfortunati che erano sopravvissuti all'attacco difendevano ora le loro case e i loro averi con le ultime forze rimaste. Ma il Nemico era troppo numeroso e agguerrito per riuscire a cacciarlo indietro. Una cinquantina di Navi Nere era attraccata al porto, in attesa della prossima partenza verso Harlond, seguite da altri numerosi e piccoli vascelli carichi di uomini in assetto di guerra.

Nessun esercito sarebbe stato numeroso abbastanza, in quel momento, da fermare la loro corsa, e Aragorn questo lo sapeva bene. Né lui né la Grigia Compagnia che lo accompagnava avrebbero potuto farlo. Ma l'erede di Elendil non era solo, fortunatamente. Dopo aver attraversato il tanto temuto e periglioso Sentiero dei Morti ora aveva un'arma in più a suo favore: dalla sua parte c'era la sorpresa e il terrore di un'armata di rinnegati che avrebbero prestato fede al giuramento che tempo addietro non portarono a termine.

La città, circondata da un doppio cerchio di mura, uno sulla terra ferma che proteggeva la zona commerciale e uno sull'isola triangolare, cuore pulsante dell'attività portuale e delle residenze private, era oscura e solo i fuochi degli incendi la illuminavano sporadicamente. I soldati e i marinai di Pelargir avevano lasciato il centro abitato, per rifugiarsi sui margini della città, al riparo dagli occhi del Nemico e dalle sue frecce, per riposarsi e riunire le forze rimaste. La Grigia Compagnia raggiunse un manipolo di uomini, spossati e feriti, ma ancora determinati a non abbandonare la fermezza. Appena riconobbero in Aragorn l'erede al trono di Gondor i loro animi s'accesero di speranza e accolsero il gruppo di viaggiatori con gioia.

«Mai avremmo sperato di incrociare le nostre strade con il tuo cammino, mio signore.» fece un soldato, che si presentò come Berethor, che si chinò e portò un pugno al cuore, in segno di saluto e di rispetto.

«E io speravo di incontrarvi in circostanze diverse, amici miei.» ricambiò Aragorn, gravemente. «Sembra che giungiamo tardi, ormai, ma forse c'è ancora il tempo di agire. Sediamoci e spiegatemi com'è la situazione in città.»

«Mio signore.» disse un altro soldato, perplesso. «Pelargir è caduta in mano nemica sotto un numero incredibile di Haradrim. Noi siamo pochi e stanchi, ma voi siete davvero un numero tale che farebbe ridere il Signore Oscuro in persona!»

Gimli si fece avanti, i piedi ben piantati in terra e l'ascia fermamente stretta tra le mani. «E dimmi, Uomo di Gondor, cosa sai tu di quanti Uomini un Nano possa sostituire in battaglia?»

«Sicuramente meno di un esercito che possa far fronte a quello che si nasconde in città e in quelle navi nere.» replicò il soldato.

«Basta, per favore.» li interruppe Aragorn, sollevando il tono di voce. Halbarad sorrise, riconoscendo anche in quel piccolo momento il comportamento autoritario di un Re. «Non è tempo per i litigi, questo. È vero, siamo pochi, ma le nostre spade e i nostri archi possono fare la differenza. Eppure è ciò che non vedete ancora che sarà la nostra salvezza. Abbiate solo fiducia nelle mie parole e rispondete alla mia richiesta. Non c'è tempo da perdere.»

Berethor annuì, calmando con lo sguardo i suoi uomini, e illustrò la situazione delle truppe nemiche nella loro città, accompagnando la spiegazione con una mappa dell'abitato. «I Corsari sono giunti dal Sud, e si sono attraccati lungo la sponda sud-est. Hanno lanciato frecce infuocate contro le torri di vedetta e i solai in legno sono bruciati insieme a chi le difendeva. Il triangolo residenziale è completamente in mano nemica, ma ora hanno preso anche il semi-cerchio ovest, saccheggiando i mercati per rifornirsi di viveri. »

«Quanti uomini sono rimasti?» domandò il Capo dei Dúnedain.

«Siamo sui trecento, tra soldati e marinai. Alcuni si trovano ancora nella città settentrionale, ma sono solo una cinquantina. Ci avvisano della posizione del Nemico e danno l'allarme nel caso questo esca dai confini delle mura.»

«I civili?» domandò Elladan, preoccupato per le sorti di donne e bambini.

«Siamo riusciti a farli evacuare verso l'entroterra prima dell'arrivo dei Corsari. Una flotta così numerosa era ben visibile da miglia, così come la scia di fumo che si lasciava alle spalle.»

Aragorn strinse le labbra, nel pensare con stizza e tristezza alle vite perse in quei giorni. «Ascoltatemi, amici miei. Dobbiamo impedire alle Navi Nere di partire verso Minas Tirith.» Un brusio di perplessità si sollevò dalle bocche dei presenti, ma l'Uomo li mise a tacere con una mano. «Siamo spossati e pochi, nessuno si aspetta che possiamo ritrovare le forze di un contrattacco. La sorpresa è la nostra miglior alleata, ora.»

«E anche la nostra condanna a morte, mio signore.» commentò un marinaio, facendosi avanti. Ma ogni replica e ogni rimprovero vennero sedati da qualcosa di molto più spettacolare e terribile di una mano sollevata in segno di silenzio. Un'ombra di morte si avvicinò velocemente all'accampamento di Uomini, terrorizzandoli e congelandoli sul posto. Solo la presenza dei Nazgûl era paragonabile al panico che serrò il cuore dei soldati, che si sentirono come animali in gabbia, desiderosi di fuggire quel gelo mortale che li circondò. Fu come udire il rumore di centinaia di piedi che calpestavano il terreno, figure invisibili che si avvicinavano celermente, che sguainavano spade arrugginite e sibilavano nella notte.

Aragorn sollevò la voce, tentando di rassicurare gli animi. «Amici miei, non abbiate timore, poiché non vi è niente da temere. Quasi una settimana è trascorsa da quando ho intrapreso la Via dei Morti e i Morti ci seguono per prestar fede alla parola data tempo addietro. Io mi fido di loro. Voi vi fidate del vostro Re?» Trascorsero parecchi secondi e nessuna risposta fu data. «Vi fidate del vostro Re?» ripeté il futuro Elessar, estraendo Andúril e sollevando la lama verso il cielo oscuro.

«Fino alla morte!» gridò Berethor, seguito poi dal resto dei soldati.

«Allora marciamo verso la vostra bella città e riprendiamoci ciò che è nostro!»

«Per Pelargir! Per Elessar! Fino alla morte!» fu il coro che si estese per i campi, mentre il plotone di soldati si mise in movimento verso la città portuale, spaventati da ciò che li seguiva, ma speranzosi di vincere. Cos'era una guerra, del resto, senza la speranza? E loro, loro erano guidati dalla Speranza in persona, l'Elessar!

L'attacco fu pianificato strada facendo, poiché era semplice ma efficace. Erano in campo aperto e quindi facilmente visibili agli occhi del Nemico; inoltre avrebbero dovuto attraversare i ponti sorvegliati per raggiungere le sponde occupate dagli Haradrim e non sarebbe stato possibile farlo senza che venissero avvistati. Non c'era nebbia a coprire i loro movimenti, ma neppure la luce della luna a far scintillare le loro metalliche cotte di maglia. Si sarebbero dovuti dividere in tre gruppi, uno diretto ad un ponte diverso. Gli arcieri nelle prime file, per uccidere velocemente e in silenzio le sentinelle presenti, la fanteria subito dopo, per correre al riparo dietro la mole di qualche edificio in pietra. Come aveva detto Berethor, la milizia nemica in città non era numerosa e Aragorn capì che avrebbero potuto combatterla facilmente. Ciò che più gli premeva era l'equipaggio delle navi, ma per fortuna non si sarebbe dovuto occupare in prima persona dei vascelli e dei suoi marinai.

La paura che li precedeva fu lesta a sorpassarli, facendo tremare le vene ai polsi di chiunque, nemico o amico che fosse. Gimli, sentendo quella sensazione scivolare via dalle sue spalle, tirò un sospiro di sollievo e strinse la sua ascia, che andò a ficcarsi con precisione e ferocia in mezzo alla fronte di un Corsaro.

Presto il panico tra i Corsari di Umbar fu palpabile e la loro agitazione si mosse per tutta la città. Tremavano e mormoravano maledizioni contro quella scia di terrore; alcuni abbandonavano le armi in terra e scappavano, gridando ed implorando pietà, altri si gettavano in acqua nella speranza di trovare un po' di pace. I tre gruppi di soldati, capeggiati da Aragorn, Halbarad e Berethor si sparpagliarono per il centro residenziale, uccidendo chiunque avesse l'Occhio rosso sull'elmo o sulla corazza opaca, e presto conquistarono il controllo del triangolo di terra, tra urla e canti di gioia. Gli ultimi superstiti degli Haradrim, sulla sponda occidentale, si diedero alla fuga o si arresero davanti alle lame taglienti e spietate della Grigia Compagnia e degli uomini di Pelargir, mentre le navi furono totalmente ripulite da qualsiasi anima viva. Solo i Morti, ora, le comandavano.

«Uomini del Lebennin, del Lamedon e dei Feudi del Sud! Che questo sia un giorno da ricordare, quando persino l'ombra più scura è stata spazzata via!» gridò Aragorn, alzando ancora una volta Andúril, ora ricoperta del sangue di decine di Haradrim.

Le grida vittoriose del piccolo esercito si innalzarono per tutta la città e quella piccola ma importante battaglia fu ricordata da numerose canzoni, negli anni a seguire.

Poi il Dùnadan continuò, guardando nel vuoto attorno a sé. «Infine io vi libero, poiché avete mantenuto la parola data. Possiate trovare la pace che da anni agognate.» disse Aragorn ai Morti, la cui presenza parve affievolirsi poco dopo, fino a sparire del tutto. Molti furono i sospiri di sollievo che gli Uomini sbuffarono nel rendersi conto che quelle anime inquiete, soffocanti e terribili, fossero svanite per sempre, e persino le nuvole nere provenienti da Est parvero loro più chiare di quanto non fossero.

«Dunque il Re di Gondor è davvero tornato! Forse c'è ancora la speranza di vedere una nuova alba!» gridò un uomo.

Aragorn ripose Andúril nel fodero e si voltò nel sentire la mano di qualcuno sulla sua spalla. Legolas gli sorrideva bonariamente.

«Cosa comandi, mio signore?»

Quello si voltò per osservare l'esercito determinato a seguire ogni suo comando e ordinò di salpare immediatamente verso Harlond, il porto di Minas Tirith. «Chi vuole mi segua, per amore di questa terra e della propria famiglia!»

Nessuno rimase a Pelargir. Tutti gli uomini che Aragorn aveva reclutato in quei giorni si misero al lavoro per far muovere le navi con i pesanti remi, poiché non vi era un soffio di vento nell'aria che potesse dare una spinta alle vele nere. Fu un viaggio che durò poco più di un giorno, silenzioso e in attesa. Nessuno osava immaginare quali orrori si stessero consumando ai piedi e dentro la Città Bianca, né l'entità dell'esercito di Mordor, che andava ben oltre ogni fantasia; davanti ai loro occhi erano solo ben visibili le alte colonne di fumo provenienti dalla capitale e da Osgiliath.

Aragorn era seduto a prua, una pipa tra le labbra e i pensieri lontani da quella nave. Halbarad gli si avvicinò in silenzio, stringendo il fagotto che Arwen Undómiel gli aveva affidato, qualche tempo addietro.

«Dovresti riposare, fratello mio.» gli disse il Ramingo, sedendosi accanto a lui. «Raggiungeremo Harlond in mattinata.»

«Potrei dirti la stessa cosa, Halbarad. O forse tu non necessiti di qualche ora di sonno?»

«Non troverò riposo, stanotte.» replicò l'altro, criptico. «Avrò molto tempo per dormire, dopo domani.»

L'attenzione di Aragorn fu completamente concentrata sull'amico, non capendo cosa ci fosse dietro quelle parole. «La guerra non finirà domani, a meno di un miracolo da parte di Frodo.»

«Non finirà per te, ma finirà per me.» Halbarad sorrise tristemente, chinando lo sguardo sul vessillo arrotolato tra le mani. «Il mio unico rimpianto è di non poterla vedere un'ultima volta.»

Fu solo in quel momento che l'Uomo che un tempo si faceva chiamare Grampasso capì. E si sentì quasi mancare. «Non parlare così, amico mio. Non è questo il tempo dei saluti.»

«Sai che invece è infine giunto il mio momento. Ma non ho paura di morire, Aragorn. Perché combatterò per te, come ho sempre fatto. Combatterò per l'amore che provo per Gondor e per la Terra di Mezzo. E combatterò per tenere alto il simbolo del tuo ritorno. Il ritorno del Re. Molti di coloro che abbiamo perso in questi anni avrebbero voluto assistere a questo momento.»

Gli occhi grigi di Aragorn divennero improvvisamente lucidi. «Un sogno non può sempre indicare la via della vita o della morte.»

«No, ma accade sovente che invece lo faccia. Promettimi solo una cosa, Aragorn.» La sua espressione divenne seria e tutti gli anni di preoccupazioni e battaglie vissute furono ben visibili sul viso stanco e provato. «Veglia su di lei fino alla fine dei tuoi giorni.»

Aragorn gli strinse con forza un braccio. «Lo faremo insieme, come sempre. Una vittoria contro Mordor non sarà lieta se mi abbandonerai.»

L'altro gli rispose con un sorriso mesto, ma non aggiunse altro.

Rimasero entrambi svegli, in silenzio, seduti sulla prua della nave, attendendo quel mattino che non arrivò se non troppo tardi, rispetto all'urgenza che vibrava nei loro animi. E quando finalmente i Campi del Pelennor, con la rovina e la distruzione, furono davanti ai loro occhi niente poté fermarli dal correre alla guerra. Così, il Re di Gondor, con la Stella di Elendil sulla fronte, seguito dai suoi più fedeli compagni e dall'esercito del Sud marciò in guerra, Andúril lucente tra le sue mani. Halbarad reggeva alto il vessillo del Re, ricamato dalle sapienti mani della Stella del Vespro per il suo amore immortale e tutti gridarono di gioia, suonarono i propri corni e inneggiarono canzoni in suo onore, mentre il Nemico veniva assalito da una nuova paura.

La scorta di Éomer cavalcò verso i nuovi arrivati, salutandoli e ringraziando la loro provvidenziale venuta. Boromir e Brethil, in groppa ai rispettivi destrieri, combattevano da ore intere senza sosta, fianco a fianco; nell'udire le trombe in festa, si voltarono e sorrisero nel riconoscere il simbolo del Re. Ma il tempo della letizia non durò a lungo, perché intorno a loro la battaglia imperversava. I due vennero separati da una nuova ondata di Sudroni e Brethil venne circondata. Un Uomo colpì Nerian su una zampa posteriore e quello si accasciò sul terreno, facendola sbalzare dalla sella. Brethil atterrò qualche metro più avanti, dolorante; accanto a lei gli innumerevoli corpi senza vita di Orchi e Uomini, un cimitero che l'avrebbe presto accolta a braccia aperte se non avesse trovato le energie per rialzarsi e difendersi.

Boromir, scalzato anch'esso da cavallo, evitò per un soffio l'ascia di un Uomo delle Terre Selvagge e gli affondò la possente spada sul torso. Cercò con lo sguardo la donna in tutto quel caos ma non la trovò; uno senso di inquietudine lo assalì, ma la sua mente tornò presto alla battaglia - voleva ancora sentirsi la testa attaccata al collo. Uccise altri due nemici, avvicinandosi lentamente al punto in cui erano stati divisi, e la vide.

Brethil tentò di ritrovare a tastoni la spada, caduta da qualche parte in quell'orrore, e quando riuscì a toccare l'elsa intarsiata si sentì meglio. Si voltò con cautela sulla schiena, temendo di avere qualche osso rotto, ma qualsiasi movimento fu vano nel momento in cui venne paralizzata dalla paura. Davanti a lei, mosso da un alito di corrente calda, sventolava il vessillo del Re, le cui gemme brillavano, come a farsi beffa  dell'oscurità che aveva avvolto quella giornata infausta. Capì di chi si trattasse quando vide il corpo cadere a peso morto sul terreno insanguinato, un'ascia conficcata sulla schiena. E in quel momento fu come se fosse morta anche lei.

Éomer e Boromir, che combattevano a pochi metri da lei, la scorsero gattonare verso il cadavere e le andarono incontro, uccidendo gli ultimi Sudroni che tentarono di darle il colpo di grazia. Éomer le s'inginocchiò accanto, stringendole con forza la spalla, nel vano tentativo di confortarla. Ma ogni sforzo di smuovere l'espressione sgomenta dell'amica fu inutile. Non capì subito se il sangue che le macchiava il mantello fosse suo o dell'uomo che teneva tra le braccia e le domandò se fosse ferita.

Ma non ottenne una parola in cambio della sua preoccupazione.

Brethil non ebbe la forza di rispondere, perché lui non lo avrebbe più fatto.

Quasi non ebbe la forza di respirare, perché lui non respirava più.

Che senso aveva continuare a vivere, quando lui non viveva più?

Halbarad era morto.

Morto.

Continuava a cullare il corpo senza vita tra le sue stanche braccia, sussurrando mentalmente il suo nome come una ninna nanna per farlo addormentare. Ma lui non si sarebbe più risvegliato da quel pesante sonno.

Aragorn udì i gemelli di Rivendell dire qualcosa in elfico e si voltò per seguire il loro sguardo; appena si accorse di chi Brethil tenesse contro il petto, si lasciò cadere in ginocchio, senza più forze in corpo. E non solo a causa della stanchezza per la battaglia, ma perché sapeva che quel giorno infausto se n'era andato un suo fratello.

 

 

 

*

 

Un capitolo sofferto, questo. Ma è ovvio, scrivendo di guerra e morte. Ho voluto rendere la battaglia di Minas Tirith come lo sfondo delle vicende perché mi sembrava inutile e superfluo raccontare qualcosa che il Professore già fece splendidamente. La morte di Halbarad mi colpì parecchio già dalla prima lettura del libro, sebbene non fosse un personaggio principale; ma la grandezza di Tolkien era anche questa: rendere splendidi ed importanti anche quelli secondari. Un vero peccato che zio Peter non abbia incluso la Grigia Compagnia e lui nel film - ma forse è meglio così: mi ha risparmiato l'ennesimo pianto di commozione!

A presto e buona domenica a tutti!

Marta.

 

 

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: kenjina