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Autore: Brin    28/06/2012    1 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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cap
Mancano tre capitoli alla fine senza contare questo, epilogo compreso. La zona rossa sta per arrivare alla fine, ma nei miei piani (che avevano progettato questa storia come una trilogia) mancherebbero altri due “libri”. Sarò sincera: non ho la più pallida idea di quando vedranno la luce, ho talmente tante cose da fare e da scrivere che non saprei proprio quantificarlo. Cercherò di capirlo, ma nel frattempo vi lascio al capitolo.
Un bacio e buona lettura.




21.

VERITÀ

*


Volker non riusciva a capire che cosa fosse successo. Durante il viaggio aveva controllato spesso la ferita di Namar e, grazie alla medicazione improvvisata, l’emorragia sembrava essersi fermata.
Erano stati fortunati oltre ogni previsione: erano riusciti a rubare un automobile che, nonostante fosse piuttosto vecchia e facesse un rumore assordante, era pur sempre più comoda e veloce di un cavallo. Ma non era bastato per evitare a Namar un viaggio troppo stancante per una persona nelle sue condizioni.
Aveva notato come l’evaso stesse sempre peggio. All’inizio Namar aveva accusato un mal di testa localizzato, che secondo il suo parere avrebbe potuto spaccargli il cranio a metà. Ma Volker non gli aveva dato molta importanza.
Poi il dolore aveva cominciato a espandersi, e tre ore dopo erano cominciati i sudori freddi.
Preoccupato, Volker aveva fatto il possibile per sbrigarsi a raggiungere Rosya, costringendo la vecchia auto a compiere un notevole sforzo. Aveva cominciato ad agitarsi quando aveva visto Namar tremare, e soltanto allora notò quanto il viso dell’evaso fosse pallido, stanco e sofferente.
Aveva perso conoscenza a pochi chilometri dalle porte di Rosya.
Erano entrati nella città passando per la zona Est, il quartiere più malfamato e meno controllato della capitale. Quando Volker era entrato in una di quelle case vecchie e ammuffite, che si distingueva dalle altre per l’unica eccezione di un’insegna di legno che recitava “casa del malato”, il dottore aveva guardato ciò che reggeva in braccio con espressione allarmata: un corpo molle la cui testa ciondolava all’indietro, il volto bianco come un lenzuolo. Namar sembrava morto.
Ora Volker se ne stava lì, a guardare il dottore che controllava la ferita e a pensare a cosa potesse essere successo. Era sicuro che il suo malessere non fosse dipeso dal sangue che aveva perso. Era riuscito a fermare l’emorragia, e per un po’ Namar sembrava addirittura stare abbastanza bene. Tutto era cominciato dopo.
Se avesse perso troppo sangue sarebbe svenuto subito, si disse. Doveva essere qualcos’altro.
«Come sta?» domandò al dottore.
«Non c’è emorragia. La ferita deve essere pulita e disinfettata spesso, ma guarirà.»
Volker guardò con aria scettica il medico, che armeggiava con diversi flaconi e delle bende.
«E lo svenimento che ha avuto?»
Il dottore fece spallucce. «Stanchezza. Con una nottata di sonno riprenderà le forze.»
Volker non disse nulla, ma dentro di sé era perplesso: quelli non erano sintomi di stanchezza. Qualcosa in Namar aveva ceduto, facendolo sprofondare con sé.
Guardò il dottore applicare la medicazione, e lo seguì con lo sguardo anche quando scomparve oltre una porta e riapparve alcuni istanti dopo, reggendo una coperta tra le braccia. Il medico gli fece cenno di avvicinarsi a Namar.
«Levagli le scarpe, starà più comodo.»
Volker fece come gli venne chiesto, e la prima scarpa scivolò con facilità dal piede di Namar. Ma quando sfilò la seconda, Volker rimase impietrito e lasciò cadere la scarpa, che cascò a terra con un tonfo: sulla pianta del piede era marchiata a fuoco una M.
Una M che lui conosceva. Una M che faceva parte del suo passato, che apparteneva a ricordi che lo perseguitavano. E all’improvviso capì ogni cosa.
Probabilmente aveva un’espressione attonita, perché il dottore si precipitò al suo fianco non appena si rese conto che Volker non si muoveva, fermo a fissare quello strano simbolo. Ma quando si rese conto di ciò che stava guardando- di quanto fosse insignificante, rispetto all’avere un paziente incosciente su letto-, il medico tornò al fianco di Namar.
«Forza giovanotto, è ora di muoversi.»
Volker lo guardò serio. Sentiva un peso di cui doveva liberarsi, ma sapeva anche che probabilmente non gli avrebbe creduto. Aprì la bocca per parlare, per spiegare che quello che stavano facendo era completamente inutile, ma non ne ebbe il tempo: la porta alle loro spalle si aprì all’improvviso, e Volker non si stupì affatto di trovarsi davanti Sari, in compagnia di Amaya e Silver.
La ragazza sembrava piuttosto preoccupata, e si lasciò sfuggire un leggero gemito quando vide Namar sdraiato sul letto, privo di conoscenza. Volker si fece da parte per lasciarla passare, imitato dal dottore.
«Come sta?» domandò Sari. Era preoccupata, e la voce tremante non contribuiva certo a nascondere la cosa. Il medico le si avvicinò sorridendole bonariamente.
«La ferita non sanguina più. Il tuo amico avrà soltanto bisogno di riposare per riacquistare le forze, dopo di che tornerà come nuovo.»
«Va bene, grazie» Sari abbozzò un sorriso sollevato, ma Volker non era affatto sereno. Continuava a guardare Namar senza riuscire a non pensare, e ad Amaya non sfuggì la preoccupazione che gli lesse nell’unico occhio che aveva.
Avrebbe voluto indurlo a confidarsi, ma quello non era il momento migliore. Colse l’occasione al volo una decina di minuti più tardi, quando uscirono dall’ambulatorio.
«C’è qualcosa che non va.»
«Già» mormorò Volker distrattamente, guardando altrove.
Sari e Silver, dietro ai due, ascoltarono in silenzio.
«Mi sto riferendo a te, Volker. È da quando siamo arrivati che hai la testa altrove.»
Quelle parole sembrarono riscuoterlo. Guardò Amaya senza capire che cosa intendesse, e quando ricevette soltanto uno sguardo accusatorio dall’elfa, si voltò verso Sari e Silver, che non seppero cosa dire in sua difesa.
Volker sospirò, grattandosi la nuca in difficoltà. Aveva spesso questa reazione, quand’era messo alle strette.
«Non mi credereste mai se vi raccontassi che cos’ho per la testa.»
Alle sue spalle, Sari rise sommessamente. Una risata distratta, amara. «Sí, pure io.»
«Ha qualcosa a che fare con Namar?» domandò Silver.
«Direi proprio di sí» Volker sospirò di nuovo, e Sari tese l’orecchio, improvvisamente attenta. L’uomo sospirò, grattandosi di nuovo la nuca. Cominciò a ridacchiare nervosamente, guardando per terra. Si sentiva a disagio.
«Mi prenderete per pazzo.»
Amaya alzò lo sguardo verso il cielo, sospirando: «Piantala di preoccuparti, ti assicuro che sei ben lontano da una diagnosi di schizofrenia.»
Volker fece per risponderle, ma Sari fu più veloce. Articolò le parole senza neppure rendersene conto.
«Se ha a che fare con la vita di Namar, ti prego di raccontarci tutto.»
L’uomo si voltò verso di lei e annuì. L’espressione sul suo viso era grave, e per un attimo Sari ebbe timore di ciò che le avrebbe detto Volker.
«Prima dovete sapere che cos’è veramente Namar.»
«Io lo so.»
Fu un’affermazione inaspettata. Amaya e Silver guardarono Sari confusi, senza riuscire a capire. Ma Volker… Volker era stupito, quasi sconvolto. E guardava la ragazza come se avesse davanti un fantasma.
«… lo sai?»
«Intendi il fatto che sia un morfista?»
Volker era sempre più spiazzato. Improvvisamente, nei loro sguardi ci fu qualcosa, una comprensione che aveva un sapore amaro e terribile.
«Come fai a sapere dei morfisti?»
«Ho trovato i rapporti degli esperimenti condotti ad Artika nella biblioteca della Corporazione.»
L’orrore si dipinse sul viso di Volker, che si coprì la bocca con la mano.
«Allora è vero, facevano esperimenti…»
Sari annuì, ma Silver si intromise tra i due.
«Fermi tutti. Credo ci siano un po’ di cose che dovreste spiegare anche a me e ad Amaya.»
«Sono d’accordo» annuì l’elfa. Sari guardò gli amici, cercando le parole adatte per affrontare ciò che doveva dire. Sentiva un enorme peso opprimerle lo stomaco all’idea di ciò che avrebbe dovuto raccontare.
«Avete ragione. Ho scoperto cose che non avrei mai creduto possibili, sul conto di mio padre e di Artika. Il carcere è una facciata che la Corporazione usa per coprire degli esperimenti su cavie umane.»
Amaya e Silver la guardarono sgomenti, e Sari ebbe un assaggio di come doveva esser stato il suo sguardo nel momento in cui aveva letto quei rapporti. Prima pieno d’orrore e in seguito colmo di rabbia. Continuò a raccontare, ben sapendo che la pena sarebbe soltanto potuta aumentare.
«I maghi avevano trovato delle creature create in un laboratorio demoniaco, capaci di assumere qualunque sembianza e in grado di uccidere molte persone diffondendo delle onde di energia demoniaca, prodotte nel cervello. Si chiamano morfisti. Quasi tutte queste creature sono decedute durante gli esperimenti, assieme agli esseri umani su cui i maghi avevano tentato di innestare le ghiandole.»
E com’era prevedibile, quel racconto diffuse l’orrore nello sguardo di Silver e Amaya. Volker guardava per terra, incapace di sopportare ciò che poteva leggere nei loro volti, ma il magone che sentiva dentro non voleva saperne di alleggerirsi.
Per quanto le costasse continuare a raccontare ciò che aveva letto, Sari non voleva fermarsi. Dovevano sapere. Almeno loro dovevano conoscere quello che avevano fatto i maghi e, soprattutto, dovevano concedere una seconda possibilità a Namar. Non sarebbe più stato il carnefice.
«Namar è un morfista, l’unico a essere sopravissuto agli esperimenti condotti dai maghi.»
«Ciò non toglie che Namar sia un assassino.»
Sari rimase basita dall’affermazione di Silver. Lo guardò senza riuscire a comprendere la portata di quanto il poliziotto aveva appena detto.
«Come?»
Silver sbuffò.
«Andiamo Sari, se questi morfisti possono uccidere più persone nello stesso luogo e nello stesso momento tramite queste onde, vuol dire che Namar ha davvero cancellato una città dalla faccia della terra!»
Il tono con cui la stava aggredendo le fece salire il sangue alla testa. Rispose senza neppure pensare.
«Hai provato a pensare a che effetti possano avere quelle onde sul controllo di un morfista? Ti sei soffermato a considerarlo, prima di giudicare?» alzò la voce, e a mala pena fece caso ad Amaya che, al suo fianco, cercava di riportarla alla calma.
Silver per tutta risposta ridacchiò, incredulo.
«Io? Dovresti essere tu a soffermarti su quello che stai dicendo, Sari. Stai difendendo uno che con o senza le onde ha ucciso in una manciata di secondi migliaia di persone! Stai difendendo un assassino!» anche Silver cominciò ad alzare la voce.
«Smettetela, o qualcuno vi sentirà» intervenne Volker, ma anche i suoi sforzi erano vani di fronte allo sdegno della psicologa.
«Credi che lo volesse?!»
«E tu credi di conoscerlo così bene da poter essere sicura che non lo volesse?!»
Un pugno ben assestato contro lo zigomo di Silver lo costrinse a desistere dal litigio. Il poliziotto si coprì la mandibola, e guardò Volker furente. Anche Sari rimase spiazzata dalla reazione del detenuto.
«La prossima volta ti lascio ad Artika» borbottò il poliziotto senza allontanare la mano dal viso. Volker per tutta risposa fece spallucce abbozzando un sorrisetto gioviale, godendosi l’applauso che Amaya gli rivolgeva.
«Era l’unico modo per farvi smettere. Ora avrei io qualcosa da raccontarvi, basta che non cominciate a litigare un’altra volta.»
Silver esitò qualche istante massaggiandosi la mascella e infine annuì. Sari, a sua volta, gli fece cenno di parlare.
«So cos’ha Namar, ma penso che prima vogliate sapere cosa c’entro in tutto questo.»
Nessuno rispose. Tutti e tre guardavano Volker in trepida attesa. L’uomo sorrise.
Un sorriso amaro.
Colpevole.
Stanco.
«Sono io che ho creato i morfisti.»

   
 
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