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Autore: kenjina    13/07/2012    6 recensioni
Non fu il dolore fisico che gli procurò quello strazio assordante, né la carezzevole consapevolezza che sarebbe morto in pochi minuti. Morire significava liberarsi dal peso opprimente di un fardello che non era riuscito a sopportare e che ora lo stava schiacciando, per lasciarlo finalmente libero dalle angosce e dai tormenti. Aveva sempre immaginato la sua morte e sapeva che sarebbe stato in battaglia. Sarebbe caduto da soldato, davanti le mura della sua amata città, per difendere con onore il suo popolo dalle armate nemiche che giungevano come un'ombra da Est. La sua morte sarebbe servita per salvare le terre che lo avevano visto crescere, per dare una possibilità alle future generazioni di vivere una vita lontana dalle tenebre e dalle paure.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Questo capitolo è leggermente più corto degli altri, ma non meno sostanzioso.

Sono felice dei vostri commenti e dei vostri pareri, è sempre interessante leggere cosa vi aspettate dalla storia e le vostre analisi sempre puntuali! Grazie davvero, state diventando un'abitudine di cui non mi stancherò mai!

Come al solito buona lettura e buon fine settimana a tutti,

Marta.

 

Betulla


12.

18 Marzo 3019 T. E.

 

Quando Brethil si svegliò, quella mattina, era stranamente euforica. Il sole era da poco sorto e, nonostante le insufficienti ore di sonno, si sentiva energica e pronta per affrontare una nuova giornata di allenamento con i gemelli, come aveva fatto per i due giorni precedenti. La spalla doleva ancora, bloccata dall'immobilità del sonno, ma sebbene si rendesse conto che alcuni movimenti fossero altamente forzati e rigidi, era più che convinta che si sarebbe ripresa presto. Niente avrebbe potuto fermare le sue intenzioni né la volontà di combattere ancora una volta per la sua stella guida.

Sarebbe morta, per lui.

Proprio come Halbarad aveva fatto per lei.

Il ricordo del corpo del Ramingo tra le sue braccia le strinse la gola e represse con forza le lacrime che minacciavano di bagnarle le guance. Si sciacquò il viso con acqua fredda e si vestì velocemente, appendendo Celeboglinn al fianco e dirigendosi verso la piccola arena dove i figli di Elrond l'attendevano. Ma quando mise i piedi fuori dalla sua stanza, accanto a quella di Gandalf e Pipino, si accorse subito che mancasse qualcosa. O qualcuno.

La città era irrealmente silenziosa e svuotata. I cittadini mancavano già da qualche giorno, evacuati verso terre più sicure, ma persino i numerosi soldati presenti sembravano spariti. Si recò verso le camere dei suoi vicini ma non trovò né lo Stregone né lo Hobbit. Uscì rapidamente e si diresse verso una terrazza, per meglio osservare la città sotto i suoi piedi. Ma quando spostò lo sguardo verso i campi del Pelennor si sentì mancare. Le tende degli accampamenti erano state smantellate e solo i numerosi monticelli dei falò erano visibili. A numerose miglia di distanza vide una massa scura muoversi rapidamente verso Osgiliath e le mancò il fiato. Per un attimo il timore di aver perso la conta dei giorni le serrò la gola, ma capì subito che non fosse possibile - l'avrebbero certo richiamata al suo posto. E la consapevolezza che giunse appena capì ciò che era successo fu più dolorosa di una lama conficcata nel petto.

Aragorn era partito.

Si era preso gioco di lei, mentendole sulla data della partenza.

L'aveva lasciata da sola.

L'aveva tradita.

E con lui Boromir. I gemelli. I Raminghi. Éomer. Gandalf. Persino Pipino!

Si lasciò cadere sul pavimento in pietra, incapace anche di piangere. Ormai non aveva più neanche le lacrime sufficienti per farlo. Credeva di aver sognato lo squillo delle trombe quella mattina, all'alba, ma era troppo stanca per svegliarsi e curarsene. E ora, ora si ritrovava da sola in una città sconosciuta, senza più neanche la possibilità di poter combattere per il suo Re e amico. Strinse con forza i pugni fino a farsi male e fece per alzarsi, diretta alle stalle, con la chiara intenzione di sellare Nerian e raggiungerli il prima possibile - se per ucciderli o per evitare che venissero uccisi non seppe dirlo con certezza. Niente avrebbe potuto tenerla lontana dalle sue decisioni, non lo stupido orgoglio maschile né le paure di chi l'amava. Ma qualcosa bloccò i suoi movimenti. Sentì le dita piccole di qualcuno che tentavano di afferrare le sue e vide Merry, fasciato e debole al suo fianco, che le sorrideva tristemente.

«Hanno deciso di lasciare indietro anche me, mia signora.» fece lo Hobbit, chinando lo sguardo e pensando al povero Pipino, in mezzo a tutti quei grandi soldati. Si sentiva sicuramente disorientato e fuori posto, proprio come lui nel momento della partenza da Rohan. «Ma lo hanno fatto per il mio bene e lo comprendo. Ci faremo compagnia a vicenda, se ciò ti aggrada.»

Lei non rispose, almeno non subito. L'idea di corrergli dietro, arrabbiata e frustrata, iniziò ad insinuarsi nella sua mente con più forza; ma Merry indovinò i suoi pensieri solo osservando quella fronte corrucciata dalla rabbia e scosse il capo. «Non lo pensare, mia signora. Sei spossata, fisicamente e non; non sottoporti a quest'ulteriore fatica.»

«Mi stancherei ugualmente, qui, pur non facendo niente.» ribatté, parlando per la prima volta. Non seppe neanche lei dove trovò le forze per farlo.

«Oh, ma potremo fare molte cose, invece! Colazione, per iniziare.»

Lei si limitò a sospirare pesantemente, cacciando indietro un singhiozzo di affronto. «È il suo modo di farmi pagare la liberazione di Gollum... Aragorn mi sta punendo così.»

Merry scosse il capo, convinto, sebbene non capisse cosa intendesse con la liberazione di Gollum. «No, è il suo modo di proteggerti, mia signora. Inoltre, porto un messaggio da parte di Boromir.» Lo Hobbit ottenne tutta la sua attenzione e si sforzò di sorridere ancora una volta. «Venne nella mia stanza la notte scorsa per assicurarsi che stessi bene e che avessi tutto ciò di cui necessito; ma giunse soprattutto per pregarmi di farti compagnia, in questi giorni e di convincerti a rimanere in città, conoscendo bene le tue intenzioni. E non sbagliava, a quanto pare!» Prese un bel respiro, prima di iniziare a recitare le parole dell'Uomo. «Così mi disse: "È una donna taciturna, all'inizio, e sta soffrendo molto. Temo che mi odierà, dopo domani, e che vorrà seguirci; ma credimi quando ti confesso che vorrei poterle stare accanto, con tutto il cuore. Eppure non posso, Merry. Quindi ti chiedo, in nome della nostra amicizia, di accudirla tu, come solo un Hobbit è in grado di fare. Falla sorridere, Merry, perché il suo sorriso è così raro quanto incredibile". Ebbene, non so se riuscirò a farti sorridere, dama Brethil, perché non ho lo stesso spirito di mio cugino, né è il tempo migliore per raccontare barzellette, ma ti prometto che mi impegnerò. Per Boromir e per te.»

Brethil scosse il capo, incapace di credere alle parole dello Hobbit e a quelle dette dal nuovo Sovrintendente di Gondor. «Quasi non ricordo come si sorride, messer Meriadoc.»

«Oh, no. Una persona non dovrebbe dimenticarsi come sorridere. Persino gli animi malvagi come quelli che stiamo combattendo, tanto tempo fa, lo sapevano fare. Lottano e distruggono solo perché non gli è rimasto più niente per cui valga la pena sorridere. Ma noi, noi abbiamo più di un motivo, no?»

Brethil si asciugò gli occhi con i palmi delle mani, commossa da quelle parole così sincere e belle che solo un Hobbit poteva pronunciare.

«Ora andiamo, mia signora.» le fece, stringendole la mano e intimandole di alzarsi dal pavimento. «Mi hanno appena servito la colazione, come ti ho detto, e sebbene il mio stomaco sia abituato a pasti ben più sostanziosi, non me la sento di finire tutto da solo. Non con una graziosa presenza come la tua.»

La Dùnadan sciolse il pugno e accarezzò distrattamente la mano che il giovane Brandybuck le tendeva. Guardò un'ultima volta verso l'esercito in marcia con risentimento. Avrebbe potuto facilmente lasciarsi alle spalle lo Hobbit, decisamente più debole di lei, eppure non lo fece. Almeno, non per il momento. Diede le spalle al Pelennor, alzandosi e guardando lo Hobbit. «E sia.»

Si recarono insieme alle Case di Guarigione, verso la stanza occupata dallo Hobbit, che aprì la finestra sul giardino interno e così la porta. «L'aria è meno opprimente fuori, dopo la vittoria di qualche giorno fa.» le disse. Trotterellò verso il tavolo, su cui Rainiel aveva poggiato un vassoio pieno di buon cibo, e lo portò sul letto, dove Brethil si era seduta. Imburrò una fetta di pane e gliela passò, gentilmente.

«Noi Hobbit amiamo i funghi.» esordì, addentandone uno, fresco e saporito. «È una cosa che abbiamo nel sangue, credo.»

«Lo so. E lo sospettavo, visto come tuo cugino li divora.»

«Ah, lui ne mangia fin troppi. Così come fuma troppo. In realtà, Pipino è spropositatamente un po' troppo.» Merry sbuffò, quasi divertito al ricordo del suo migliore amico e compagno di avventure. «Una volta andammo a cercare funghi con due ceste enormi. Le riempimmo tutte fino all'orlo, ma non facemmo in tempo a tornare a casa che metà del bottino lui l'aveva già digerita.»

Le labbra di Brethil s'incresparono lievemente in un sorriso. Non era poi così difficile immaginarsi una scena simile. «Mia madre m'insegnò a preparare una zuppa di funghi deliziosa.»

Lo Hobbit rizzò la schiena immediatamente. «Davvero?»

«Sì, ma non mi riesce così buona come la faceva lei.» Morsicò una fetta di pane, pensierosa. «Quando non avremo più problemi di cibi razionati prometto che ve ne preparerò una pentola.»

«Anche più d'una, mia signora!» esclamò Merry, facendola ridacchiare. «Non ne lasceremo neanche un po'. Abbiamo una ferrea regola nella Contea: niente si butta via, se è commestibile.»

«Anche se non è buono?»

«Ecco... in quel caso si ringrazia e si cerca di buttar giù tutto in un'unica mandata, magari aiutati da un bel sorso di birra. Anche se la donna che ti prepara da mangiare con amore è bella e battagliera, ma non certo una grande cuoca.»

Brethil strinse gli occhi, ora un po' più rilassati. «Oh, immagino di aver capito di chi tu stia parlando, poiché anche io ho avuto modo di provare le sue doti culinarie. E tu l'hai conosciuta bene, da quanto so.» disse, in un sussurro, per evitare che orecchie indiscrete l'ascoltassero.

Merry arrossì visibilmente, chinando il capo. «Dama Éowyn è stata sempre molto disponibile a preparare i pranzi, durante il nostro spostamento.» fece lo Hobbit. «Ma le sue zuppe erano davvero immangiabili. E lo dice una botte senza fondo! Persino Pipino non avrebbe saputo resistere oltre. E ho veduto Grampasso gettarne via qualche cucchiaio, quando ella non guardava!»

Il loro breve discorso fu interrotto da un movimento nei giardini ed entrambi si voltarono a curiosare. Il soggetto del loro pettegolezzo camminava lentamente e con fare stanco, ma era il suo viso che li preoccupò. Dama Éowyn era sempre stata una donna forte e seria, dedita al suo posto e alla sua terra; ma quella volta, spossata e distrutta, notò che ci fosse così tanta tristezza che Brethil non ricordava di averla mai veduta in quelle condizioni. Aveva perso suo zio, che l'aveva allevata come una figlia dopo la morte dei genitori; e ora suo fratello era in marcia verso la Morte stessa. Anche Éowyn, come lei, aveva dovuto sopportare troppe morti e troppo dolore, e ne ebbe compassione.

Merry, quasi sentendosi in colpa per le parole dette poco prima, fece per alzarsi ed invitarla a desinare con loro, ma un'altra figura s'intromise in giardino. Brethil non l'aveva mai incontrato personalmente, se non in quei brevi istanti della battaglia sul Pelennor, ma la somiglianza era tale da poter affermare che quello fosse Faramir, fratello di Boromir. Si reggeva in piedi a stento, ma aveva ancora le energie necessarie per muovere qualche passo e poggiarsi contro una colonna in pietra.

«S'incontrano tutti i giorni, ormai.» mormorò Merry. «A volte parlano della guerra, altre volte preferiscono rimanere in silenzio. Non sono un esperto in materia, ma credo che lui sia innamorato.»

Brethil osservò i due con una certa nostalgia e voltò lo sguardo verso lo Hobbit. «Voi Mezzuomini sapete vedere ben oltre gli occhi, messer Meriadoc.»

Lui si strinse nelle spalle. «Chiunque saprebbe interpretare lo sguardo di un uomo innamorato. Tranne la bella fanciulla che è il soggetto delle attenzioni.»

«A volte è difficile capire se stessi, figurarsi gli altri.» sussurrò la donna, corrugando la fronte.

Trascorsero minuti interi di silenzio, sia all'interno della stanza che fuori. Brethil prese un respiro profondo, prima di bere qualche sorso d'acqua. I suoi pensieri erano quanto di più complicato potesse immaginare. Quando sarebbe finalmente giunta la fine di ogni cosa, e con essa le sue preoccupazioni? Quando avrebbe finito di sentirsi così oppressa da quella tensione e dalle brutte riflessioni?

«Lo ami?»

Brethil si voltò verso lo Hobbit, rigida come una tavola di legno. Eppure le guance sfregiate che divennero visibilmente rosse tradirono le sue parole. Perché anche se fece finta di non capire di chi stesse parlando, sapeva bene chi fosse il soggetto della domanda. «Chi?»

«Boromir, chi altro?» Merry non aveva avuto modo di conoscere a fondo la donna, se non qualche breve discussione quando ancora erano a Rohan, ma aveva udito i racconti di suo cugino e di Boromir sul suo conto e gli era bastato poco per unire tutti i pezzi mancanti. Del resto, lui era un Brandybuck, una famiglia intelligente e sveglia.

La risposta della donna arrivò troppo velocemente e con una visibile nota di nervosismo. «Come un fratello, certo.»

«Non devi aver paura di ammetterlo.» l'ammonì il piccoletto, abbozzando un lieve sorriso di complicità.

«Io non...» La donna fermò la sua protesta, scuotendo poi il capo. Sì, aveva paura ad ammetterlo a voce alta. Non era pronta nemmeno a pensare una cosa simile, perché era convinta che se lo avesse fatto non sarebbe potuta tornare indietro; la consapevolezza di amarlo sarebbe stata così forte che avrebbe segnato qualsiasi suo gesto e parola e lei non avrebbe saputo come affrontare la situazione. Poiché mai aveva amato un uomo in quel senso. Né Boromir aveva mai dato segno di ricambiare più dell'affetto che nutriva nei suoi confronti.

Ma si ritrovò facilmente a pensare all'uomo e al suo sorriso; a quegli occhi chiari e limpidi come le acque dell'Anduin, alla sua voce vibrante e fiera, al suo carattere orgoglioso e infuocato. E capì che se non avesse fatto più ritorno da quella guerra non avrebbe potuto sopportare oltre, perché parte del suo cuore era partita con lui. Per lei Boromir non era stato solo un grande condottiero. Prima di conoscerlo come futuro Sovrintendente di Gondor, a capo di uno degli eserciti più potenti della Terra di Mezzo, era un uomo con le sue debolezze e i suoi difetti, e aveva imparato ad amare quella sua parte che lui tanto disprezzava. Era forse quello amore o semplicemente una profonda amicizia?

Eppure, quello stesso uomo che credeva di amare come un fratello l'aveva tradita, lasciandola indietro. Lo avrebbe perdonato, certo, così come lei era stata perdonata per i suoi sbagli. Ma al dolore che provava per la morte di Halbarad si sommava l'impossibilità di vendicarlo e questo le faceva male, dannatamente male. Dopo tutto quello che aveva fatto per lui, per salvarlo dalla morte fisica e dalla sua personale guerra psicologica lui la ripagava abbandonandola.

«Comunque, queste mele sono deliziose.» esclamò lo Hobbit, riscuotendola dai suoi pensieri. «Per concludere in bellezza ci vorrebbe un bel barile di erba-pipa e sarei a posto!»

Brethil sorrise e gli fu grata sopra ogni cosa per aver cambiato repentinamente discorso. Non era pronta per affrontarne uno simile. E, ad essere sincera, non sapeva se sarebbe mai stata in grado di farlo.

 

 

Faramir osservò la bianca dama di Rohan tornare alle sue stanze con una punta di malinconia. La tristezza di quella donna era in grado di debilitarlo più di quanto non fosse, eppure in quegli occhi infinitamente infelici poteva leggervi un'antica forza che faticava ad abbandonarla. La stessa forza che le aveva permesso di cavalcare in incognito accanto al suo Re e di proteggerlo a rischio della sua stessa vita da un nemico che andava ben oltre le energie di un soldato. Per Faramir, Éowyn di Rohan era bella e fragile e il desiderio di poter vedere un giorno il sorriso su quelle labbra strette e sottili cresceva ogni ora che stava in sua compagnia.

Ora che era nuovamente solo con i suoi pensieri, però, volse lo sguardo verso Osgiliath, dove poteva ancora scorgere la massa scura di quelle settemila lance dirette verso la morte e il suo cuore non riuscì a reggere la pesantezza del pensiero che tra coloro che erano partiti vi fosse anche il suo caro fratello. Da quando l'erede di Isildur lo aveva riportato alla vita, Boromir non aveva perso occasione di andarlo a trovare, nonostante il suo ritorno lo chiamasse più volte ai doveri di un Sovrintendente. Ma lui, risoluto come lo ricordava, riusciva a conciliare entrambe le cose e non poteva che esserne lieto. Non si fermava che per poche decine di minuti, prima che un soldato arrivasse a portarlo via per annunciargli l'inizio di qualche importante riunione in vista della partenza.

Gli era sembrato profondamente cambiato, da quando lo aveva salutato l'ultima volta, prima che salisse sul suo cavallo in direzione di Imladris. Era invecchiato dalle preoccupazioni, eppure la sua voce non aveva perso lo smalto di un tempo, né gli occhi chiari avevano smesso di brillare quando parlava della sua città; eppure Faramir aveva colto qualcosa di simile quando egli gli aveva parlato di una donna, la stessa che gli aveva salvato la vita e che ancora non aveva avuto l'onore d'incontrare. C'era profondo rispetto in ogni sua parola e infinita gratitudine. Ma Faramir, che ben sapeva leggere gli animi dei suoi amici e dei suoi soldati, aveva visto qualcosa in più - la stessa scintilla che lui stesso provava in compagnia di dama Éowyn. Glielo aveva fatto notare con un certo divertimento, ma lui, cocciuto come sempre, aveva ribadito che la sua malattia lo stava portando a vedere l'invisibile.

Faramir si ritrovò a sorridere da solo nel ripensare al disagio negli occhi del fratello, così poco abituato a fare i conti con quei sentimenti che esulavano dall'arte della guerra, in cui tanto credeva. E pensò che questa donna, che combatteva come un uomo, che era più testarda e orgogliosa di suo fratello, dovesse essere davvero incredibile per aver attirato l'attenzione di Boromir - e persino quella di suo padre, a quanto gli era stato riferito.

Sciolse i pugni quando si rese conto che il pensiero di Denethor e di ciò che aveva fatto lo travolse come una diga dagli argini rotti. Non ricordava assolutamente niente dell'accaduto, ma Pipino gli aveva raccontato com'erano andate le cose, poiché era stato lui stesso ad informare Gandalf della follia del padre. Se non fosse stato per quel piccolo Hobbit che ora marciava verso la Morte lui stesso non si sarebbe trovato lì, nel giardino delle Case di Guarigione, a rimuginare sulla sua vita e sul suo possibile futuro.

Si voltò appena si accorse di un movimento alle sue spalle. Pensava fosse dama Éowyn, tornata da lui a causa della noia che la stava soffocando, ma non fu lei la donna che vide. Rimase immobile, incuriosito dalla figura che, con un po' di timidezza, gli si avvicinò. Era avvolta in un mantello grigio, fermato da una spilla a forma di stella sulla spalla sinistra, e il suo viso sfregiato era severo. Non ci fu bisogno di presentazioni per capire di chi si trattasse.

Brethil si fermò a pochi passi da lui, di fronte al muro di cinta del sesto livello, da cui poteva godere di un'ottima vista del Pelennor. Non sapeva cosa l'avesse spinta a raggiungere l'uomo, se la curiosità di conoscere il fratello di Boromir o la voglia di parlare con qualcuno che glielo ricordasse così tanto - né aveva idea di come iniziare un discorso. Perché non sarebbe certo potuta rimanere in silenzio, anche se l'idea le stava accarezzando la mente.

Nonostante la stanchezza, notò Faramir, era ritta e fiera, e teneva una mano sulla lunga elsa della spada - una fattura elfica che mai aveva visto in vita sua. E capì, semplicemente osservandola, il perché Boromir provasse così tanto rispetto nei suoi confronti. Nonostante la guerra, nonostante ciò che avesse passato, niente era riuscita a piegarla.

«Non fosse per il fumo e le carcasse, godresti di una visuale splendida, da qui.» fece il Capitano dei Raminghi dell'Ithilien, spezzando quell'imbarazzante silenzio. «Un tempo quei campi erano coltivati e pullulavano di vita.»

Brethil inspirò profondamente l'aria tiepida di quell'ennesima giornata. «Il Pelennor tornerà ad essere verde, mio signore.»

«Come fai ad esserne sicura?»

La donna si voltò per guardarlo, finalmente, e scosse il capo. «Non lo sono, tutt'altro. Ma ho avuto modo di imparare a non perdere mai la speranza, finché essa cammina ancora su questa bella terra.» Vide Faramir sorridere, accennando un lieve inchino del capo. Una morsa di tristezza e nostalgia le strinse la bocca dello stomaco, nel vedere quel sorriso che tanto somigliava a quello del fratello maggiore.

«Allora ti prego, mia signora, di convincere con le tue belle parole anche dama Éowyn, poiché ella purtroppo non riesce a vedere la luce in fondo alla galleria.» disse l'uomo, con preoccupazione.

«Conosco la donna di cui parli e so per certo che non riuscirà a vederla se non quando effettivamente ci sarà.» Brethil tornò a guardare oltre il Pelennor, non riuscendo più a vedere l'esercito, ormai arrivato ad Osgiliath. «Ma non disperare, tornerà a sorridere. È ciò che desidera da sempre.»

«E tu quando tornerai a sorridere, mia signora?»

La domanda giunse inaspettata e Brethil non riuscì a trattenere un'espressione di stupore. Boromir doveva avergli parlato molto di lei, se quell'uomo osava porle un simile quesito. Oppure aveva il dono dell'onniscienza, il che non l'avrebbe stupita, dopo tutto ciò che stava accadendo nel mondo. «La ferita come va, mio signore?» chiese, scartando abilmente il discorso. «Boromir mi ha spiegato che le tue condizioni non fossero delle migliori.»

«E ti disse bene, poiché ho passato parecchi giorni avvolto dall'oscurità e dai tormenti. Eppure il risveglio è stato quanto di più insperato potessi immaginare.» Sorrise, Faramir, ripensando al suo futuro Re. «Sire Aragorn sa fare uso sapiente delle erbe mediche, anche nei casi più disperati. Io, Dama Éowyn e il piccolo Hobbit siamo la prova vivente.»

«Sì, le mani di un Re guaritore, così dicono.»

«Eppure anche le tue lo sono. Boromir non sarebbe qui, se non fosse stato per te. E non smetterò mai di ringraziarti a dovere, per questo.»

Brethil non rispose, ma si limitò a chinare il capo. Le sembravano passate ere intere da quel giorno in cui era giunta trafelata alle colline di Amon Hen, per soccorrere un guerriero sconosciuto e ritrovarsi davanti il vecchio amico di una vita. Eppure non erano trascorse che poche settimane - ma quanto era cambiato, nel frattempo! Non solo aveva trovato un amico di cui fidarsi, di cui prendersi cura e da amare, ma aveva ritrovato anche quelli perduti. La presenza di Aragorn l'aveva spinta a dare tutta se stessa per aiutare il ferito, ma c'era stato anche qualcos'altro che l'aveva convinta a rimanere. Lei lo aveva visto. Mentre si sbarazzava degli Orchi che incontrava sulla sua strada, aveva potuto vedere con quanta dedizione e coraggio affrontasse le spade e le frecce del nemico, per salvare i suoi piccoletti. Era rimasta così colpita dalla forza d'animo che gli permetteva di difendersi che non avrebbe potuto lasciarlo morire neanche volendolo. Non gli aveva mai rivelato quel piccolo segreto e non seppe neanche spiegarsi il perché non lo avesse fatto. Ma lo raccontò a Faramir, che non si stupì delle sue parole. Conosceva la storia, così come conosceva suo fratello, e non faticava ad immaginarselo mentre rischiava la vita per salvare due suoi compagni di viaggio.

L'Uomo notò la nota di nervosismo e risentimento mentre ella parlava e non poté esimersi dal parlare per prendere le difese del fratello. «Sei profondamente arrabbiata, ma lui...»

Lei scosse il capo, interrompendolo. «No, la rabbia non esprime ciò che provo. Sono delusa.» replicò, stringendo i pugni. «Pare che nessuno si fidi più delle mie capacità in battaglia, come se non sapessi più difendermi.»

«Sono sicuro che tutti siano consapevoli del tuo onore, mia signora.» Faramir s'inumidì le labbra secche, cercando le parole migliori per farle capire quanto si sbagliasse. «Così come capisco ciò che stai provando, ora. Credi che le loro preoccupazioni siano infondate e avrebbero dovuto lasciare a te la scelta di cosa fare o meno della tua vita. È stato un gesto egoista il loro, poiché hanno dato la precedenza ai loro timori, piuttosto che al tuo volere. Ma cerca di capire che è l'amore che provano per te ad averli spinti a fare ciò che hanno fatto.»

«Non metto in dubbio il loro amore. Metto in dubbio le loro capacità di giudizio.»

Faramir quasi rise. «Sto iniziando a dubitarne anche io ogni istante che ti conosco, mia signora.» Poi il sorriso si spense a poco a poco e l'uomo tornò serio. «Dimmi, dama Brethil, vorresti raggiungerli?»

Non ci fu bisogno di parole, perché i suoi occhi risposero per lei.

«E cosa ti ferma?»

Brethil si morse un labbro.

Niente.

Non c'era niente che le impedisse di mettersi in viaggio - non la spalla dolorante, non le parole dello Hobbit, né tutte le Guardie della Cittadella. Neanche quell'uomo stanco e debilitato di fronte a lei, sebbene fosse massiccio abbastanza da superarla in altezza di parecchie spanne.

«Aragorn e Boromir non ne sarebbero felici.» rispose infine, con difficoltà.

Il viso di Faramir si distese, rilassato. «Oh, mia signora, non sai quanto tu sia in errore.»

 

 

 

*

 

E così quei due l'hanno davvero fatta in barba alla nostra donzella indifesa. Siete ancora del parere che rimarrà a Minas Tirith o cavalcherà verso l'esercito in marcia? Sono curiosa di conoscere le vostre supposizioni. *-*

Il prossimo capitolo è a metà scrittura, conto di finirlo questo fine settimana. Se tutto va bene venerdì prossimo arriva. :)

A presto!

Marta.

 

 

   
 
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